L’eccidio di Cadibona. Intervista con Roberto Nicolick Stampa E-mail

L’eccidio di Cadibona. Intervista con Roberto Nicolick

a cura di Francesco Algisi

 

nicolick_39biglietti   Roberto Nicolick, nato a Savona il 28 gennaio 1950, formatosi in gioventù nello Scoutismo cattolico, dopo gli studi completati presso l'I.S.E.F. (Istituto Superiore di Educazione Fisica) di Torino, ha insegnato per 38 anni educazione fisica in scuole di diversi ordini e gradi. Ha ricoperto cariche istituzionali elettive, in qualità di Consigliere comunale e provinciale, prima nella Lega Nord e ultimamente nel Popolo della Libertà, sempre nella città dove è nato. Attualmente collabora con la redazione di Genova del quotidiano Il Giornale, pubblicando articoli inerenti alle tematiche del periodo post-insurrezionale. Nel libro 39 biglietti di sola andata… (L-Editrice, 2008), ha ricostruito la storia dell’eccidio di Cadibona, compiuto dai partigiani comunisti nel maggio del 1945, nel corso del quale trentanove prigionieri furono oggetto di sommaria e arbitraria esecuzione.

  Nella Prefazione al libro sull’eccidio di Cadibona, lei si definisce "una persona non avvezza alle ricerche storiche"…

  Verissimo, non sono uno storico; per fare una battuta, mi piacciono i “cold case”. La città dove sono nato e dove abito, Savona, dista appena 14 chilometri dal luogo della strage. Fatto di cui si è sempre parlato a mezza voce forse per paura degli autori che fino a 15 anni fa erano ben vivi e vegeti. Quindi, è nato in me il desiderio di fare un’indagine su questo episodio sanguinoso di un periodo storico molto vicino a me, sia cronologicamente che topograficamente, raccontando con un taglio divulgativo, soprattutto ai giovani, un episodio oscuro  che  gli adulti e gli anziani  tendevano a rimuovere.

   Oltre a Pansa e a Massimo Numa, citati nel testo, uno dei primi a occuparsi di quella strage – in un periodo in cui era rischioso farlo - fu Giorgio Pisanò nell'opera Storia della guerra civile in Italia

  Non ho consultato l’opera di Pisanò, perché troppo schierato; ho invece letto con interesse il  coraggioso libro di Numa, che purtroppo tratta in pochissime pagine la strage del Cadibona. Belli e interessanti anche i volumi di Pansa, ma non ho tratto nessun dato da questi scritti. Ho voluto, inoltre, svolgere una ricerca sul campo a 360° attraverso gli archivi di Stato e soprattutto ascoltando le testimonianze di sopravvissuti e parenti.

   A proposito dei prigionieri (tra cui un Generale della Divisione San Marco) prelevati e portati al sicuro dai militari angloamericani, lei scrive che il Comando alleato "per una volta tenne duro". Significa che in genere gli angloamericani si mostravano “arrendevoli” di fronte ai partigiani?

  Gli ufficiali alleati presenti sul territorio tendevano, almeno all’inizio, a non intromettersi nei regolamenti di conti a danno dei fascisti repubblicani, che avvenivano in certe zone del nord. Successivamente arrivarono direttive dai comandi alleati per fermare  le  numerossime esecuzioni sommarie  che toccavano anche moltissimi civili, soprattutto da parte dei partigiani appartenenti a formazioni comuniste. Vennero emanate norme per il disarmo delle brigate partigiane e per regolamentare gli arresti che potevano essere effettuati solo ed unicamente da autorità indicate dalle truppe alleate. Gli angloamericani sottovalutarono il pericolo di un nuovo far west; pertanto si mossero in ritardo. Un generale come il comandante della San Marco, Amilcare Farina, era un prigioniero troppo importante da non lasciarsi scappare, utile come fonte informativa e in vista di una riorganizzazione dell’esercito italiano. Lasciare che i partigiani lo passassero per le armi sarebbe stato inutile e stupido da parte degli Alleati.

   Per intrappolare le vittime della strage di Cadibona i partigiani si servirono di un sacerdote. Al momento dell'esecuzione, tuttavia, non sembra che i prigionieri abbiano potuto beneficiare dei conforti religiosi…

  La presenza di un sacerdote, spesso obbligato a presenziare, dava ai fascisti repubblicani, attraverso la sua opera di convinzione alla resa, la falsa speranza di un trattamento umanitario ed onorevole da parte dei partigiani. Era uno strumento utile per portare alla resa, senza usare le armi, i fascisti delle colonne armate repubblicane in ritirata che seguivano il protocollo “nebbia artificiale”. Non mi risulta che prima delle esecuzioni i prigionieri del Cadibona abbiano avuto i conforti religiosi.

   Quale fu il contegno delle vittime di fronte al “plotone d'esecuzione”?

  Parlare di plotone di esecuzione mi pare improprio. Infatti, un’operazione complessa come la  fucilazione di un gruppo numeroso comporta regole e norme, seppur crudeli, da seguire. Qui si trattò di una mattanza a cui tutti ambivano partecipare, ma solo pochi ebbero l’onore e soprattutto il piacere di sparare. La maggior parte dei prigionieri erano umiliati, stanchi e rassegnati; solo uno con ancora un barlume di energia tentò la fuga e riuscì a raggiungere l’abitato di Cadibona, ma venne ripreso e ricondotto sul luogo del massacro.

   Perché i partigiani si accanirono subito contro Giovanni Poggio, interprete del Comando tedesco a Savona, che si era dimesso dall'incarico "a causa delle torture cui doveva assistere" (pag.46)?

  Poggio era considerato dai partigiani un collaborazionista attivo dei nazifascisti; secondo loro partecipava addirittura alle sevizie sui prigionieri. In realtà Poggio era un traduttore che metteva i partigiani prigionieri e gli inquisitori tedeschi in grado di capirsi. Senza processo ed in base a semplici illazioni, Poggio fu oggetto di una esecuzione frettolosa e sommaria.

   Lei scrive (pag.52) che, oltre alle tredici donne, non scesero dal bus "tre uomini, un ufficiale della San Marco (Giacinto Bertolotto), un adolescente (Armando Morello) e Antonio Branda". Quale fu la sorte di costoro?

  La mia ricerca si basò soprattutto sulla strage di 39 prigionieri. Quindi, non feci ricerche successive sui superstiti che devono la loro salvezza al capo-scorta della corriera, Viglietti, partigiano Zeta, che si impose sul gruppo dei poliziotti ausiliari per limitare la strage e, per questo motivo, in seguito fu soppresso dai suoi compagni e il suo cadavere non venne mai ritrovato. Sicuramente queste tre persone non vennero uccise a Cadibona.

   Perché i nomi dei responsabili dell'eccidio nel libro sono indicati soltanto con le lettere iniziali?

  Esiste il diritto di oblio, sancito dalla Cassazione, che potrebbe spingere i parenti dei responsabili a iniziare azioni legali contro di me. Inoltre, essendo il mio primo libro, ho voluto ricordare la strage e il suo evolversi. Tuttavia i nomi dei responsabili, tutti amnistiati da Togliatti nel 1946, sono noti a tutti, visto che si vantavano pubblicamente del loro operato.

   I combattenti della Repubblica Sociale Italiana nel libro sono spesso definiti, in maniera spregiativa, "repubblichini"…

  Ideato  da un certo Calosso in una trasmissione di Radio Londra nel ‘43, l'uso del termine «repubblichino» si radicò ampiamente nella storiografia e nella pubblicistica del nostro Paese. Tale termine, per il senso spregiativo in genere attribuitogli, viene da taluni considerato offensivo; tuttavia, alcuni reduci mi hanno raccontato che era ampiamente usato anche dagli stessi militari della R.S.I. con orgoglio rivendicativo.

   Come è stata accolta la sua ricerca dalla gente di Cadibona?

  Cadibona è una piccolissima frazione abitata da circa un centinaio di persone; su di esse il libro ebbe un impatto limitato, mentre colpì molto la città di Savona e i centri della provincia. Inoltre, ebbi una pagina sui principali quotidiani locali, La stampa, Il secolo XIX, Il Giornale, e interviste radiofoniche e televisive.

   Il suo libro uscì nel 2008. In questi due anni, è stata promossa qualche iniziativa per commemorare le vittime dell'eccidio di Cadibona?

  Sì. Qualche mese fa, su richiesta di un’associazione culturale, fu installato sul luogo dell’eccidio un cippo con una Madonna in ceramica in ricordo delle vittime della strage. All’inaugurazione presero parte un assessore della Provincia e il Vescovo di Savona e Noli, che benedisse il pilastrino.

   In qualità di membro del consiglio provinciale di Savona, quali iniziative ha promosso per commemorare le vittime delle violenze partigiane?

  Chiesi il patrocinio all’Amministrazione provinciale, la quale, essendo di sinistra, me lo negò. Ogni mia interpellanza per ricordare queste vittime ed assicurae loro pari dignità dal punto di vista cristiano, si scontrò con un muro di gomma innalzato per “ragioni di opportunità”.

   Non pensa che sarebbe doveroso intervenire sul piano della toponomastica, dedicando vie e piazze alle vittime della guerra civile e cancellando le intitolazioni ai partigiani assassini?

  Sarebbe auspicabile che dopo 64 anni, in un Paese civile, si possa attribuire una via oppure una piazza ad almeno una delle vittime di queste atrocità. Tempo fa scrissi un articolo su Il Giornale di cui sono collaboratore. L’articolo trattava di una bimba savonese di tredici anni, Giuseppina Ghersi, rapita, stuprata ed uccisa da tre partigiani, i quali ovviamente non scontarono un solo giorno di galera. Un consigliere comunale di Savona colse l’occasione per presentare un ordine del giorno in cui, partendo dal mio articolo, si intitolasse una via a questa povera bimba: purtroppo i consiglieri di sinistra, nel nome di un fazioso ed obsoleto modo di intendere le cose, fecero muro contro questa proposta. A tutt’oggi esiste una via, a Savona, intitolata ad un partigiano caduto perché ucciso per errore dai suoi compagni di brigata. La sua morte accidentale venne spacciata per eroica morte nel corso di un attacco di prepondereranti forze fasciste a partigiani. E venne pure conferita una medaglia d’oro alla vittima ed un vitalizio alla sua famiglia. In realtà le cose andarono molto diversamente. Il personaggio in questione stava comandando un plotone di esecuzione che fucilava un gruppo di fascisti repubblicani. Uno dei condannati tentò di fuggire; il caporione improvvisamente si trovò sulla linea del fuoco dei suoi compagni e fu colpito a morte.

 

28 settembre 2010

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