In lode della Guerra fredda. Intervista con Sergio Romano Stampa E-mail

In lode della Guerra fredda

Intervista con Sergio Romano

a cura di Francesco Algisi

 

romano guerrafredda  Sergio Romano (Vicenza, 1929) ha iniziato la carriera diplomatica nel 1954. Dopo essere stato ambasciatore della NATO e, dal settembre 1985 al marzo 1989, ambasciatore a Mosca, si è dimesso. In qualità di storico si è occupato prevalentemente di storia italiana e francese tra Otto e Novecento. Ha insegnato a Firenze, Sassari, Berkeley, Harvard, Pavia e, per alcuni anni, all'Università Bocconi di Milano. È editorialista del Corriere della Sera (sulle cui colonne, in diretto contatto con i lettori del quotidiano, cura la pagina delle lettere) e del settimanale Panorama. Autore di numerosi volumi, ha recentemente pubblicato "In lode della Guerra fredda" (Longanesi, pagg.140, € 16,00), una controstoria della "pace più lunga del continente euroasiatico dai trattati di Vestfalia ai nostri giorni", durante la quale, almeno in quattro occasioni, "fummo pericolosamente vicini al "ciglio dell'abisso", secondo l'espressione usata da un segretario di Stato americano, John Foster Dulles. Ma riuscimmo sempre, da una parte e dall'altra, a fare un passo indietro".

  Prof. Romano, quale tra le due superpotenze – Usa e Urss - mostrò di trovarsi maggiormente a proprio agio negli equilibri della Guerra fredda?

  Naturalmente l'Urss, soprattutto perché aveva un governo che non era tenuto a rendere conto della sua politica alle componenti più bellicose e militariste della società sovietica. Nel contesto del regime sovietico, queste componenti non assunsero mai un rilievo pari a quello dei "falchi" all'interno degli Stati Uniti. Nelle democrazie, inoltre, i governi devono sempre tener conto delle posizioni dei gruppi di opposizione alla loro politica.

  Lei scrive che "Durante la Guerra fredda alcuni interventi aggressivi in un'area [il Medio Oriente] molto più vicina alla Russia che agli Stati Uniti sarebbero stati impossibili" (pag.74). Israele, quindi, può aver tratto vantaggi dalla fine della Guerra fredda?

  Nel corso della Guerra fredda, gli Stati Uniti in particolare avevano interesse a evitare che le crisi mediorientali aprissero dei varchi a favore della politica dell'Unione sovietica nella regione. Perciò, nel 1973, durante la Guerra del Kippur, Kissinger fu molto attivo per indurre a una tregua i combattenti. Il problema era diverso per l'Unione Sovietica, che, dalla guerra del 1967 in poi, seppe sfruttare molto abilmente i movimenti nazionalisti antioccidentali del mondo arabo. Mosca, pertanto, in talune circostanze era meno propensa a cercare soluzioni pacifiche.

  Perché è tanto diffusa – come si legge a pag.83 – "non soltanto a Washington, la convinzione che la Russia" sia "un vecchio nemico di cui occorre[va] diffidare, non un possibile partner"?

  Innanzitutto perché obiettivamente la Russia ha avuto una storia alquanto diversa da quella dell'Europa occidentale: è arrivata tardi a far parte del concerto delle nazioni (un imperatore russo a Parigi non si era mai visto prima del 1814). È vero però che nei decenni successivi la Russia prese parte alla storia europea. Tuttavia, sul piano culturale, sussistono alcune differenze risalenti addirittura alla divisione fra Impero romano d'Occidente e Impero romano d'Oriente. La Russia si è sempre sentita l'erede del secondo. Ne sono esempi l'idea di "Terza Roma", la religione ortodossa diffusa nei grandi territori russi soprattutto da missionari provenienti dal mondo greco (Cirillo e Metodio, per esempio) e lo stesso alfabeto russo che presenta una stretta parentela con quello greco. Le due storie, insomma, sono state diverse. E lo sono state anche le rispettive società: dipendenti l'una dall'altra quelle dell'Europa occidentale; molto più autonoma e soprattutto condizionata dalla sua antica esperienza con l'era mongola (l'invasione dell'Orda d'oro) la società russa. Le due storie, pur diverse, si sono assai frequentemente incrociate: pensiamo, per esempio, alla rivalità anglo-russa per la Persia e per l'Afghanistan, risolta infine politicamente e diplomaticamente, segno che il dialogo tutto sommato c'era. Occorre riconoscere - senza drammatizzare - che le due esperienze sono state troppo diverse perché potesse facilmente stabilirsi una reciproca fiducia tra la Russia e l'Occidente. Esiste in quasi tutti i Paesi occidentali un pregiudizio antirusso di origini storiche e religiose, alimentato spesso da luoghi comuni (i cosacchi a San Pietro, per esempio) che hanno sempre avuto una presa sulla società occidentale. La Russia è percepita come un nemico anche perché il suo modo di combattere sarebbe più "inumano" di quanto non sia quello occidentale: mi sembra molto difficile dimostrarlo, ma certamente le differenze ci sono. Talvolta queste vengono enfatizzate da quei governi che hanno bisogno di scatenare gli umori delle loro opinioni pubbliche. Pensiamo, per esempio, al modo in cui la Germania nazista ha demonizzato la Russia bolscevica. E questo è rimasto depositato nella memoria.

  Alla fine della Guerra fredda, Bush e Gorbaciov raggiunsero un'intesa in base alla quale – come disse James Baker – "la Russia rinuncerà alla sua egemonia sull'Europa orientale, gli Stati Uniti non ne approfitteranno per estendere la loro influenza politica sulla regione" (pag.95). Perché gli Usa hanno poi "tradito" lo spirito di quell'accordo?

  Va detto che quell'intesa fu soltanto verbale e non fu mai scritta. Quindi, non sono del tutto certo che una delle condizioni dell'accordo prevedesse la rinuncia da parte della Russia all'egemonia sull'Europa orientale. Comunque, non sarebbe stata posta in questi termini. Era già un fatto molto significativo (e indicativo di una politica diversa) il ritiro delle truppe sovietiche da tutti i Paesi satelliti dell'Urss. Di fronte a questo atteggiamento positivo assunto dai sovietici, Baker e lo stesso Bush senior presero impegni verbali (solo verbali, purtroppo) a non estendere i dispositivi della Nato al di là della vecchia frontiera delle due Germanie. Questa fu la "concessione" che gli Stati Uniti fecero all'Urss per facilitare la riunificazione tedesca. Ciò avvenne in circostanze ufficiali, alla presenza di testimoni come l'ambasciatore americano a Mosca, Jack Matlock, il quale successivamente ha spesso ricordato l'impegno preso da Baker e Bush nei confronti di Gorbaciov.

  Lei considera un errore le misure adottate da Putin nei confronti delle "associazioni umanitarie e liberali" (pag.97). Questo "errore" non si spiega però con il fatto che nei Paesi dell'ex blocco sovietico le ONG sono state coinvolte, con un ruolo tutt'altro che marginale, nelle "rivoluzioni colorate"?

  Sì, questo in effetti è accaduto. Soros fu uno dei primi ad approfittare - tra l'altro in modo per molti aspetti utile e nobile - del crollo del sistema sovietico per estendere l'attività della sua fondazione "Open Society" ai Paesi ex-sovietici. Già nel 2004, all'epoca della rivoluzione arancione in Ucraina, ebbi l'impressione che vi fosse stato un sostegno materiale, non soltanto morale, ai manifestanti di piazza Maidan. Qualcosa del genere era successo in Serbia relativamente poco tempo prima, quando Milosevic fu espulso dal sistema politico serbo in seguito a grandi manifestazioni popolari che mostravano un'organizzazione e una strategia. Se in una piazza piena di manifestanti ci sono le tende montate per rifocillare gli attivisti e i lettini per agevolarne il riposo notturno, l'impressione è che la spontaneità sia stata, per così dire, favorita e organizzata. Conoscendo la sospettosità dei russi, credo che a loro questo abbia dato molto fastidio. Insomma, può essere data una spiegazione razionale della diffidenza russa.

  Un altro "errore" che rimprovera a Putin riguarda il riconoscimento dell'Ossezia meridionale e dell'Abcasia nel 2008 (cfr. pag.98)...

  L'occupazione russa dell'Ossezia risale al 1992, allorché la Georgia (un piccolo Stato multinazionale, suddiviso tra settori di popolazione molto legati alla Russia, e altri caratterizzati da un dinamico nazionalismo georgiano) faceva molta fatica a trovare un equilibrio interno. Quando il presidente georgiano Saak'ashvili tentò la riconquista dell'Ossezia meridionale nel 2008, quindi, i russi c'erano già da parecchio tempo. I Paesi del Caucaso presentano quasi tutti una composizione sociale non omogenea. La Russia, sin dai tempi dell'Orda d'oro, ha sempre temuto l'insicurezza dei propri confini: ciò l'ha spinta a estendere il più possibile le sue frontiere verso l'esterno, inglobando nel proprio territorio società e regioni in cui il grado di multinazionalità era (ed è) particolarmente alto. Detto in termini un po' sommari, la Russia parte dalla constatazione che questi Paesi – la Georgia, l'Azerbaigian o talune repubbliche autonome all'interno della Federazione russa – non saranno mai una Svizzera, vale a dire non avranno mai le caratteristiche di un piccolo Paese geloso della propria identità, eterogeneo sotto il profilo nazionale, ma legato da una storia comune, da un sentimento nazionale molto forte, deciso a difendere se stesso e provvisto dei mezzi per farlo. Se Hitler avesse invaso la Svizzera, probabilmente l'avrebbe alla fine sconfitta, ma avrebbe pagato un prezzo molto alto. Se, dunque, i Paesi del Caucaso non saranno mai "Svizzere", i casi sono due: o si legheranno alla Russia da un rapporto di dipendenza (che potrà assumere forme molto diverse) o dovranno cercarsi un protettore altrove. La Georgia, tra gli altri, questo protettore lo ha trovato negli Stati Uniti. Quando Saak'ashvili, nel 2008, decise la "liberazione" dell'Ossezia del sud e sferrò l'attacco, non poteva ignorare che la consistenza delle forze armate georgiane l'avrebbe condannato a una disfatta se si fosse arrivati a uno scontro serio. Evidentemente pensava che il protettore l'avrebbe protetto: invece questo non è accaduto, perché aveva fatto male i calcoli (o forse era stato mal consigliato: lo diranno un giorno i documenti).

  L'Unione sovietica, si legge a pag.104, "fu sconfitta dalle riforme di Gorbaciov". L'intervento in Afghanistan non ebbe un ruolo determinante nel crollo dell'Urss?

  Fu uno dei fattori, ma da solo probabilmente non avrebbe potuto determinare la caduta dell'Impero sovietico. Ve ne furono molti altri. Le riforme gorbacioviane furono tra i fattori che maggiormente indebolirono il sistema sovietico. In Afghanistan ci fu la solita crisi delle insicurezze reciproche. Fu Gromyko, in particolare, l'uomo che si batté per l'intervento militare, convinto com'era che l'instabilità dell'Afghanistan - che tra l'altro aveva già un regime comunista, indebolito però dagli aspri dissidi interni tra filosovietici e filocinesi - avrebbero favorito l'Occidente e l'India. Aveva dei timori un po' viscerali e politicamente imprecisi. Poi quello che maggiormente contribuì all'intervento sovietico in Afghanistan fu un errore di calcolo che altri governi e altri uomini politici – anche sovietici, intendiamoci – avrebbero forse evitato: la convinzione che sarebbe stata un'operazione di breve durata e risolutiva (una passeggiata, insomma). Fu un errore. A partire da quel momento la guerra impose la propria logica, impantanando le truppe sovietiche sul territorio afghano per un decennio. A quell'errore, poi, fu risposto con un altro errore: gli aiuti dati dagli Stati Uniti e da altri Paesi all'islamismo radicale. È il meccanismo diabolico degli errori che si sommano.

  Gromyko, tra l'altro, vide "dietro i bisticci della classe dirigente afghana un disegno ostile dell'Iran" (oltre che del Pakistan, della Cina e degli Stati Uniti)...

  Io ebbi piuttosto l'impressione opposta, cioè che l'Urss fosse stata indotta ad agire in Afghanistan anche nella convinzione che non vi sarebbe stata una reazione iraniana. L'Iran ha un evidente interesse "afghano": nell'Afghanistan occidentale, vivono gruppi di popolazione legati a Teheran da rapporti molto stretti. Tuttavia, in quel frangente (dicembre 1979), gli iraniani erano alle prese con disordini interni e per l'Urss, nella percezionale sovietica, non sarebbero stati un problema.

  Riguardo alla sconfitta dell'Urss nella Guerra fredda, lei scrive che gli Usa "potevano certamente vantarsi di avere offerto proposte migliori, anche se spesso discutibili" (pag.105). A che cosa si riferisce?

  Mi riferisco soprattutto al fatto che, indipendentemente da Gorbaciov, si stava diffondendo in Unione sovietica la convinzione che il sistema non stesse mantenendo le promesse fatte. Negli anni Sessanta, i sovietici erano convinti che il loro modello fosse vincente. Quindici/vent'anni dopo, era chiaro che non era così: un certo malumore diffuso e una certa rassegnazione erano ormai dominanti nella società sovietica. Vi è un'altro aspetto piuttosto interessante: l'Urss fu per decenni il grande Paese della rivoluzione, cui avevano guardato con speranza milioni di persone nel mondo. A un certo punto, negli anni Settanta/Ottanta il mondo assistette a un'altra rivoluzione: quella delle nuove tecnologie (l'informatica, la robotica, il laser). Da questo processo l'Urss era escluso. Probabilmente ciò che più colpì i sovietici e si impose come verità a cui bisognava dare una risposta fu l'Iniziativa di difesa strategica intrapresa da Ronald Reagan nel 1983, lo scudo spaziale noto anche popolarmente come "guerre stellari". Gli Stati Uniti, accingendosi a realizzare quel progetto che peraltro non portarono mai a termine, dimostrarono che la grande rivoluzione tecnologica degli anni precedenti avrebbe avuto anche ricadute di tipo militare. In tal modo, si sarebbero resi invulnerabili. E un Paese invulnerabile è sempre soggetto alla tentazione di colpire per primo. Ciò contribuì ad accrescere quel sentimento di sfiducia nel futuro del sistema sovietico che fu il motore delle riforme di Gorbaciov. Se si parte dal presupposto che le riforme sono essenziali per la sopravvivenza dello Stato, ma poi non si riesce a realizzarle, la crisi è inevitabile.

  La Guerra fredda costrinse "i due campi [...] a comportarsi responsabilmente" (pag.107): fu questo il suo merito principale?

  Direi proprio di sì. Due Paesi che si erano trovati sull'orlo di un conflitto in molteplici circostanze (dalla crisi dei missili cubani al Muro di Berlino, e così via) cominciarono a comportarsi responsabilmente, raggiungendo accordi tendenti a escludere lo scontro. Non sarà quella ideale sognata dai pacifisti, ma tutto sommato la chiamerei "pace".

  A proposito del Kosovo, lei non sembra convinto della nobiltà dell'intervento "umanitario" per "salvare" gli albanesi kosovari (cfr. pag.110)...

  Ancora prima degli accordi di Dayton (1995), si sarebbero potute trovare svariate soluzioni per il Kosovo (che non è uno Stato). Invece ho sempre avuto l'impressione che lo scontro con la Serbia fosse desiderato: perciò i "nemici" di Belgrado diventarono gli amici di coloro che, nel campo occidentale, desideravano lo scontro con i serbi. Non dimentichiamo che all'incontro di Rambouillet, che precedette l'ultimatum alla Serbia sulla base del quale si giustificò l'intervento nella guerra del Kosovo, la signora Albright, allora segretario di Stato, fece intervenire i rappresentanti della resistenza kosovara senza consultare gli alleati. Così facendo li legittimò e fece poi una guerra per "liberarli". Alla fine al Kosovo fu concessa l'indipendenza.

  "Se nella crisi ucraina – scrive a pag.117 - vi è ancora la speranza di un'intesa, questa dipende in buona parte dall'esistenza degli arsenali nucleari"...

  Ciò che mi ha maggiormente colpito, negli ultimi anni, è il fatto che l'Occidente sembra avere dimenticato gli arsenali nucleari. Alla fine della Guerra fredda i timori del ricorso all'arma nucleare erano evidenti: furono perciò stipulati diversi accordi per evitare che l'atomica finisse in mani irresponsabili. Con l'accordo di Budapest, l'Ucraina – di cui era nota la potenziale instabilità - fu indotta a sbarazzarsi delle armi nucleari dislocate sul suo territorio. Sono convinto che uno dei motivi per cui siamo riusciti ad attraversare gli anni della Guerra fredda senza veri e propri rischi di conflitto fu la consapevolezza che una guerra nucleare non si può vincere; anzi esiste il rischio di uscirne tutti morti. Improvvisamente questa preoccupazione si è dissipata, è scomparsa dal linguaggio internazionale. Quando gli animi si sono surriscaldati nella vicenda ucraina, i russi hanno ricordato l'esistenza delle armi nucleari. E naturalmente questo è parso immediatamente una prova della loro irresponsabilità e della loro ingordigia territoriale. A me, al contrario, è parso un ritorno alla realtà.

  A pag.29 lei scrive che Fidel Castro divenne "comunista" solo quando si rese conto che Cuba "sarebbe stata indipendente soltanto se avesse avuto un protettore potente e lontano". Fu quindi una "conversione" al comunismo per convenienza?

  In un certo senso sì. Ho sempre pensato che Castro fosse l'ultimo dei libertadores. Cuba era l'unico Paese latino-americano che non aveva mai conquistato l'indipendenza, se non un'indipendenza formale in seguito alla guerra vinta dagli Stati Uniti contro la Spagna. Gli Stati Uniti non avevano mai nascosto il desiderio che Cuba dovesse avere con Washington un rapporto ancillare, da Paese satellite, un luogo di divertimenti e destinato alla presenza di società americane nei pochi settori dell'economia cubana idonei a essere sviluppati. Inoltre, nel corso della sua storia, Cuba ebbe per parecchi anni una costituzione in cui c'era una clausola che autorizzava espressamente l'intervento militare americano in circostanze in cui l'isola fosse stata politicamente instabile (gli interventi americani furono tre o quattro). Gli Stati Uniti ottennero anche una base (Guantanamo) che mantengono tuttora. Castro fu un libertador, un leader motivato da una piattaforma irredentista e indipendentista, non ideologica. Gli americani avrebbero anche potuto accorgersene – non era poi così difficile – e avrebbero potuto costruire con Cuba un rapporto diverso, ma pur sempre conveniente a entrambi. E invece si sono lasciati imprigionare in una spirale completamente diversa. Castro in seguito sembra essere diventato comunista sul serio. In realtà ho sempre avuto l'impressione che il comunismo fosse l'abito che meglio gli avrebbe conferito una originalità politico-ideologica. Un messaggio ideologico chiaro giovava al regime che stava creando. In seguito – soprattutto dopo il tentativo fallito della Baia dei Porci –, ebbe bisogno di protezione. I russi lo sapevano e mandarono Mikoyan a Cuba. Alla fine raggiunsero l'accordo che ebbe le conseguenze note: l'installazione dei missili sovietici, etc. etc.. Il modo in cui finì quella crisi ebbe per effetto di rafforzare la dipendenza di Cuba dall'Unione sovietica. La crisi, infatti, si risolse con un compromesso fra Stati Uniti e Unione sovietica, in cui vi era una clausola, da Krusciov strappata a Kennedy, con cui gli Usa si impegnavano a non violare più l'integrità del territorio cubano. Per un Paese come Cuba, insomma, era fondamentale avere un protettore e lo trovò nell'Urss, divenuta in seguito anche il maggiore partner economico del regime di Castro. I sovietici sostennero l'economia cubana, giustificando così l'esistenza, per l'isola, di un rapporto di semi-dipendenza.

  Perché gli Usa non sono in grado di esercitare la leadership (cfr. pag.123)?

  Il sistema politico americano è molto particolare. Il termine "governo" non ha lo stesso significato sulle due sponde dell'Atlantico. Quando si parla di governo in Gran Bretagna, in Germania, in Francia, in Italia o in Spagna, si intende l'esecutivo. Negli Stati Uniti la parola "governo" ha un altro significato: Presidente più Congresso. In altre parole, la Costituzione americana ha creato un condominio in cui il Presidente e il Congresso devono cercare di andare d'accordo perché possono paralizzarsi a vicenda. Il Presidente ha un diritto di veto, un diritto delicato con cui può opporsi a una legge anche se approvata dal Parlamento. Il Congresso può addirittura, in alcune circostanze, come si è visto anche recentemente, fare una serrata finanziaria: quando il Congresso rifiuta di autorizzare le spese correnti – quelle che, soprattutto nei periodi intermedi fra un bilancio e l'altro, risultano necessarie per il funzionamento dell'esecutivo -, l'apparato statale è costretto a licenziare dipendenti dall'oggi al domani. Se questo Paese ha un ruolo mondiale – supponiamo che per ragioni di utilità generale sia utile avere un Paese importante capace di assicurare equilibri, offrire finanziamenti e solidarietà – ed è gestito come un condominio in cui la bellicosità politica di una parte del Congresso nei confronti della Presidenza può essere in alcuni casi molto aspra (lo fu nel caso di Roosevelt, ma la guerra risolse il problema, fornendo al presidente un margine di autonomia che prima non aveva), ciò rende questa grande potenza straordinariamente "dysfunctional", cioè mal funzionante, insomma non sempre capace di esercitare le sue responsabilità. Obama, tra l'altro, non è amato da una certa parte della società politica americana anche, purtroppo, per ragioni inconfessabili: in altre parole non piace il colore della sua pelle.

  Come può l'Unione europea uscire dall'attuale condizione di "mezza potenza, incapace di valorizzare le virtù e le risorse di cui dispone" (pag.126)?

  Qui interviene un fattore che rende ciascuno di noi non imparziale, nel senso che chi crede nell'Europa darà una risposta e chi non ci crede (e non ci ha mai creduto) ne darà un'altra. È meglio mettere le carte in tavola: io sono sempre stato favorevole all'integrazione europea e, ogniqualvolta vedo l'Unione europea fare un passo avanti sulla strada dell'integrazione, ho la tendenza, forse poco realistica, a considerarlo più importante di quanto non sia. Quindi, non sono un giudice imparziale, anche se temo che non ce ne siano molti in giro. La crisi è stata una straordinaria occasione perché ci ha permesso di fare un passo avanti straordinario sulla strada dell'integrazione finanziaria, sottraendo alle banche centrali nazionali la vigilanza su alcune grandi banche nazionali. La posizione di Draghi e l'importanza (anche di immagine) assunta dal Governatore della Bce agli occhi degli europei è un elemento fondamentale di unità. Quindi, qualche progresso è stato fatto e non deve essere sottovalutato. Adesso bisognerebbe cercare di fare dei progressi non soltanto nel campo finanziario, ma anche in altri settori come quello della politica estera e della politica di sicurezza. La constatazione delle due guerre perdute dagli Stati Uniti nel corso di quest'ultimo decennio dovrebbe risvegliare negli europei il sentimento e il desiderio di una maggiore sovranità condivisa. Se quella che si atteggia (e che noi incoraggiamo ad atteggiarsi) come l'unica superpotenza mondiale, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, perde due guerre e rovescia sull'Europa la crisi finanziaria del 2008, non bisognerebbe trarne delle conclusioni? E invece forse non le abbiamo ancora tratte.

 

12 giugno 2015

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