Louis-Ferdinand Céline
Guerra
Adelphi Edizioni, pagg.160, € 18,00
Il volume "Guerra" di Céline rappresenta un primo, folgorante scampolo degli inediti dell'autore, rubati nel 1944 e ritrovati quasi sessant'anni dopo la sua morte. Questo romanzo narra episodi contemporanei alla prima parte del celebre "Viaggio al termine della notte", come se fosse stato espulso da esso e poi abbandonato con una stesura ancora grezza e incandescente.
La storia si concentra su Ferdinand, un giovane di vent'anni ferito durante la guerra, con un braccio e un orecchio lesionati a causa di un'esplosione. Lo vediamo cercare di guadagnare le retrovie attraverso campi di battaglia disseminati di cadaveri, in una notte in cui presenze ostili e fantasmi sembrano realtà.
Successivamente, lo ritroviamo in un ospedale, circondato da malati e personaggi ambigui. Qui fa amicizia con un malavitoso parigino di nome Bébert e sua moglie Angèle, una donna che si prostituisce al fronte per guadagnare soldi per Ferdinand. Da qui inizia una serie di episodi grotteschi, esilaranti ma anche raccapriccianti, in cui Céline esplora una sessualità oltraggiosa e sfrenata.
Infine, il romanzo ci porta a Londra, un luogo in cui Ferdinand decide di perdersi come sempre ha fatto, ma forse anche per cercare una nuova vita. La guerra che Ferdinand ha combattuto non è solo esterna, ma anche interna, una battaglia che si svolge nella sua mente.
Céline viene definito uno scrittore da dimenticare, ma anche uno scrittore che rende illeggibili gli altri. In queste pagine, attraverso il suo delirio e il suo parlottio ipnotico, Céline riesce a nominare una guerra che nessun altro scrittore è riuscito a descrivere. In un mondo in cui la parola dei "Buoni" sembra non trovare spazio, Céline si fa portavoce di una realtà scomoda e difficile, svelando le brutture e le contraddizioni dell'umanità.
Si legge nel testo: "Quel paese era piatto – ma i fossati traditori e belli profondi, pieni d'acqua, rendevano molto difficile avanzare. Toccava fare giri a non finire, ti ritrovavi allo stesso punto. Però mi sembra che ho sentito gnaulare le pallottole. Comunque il fontanile dove mi sono fermato quello era vero, poco ma sicuro. Il braccio lo tenevo con l'altro perché non riuscivo più a raddrizzarlo. Se ne stava giù morto sul fianco. All'altezza della spalla c'era una specie di grossa spugna fatta di stoffa e di sangue. Se la muovevo un po' smettevo di vivere tanto atroce il dolore che mi provoca fino in fondo alla vita, è il caso di dire.
"Sentivo che dentro di vita ne restava ancora molta, che si difendeva per modo di dire. Se me lo raccontavano non ci avrei mai creduto. Adesso non camminavo manco troppo male, insomma duecento metri alla volta. Era abominevole dovunque come sofferenza, da sotto il ginocchio fino a dentro alla testa. A parte questo l'orecchio era poltiglia sonora, le cose non erano affatto le stesse né più come prima. Sembravano di mastice, gli alberi non stavano mai fermi, la strada sotto le scarpe faceva salite e discesette. La giubba e la pioggia, non avevo più nient'altro addosso. E sempre nessuno. La tortura alla testa la sentivo fortissimo nella campagna così grande e vuota. Mi facevo quasi paura da solo a ascoltarmi. Pensavo che avrei risvegliato la battaglia da tanto rumore che facevo dentro. All'interno facevo più rumore io di una battaglia. Uno sprazzo di sole e in lontananza monta sopra i campi un vero campanile, uno enorme. Va' da quella parte mi dico. È una destinazione come un'altra. E poi mi siedo – con la mia gran cagnara nella crapa, il braccio a pezzi, e mi costringo a ricordarmi quello che era appena successo. Non ci riesco. Era una bolgia, la memoria. E poi anzitutto sentivo troppo caldo, anche per il campanile la distanza variava, mi trafiggeva gli occhi vicinissimo, più lontano. Forse è un miraggio, mi dico. Ma non sono così fesso. Siccome mi fa così male dappertutto, allora esiste anche il campanile. Era un modo di ragionare, di ritrovare un po' di fiducia. Rieccomi in cammino lungo il ciglio della strada. A una curva, un tizio nel fondo motoso si muove, sicuro che mi vede. Penso è un cadavere che si torce, sicuro che c'ho le traveggole." |