I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo. Intervista con Massimo Campanini |
I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo. Intervista con Massimo Campanini a cura di Francesco Algisi Massimo Campanini è docente di Storia contemporanea dell’Islam e dei paesi arabi all'Università di Napoli L’Orientale e insegna anche alla Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Ha pubblicato, tra l’altro: Storia dell'Egitto contemporaneo (Milano 2005, tradotto in arabo dal Consiglio superiore del Ministero della cultura egiziano); Il pensiero islamico contemporaneo (Bologna 2005); Storia del Medio Oriente (Bologna 2006, in corso di traduzione in spagnolo e portoghese); The Qur'an. The Basics (London 2007); Il Profeta Giuseppe. Monoteismo e storia nel Corano (Brescia 2007). Insieme con Karim Mezran, ha recentemente curato il volume I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo (Utet, 2010).
Professor Campanini, quale ruolo hanno avuto i Fratelli musulmani nella storia dell’Egitto contemporaneo? I Fratelli musulmani hanno alle spalle una lunga storia. Fondati nel 1928, hanno conosciuto un’evoluzione piuttosto travagliata: sotto Nasser, sono stati duramente perseguitati; poi, sotto Sadat, hanno avuto, per così dire, un ritorno di fiamma, perché Sadat liberò quelli che erano stati imprigionati negli anni di Nasser. Successivamente, i Fratelli musulmani sono diventati una forza alternativa a Sadat e, poi, a Murabak: negli anni ’80, sono riusciti a controllare le associazioni sindacali e professionali (soprattutto i medici, gli ingegneri e gli avvocati), offrendo un notevole contributo alla formazione di quelle forze che si sono in qualche modo opposte all’autoritarismo di Sadat e di Murabak. La presenza di lunga data dei Fratelli musulmani all’interno della storia dell’Egitto li caratterizza come una delle variabili politiche più importanti e decisive del quadro istituzionale egiziano. Quali sono i tratti caratteristici dell’organizzazione dei Fratelli musulmani? I Fratelli Musulmani sono sempre stati un’associazione che ha cercato di promuovere un’islamizzazione dal basso, attraverso la formazione dell’uomo musulmano, della famiglia musulmana e della società musulmana, secondo una gradazione ascendente (l’uomo, la famiglia, la società). L’obiettivo di tale islamizzazione è la trasformazione profonda del sistema istituzionale egiziano e potenzialmente la realizzazione di uno Stato islamico. Questo è l’aspetto più importante dei Fratelli musulmani: l’islamizzazione dal basso, soprattutto negli ultimi tempi, li ha distinti in maniera netta dal fondamentalismo armato (Al Qaeda, per intenderci), che ha scelto invece una islamizzazione dall’alto (cioè una islamizzazione impositiva attraverso la forza delle armi e l’imposizione violenta di certe opzioni di carattere politico e sociale). Come agisce la Fratellanza? I Fratelli musulmani hanno sempre mirato a creare un sistema di welfare: grazie a ciò essi hanno riscosso ampi consensi all’interno della società egiziana. Tale sistema di welfare si è espresso in vari modi: assistenza sanitaria; assistenza sociale nei quartieri degradati delle metropoli egiziane; scuole; organizzazioni scoutistiche; etc.. Tuttavia, bisogna dire che la Fratellanza musulmana, in passato, ha conosciuto qualche tendenza radicale: negli anni ‘40 e ’50, esisteva un apparato segreto che - soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale – optò per una politica movimentistica, partecipando ad attentati e a proteste molto violente, in una situazione peraltro molto particolare dell’Egitto di quegli anni, contraddistinta da intense lotte sociali, scontri e conflitti tra le varie componenti della società. Secondo qualcuno, questo apparato segreto armato esisterebbe ancora oggi. Non dimentichiamo, poi, la deviazione di Sayyd Qutb… Questi fu, all’epoca di Nasser, uno dei maggiori teorizzatori dell’islamismo radicale, ostile ai regimi dittatoriali laici e secolarizzati che, negli anni ’50, ‘60 e in parte ’70, hanno dominato la scena del mondo arabo-islamico. Con la presidenza di Mubarak (che dura ormai da trent’anni) la Fratellanza ha mutato atteggiamento? Sì. Ha cercato di presentarsi come un’alternativa all’interno del quadro sociale e politico egiziano e di negoziare una legittimazione attraverso un rapporto pacifico con le istituzioni dello Stato, subendo peraltro da parte dei servizi di sicurezza - e per decisione del presidente Mubarak - una serie di repressioni molto dure e severe che vanno avanti ormai da vent’anni. Considerato il fatto che la Costituzione egiziana proibisce la nascita di partiti religiosi (non solo islamici, ma anche cristiani), è evidente che ai Fratelli musulmani non è consentito di trasformarsi in partito e di agire come partito all’interno del quadro istituzionale egiziano: questo ovviamente delimita e, in qualche modo, coarta la loro libertà di espressione e di azione reale. Quanto è importante la questione palestinese nell’azione della Fratellanza musulmana? Formalmente l’importanza attribuita alla lotta del Popolo palestinese è notevole: frequentemente, la Guida suprema, i membri del Consiglio della Shurà (il comitato consultivo che regge le sorti dell’organizzazione) e gli esponenti più in vista del movimento prendono posizione a favore delle rivendicazioni palestinesi in chiave anti-israeliana. Il problema è indubbiamente molto sentito. Tuttavia, bisogna obiettivamente riconoscere che i Fratelli musulmani non hanno alcuna possibilità di incidere sulle decisioni politiche dall’alto. Essi, del resto, non sono arrivati al punto di sfidare il regime in maniera diretta e frontale riguardo al problema palestinese. Quindi, da un certo punto di vista la loro è una giaculatoria doverosa, che però non ha essenzialmente degli effetti pratici, concreti e reali. Un capitolo del volume è dedicato al movimento palestinese Hamas, che in un articolo del proprio Statuto si definisce come “l’ala palestinese dei Fratelli musulmani”. Analizzando la situazione a Gaza e, in generale, in Palestina, si ricava l’impressione che Hamas abbia superato, negli ultimi anni, la dimensione strettamente confessionale, identificandosi con il Popolo palestinese nella sua totalità. Nelle liste elettorali di Hamas, per esempio, sono stati eletti dei candidati cristiani, che sono stati votati anche da musulmani. Ciò trova conferma anche nel libro-intervista, pubblicato alcuni mesi or sono dalle edizioni Paoline, di Abuna Manuel Musallam, parroco palestinese della Chiesa Cattolica a Gaza (cfr. Un parroco all’inferno). Hamas è indubbiamente, dal punto di vista storico, una costola dei Fratelli musulmani, e ha scelto una prassi politica simile a quella della Fratellanza (nei tratti che ho delineato prima): islamizzazione dal basso, assistenza sociale e sanitaria, presenza continua all’interno della società civile palestinese. Però, è importante notare che Hamas, ormai, è diventato l’interprete del nazionalismo palestinese (quindi, delle rivendicazioni di indipendenza, della creazione di due Stati o di uno Stato islamico o, comunque, di uno Stato palestinese parallelo a quello israeliano). All’interno del movimento palestinese ci sono tendenze diversificate: accanto a quelle radicali, che mirano ancora all’espulsione e alla distruzione di Israele, ci sono delle tendenze più moderate, maggiormente disponibili a un compromesso con Israele stesso e alla realizzazione del vecchio progetto “due popoli due Stati” (l’ex primo ministro Ismail Haniyeh, per esempio, si riconosce in questa posizione). Al pari di Hamas, anche Hizbollah in Libano riceve i voti di alcune frange della popolazione cristiana libanese: sono movimenti che si sono identificati con la lotta e l’opposizione nazionalistica nei confronti di Israele, cioè nei confronti di una potenza considerata occupante, che ha invaso le terre del Libano e della Palestina e contro cui c’è una identità nazionale da difendere. La difesa dell’identità nazionale favorisce ovviamente appoggi e consensi trasversali. Quindi, la scelta di mettere in secondo piano l’aspetto confessionale è dovuta alla situazione attuale, in cui è prioritario lottare contro l’occupazione israeliana? Sia Hizbollah sia Hamas, in teoria, hanno come obiettivo la realizzazione dello Stato islamico. Tale obiettivo, però, è visto da entrambi i movimenti in maniera pragmatica: si deve cioè tener conto delle circostanze e della situazione pratica sul terreno. Credo che né l’una né l’altra organizzazione abbiano intenzione di imporre con la violenza lo Stato islamico. Il fatto di interpretare lo spirito nazionalistico dei palestinesi e dei libanesi è una questione più che tattica, direi addirittura strategica. Per quanto riguarda poi la scelta di colloquiare e di tenere aperto degli spazi, dei ponti di contatto e di interscambio con le minoranze religiose (per esempio, i cristiani in Palestina), questo potrebbe trovare una giustificazione pratica. Nel libro, non viene dedicato alcun capitolo alla Turchia… Questo perché, in realtà, il Partito della giustizia e dello sviluppo in Turchia non si può considerare collegato ai Fratelli musulmani. Il premier turco Erdogan, in passato, militò nel Refah, il cui leader, Erbakan, si ispirava alla Fratellanza musulmana. È una situazione diversa, perché i Fratelli musulmani possono essere considerati un movimento prettamente arabo, radicato nel mondo arabo. Quindi, la Turchia non ha trovato spazio nel volume, perché non è un Paese arabo? Sì, fondamentalmente. È vero che abbiamo dedicato dei capitoli alla presenza dei Fratelli musulmani in Europa e negli Stati Uniti: anche se non strettamente arabi, si tratta, però, di Fratelli musulmani che comunque si riconducono in maniera esplicita alla matrice originale della Fratellanza musulmana. Cosa che, devo dire la verità, non mi sembra si possa dire riguardo alla Turchia. Qual è il peso dei Fratelli musulmani tra gli immigrati di fede islamica e, più in generale, nel cosiddetto Islam d’Italia? L’Ucoii ha sempre respinto l’accusa di essere legata alla Fratellanza musulmana… Credo che l’aderenza ai Fratelli musulmani sia più una questione individuale. Però è anche vero che potrebbero esserci delle convenienze a nasconderla o negarla, poiché i Fratelli musulmani sono considerati una organizzazione radicale dai mass-media italiani e sono spesso stati condannati sulla base di quello che Allievi chiama il “teorema Allam” (cioè il fatto di considerare queste tendenze di Islam moderato come delle tendenze radicali e terroristiche). Questo può forse suggerire ad alcuni musulmani italiani, non solo convertiti, ma soprattutto musulmani immigrati, di mantenere un atteggiamento prudenziale. Esiste nel mondo sciita un’organizzazione analoga a quella dei Fratelli musulmani? Non ne ho presente alcuna che possa ricondursi pedissequamente alla Fratellanza Musulmana. Ho già peraltro evidenziato le analogie con Hizbollah, che è un movimento popolare. D’altra parte, nel mondo sciita c’è un atteggiamento diverso nei confronti della religione: mentre i sunniti adottano una concezione religiosa in qualche modo più “democratica”, nel senso che non riconoscono supreme autorità religiose che abbiano il diritto di formulare proposizioni dogmatiche, gli sciiti seguono fondamentalmente l’idea dell’Imam, depositario della verità e dell’interpretazione esoterica delle Scritture, facendo ruotare tutto intorno alla prospettiva dell’attesa dell’Iman nascosto che dovrebbe venire alla fine del mondo a riportare la giustizia sulla terra. Insomma, nel mondo sunnita non esiste un sistema gerarchico clericale, contrariamente alla Shi’a, in cui vi è una gerarchia di ayatollah, hojatolesam e mullah. Questi due elementi (la maggiore clericalizzazione e l’idea prevalente dell’attesa dell’Imam) potrebbero costituire un ostacolo alla nascita, nell’ambiente sciita, di un movimento potenzialmente popolare come quello dei Fratelli musulmani. Naturalmente, lo ripeto, c’è il caso di Hizbollah che ha interpretato in modo molto originale – e trasversale – le concezioni dello sciismo politico e che è in varia misura legato all’Iran. Come sono i rapporti - sempre che esistano naturalmente - tra la Fratellanza musulmana e il mondo sciita, in generale (e l’Iran, in particolare)? Negli ultimi tempi, i Fratelli musulmani hanno preso esplicitamente posizione a favore dei movimenti di resistenza islamica sciiti. Sia la Guida suprema sia i massimi esponenti della Fratellanza in Egitto hanno manifestato solidarietà a Hizbollah: visto che il movimento libanese sta conducendo una politica di opposizione e di confronto diretto con Israele, può essere visto positivamente anche in ambito sunnita. Da questo punto di vista, c’è una disponibilità al dialogo tra sunniti e sciiti da parte dei Fratelli musulmani. Quanto all’Iran, bisogna dire che, relativamente alla situazione del mondo sunnita, è percepito come una realtà lontana, spesso in rapporti conflittuali con i governi al potere nei Paesi sunniti (come l’Egitto, per esempio). Può essere considerato un rapporto difficile, insomma. Sicuramente i Fratelli musulmani non provano un sentimento di subordinazione nei confronti dell’Iran. Le aperture verso i movimenti sciiti come Hezbollah non implicano da parte dei Fratelli musulmani il desiderio e la disponibilità a diventare in qualche modo la longa manus degli interessi iraniani nei rispettivi Paesi di appartenenza. Quanto al Sudan, il governo di Khartoum viene spesso accusato di condurre una politica repressiva verso la minoranza cristiana e genocida nei confronti della popolazione del Darfur… Il governo sudanese è estremamente pragmatico. Omar al-Bashir è stato probabilmente portato al potere grazie all’intervento dei Fratelli musulmani. Nel corso degli anni, però, Hassan al-Turabi e la Fratellanza musulmana, avendo un atteggiamento maggiormente ideologizzato rispetto alla politica tendenzialmente pragmatica di Omar al-Bashir, sono stati emarginati. La questione del Darfur ha dei fondamenti tribali e locali e, secondo alcuni analisti, va letta alla luce della centralizzazione del potere a Khartoum rispetto alle tendenze centrifughe locali. Non credo che il regime di Omar al-Bashir possa essere considerato “anticristiano”. La maggior parte delle risorse petrolifere del Sudan si trovano nel Sud. Quindi, se il Sud si distaccasse dal Nord arabo, quest’ultimo perderebbe molto dal punto di vista delle risorse, oltre che sul piano strategico. I contrasti e i conflitti attuali hanno un significato fondamentalmente politico e strategico e, per quanto riguarda il Darfur, chiamano in gioco questioni tribali molto evidenti. 17 maggio 2010 Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. 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