Studi su Dante |
Giovanni Gentile Studi su Dante Le Lettere, pagg.VIII-251, Euro 35,00
In questo volume, il tredicesimo delle Opere complete di Giovanni Gentile, sono stati raccolti, a cura di Vito A. Bellezza, i saggi che il Filosofo di Castelvetrano dedicò a Dante Alighieri. Dante, secondo Gentile, "è grandissimo poeta nella Commedia, ma è anche filosofo: è più grande poeta che filosofo, ma egli intendeva riuscire più grande filosofo che poeta. La filosofia, la scienza divenne la sua ambizione dopo la morte di Beatrice, per cui aveva scritto i suoi versi d'amore. Questo è dimostrato chiaramente dal Convivio". Con Dante - aggiunge l'Autore - "comincia ad affermarsi idealmente l'Italia; col suo Poema, la filosofia italiana": "Tutta la poesia, tutta l'attività fantastica di Dante può dirsi prettamente italiana. Come la lingua acquista in lui una potenza espressiva prima ignota, tutti i luoghi e le memorie, la storia e le aspirazioni, e le tradizioni e le speranze e i dolori d'Italia s'adunano nella luce della poesia dantesca a formare l'immagine del bel paese, che parlerà poi sempre alle anime delle future generazioni, del giardin dell'imperio ora diserto, e a rinverdire il quale Dante indirizza più propriamente la sua poesia, cioè la sua filosofia. Nel suo pensiero la latinità diventa italianità, e, conscia del suo assoluto valore storico, si rivendica e si afferma di contro alla Chiesa, che allora e poi sempre nei secoli avrebbe avversato tra noi, piantata nel cuore stesso d'Italia, ogni regolare sviluppo della nostra costituzione politica, ogni naturale espansione della nostra libertà interiore. Dante primo sente il ghibellinismo italianamente, e nega valore al trascendente nel dominio del diritto umano e del lume naturale, come allora dicevasi, o spirito scientifico, come diciamo oggi: diritto umano e spirito scientifico che la Chiesa conculcherà sempre con la dottrina, che Dante oppugnò: e Dante rimarrà, per secoli, il maestro della libertà all'Italia, schiava politicamente e moralmente per colpa di quei papi, che Dante ha saettati in eterno coi fulmini dello sdegno, che solo la sua coscienza poteva provare. Dante è il primo scolastico, tomista per giunta, che si ribella al trascendente scolastico [...]: e vi si ribella perché ghibellino, ma ghibellino d'Italia; perché profondamente convinto dell'umanità autonoma, cioè del valore assoluto, intrinseco dello Stato, e per l'appunto di quello Stato che egli vedeva grandeggiare, come opera umana, benché provvidenziale, nella storia, di contro alla Chiesa: l'Impero dei Romani". Dallo studio gentiliano Dante emerge come "assertore vigoroso del valore dello Stato, il cui concetto era stato una delle creazioni più geniali della libertà greca, ma s'era poi oscurato e presso che annullato attraverso la speculazione cristiana, nel dispregio onde il dualismo paolino di spirito e carne aveva avvolto la natura e tutte le istituzioni mondane che nella natura hanno base. Dante rialza la città terrena, che Agostino aveva abbattuta". Guardando "alla Chiesa insieme e allo Stato", Dante "precorre Cavour, precorre Ricasoli": "La Chiesa non si può separare così dallo Stato, che questo la ignori, o essa ignori lo Stato; lo Stato non può respingere da sé la Chiesa a segno da negarne ogni valore. Né la Chiesa può spiritualizzarsi al punto di non avere in sé niente di temporale, e non rientrare quindi nella sfera dell'attività politica; né lo Stato può esercitare effettivamente quest'attività senza realizzare una sostanza spirituale e quindi venire a contatto con gli organi della vita religiosa. La Chiesa storicamente riformabile è quindi una sola: quella che si riforma riformando lo Stato: perché essa si forma veramente in quanto si forma lo Stato". Lo Stato - spiega Gentile - è "quello a cui Dante mira con la sua universale monarchia: unum velle, unum nolle. È quello che nell'individuo si dice carattere, che è l'unità e la realtà effettuale della persona. La vita comune è allargamento della vita spirituale della persona, la quale viene a trovarsi nella necessità di instaurare un più alto e più spirituale carattere, una più concreta unità interiore; e crea così lo Stato. Il quale tuttavia avrà sempre lo stesso valore assoluto che la personalità individuale, giacché sarà l'ampliamento di essa e la sua vera realizzazione. [...] Lo Stato [...] è forza, perché volontà; ma è anche giustizia, volontà universale. È libertà, ma in quanto è legge: legge che esso pone, ma che ad esso per primo è sacra, come volontà divina". "Lo Stato come volontà - questa divina realtà spirituale che l'uomo attua nella vita civile - non può incontrare ostacoli, che ne limitino la libertà, recidendola quindi alla radice. Esso si separa dalla Chiesa e celebra così la propria indipendenza in quanto cessa di considerarla centro di energia spirituale distinto da sé, e a sé contrapposto. Giacché quello che alla superficie è separazione, nel fondo è assorbimento e unità intima; in quanto lo Stato, mediante la propria infinità, togliendo alla Chiesa ogni elemento mondano, la purifica, e così realizza a un tempo la Chiesa, come vera Chiesa, e sé medesimo. E la Chiesa, spogliandosi d'ogni scoria esterna, e quindi riconoscendo lo Stato come infinita potenza, non solo torna per sé alla sua purità spirituale, ma irradia della propria luce divina il potere dello Stato". Ecco, dunque, la profezia di Dante: "uno Stato intimamente religioso perché libero dalla Chiesa, indipendente, potenza illimitata; e però una Chiesa povera, spirituale, alimentatrice di quella vita etica, che nello Stato trova la sua attività e la sua tutela". La vita dello Stato - conclude l'Autore - "è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un'idea, proprio come ogni Chiesa insegna. Quella devozione, che fa il soldato sicuro incontro alla morte necessaria alla patria, ma fa anche ogni cittadino negli uffici più prosaici e meno rischiosi, ma non meno difficili di tutti i giorni, inflessibile nella coscienza e nella volontà del dovere; ignaro, come il Veltro dantesco, di un interesse privato che non sia quello medesimo dell'idea di cui egli è servitore". |