Giovanni Gentile
I fondamenti della filosofia del diritto
Le Lettere, pagg.145, Euro 14,00
Quest’opera riassume “per sommi capi” un corso di lezioni tenuto da Giovanni Gentile nel 1916 agli studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. L’Autore assegna alla filosofia del diritto il compito di “ricercare a quale momento della vita dello spirito si debba il fenomeno giuridico: quale sia il principio che genera i fatti giuridici e in virtù del quale questi fatti si distinguono tra i fatti umani. Il suo compito si potrebbe perciò definire gnoseologico; ma di una gnoseologia, che […] non è una propedeutica o un semplice organo o canone della filosofia; bensì la stessa filosofia nel suo più sostanziale nucleo metafisico, come coscienza critica della legge profonda della realtà; poiché questa legge è raggiungibile dal pensiero nella realtà che esso stesso realizza pensando”. Il diritto “è un momento astratto della volontà; nella cui effettiva attualità la forma giuridica è sempre superata e assorbita. L’attualità del volere è infatti etica”. L’eticità “non è altro che la stessa forma concreta del volere, che, volendo, si attua come libertà: crea cioè una forma di esistenza che è spiritualità, cioè il bene, e la cui negazione è il male. Sicchè, volere, e non volere il bene, è impossibile. Non bene (male) è non volere. E la realizzazione del bene, nel senso morale di questa parola, non è altro che realizzazione della volontà”. Secondo Gentile, l’eticità rappresenta “il suggello della sostanzialità e spiritualità dello Stato”. E lo Stato è la “volontà di un popolo, che si sente nazione (e si vuole come tale)”. Il volere di un popolo non è certamente “la somma dei voleri degli individui che lo costituiscono; bensì quel volere unico che ognuno di questi individui (pochi, molti, moltissimi) attua, come volere che valga per volere di tutti: ossia il volere uno individuale come volere comune, in quanto riesce ad esser tale. Volere comune, che non è una trasformazione del primitivo volere particolare del singolo. Il volere, in quanto tale, è universale. Soltanto, la sua universalità si viene svolgendo: e più il volere matura e si potenzia, e più la sua universalità apparisce e trionfa”. “Ogni individuo agisce politicamente – aggiunge il filosofo -, è uomo di Stato, e reca in cuore lo Stato, è lo Stato. Ciascuno a modo suo, ma ciascuno tuttavia concorrendo in uno Stato comune, in virtù dell’universalità che è propria della sua stessa personalità (come lingua, storia, economia ecc.). Lo Stato perciò non è inter nomine, ma in interiore homine”. In definitiva, “chi vuol vedere lo Stato di cui tutti parlano e di cui pochi riescono a farsi un’idea che non sia affatto fantastica, bisogna che guardi a se medesimo, nella propria coscienza, all’atto onde si vien costruendo la sua personalità. Fuori della quale ci può esser l’ombra, non il corpo dello Stato”. Lo Stato “nella sua essenziale eticità non è qualche cosa di superiore ed esterno che l’individuo debba conquistare, poiché egli l’ha già in sé originariamente. Così nell’effettiva realtà umana non c’è atto economico che non sia etico, e quindi politico; non c’è società civile che non sia anche Stato”.
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