Capire la Russia. Intervista con Paolo Borgognone Stampa E-mail

Capire la Russia

Intervista con Paolo Borgognone


a cura di Francesco Algisi

 

borgognone capirelarussia  Paolo Borgognone (Canale (CN), 1981), laureato in Scienze storiche, collabora dal 2012 con il "Centro Iniziative per la Verità e la Giustizia" di Torino, per il cui sito (www.civg.it) ha redatto numerosi articoli e saggi. È inoltre autore dei seguenti volumi: "Il fallimento della sinistra «radicale»" (Zambon, 2013); "La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media" (3 voll., Zambon, 2013); "Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell'Ucraina postsovietiche" (Zambon, 2015).

  Dottor Borgognone, al "centro" del panorama politico russo si collocano i "conservatori-preservazionisti", che – come si legge a pag. 90 di "Capire la Russia" – fanno riferimento "al presidente Vladimir Putin e al partito Russia Unita (ER)"...

  L'arcipelago politico "conservatore" russo è in effetti assai frastagliato e pluralista al proprio interno. Nell'ambito di questa composita galassia partitica e movimentista emerge sicuramente preponderante la soggettività politica di Edinaja Rossija (Russia Unita), il "partito del presidente" Vladimir Putin. Il partito "Russia Unita" fu costituito nel 1999, con il nome di "Unità" (Edinstvo), con lo scopo di sostenere l'ascesa di Putin, allora premier e successore designato di Boris Eltsin e, contestualmente, al fine di ostacolare l'avanzata elettorale dei comunisti e della coalizione socialdemocratica "Patria – Tutta la Russia" (facente capo all'ex premier Evegenij Primakov, all'allora sindaco di Mosca Jurij Luzhkov e all'oligarca dei media Vladimir Gusinskij). "Unità" era nata per volere della frazione oligarchica in quel frangente più contigua al Cremlino, rappresentata e influenzata da Boris Berezovskij. Nel 2001 Edinstvo (che alle elezioni parlamentari del dicembre 1999 aveva riscontrato un significativo risultato, frenando l'ascesa del Kprf e sopravanzando di quasi dieci punti il movimento di Primakov e Luzhkov) si trasformò in "Russia Unita", mediante la confluenza al suo interno di svariati gruppi politici socialdemocratici e "popolar-patriottici", tra cui "Patria – Tutta la Russia". Nel frattempo, infatti, Putin aveva inaugurato la battaglia politica contro la frazione oligarchica filoccidentale di Boris Berezovskij, una battaglia che avrebbe gradualmente caratterizzato l'azione politica di costruzione di una "democrazia sovrana" e "governante", ossia scevra da pressioni e condizionamenti politici esterni, in Russia. "Russia Unita", in questo senso, è il partito politico espressione della "democrazia sovrana" in Russia, della ricentralizzazione dei poteri pubblici e del processo politico di riappropriazione, da parte dello Stato federale, del proprio ruolo di motore della vita pubblica; un ruolo che, tra il 1991 e il 2000-2003, in Russia fu occupato prevalentemente dai vari clan oligarchici e cleptocrati in perenne conflitto fra essi ma fermamente alleati nella lotta contro qualsivoglia istanza di inversione di tendenza rispetto all'assunto politico contrassegnato dal governo indiretto dei robber barons filoccidentali (in particolar modo filo-americani) sotto l'egida del Fmi e dell'amministrazione Eltsin. Dal punto di vista delle idealità politiche cui fare riferimento, Putin e il suo inner circle composto da siloviki (ufficiali provenienti dalle fila dei servizi di sicurezza interni) e da funzionari civili di estrazione "postliberale", hanno messo in atto il summenzionato processo di risovranizzazione della politica e dello Stato federale in Russia proclamandosi semplicemente "conservatori" e "pragmatici" centristi, senza perciò calcare la mano sul discorso ideologico perché persuasi da alcuni fattori "ambientali" complessivi di cui tener conto: la necessità, da parte della nuova dirigenza russa, di presentarsi dinnanzi ai propri interlocutori internazionali come pragmatici e postideologici tecnocrati e manager della "modernizzazione" del Paese interessati a stipulare affari economici reciprocamente vantaggiosi; l'assunzione di consapevolezza che, dopo 70 anni di comunismo e 20 di turbo-capitalismo a direzione culturale neoliberale, il discorso ideologico, centrato sull'imposizione di una nuova cultura politica unificante e dominante, non avrebbe provocato la risposta positiva, in termini di consensi e adesione, da parte dei russi (disillusi dal comunismo e prostrati dal liberalismo anglosassone); l'assunzione di consapevolezza, da parte di Putin e dei suoi collaboratori, che dopo il 2000 la principale urgenza cui i poteri pubblici russi erano chiamati consisteva nel ripristinare le funzioni vitali dell'organismo statale, lasciando a un secondo momento la formulazione di un'ideologia politica unificante le varie componenti sociali dell'elettorato russo. Il progressivo deteriorarsi delle relazioni con gli Usa e la contestuale ripresa economica interna hanno agevolato e consentito la formulazione, da parte dei vertici politici del nuovo potere "putiniano", di un'ideologia capace di rappresentare, in una nuova sintesi di valori politici e culturali, le eterogenee sensibilità e gli svariati interessi delle classi popolari e dell'imprenditoria nazionale russe. Colui che, in Occidente, viene definito «l'ideologo di Putin», Vladislav Surkov, ha parlato di "Russia Unita" come di un partito collocato sul versante «conservatore di destra» dello schieramento politico russo e, allo stato attuale, "Russia Unita" ha principiato a coltivare relazioni e scambi di reciprocità politica con determinati movimenti "euroscettici" e nazional-populisti europei, dialogando al contempo con forze politiche progressiste e socialiste in America Latina e Medioriente. Personalmente, definirei "Russia Unita" un partito popolar-patriottico a vocazione presidenziale, con valori culturali di destra e un programma economico di centro, capace di alternare, pragmaticamente, momenti di concessione alle istanze pseudo-liberiste dell'imprenditoria nazionale a momenti di più rigido interventismo statalistico. Credo che "Russia Unita" possa costituire una sorta di versione russa del peronismo e, per certi aspetti, del gollismo postbellico (precedente la svolta neoliberale attuata dai successori del generale Charles de Gaulle), ma non definirei questo partito un soggetto politico tout court "di destra" perché, in Russia, la tradizionale e consolidata antitesi dicotomica destra/sinistra così sacralizzata in Occidente dai cultori della perpetuazione, sine die, della società liberale, non ha molto senso, significa poco e comunque non assume un ruolo centrale nel contesto del discorso pubblico.

  La "dicotomia atlantisti/eurasiatisti" (pag. 92) riflette la contrapposizione di un tempo tra occidentalisti e slavofili?

  In parte sì, ma vi è qualcosa di più complesso. La dicotomia "atlantisti/eurasiatisti" è l'antitesi dialettica alla radice dell'attuale contrapposizione culturale tra l'"Occidente Mondo" (McWorld, società dell'Internet ecc., ossia i volti postmoderni della società liberale) e coloro i quali intendono resistere alla suddetta mondializzazione americanocentrica. Se la Guerra fredda fu un confronto e un conflitto di natura ideologica (liberalismo anglosassone vs comunismo storico novecentesco), l'attuale fase di contrapposizione globale tra gli Usa (coadiuvati, principalmente, dai loro vassalli europei) e gli Stati e le soggettività politiche collettive resistenti all'imposizione del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale è una guerra di matrice culturale (atlantismo "globalista" vs eurasiatismo "sovranista"). Il cambio di fase nell'ambito della contrapposizione tra l'imperialismo e il suo contrario, ovvero i movimenti di liberazione nazionale a vocazione anticoloniale, fu magistralmente analizzato dal compianto Costanzo Preve in due importanti libri, Filosofia e Geopolitica, del 2004, e La Quarta Guerra Mondiale, del 2008.

  Lei scrive che in Russia la "dimensione nazionale [...] assume caratteristiche e valenze sovraniste soltanto se viene a declinarsi in ambito imperiale e non etno-sciovinista o "democratica" (pag. 128). Come si spiega l'incompatibilità tra il 'sovranismo' e la 'democrazia'? Tale assunto è valido solo per il contesto russo o può essere applicato anche ad altri Paesi?

  Occorre, per rispondere a questa domanda, partire da un assunto di fondo: la forma di "democrazia" imposta in Russia dopo il 1991 dalla frazione eltsiniana, che appunto definiva se stessa "democratica" per scimmiottare i propri mentori d'Oltreoceano (è opportuno ricordare che Eltsin fu un dichiarato ammiratore politico di Bill Clinton), non fu altro che la negazione del concetto di "democrazia moderna" elaborato e analizzato dai teorici e dai retori di tale ideologia e, contestualmente, il trionfo del "bonapartismo postmoderno" a guida politica autoritaria e volto alla disarticolazione neoconsumistica e individualistica della società. La democrazia postmoderna consiste nel tentativo di disorganizzazione e disarticolazione, su basi assiomatiche fondate sull'egemonia dell'antropologia del desiderio capitalistico illimitato, della società nel suo complesso. Il termine russo utilizzato per descrivere questo modello di anarchismo consumistico cosmopolitico e fattore di disgregazione statale e di pauperizzazione dei ceti popolari e di proletarizzazione della piccola borghesia nazionale è bespredel' (trad. it., caos organizzato). Il regime di Eltsin e dei Chicago Boys fu la sperimentazione, in Russia, della teoria geopolitica e geoeconomica del "caos costruttivo", elaborata dai politologi neoconservatori a stelle e strisce come strumento per il dominio neocoloniale planetario della "megamacchina" occidentale riproduttrice sistemica di meccanismi capitalistici di decostruzione e frammentazione, in indistinti atomi di desiderio consumistico, di ogni identità e comunità collettive ("totalitarismo neoliberale pubblicitario non repressivo"). In Russia fu introdotto, nel 1991, un modello di capitalismo di rapina che si vantava di essere il portato della "transizione alla democrazia" del Paese. In realtà tale modello politico non era che una variante russa del bonapartismo postmoderno e postdemocratico quale versante culturale direzionale del "cambio di fase" del capitalismo (da fordista-keynesiano a postfordista e "liberalizzato") avvenuta tra il 1980 e il 1990. Il nazionalismo etnosciovinista e russofobico fu invece il braccio politico, nelle repubbliche separatiste dell'Unione Sovietica, in special modo nelle repubbliche baltiche, nell'Ucraina occidentale, in Moldavia e in Georgia, funzionale e strumentale all'innesco del processo di smantellamento dell'Urss e di introduzione, in Russia, del capitalismo americano. Il nazionalismo etnico non può che essere un nemico mortale di un Paese, come la Russia, per definizione e composizione interna plurinazionale, multilinguistico e multireligioso. In questo senso, è corretto affermare che la Russia può essere sovrana soltanto se fa appello e riferimento alle sue tradizioni politiche e spirituali "ancestrali" e se conferisce un ruolo di primo piano alla tradizione religiosa cristiano-ortodossa, declinata in chiave patriottica, come motore della formazione culturale e politica delle nuove generazioni, come fattore di consolidamento dell'unità politica federale interna e come elemento di contraddizione solidaristica capace di attenuare e indirizzare in senso "sociale" le istanze liberiste e di affermazione e profitto economico individuale dell'imprenditoria nazionale. Questo ruolo, di elemento cardine di indirizzo politico interno, può e deve essere giocato anche dalle altre confessioni religiose presenti in Russia, in primo luogo dal sufismo islamico nel Caucaso del Nord. In definitiva, direi che, come ho affermato nel libro, non vi è, in Russia come altrove, sovranità politica popolare e nazionale senza democrazia ma la democrazia deve essere reinventata e ricostituita organicamente quale collettore politico pluralista delle svariate, eterogenee e finanche difformi e conflittuali tradizioni culturali, spirituali e politiche russe (una democrazia "organicamente eurasiatista" in luogo dell'attuale democrazia liberale postmoderna). Tra queste, naturalmente, non va dimenticato il lascito del socialismo, oggi reinterpretato dall'élite della "democrazia sovrana" di "Russia Unita", quale rinnovato paternalismo pubblico a vocazione conservatrice e di frontale opposizione al dilagare dell'individualismo cosmopolitico e neolibertario occidentale in Russia.

  A pag.161 si parla della "rivalutazione della figura romantica di Stalin" operata dal Cremlino. Come va intesa la declinazione "in chiave romantica" (pag.163) del "piccolo padre dei popoli"?

  Ciascun osservatore politico, politologo o filosofo attribuisce alla figura di Stalin una peculiare e particolare interpretazione, a partire dal proprio punto di vista soggettivo, per quanto scientificamente argomentato. Così, una parte dell'attuale classe dirigente russa vede nel mito di Stalin una "romantica" e "guerriera" figura politica di «manager dell'industrializzazione» e di «vincitore delle armate naziste» nella Grande Guerra Patriottica. Si tratta, naturalmente, della formulazione di un mito politico nazionale, a partire dal dato di fatto riguardante l'odierna relativa popolarità di Stalin tra le masse russe. Così, il 22 agosto 1945, il «miserabile» (S. Kulesov, V. Strada, Il fascismo russo, Marsilio, Venezia, 1998, p. 99) Konstantin Rodzaevskij, capo del Partito fascista russo (Rossijskaja Fašistskaja Partija), «scrisse a Stalin una lettera impressionante, rivolgendosi [...] al grande Stalin come al vero capo fascista russo, da lui sognato per tutta la vita» (Ivi). Vale la pena riportare ampi stralci (ripresi dal libro precedentemente citato, alle pagine 238-239) della Lettera a Stalin di Konstantin Rodzaevskij, in cui il caporione fascista evolve e converte, in maniera più o meno strumentale, le sue posizioni politiche in una direzione di maggiore compatibilità con i postulati teorici del nazionalbolscevismo: "Al Capo dei popoli, Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo dell'URSS, Generalissimo dell'Armata Rossa, Iosif Vissarionovic Stalin [...]. Vorremmo portare sotto i vessilli staliniani, sotto gli ieri odiati e domani adorati vessilli dell'Armata Rossa, sotto i vessilli della Nuova Russia e della rivoluzione, ciò che resta della nostra organizzazione in tutti i paesi del mondo: in Asia, in Europa, nell'America del Nord e in quella del Sud, in Australia, affinché l'ex Unione fascista russa affluisca nell'alveo della riconciliazione con la Patria e il beneamato Governo di milioni di russi ancora disseminati all'estero. [...] Senza rifiutare le mie idee, tanto più che esse in parte coincidono con le idee guida dello Stato sovietico, ma rifiutando decisamente i vent'anni della mia esistenza antisovietica, consegno me stesso, i miei amici, i miei camerati, la mia organizzazione nelle mani di coloro ai quali il popolo sovietico ha affidato i suoi destini storici in questi infuocati anni cruciali. La morte senza la Patria, la vita senza la Patria oppure il lavoro contro la Patria sono un inferno. Vogliamo morire per ordine della Patria o fare in qualsiasi luogo per la Patria un qualsiasi lavoro. [...] Gloria alla Russia!". Naturalmente, Stalin non tenne in alcuna considerazione la missiva di Rodzaevskij e «lo fece subito giustiziare» (Ivi, p. 99). Questo perché, secondo lo storico liberal Vittorio Strada, «Stalin non era un fascista e tanto meno un nazionalista russo. Stalin era quell'erede e continuatore di Lenin che dichiarava di essere e che tutti, tranne Trockij e compagni, riconoscevano fosse [...]. Stalin era un bolscevico, un comunista, un rivoluzionario, e un uomo di Stato [...]» (Ivi). Di diverso parere Zhores e Roj Medvedev, che allo «Stalin nazionalista russo» hanno dedicato un intero capitolo del loro libro, Stalin sconosciuto (p. 291-307). Molto interessante, e a mio personale giudizio ampiamente condivisibile, il suggestivo paragone, operato dal filologo Luciano Canfora, tra Stalin e l'imperatore romano d'Oriente Giustiniano I (527-565), in un saggio sulla «grandezza di Stalin e miseria di Gorbaciov» (quest'ultimo paragonato, da Canfora stesso, all'usurpatore Foca, il fallimentare "tiranno" che nel 602 mise violentemente fine al governo della dinastia giustinianea a Costantinopoli) a conclusione del magistrale libro di Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, 2008. La figura di Stalin, il "condottiero dell'impero tellurocratico sovietico", può dunque essere intesa come icona politica speculare e contrapposta alle velleità omologatrici e negatrici di ogni tradizione e identità collettiva poste in essere dalla società liberale tecno-mercantile di derivazione occidentale. A questo proposito è interessante leggere il volumetto di Marco Costa, Soviet e sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica, Edizioni all'Insegna del Veltro, 2011. Naturalmente, la storiografia liberale si è impegnata a fondo per sottolineare e per ampliare una sorta di "cesura storica" e "ideologica" tra la Russia tradizionale e l'Unione Sovietica, al preciso scopo di spezzare la linea di continuità esistente, a livello di sentire comune delle masse popolari russe, nel contesto della storia politica del grande Paese eurasiatico; una linea di continuità caratterizzata dal permanere di una "struttura nazionale russa" a vocazione ideologica tradizionalista, a vocazione politica conservatrice e a vocazione economica solidaristica o socialista. In questo senso, molti nazional-patrioti postsovietici, rifiutando decisamente ogni compromesso politico con la "Russia democratica" e capitalistica emersa dalle spoglie dell'Urss, hanno idealizzato la figura di Stalin come elemento di sintesi e di continuità capace di mantenere in vita, anche durante il passaggio storico del socialismo concretizzato, la tradizione spirituale della "Terza Roma".

  Il presidente ungherese Orbán – si legge a pag. 322 – ha affermato "apertamente che «la Russia, la Turchia e la Cina» erano esempi di «nazioni di successo» cui l'Ungheria si sarebbe dovuta ispirare in un percorso politico teso alla fuoriuscita dal sistema di democrazia liberale" (pag. 322). Tra i modelli indicati da Orbán, tuttavia, figura anche Singapore...

  Credo che questa dichiarazione costituisca un fatto nuovo nella politica europea, dominata da personalità e soggetti politici che fanno a gara tra essi per stabilire nuovi record di subalternità politica e culturale alla vulgata liberale postmoderna e allo stereotipo cosmopolitico della open society come orizzonte destinale dell'umanità intera. Viktor Orbán è attualmente lo statista europeo maggiormente renitente ai dettami della Ue e della Nato. Viktor Orbán si è apertamente espresso contro l'adozione dell'euro da parte di Budapest e contro il liberalismo politico oggi sorta di religione identitaria obbligatoria per tutti coloro i quali non vogliono essere stigmatizzati dal chiacchiericcio e dal gossip politico-giornalistico eurocentrico come "fascisti" e ciò rende l'esperienza di governo della FIDESZ in Ungheria estremamente interessante perché potenzialmente capace di aprire uno scenario di contraddizione "nazional-capitalistico" in seno a un'Unione europea interamente modellata attorno a paranoici esperimenti economico-politici di capitalismo finanziarizzato e liberalizzato, sans frontières. Il pensiero politico di Viktor Orbán potrebbe rappresentare un'aperta sfida alla dominante vulgata "obamiana" (liberale di sinistra) corrente.

  Quali "elementi di indubbia criticità" (pag. 327) presentano Viktor Orbán e il suo partito FIDESZ?

  La FIDESZ nacque nel 1988, sotto la benedizione del finanziere internazionale George Soros, come movimento giovanilistico liberale di centrosinistra in opposizione al pericolante governo comunista di Budapest. Nel tempo, il suo unico leader dalla fondazione, Viktor Orbán, ripetutamente premier magiaro, ha evoluto e finanche convertito questo partito in origine liberale, liberista e libertario in una formazione politica nazional-conservatrice e cautamente "euroscettica". Tutto ciò non ha però eliminato le contraddizioni intrinseche al percorso politico costituente la FIDESZ. Soggetto politico che infatti, da un lato persevera nel rivendicare il proprio programma politico neoliberale in economia (sebbene temperato da sostanziali dosi di interventismo pubblico, attirandosi così le critiche degli organismi comunitari della Ue) e che rimane interno al Partito popolare europeo, la "casa comune" dei liberalconservatori, dei perbenisti e degli atlantisti di centrodestra dei Paesi della Ue. In questo senso, le sfide tese a smascherare e a portare alla luce incertezze e contraddizioni della FIDESZ potranno addirittura provenire, in totale assenza, nel Paese, di una sinistra patriottica e di classe, dall'opposizione di destra, formata dal partito Jobbik. Quest'ultima è una formazione politica che conta sul 20,5 per cento dei voti e che intercetta il malcontento delle fasce sociali più povere e periferiche della provincia magiara. Jobbik, smarcandosi dalla prospettiva di corto respiro offerta ai partiti appartenenti alla galassia politica della destra radicale tradizionale, sta completando una fase di ristrutturazione interna da partito radical-nazionalista a soggetto politico eurasiatista di destra e non nasconde le proprie velleità di contendere, in futuro, la guida del governo alla FIDESZ. Va ricordato che Jobbik esprime, diversamente dal partito di Viktor Orbán, posizioni politiche fermamente anti-Ue e che in occasione della crisi geopolitica in Ucraina si è immediatamente schierato a favore della Russia, con toni molto netti e perentori. Jobbik è infine un partito antisionista che non demonizza e anzi è interessato all'esperienza politica, sociale e culturale dell'Iran islamico. Tutto ciò apre scenari assai problematici per chi, in Europa, fa dell'agenda geopolitica neoliberale il proprio Vangelo e pertanto l'Ungheria in questa fase storica viene indicata, soprattutto dalla sinistra europea nelle sue varie sfaccettature, come un Paese "a rischio di deriva autoritaria".

  Quali sono i "valori signorili" (pag. 533) che animano la "destra" eurasiatista e tradizionalista russa?

  A questa domanda si potrebbe rispondere inizialmente consigliando la lettura di uno tra i più importanti testi di storia politica e geopolitica della Russia pubblicati negli ultimi anni, ossia il libro di Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, 2014. In questo testo, de Benoist e Dugin presentano in maniera magistrale gli elementi teorici propri del tradizionalismo russo e del neoeurasiatismo, a partire dagli studi "evoliani" e "guénoniani" di Dugin. La combinazione degli elementi classici dell'eurasismo politico russo, costituito dalle sue varianti di destra (eurasiatismo conservatore, rigidamente antibolscevico, facente capo al gruppo del linguista Nikolaj S. Trubeckoj) e di sinistra (nazionalbolscevismo, facente capo allo storico Nikolaj Ustrjalov, movimento inizialmente altresì denominato «cambio delle pietre miliari» rispetto alla politica di contrapposizione degli eurasisti conservatori al moto rivoluzionario bolscevico dell'ottobre 1917) con il pensiero di «alcuni autori della Rivoluzione-Conservatrice tedesca (Karl Haushofer, Carl Schmitt, Arthur Moeller van den Bruck, Ernst Jünger)» (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell'Eurasia nella cultura russa, Mimesis, Milano-Udine, 2012, p. 271), della destra radicale nazionaleuropea (Jean-François Thiriart, Robert Steuckers, Claudio Mutti) e della Nouvelle droite (Alain de Benoist), costituiscono la base politico-concettuale del neoeurasiatismo. L'edificio ideologico neoeurasiatista è stato costruito su solide fondamenta teoriche neobizantine, attraverso la riscoperta e la rivalutazione dell'opera filosofica di Konstantin Leont'ev. I valori politici del neoeurasiatismo sono ispirati alla realizzazione di una «democrazia organica» come fase ulteriore e approdo conclusivo del percorso di ricentralizzazione dei poteri pubblici propugnato da Putin e dal suo inner circle attraverso l'innesco del modello di «democrazia sovrana». La «democrazia organica» che caldeggiano gli eurasiatisti contemporanei è funzionale a sottrarre la Russia da ogni contaminazione con la cultura liberale occidentale e da ogni influenza derivante da tentativi occidentali, statunitensi in primis, di colonizzazione culturale del Continente-Impero eurasiatico. Il neoeurasiatismo si configura come una Quarta Teoria politica: né comunismo, né liberalismo, né fascismo (i neoeurasiatisti respingono fermamente ogni ipotesi razzista ed etnonazionalista, rifiutano lo sciovinismo e propugnano un patriottismo geopolitico dell'Impero eurasiatico in potenza). Il neoeurasiatismo fa propri valori politici e culturali premoderni, valori in un certo qual senso "cavallereschi", di fedeltà e di onore, si caratterizza come alternativa radicale al postmoderno ma non rifiuta il dialogo e il confronto con gli elementi politici e culturali propri della modernità in vista della formazione di un'alleanza geopolitica globale anticoloniale, imperniata sull'opposizione al dominio del Nuovo Ordine Mondiale a guida statunitense. Chi volesse approfondire il pensiero politico delle correnti conservatrici, tradizionaliste e comuniste "sostenitrici dello Stato" nella Russia e nella Serbia "eurasiatiche", venendo così a conoscenza più diretta con i cardini assiomatici propri della "struttura nazionale" eurasista, potrebbe cominciare con lo studio dei testi di Konstantin Leont'ev, Nikolaj Ustrjalov, Igor Safarevic, Dragos Kalajic, Aleksandr Dugin e Gennadij Zjuganov. Anche Eduard Limonov è un autore politico interessante, visionario, ma estremamente controverso. Limonov è infatti un eccentrico anarchico di destra e un postmodernista radicale e pertanto il suo pensiero non può essere integralmente annoverato insieme a quello dei cultori dell'eurasiatismo come movimento di opposizione frontale al totalitarismo liberale postmoderno dominante.

  Quali elementi del pensiero di Marx permangono nel KPRF, dopo il rigetto "degli aspetti "universalistici", "messianici" e libertari del marxismo" promosso da Zjuganov (pag. 577)?

  Gennadij A. Zjuganov resta un marxista. Il Kprf (Kommunistìčeskaja Pàrtija Rossìjskoj Federàcii) è un partito marxista-leninista, che ha però operato una profonda revisione in chiave geopolitica, eurasista e nazional-patriottica della tradizione politica marxista. In tal senso, è doveroso parlare di «cambio di pietre miliari» nell'ambito dei riferimenti teorici "classici" del marxismo-leninismo, attuato da Zjuganov nel processo di consolidamento politico del Kprf. In epoca postsovietica la dottrina eurasiatista è entrata prepotentemente a far parte del bagaglio ideologico del Kprf, come ricorda il professor Aldo Ferrari, che scrive: «Per ridefinire l'immagine del partito comunista russo, Gennadij Zjuganov, suo segretario e ideologo, non si è limitato a combinare nazionalismo, ortodossia e marxismo, ma si è ampiamente servito dell'eurasismo come collante ideologico di questa nuova dottrina sincretica» (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell'Eurasia nella cultura russa, op. cit., p. 273). La "nuova dottrina sincretica" zjuganoviana, che inserisce nel proprio pantheon valoriale l'opera di pensatori non certo etichettabili come marxisti quali Konstantin Leont'ev, Nikolaj Trubeckoj e Lev Gumilev, «si oppone tanto all'occidentalismo della nuova dirigenza postsovietica, quanto ad un nazionalismo russo su base etnica e territoriale» (Ivi) e considera l'impero geopolitico eurasiatico «la forma di sviluppo dello Stato russo» (Cit. in L. Ippolito, Zyuganov: "Vi spiego il mio nazional-comunismo", in «Corriere della Sera», 11 giugno 1996). Zjuganov considera infatti la Russia, sulla scorta del lascito dottrinale del leggendario monaco Filofej, l'erede geopolitico e spirituale di Roma e Bisanzio ("Mosca – Terza Roma") e «il nucleo del blocco continentale eurasiatico i cui interessi sono in contrasto con quelli della potenza oceanica americana» (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell'Eurasia nella cultura russa, op. cit., p. 274). Nell'elaborazione delle nuove linee ideologiche del Kprf, la collaborazione politica tra Gennadij Zjuganov e Aleksandr Dugin, realizzatasi tra il 1992 e il 1994, è stata di significativa importanza. Scrive infatti, sul tema, Aldo Ferrari: «Come si vede, in questa piattaforma ideologica [del Kprf] c'è ben poco di comunista e molto di eurasista. Del resto, almeno negli anni 1992-1993 la collaborazione intellettuale tra Zjuganov e Dugin è stata molto stretta e diretta» (Ivi). Zjuganov è un comunista nazional-patriottico e un eurasiatista di sinistra il cui pensiero politico «si caratterizza [...] per una forte tradizione comunitaria, collettivista e statalista» (Ivi). Zjuganov è un anticapitalista radicale in nome dei principi tradizionali della cultura e della storia politica russa e non solo, e non tanto, in riferimento ai dogmi economicisti del marxismo. Per Zjuganov, infatti, «la Russia è un organismo economico estraneo al modello occidentale del "libero mercato"» (Ivi). Zjuganov ha apertamente sostenuto che il capitalismo di libero mercato è «organicamente controindicato» (Ivi) alla Russia. «Il pensiero di Zjuganov [...] prende le mosse dalle "tradizioni del passato", dipinte come un corpus ideologico organico e coerente» (M. Montanari, Saggio introduttivo, in G. A. Zjuganov, Stato e Potenza, a cura di Marco Montanari, Edizioni all'Insegna del Veltro, 1999, p. 26), e presenta il Partito comunista della Federazione russa «come erede dell'intera tradizione storica e culturale russa, non solo sovietica» (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell'Eurasia nella cultura russa, op. cit., p. 273). Zjuganov definisce «idea russa» questo corpus ideologico di riferimenti alla Tradizione dell'immenso Continente-Nazione eurasiatico e afferma che la suddetta «idea russa» in qualche modo «può essere descritta con la celebre troika di Uvarov: "Autocrazia. Ortodossia. Principio nazionale"» (M. Montanari, Saggio introduttivo, in G. A. Zjuganov, Stato e Potenza, op. cit., p. 26). In definitiva, come afferma Aldo Ferrari, «non vi è dubbio che il partito comunista di Zjuganov abbia costituito [...] il principale referente politico del neoeurasismo all'interno della Federazione russa» (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell'Eurasia nella cultura russa, op. cit., p. 275) dopo il 1991. Questi assunti politici di fondo, estremamente rilevanti per comprendere al meglio il «cambio di pietre miliari» attuato da Zjuganov all'interno della tradizione ideologica, politica e culturale del marxismo-leninismo in Russia, sono volutamente occultati dalla storiografia e dalla pubblicistica di sinistra in Italia, perché considerati come elementi passibili di aver determinato uno "slittamento verso destra" del comunismo russo. La sinistra eurocomunista italiana pubblica continuamente dichiarazioni e prese di posizione di Zjuganov sui propri siti telematici ma non fa cenno al cambio di paradigmi operato dal Kprf e dai comunisti russi a partire dagli anni del crepuscolo dell'Urss perché sostanzialmente considera il percorso di revisione del marxismo intrapreso da Zjuganov e dal Partito comunista della Federazione russa una sorta di cedimento ideologico a tentazioni "populistiche" e "nazionalistiche" di destra, estranee agli schemini ideologici novecenteschi relativi al dogma immodificabile della «lotta di classe» come intesa da Marx e Lenin tra la seconda metà del XIX e l'inizio del XX secolo e per cui preferisce non toccare l'argomento, scegliendo di utilizzare la tecnica dello struzzo, che insabbia la propria testa piuttosto che confrontarsi con la realtà circostante. Su questo punto, relativo al tema della lotta di classe, in conclusione, Zjuganov è perentorio. Prendendo atto dei mutamenti intervenuti nella struttura di classe del capitalismo contemporaneo, il presidente del Kprf propugna il ripristino della società organicamente intesa in quanto, afferma, «bisogna "intendere il popolo come un'unica forza integrata"». (L. Ippolito, Zyuganov: "Vi spiego il mio nazional-comunismo", cit.).

  Tale "revisione" del marxismo era in qualche modo già presente, di fatto, nel PCUS?

  Indubbiamente. La revisione "da destra" (una "destra" tradizionalista ed eurasiatista) del marxismo emerse compiutamente negli anni del crepuscolo dell'Urss con la costituzione formale del Partito comunista della Repubblica socialista federativa sovietica russa nel 1990 (rilevante notare come Gennadij Zjuganov fosse il responsabile del Dipartimento ideologico di tale partito) ma le sue tracce erano presenti già in precedenza, nell'ambito del discorso politico dell'intellighenzia russa. Negli anni Settanta del XX secolo, come scrive lo storico Giuseppe Boffa, «per la prima volta nella storia post-rivoluzionaria dell'Urss si registrava col nazionalismo una forte rinascita della "destra" russa» (G. Boffa, Dall'Urss alla Russia. Storia di una crisi non finita, Laterza, 1995, p. 129). Boffa continua la sua argomentazione affermando: «Censura o meno, era più facile nell'Urss degli anni Settanta vedere pubblicati o citati gli autori di destra dell'Ottocento, Konstantin Leont'ev o Vladimir Solov'ev che non Trockij o Rosa Luxemburg» (Ivi, p. 130). Le idee politiche "di destra", nell'Urss degli anni Settanta, non erano propriamente appannaggio in via esclusiva di qualche nostalgico dell'Antico Regime zarista sopravvissuto agli eccidi della guerra civile, bensì di «intellettuali» (Ivi), «operai» (Ivi), «contadini» (Ivi) ed erano diffuse persino «fra i rampolli dei rivoluzionari di ieri» (Ivi). Ciò era dovuto al fatto che il bolscevismo non era riuscito a sradicare completamente, dalla psicologia collettiva dei russi, rimandi e sostrati valoriali propri dell'ancestrale "struttura nazionale russa", tradizionalista, eurasiatista e comunitaria. Essendo sostanzialmente un nazional-bolscevismo teso a concretizzare l'ideale di una rivoluzione nazionale, antifeudale e anticoloniale nell'impero zarista, il bolscevismo aveva al contempo poco interesse a estirpare dall'immaginario collettivo i retaggi tradizionali consolidati. L'adesione di parte delle masse popolari e proletarie russe a quelle che la storiografia di sinistra definiva «idee monarchiche, scioviniste, nazionaliste, oscurantiste di varie tinte» (Ivi) era, già negli anni Settanta del secolo passato, un fenomeno non marginale. A livello di cultura letteraria, la diffusione in Russia di idee politiche in Occidente definite di "destra" si connotava come un fenomeno sorto «in reazione all'urbanizzazione e al persistente ristagno delle campagne, alla riscoperta di antichi valori del mondo contadino» (Ivi, p. 128). Questo moto letterario, con precise connotazioni politiche, fu sostenuto dagli scrittori detti «della campagna» (Ivi). Tra questi, «Rasputin, Belov, Zalygin, Abramov, Mozaev, Suskin, Doros, Tendrjakov, Astaf'ev, Alekseev, Proskurin, Bondarev, Solouchin» (Ivi). Questi scrittori "contadini" elevarono a livello di élite le sensibilità culturali tradizionali delle classi popolari, soprattutto contadine, russe, contribuendo a far emergere dall'oscurità cui il Partito aveva confinato questo originale complesso di valori identitari di matrice spesso premoderna, elementi centrali all'origine del nucleo fondante, contadino, popolare e spirituale, della Tradizione dei popoli di Russia e d'Eurasia. Da notare come le masse rurali in qualche modo legate a stili di vita e a riferimenti culturali premoderni furono tra i principali oppositori del processo di smantellamento dell'Urss e che il Kprf pescherà da questo bacino elettorale tutt'altro che ristretto o marginale, ampi e determinanti consensi che avrebbero contribuito a farne, a metà degli anni Novanta del XX secolo, il partito russo più votato. Infine, va rilevato come la sinergia politica tra gli intellettuali rappresentanti la "Russia profonda", rurale, cristiano-ortodossa e impregnata di valori politici tradizionali e il Kprf fosse suggellata, dopo il 1991, dall'adesione a tale partito del più noto tra gli scrittori "contadini" degli anni Settanta, Valentin Rasputin, un intellettuale e un uomo di cultura precedentemente non iscritto al Pcus.

  Lei definisce Zjuganov "un comunista sostenitore dello Stato" (pag. 583). Quali differenze presenta tale definizione rispetto a quelle di "nazionalcomunista" e "nazionalbolscevico"? Perché il leader del KPRF non può essere definito un "nazionalbolscevico"?

  Preferisco definire Zjuganov un "comunista sostenitore dello Stato" e dell'impero geopolitico eurasiatico per motivi legati alla formazione politica, ideologica e culturale del presidente del Kprf, ma questo non vuol dire che, come la grande maggioranza degli esponenti intellettuali della sinistra italiota, salvo alcune meritorie eccezioni malati di agorafobia intellettuale all'ultimo stadio, prorompa in isteriche urla invocanti cacce alle streghe "rossobrune" nel momento in cui venga a trovarmi a dialettico confronto con chi definisce se stesso, come individuo singolo o soggetto politico, "nazionalcomunista" o "nazionalbolscevico". E mi comporto in tal modo, ossia dimostrandomi interlocutore politico meditativo, per due motivi sostanzialmente. Il primo, perché, in quanto eurasiatista di sinistra scevro da ogni compromissione con la forma mentis eurocentrica, non sono ossessionato dalla categoria concettuale e politico-culturale della "destra" e non vedo in essa l'esemplificazione del "male assoluto"; il secondo perché, leggendo con attenzione il libro di Mikhail Agurskij, La Terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, e le parole più sotto riportate (tratte da M. Montanari, Saggio introduttivo, in G. A. Zjuganov, Stato e Potenza, op. cit., p. 19-20), facendo appello alla ragione e lasciando da parte l'istintivo impulso all'autoconservazione identitaria di una parte politica (la sinistra politically correct nelle sue varie declinazioni, anche quelle che in certo qual modo ancora si richiamano all'eredità del comunismo storico novecentesco) in Italia giunta culturalmente e programmaticamente al capolinea, osservo e comprendo come, sin dai tempi della Rivoluzione d'Ottobre, il nazionalbolscevismo ebbe, in Urss e nel Pcus, un ruolo politico non secondario o marginale: "Nell'Unione Sovietica degli anni '60 il nazionalbolscevismo – definito "partito russo" in un articolo ad esso dedicato alcuni anni or sono dalla rivista Den – godeva dell'appoggio di vasti strati militari di base e di semplici cittadini, con una presenza molto forte nei quadri intermedi del Pcus, nelle alte gerarchie militari, nei sindacati e nel Komsomol, nelle associazioni degli artisti, degli scrittori e degli scienziati. Una "protezione" particolarmente influente era poi assicurata dalla Direzione politica dell'Armata Sovietica, dal Cc del Komsomol di Mosca e dal membro del Politbjuro e presidente del Consiglio dei ministri della Rsfsr Dmitrij Polianskij. Le posizioni del "partito russo", sul finire degli anni '60, furono ampiamente riprese e diffuse dalle riviste Oktjabr, Ogonek, Moskva, Zurnalist, Nas Sovremennik; il ruolo principale, tuttavia, spettò al mensile ufficiale del Komsomol, Molodaja Gvardija, che ospitò i saggi più esplicitamente nazionalisti e che fu protagonista di un memorabile scontro politico-letterario con Novyj Mir, rivista di tendenze "liberali" diretta dallo scrittore Aleksandr Tvardovskij". Il Kprf, pur non essendo un partito "nazionalbolscevico" in quanto organizzato secondo una partizione pluralistica interna che vedeva convergere tre tendenze ideologiche diverse (riformisti "postgorbacioviani", zjuganoviani e una sinistra marxista-leninista interna, con i secondi quali componente maggioritaria nel partito) ma una soggettività politica dichiaratamente comunista che definiva se stessa «il partito del patriottismo e del socialismo», partecipò, nel 1992-'93, all'esperienza coalittiva del Fronte di salvezza nazionale (Fsn), «blocco unitario dell'opposizione a Eltsin» (Ivi, p. 16), alleanza politica considerata «nazional-comunista» (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell'Eurasia nella cultura russa, op. cit., p. 271) dalla storiografia occidentale. Tra il 1992 e il 1993, oltre alla già citata collaborazione politica con il principale teorico russo del neoeurasiatismo, Aleksandr Dugin, Zjuganov (così come l'allora suo vice, Egor Ligaciov) ebbe modo di incontrare, a Mosca, importanti esponenti politici della "destra" nazionaleuropea e della Nuovelle droite, tra cui Jean-François Thiriart, Robert Steuckers, Claudio Mutti e Alain de Benoist. In Italia, per un certo qual periodo temporale, segnatamente tra il 1992 e il 1993, furono due riviste di orientamento nazionalcomunista, Orion e Origini, a fungere da rappresentanti ufficiali dell'opposizione unificata russa, coalizione di cui Zjuganov era copresidente. Ciò non significa che Zjuganov abbia pedissequamente aderito alla filosofia politica propria del thiriartismo o della Nouvelle droite, ma nemmeno è possibile negare strumentalmente che l'interesse dimostrato dal presidente del Kprf nei confronti di tali soggettività politiche rientrasse a pieno titolo nell'ambito di quel percorso di «cambio di pietre miliari» inaugurato da Zjuganov, per il comunismo russo, all'indomani della catastrofe geopolitica meglio nota come "crollo dell'Urss".

  Come sono i rapporti tra il KPRF e la Chiesa ortodossa russa?

  Molto buoni. E ciò rappresenta la più importante e meritoria delle innovazioni ideologiche e politiche apportate da Zjuganov al comunismo russo. Il 24 giugno 2014, il Patriarca Kirill I di tutte le Russie ha insignito Gennadij Zjuganov dell'onorificenza ecclesiastica "Gloria e Onore". Kirill I disse a Zjuganov, nell'occasione: «Essendo uno dei più noti politici della Russia attuale, lei si preoccupa del benessere del popolo e di difendere i valori morali tradizionali». Zjuganov è un comunista russo assai rispettoso della tradizione cristiano-ortodossa e ha tenuto più volte a precisare che il Kprf è il partito dell'ateismo scientifico ma non dell'ateismo militante. «Per Zjuganov la fede ortodossa è un baluardo morale che "conferisce all'anima della nazione un inesauribile equilibrio interiore» (L. Ippolito, Zyuganov: "Vi spiego il mio nazional-comunismo", cit.). Zjuganov «riprende la teoria enunciata nel XV secolo dal monaco Filofeo, autore della celebre profezia riassunta dalla formula "Mosca la terza Roma"» (M. Montanari, Saggio introduttivo, in G. A. Zjuganov, Stato e Potenza, op. cit., p. 27) e considera centrale, assai più della dicotomia eurocentrica destra/sinistra, la categoria concettuale filosofica della Translatio Imperii, ossia «il passaggio della derzava [trad. it., "potenza nazional-imperiale"] dai cesari romani, ai basilei bizantini, agli zar russi» (Ivi). Zjuganov teorizza, assai propriamente, che non vi può essere «narodnost (principio nazionale)» (Ivi) al di fuori della spiritualità ortodossa declinata in senso propriamente politico (e geopolitico). Zjuganov inserisce la rivalutazione della spiritualità ortodossa, in luogo del materialismo dialettico di sovietica memoria, nel contesto del summenzionato «cambio di pietre miliari» del comunismo russo. Secondo Zjuganov, «alla Chiesa ortodossa russa è assegnata la funzione di collaborare al progetto di rinascita politico-religiosa della Grande Russia» (Ivi). Avendo capito perfettamente che, in Russia, non può esservi patriottismo al di fuori e contro la spiritualità ortodossa, Zjuganov, come scrive Marco Montanari (Ivi, p. 26), ha parlato espressamente della necessità politica di una nuova alleanza tra forze nazionali eterogenee, nell'ambito di un contenitore politico (Fronte nazionale delle forze patriottiche di Russia) comprendente comunisti e patrioti nazional-capitalisti e nazional-religiosi russi, all'insegna della coalizione tra soggettività tradizionaliste, ispirate a valori ideologici e politici premoderni quando non direttamente antimoderni, e soggettività ispirate a valori ideologici e politici propri della Modernità, della riconciliazione tra "bianchi" e "rossi" in funzione di contrasto al cosmopolitismo americanocentrico, al liberalismo postmoderno e ai processi di occidentalizzazione e scristianizzazione neoconsumistica della Russia: "Zjuganov [...] intende ricucire lo strappo prodottosi tra patrioti "bianchi" e "rossi" ai tempi della rivoluzione d'ottobre: i comunisti, a suo avviso, devono mostrarsi capaci di riunire la salvaguardia della Tradizione ed il recupero "delle migliori realizzazioni del periodo sovietico"; fine ultimo deve essere la costituzione di un ampio fronte popolar-patriottico, che comprenda le forze di ispirazione comunista, i capitalisti "patrioti" e la gerarchia ortodossa, e che si dimostri capace di restaurare nella sua passata potenza lo Stato russo lungo le direttrici ideologiche di una "filosofia patriottica unitaria", di fatto coincidente con il "neo-populismo" zjuganoviano". Il patriottismo "zjuganoviano" intende dunque annoverare, sotto la bandiera dell'«idea russa» e del Fronte nazionale delle forze patriottiche di Russia, i comunisti "sostenitori dello Stato", rappresentanti delle classi popolari, contadine e proletarie "sradicate" e "sconfitte" dall'incedere travolgente dei processi di globalizzazione, l'imprenditoria nazionale socialmente orientata da un approccio patriottico alla gestione dell'economia russa e il clero e i credenti ortodossi contrari alla disgregazione consumistica e individualistica del tessuto sociale nazionale. La storia russa è infatti interpretata da Zjuganov come un'incessante guerra politica tra patrioti e russofobi, tra fautori del "partito del nostro paese" (i patrioti) e del "partito di questo paese" (i cosmopoliti) e per questo motivo, per rimarcare la sua adesione al campo patriottico sostenitore dell'«idea russa», il presidente del Kprf, un nemico dichiarato del nazionalismo etnico e dello sciovinismo, ha in un'occasione definito se stesso un russo «puro come acqua di fonte». In questo senso, ancora nella primavera del 2015, Zjuganov ha espressamente domandato a "Russia Unita" il via libera alla formazione di un governo di unità nazionale comprendente il "partito del potere" putiniano, il Kprf, il partito socialdemocratico "Russia Giusta" e i nazional-populisti di Vladimir Zhirinovskij (Ldpr).

  Come si spiega la contiguità di Eduard Limonov "con l'azione protestataria delle formazioni politiche filoccidentali, riunite sotto il cartello "arancione" (pag. 646)?

  Eduard Limonov è un personaggio assai controverso. Sostanzialmente, è un anarchico e un istrione e come tale si presenta e agisce. Gode di vasta popolarità sui media neoliberali occidentali, dove spesso vengono ospitate sue interviste e articoli a lui dedicati. La sua fama di poliedrico letterato ha varcato da tempo i confini nazionali. Oggi Limonov è l'icona pop celebrata dalla biografia romanzata scritta da Emmanuel Carrère (Limonov, Adelphi, 2012). In questa sede però non vorrei occuparmi soltanto del Limonov "personaggio mediatico" o del narcisismo di questo soggetto bensì del Limonov più propriamente politico. Eduard Limonov, oppositore sedicente nazionalbolscevico di Gorbaciov e Eltsin, fu accusato di essere un fascista a seguito di alcune sue esternazioni, tra tutte questa, pubblicata sulla rivista Limonka nel 1996 e ripresa nel testo di Sergej Kulesov e Vittorio Strada, Il fascismo russo (p. 103-104): "Chi ha bisogno del fascismo in Russia? La risposta può sembrare strana: tutti. La società sussulta in uno stato di allarmata agitazione ogni volta che nei mezzi di comunicazione di massa si fa semplicemente menzione del fascismo [...]. Gli insensibili cittadini russi, capaci di reagire soltanto ad avvenimenti ultrascioccanti, particolarmente cruenti e particolarmente crudeli, in realtà hanno voglia che arrivino i fascisti, terribili, giovani, scattanti e risolvano tutte le questioni. L'uomo della strada ha voglia che i fascisti (sì, è vero, ne ha paura e vota ancora contro di loro, ma in sogno vede loro, tanto li desidera) arrivino e mettano ordine. Che una pimpante musica eroica e vessilli sgargianti risveglino il suo sonno di uomo qualunque. Sogna di far diventare il figlio un fascista e di dare la figlia in moglie a un fascista. Il pigro e fiacco uomo della strada saluterà con soddisfazione il calcio nel sedere che gli farà drizzare la schiena, gli darà una carica d'energia e lo richiamerà alla vita. Le giovani donne di Russia sognano uomini veri che sterminino i banditi, sbattano via i bottegai briachi e i mostruosi businessmen panciuti. Finalmente si potrà essere orgogliosi di un maschio e, stringendo una mano forte, passeggiare con lui, fascista armato, per le vie delle città russe di notte. Ed al mattino restarne felicemente incinte [...]. Anche l'Occidente sarà del tutto soddisfatto. Tra tutti i nostri leader essi non hanno deriso soltanto il più serio: il Cesare Iosif Stalin. Ne adoravano segretamente gli stivali, i baffi, la pipa, il berretto e le stelle di generalissimo e, come bambini che hanno commesso una birichinata, sognavano che il severo padre dei popoli si degnasse di sculacciarli. L'Occidente si scioglierà in estasi, se in Russia trionferà un giovane ordine, bello e severo, una belva rapace senza carne superflua. La democrazia in effetti ha talmente sfinito tutti, ha talmente scioccato tutti come l'immancabile pappa dell'asilo che il fascismo va bene a tutti [...]. Il fascismo va bene a tutti e serve a tutti. La Russia lo attende con trepidazione come l'unico promesso sposo forte, bello, sia pure anche «rischioso», è atteso in una casa devastata. Egli annienterà i nemici, con le sue giovani mani metterà su la casa tra canti pieni d'energia e nella casa ci saranno tanti figli, tanta forza, tanta felicità. Nessun altro sposo saprà venire a capo della situazione". Questo saggio di Limonov venne definito «un bell'esempio di prosa artistica fascista russa» (Ivi, p. 103) ma a me sembra più che altro un esercizio stilistico di retorica letteraria postmodernista, con ampi rimandi all'identità sessuale, confusa e ridondante, dell'autore. Una provocazione intellettuale capace però di cogliere alcune verità. Negli anni Novanta del XX secolo in Russia la "democrazia" d'importazione occidentale, mai del tutto metabolizzata come modello politico cui affidarsi entusiasticamente dalle componenti più propriamente provinciali della società politica nazionale, era divenuta profondamente invisa alle classi popolari e alle fasce sociali periferiche, conservando un bacino di utenza quasi soltanto tra la classe media privata e affascinata dall'american way of life di Mosca e San Pietroburgo, nonché tra i businessmen arricchitisi con la speculazione e il ladrocinio dopo il 1991. La democrazia di libero mercato e di libero desiderio consumistico aveva gettato nel baratro della terzomondizzazione l'intera Russia, ridotta al rango di provincia coloniale degli Usa, e si sostentava soltanto grazie ai dollari e al potere di fuoco multimediale di cui disponevano gli oligarchi (robber barons filoccidentali alleati tatticamente con il regime di amministrazione fiduciaria di Boris Eltsin). Di fronte a questa situazione di disintegrazione delle strutture portanti dello Stato federale e di annichilimento della dignità nazionale di un Paese bicontinentale a vocazione imperiale, era comprensibile che qualche intellettuale o uomo politico particolarmente eclettico potesse paventare scorciatoie miracolistiche a tinte autoritarie per risollevare la patria dalla catastrofica condizione cui era stata precipitata da una casta di speculatori senza scrupoli e totalmente spregiatori di ogni retaggio politico che non fosse la mera acquisizione di denaro, a qualunque costo e con ogni mezzo. Ipotesi autoritarie per arginare lo sfacelo nazionale furono avanzate, negli anni Novanta, non solo da pittoreschi scrittori d'avanguardia come Limonov, ma anche da austeri ufficiali delle bistrattate e vilipese Forze armate federali, come il generale Aleksandr Lebed' (in seguito alleatosi con Eltsin in funzione anticomunista). Persino i civili furono propensi, a un determinato punto della storia della Russia postsovietica, a invocare la soluzione autoritaria per ovviare al rischio, concreto, di disgregazione territoriale del Paese. In tal senso, nel 1998, nel caos derivato dal default del debito sovrano russo, ebbero a pronunciarsi, in successione, i primi ministri Cernomyrdin e Primakov. Le esternazioni di Limonov dovevano pertanto essere contestualizzate nell'ambito di un panorama politico interno talmente devastato, sotto ogni profilo, da aver indotto studiosi e accademici di sinistra, come Michel Chossudovsky, ad affermare che, nel 1995, la condizione sociale interna della Russia postsovietica era paragonabile a quella del 1941-'43, ossia a quella caratterizzante la fase dell'occupazione nazista della parte europea dell'Urss. Nel momento in cui Limonov invoca una soluzione autoritaria ai drammi nazionali occorsi alla Russia dopo il 1991 e poi si diletta, a fianco degli screditati e minoritari neoliberali filoccidentali Kasparov e Kasyanov, nel ruolo di oppositore del processo di ristrutturazione patriottica avviato da Putin, rischia fortemente di veder svanito il proprio potenziale politico critico di "sovversivo di destra", pungolo "nazionalbolscevico" postmoderno dei non saltuari cedimenti "putiniani" al compromesso oligarchico e alla politica di collaborazione con gli Usa, per divenire una specie di caricatura di se stesso. Negli ultimi tempi Limonov deve aver preso atto di questo suo contraddittorio, ma fruttuoso in termini di riscontro mediatico in patria e fuori, soprattutto in Occidente, atteggiamento di oppositore di Putin da posizioni sedicenti nazionalbolsceviche ma in collaborazione con i fiduciari degli interessi euroatlantici in Russia e, particolarmente dopo l'innesco della crisi ucraina, si è ricollocato su posizioni maggiormente contigue al Cremlino, lasciando intendere di voler abbandonare i suoi vecchi compagni di strada del centrodestra e del centrosinistra pro-Usa e pro-Ue. Nonostante i suoi eccessi verbali, come quelli alla citazione più sopra riportata, Limonov non può essere considerato un fascista e questo perché egli rifiuta categoricamente ogni prospettiva nazionalista declinata in senso etnicista e/o razzista. Limonov ha perfettamente presente il fatto che il patriottismo russo non può che esprimersi secondo criteri geopolitici, spirituali, socialisti e imperiali e non esita a riconoscerlo apertamente, come dichiara in una sua intervista, pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera (8 febbraio 2015): "[Noi russi] non siamo più nazionalisti di francesi o tedeschi. Siamo una potenza più imperiale che nazionalista [...]. In Russia vivono più di 20 milioni di musulmani, ma non sono immigrati, sono qui da sempre. Noi siamo anti-separatisti. Certo, in Russia c'è anche un nazionalismo etnico, per fortuna minoritario, ma per noi significa soltanto guai. Io non sono un nazionalista russo, non lo sono mai stato. Mi considero un imperialista, voglio un Paese con tante diversità ma riunito sotto la civiltà, la cultura e la storia russe. La Russia può esistere solo come mosaico". Limonov sostiene senza mezzi termini che il nazionalismo etnico costituisce un pericolo per la sopravvivenza della Russia come entità geopolitica plurinazionale, plurilinguistica e multireligiosa, a vocazione culturale e storica "imperiale", e condanna quest'ideologia politica, definendola portatrice di sciagure per la Russia. In Russia infatti i settori etnonazionalisti del quadro politico interno sono largamente minoritari e si situano all'opposizione di Putin. I loro programmi politici spesso convergono con i progetti statunitensi di disarticolazione, su linee etnoconfessionali, dell'area geopolitica ex sovietica. Limonov non ha nulla a che fare con l'estrema destra etnonazionalista e, in definitiva, nemmeno con le più coerenti correnti neoeurasiatiste. Limonov è un "anarchico di destra", un "nazionalbolscevico" postmoderno e, soprattutto, un narcisistico e scapigliato punker al cui pensiero politico, peraltro interessante e condivisibile sotto alcuni, limitati ma non marginali, aspetti, soprattutto relativi alla critica radicale della perestrojka gorbacioviana e degli anni contrassegnati dal regime di Eltsin, viene concesso ampio spazio dal "circo mediatico" occidentale.

 

15 luglio 2015

Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA