La tragedia delle grandi potenze Stampa E-mail

John J. Mearsheimer

La tragedia delle grandi potenze
Introduzione di Alessandro Orsini


Luiss University Press, pagg.527, € 29,00

 

mearsheimer tragedia  Non esagera Alessandro Orsini nel definire quest'opera "fondamentale". Il volume, uscito presso un altro editore nel 2003 con il titolo "La logica di potenza", torna ora in libreria per i tipi di Luiss University Press con un capitolo aggiuntivo – il decimo – interamente dedicato alla Cina.
  L'Autore, John Mearsheimer, insegna scienza politica all'Università di Chicago ed è uno dei più insegni politologi a livello mondiale.
  In questo libro, che è il suo più importante, Mearsheimer spiega in maniera convicente e con dovizia di riferimenti tratti dalla storia delle relazioni internazionali, la teoria del realismo offensivo quale chiave di lettura per comprendere i rapporti tra gli Stati e, in modo particolare, tra le grandi potenze. Tale teoria è innanzitutto "descrittiva. Spiega in che modo le grandi potenze si sono comportate in passato e come probabilmente si comporteranno in futuro. Ma è anche una teoria normativa. Gli Stati devono agire secondo i dettami del realismo offensivo, perché questo delinea il miglior modo per sopravvivere in un mondo irto di pericoli" (pag.41).
  Per essere una grande potenza, "uno Stato deve disporre di risorse militari sufficienti a "vendere cara la pelle" in una guerra convenzionale totale con lo stato più potente del mondo" (pag.35).
  Secondo i realisti offensivi, "si incontrano raramente nella politica mondiale potenze dedite allo status quo, perché il sistema internazionale spinge con forza a cercare occasioni per guadagnare potere a spese dei rivali, e ad approfittare di tali occasioni quando i benefìci superano i costi. Il fine ultimo di uno stato è diventare egemone sul sistema" (pag.51). I realisti non fanno distinzioni tra Stati buoni e Stati cattivi, ma diffenziano gli Stati "in base alle capacità di potenza relative. L'interpretazione realista pura della Guerra fredda, per esempio, non riconosce differenze significative alle motivazioni che stavano alla base del comportamento degli americani e dei sovietici durante il conflitto. Secondo la teoria realista, ambo le parti erano spinte da considerazioni di equilibrio di potenza, e ciascuna di esse faceva il possibile per massimizzare il proprio potere relativo" (pag.54).
  Sebbene la politica estera statunitense si esprima con il linguaggio del liberalismo, "a porte chiuse le élite che danno forma alla politica di sicurezza nazionale parlano la lingua della potenza, non quella dei principi, e gli Stati Uniti si muovono nel sistema internazionale secondo i dettami della logica realista. In sostanza, si percepisce una netta separazione tra la retorica pubblica e la conduzione concreta della politica estera americana" (pag.55). Insomma, gli Usa "gli Stati Uniti parlano in un modo e agiscono in un altro. In effetti, questo aspetto della politica estera americana è sempre stato rilevato dai leader di altri paesi. Già nel 1939, per esempio, Carr rilevava come tra gli Stati del continente europeo era diffusa l'immagine dei popoli di lingua inglese come "maestri nell'arte di ammantare di bene generale i propri egoistici interessi nazionali", aggiungendo che "questa forma di ipocrisia è una peculiarità specifica e caratteristica della mentalità anglosassone"" (pag.54).
  Così, "gli Stati Uniti hanno combattuto il fascismo nella seconda guerra mondiale e il comunismo nella Guerra fredda per ragioni largamente realiste. Ma entrambi i conflitti erano giustificabili anche secondo principi liberali, e per questo i politici non ebbero difficoltà a smerciarli al pubblico come conflitti ideologici". Se, tuttavia, la logica di potenza impone agli Usa di "operare secondo una linea che contrasta con i principi liberali, ecco che compaiono gli imbonitori a raccontare la storia in modo che combaci con gli ideali liberali. Per esempio, alla fine del XIX secolo, le élite americane in generale ritenevano quello tedesco uno Stato costituzionale progressista degno di essere emulato. Ma l'opinione americana della Germania cambiò con il deteriorarsi delle relazioni tra i due Stati, nel decennio precedente la prima guerra mondiale. Quando nell'aprile 1917 gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania, gli americani ormai vedevano la Germania come uno Stato più autocratico e militarista dei suoi rivali europei" (pag.56).
  Gli Stati, in ultima analisi, puntano a "conquistare e lavorano per evitare che Stati aggressori guadagnino potere a loro spese. Questo si traduce inesorabilmente in un mondo in costante competizione per la sicurezza, dove gli Stati sono pronti a mentire, ingannare e ricorrere alla forza bruta se questo li aiuta a guadagnare un vantaggio sui rivali. La pace, se la si definisce come stato di quiete o di mutua concordia, non ha molte probabilità di insediarsi in questo mondo" (pag.65).
  Le grandi potenze "cercano di guadagnare potere a spese dei rivali con l'obiettivo di diventare egemoni incontrastati. Una volta che uno Stato si trova in questa invidiabile posizione, esso diventa una potenza in difesa dello status quo". Egemone è uno Stato tanto potente da "dominare tutti gli altri Stati del sistema. Nessun altro Stato ha i mezzi per reggere militarmente il confronto. In sostanza, un egemone è l'unica grande potenza del sistema. Uno Stato che sia molto più potente delle altre grandi potenze del sistema non è un egemone, perché, per definizione, si trova di fronte altre grandi potenze" (pag.70).
  Secondo l'Autore, "fatto salvo l'improbabile evento che uno Stato raggiunga la netta superiorità nucleare, è virtualmente impossibile che un dato Stato raggiunga l'egemonia globale. Il principale impedimento al dominio mondiale è la difficoltà di proiettare la potenza oltre gli oceani sul territorio di una grande potenza rivale". In sostanza, "non c'è mai Stato un egemone globale, ed è improbabile che ne possa emergere uno a breve". Una grande potenza, quindi, può aspirare nella migliore delle ipotesi a "diventare egemone regionale ed eventualmente controllare un'altra regione che le sia prossima e accessibile via terra" (pag.71).
  In sintesi, "la situazione ideale per una grande potenza è di essere l'unico egemone regionale esistente al mondo. Quello Stato sarebbe una potenza da status quo, e farebbe di tutto per preservare la distribuzione di potere esistente. Gli Stati Uniti si trovano oggi in questa invidiabile posizione: dominano l'emisfero occidentale e non esiste alcun egemone in nessun'altra area del mondo. Ma se un egemone regionale si dovesse trovare ad affrontare un concorrente di pari livello, cesserebbe di essere una potenza da status quo. Anzi, farebbe di tutto per indebolire, e anche per distruggere, il suo lontano rivale. È ovvio che entrambi gli egemoni regionali sarebbero motivati dalla stessa logica, cosa che si tradurrebbe in una feroce competizione per la sicurezza" (pag.72).
  Gli Usa "sono l'unico Stato che abbia tentato, riuscendoci, di conquistare la propria regione. La Francia napoleonica, la Germania guglielmina, la Germania nazista e il Giappone imperiale tentarono tutti e tutti fallirono. Uno su cinque non è un gran che come percentuale di successi. Eppure, il caso americano dimostra che è comunque possibile raggiungere l'egemonia regionale. Si trovano esempi di successo anche nel lontano passato: l'impero romano in Europa (113 a.C.-235 d.C.), la dinastia Moghul nel subcontinente asiatico (1556-1707) e la dinastia Ch'ing in Asia (1683-1839), per citarne solo qualcuno. Inoltre, anche se Bonaparte, Guglielmo II e Hitler persero tutti la scommessa di dominare l'Europa, ognuno di essi vinse grandi battaglie sul campo, conquistò enormi territori e fu lì lì per centrare l'obiettivo. Solo il Giappone aveva scarse probabilità di assicurarsi l'egemonia sul campo" (pagg.236-237).
  Le grandi potenze si temono a vicenda e il livello di timore è variabile: "la quantità di paura reciproca determina in larga misura l'asprezza della competizione per la sicurezza, oltre che la probabilità che si facciano guerra. Più è profonda la paura, più intensa sarà la competizione per la sicurezza, e più probabile sarà la guerra. È una logica elementare: uno Stato impaurito cercherà con ogni mezzo il modo di rafforzare la propria sicurezza, e sarà portato a mettere in atto politiche azzardate pur di raggiungere quello scopo" (ibidem).
  Il potere, che influenza il timore, va distinto in 'potenziale' ed 'effettivo': "Il potere potenziale di uno Stato si basa sulla consistenza della sua popolazione e sul suo livello di ricchezza. Queste due risorse sono gli assi portanti della potenza militare. Stati rivali ricchi e molto popolati sono di solito in grado di dotarsi di forze militari formidabili. Il potere effettivo di uno Stato è rappresentato principalmente dall'esercito e dalle forze aeree e navali che direttamente lo sostengono. Gli eserciti sono l'ingrediente centrale del potere militare, in quanto sono lo strumento principale per conquistare e controllare territorio - obiettivo politico supremo in un mondo di Stati territoriali. In breve, la componente chiave del potere militare, perfino nell'era nucleare, è la potenza terrestre" (pag.73).
  Le grandi potenze "prestano anche grande attenzione a quanto potere latente gli Stati rivali controllano, perché Stati ricchi e popolosi possono organizzare, e di solito organizzano, potenti eserciti. Cosi, le grandi potenze tendono a temere Stati con popolazioni numerose ed economie in rapida espansione, anche se questi non hanno ancora tradotto in potenza militare la loro ricchezza" (pag.75). A una maggiore prosperità economica corrisponde invariabilmente "maggiore ricchezza, il che ha significative implicazioni per la sicurezza, perché la ricchezza è il fondamento della potenza militare. Stati ricchi possono permettersi possenti forze militari, le quali rafforzano le prospettive di sopravvivenza di uno Stato" (pag.76).
  Il realismo porta a riconoscere che "le grandi potenze non collaborano a promuovere l'ordine mondiale fine a se stesso. Ciascuna di esse invece cerca di massimizzare la propria quota di potere mondiale, il che vuol dire che è prima o poi destinata a scontrarsi con l'obiettivo di creare e mantenere un ordine internazionale stabile. Ciò non vuol dire che le grandi potenze non mirino mai a scongiurare le guerre e mantenere la pace. In effetti, dedicano ogni impegno possibile a impedire quelle guerre da cui rischiano di uscire sconfitte. In tali casi, però, il comportamento degli Stati è in larga misura orientato da precisi calcoli di potere relativo, piuttosto che dall'impegno di costruire un ordine mondiale a prescindere dai propri interessi" (pag.78).
  Mearsheimer ritiene che sia "la struttura del sistema internazionale a indurre le grandi potenze a pensare e ad agire aggressivamente e a ricercare l'egemonia, e non le caratteristiche specifiche dei singoli Stati". A differenza di Morgenthau, secondo il quale "gli Stati si comporterebbero invariabilmente in maniera aggressiva perché animati da una innata volontà di potenza", egli sostiene "piuttosto che la principale motivazione alla base del comportamento delle grandi potenze è la sopravvivenza. In condizioni di anarchia, però, l'istinto di sopravvivenza incoraggia gli Stati ad agire aggressivamente". D'altra parte, la teoria del realismo offensivo non classifica gli Stati "come più o meno aggressivi in base ai loro sistemi economici o politici" (pag.83). Per esempio, che "la Cina sia democratica e profondamente inserita nell'economia globale oppure autocratica o autarchica è una circostanza che avrà scarso effetto sul suo comportamento, perché le democrazie hanno a cuore la sicurezza né più né meno delle non democrazie, e l'egemonia è il modo migliore per qualunque stato di garantirsi la sopravvivenza" (pag.34).
  Per il realismo offensivo "la forza è l'ultima ratio della politica internazionale": da qui si evince il primato del potere militare, che "si basa sostanzialmente sulle dimensioni e la forza dell'esercito di uno Stato e delle forze aeree e navali che a quell'esercito fungono da appoggio. Perfino in un mondo nucleare, gli eserciti sono il nocciolo della potenza militare. Una forza navale indipendente o una forza aerea strategica non sono idonee alla conquista di un territorio, né sono da sole molto efficaci a imporre concessioni territoriali ad altri Stati. Certamente possono contribuire al successo di una campagna militare, ma le guerre delle grandi potenze si vincono soprattutto sul terreno. Gli Stati più potenti sono quindi quelli che possiedono le più formidabili forze di terra" (pag.86).
  Perciò, la "demografia conta e molto, perché grandi potenze richiedono grandi eserciti, che possono essere costituiti solo in paesi con ampie popolazioni. Stati con popolazioni esigue non potranno mai essere grandi potenze. Per esempio, né Israele, con i suoi 6 milioni di abitanti, né la Svezia, con le sue 9 milioni di persone, sono in grado di conseguire la status di grande potenza in un mondo in cui Russia, Stati Uniti e Cina hanno rispettivamente 142 milioni, 317 milioni e 1,35 miliardi di abitanti. L'ampiezza della popolazione ha anche importanti conseguenze economiche, perché solo grandi popolazioni possono produrre grandi ricchezze, altro mattone indispensabile alla costruzione della potenza militare" (pag.91). Una popolazione numerosa, tuttavia, "non assicura una grande ricchezza, ma una grande ricchezza richiede una popolazione numerosa. Pertanto, soltanto la ricchezza può essere usata isolatamente come misura del potere latente" (pag.92).
  Le "grandi estensioni marine limitano fortemente la capacità di proiettare potenza delle forze di terra. Quando due eserciti che si fronteggiano devono attraversare una vasta distesa d'acqua come l'Oceano Adantico o la Manica per combattersi, nessuno dei due avrà forte capacità offensiva, indipendentemente dalle caratteristiche quantitative e qualitative delle forze contrapposte. Il potere frenante dell'acqua ha grande importanza non solo perché è un aspetto centrale per comprendere la potenza terrestre, ma perché ha conseguenze profonde per il concetto di egemonia. Specificamente, la presenza di oceani su gran parte della superficie della Terra rende praticamente impossibile a qualsiasi stato di raggiungere l'egemonia globale. Nemmeno lo Stato più potente del mondo è in grado di conquistare regioni lontane che si possono raggiungere solo via mare. Quindi, le grandi potenze possono soltanto aspirare a dominare la regione in cui sono situate, ed eventualmente una regione adiacente a questa raggiungibile via terra" (pag.111).
  Anche se l'arma nucleare ha reso meno probabile un conflitto tra le grandi potenze, queste "continuano a competere per la sicurezza anche all'ombra del nucleare, talvolta intensamente, e la guerra tra loro continua a essere una possibilità molto concreta" (pag.112). L'Autore afferma che "nell'improbabile evento che una singola grande potenza raggiunga la superiorità nucleare, questa diventerebbe un egemone, il che in pratica significa che non avrebbe più grandi potenze rivali con cui competere per la sicurezza. Le forze convenzionali, in un mondo del genere, contano poco per l'equilibrio di potenza. Ma nella situazione più probabile, quella in cui vi siano due o più grandi potenze dotate di forze di rappresaglia nucleari in grado di sopravvivere a un attacco, la competizione per la sicurezza continuerà e il potere di terra rimarrà la componente chiave della potenza militare. È comunque indiscutibile che la presenza del nucleare renda gli Stati più cauti nell'impiego reciproco della forza militare di qualsivoglia genere" (pag.157).
  Preso atto "che gli oceani limitano la capacità degli eserciti di proiettare la forza, e che le armi nucleari riducono le probabilità di scontro tra gli eserciti delle grandi potenze, il mondo più pacifico sarebbe probabilmente quello in cui tutte le grandi potenze fossero stati insulari detentori di arsenali nucleari capaci di sopravvivere a un attacco atomico" (pag.164).
  Per Mearsheimer sia i bombardamenti strategici sia i blocchi navali si rivelano inefficaci per piegare un avversario: "le popolazioni civili possono assorbire una quantità enorme di sofferenze e privazioni senza sollevarsi contro il loro governo" (pag.136). Inoltre, anche leader come Hitler "spesso godono di diffuso sostegno popolare: non solo talvolta rappresentano il punto di vista delle proprie società, ma il nazionalismo tende a favorire stretti legami tra capi politici e le popolazioni, soprattutto in tempo di guerra, quando tutti gli interessati si trovano a fronteggiare una potente e comune minaccia esterna" (pag.137).
  A proposito di Hitler, l'Autore ritiene che al centro della visione nazionalsocialista della politica intemazionale "vi fossero genuini calcoli di potenza. Dal 1945 gli studiosi dibattono il grado di continuità che lega i nazisti ai loro predecessori. Nel mondo degli specialisti delle relazioni internazionali, però, c'è ampio consenso sul fatto che Hitler non rappresentò una rottura netta con il passato ma pensò e agì come i leader tedeschi che erano venuti prima di lui. David Calleo esprime bene il punto: «In politica estera, le analogie tra la Germania imperiale e quella nazista sono assai evidenti. Della prima Hitler condivideva l'analisi geopolitica: le stesse convinzioni sul conflitto tra nazioni, la stessa sete di egemonia sull'Europa e le stesse motivazioni. La prima guerra mondiale, era in grado di affermare, non aveva fatto altro che dare ulteriore conferma di quell'analisi geopolitica»". Insomma, anche senza Hitler "la Germania sicuramente si sarebbe comportata da Stato aggressivo entro la fine degli anni Trenta" (pag.208). Un'analisi disincatata "non deve oscurare l'abilità di fine stratega [di Hitler] che gli aveva permesso una lunga serie di successi prima di fare, nell'estate del 1941, l'errore fatale di invadere l'Unione Sovietica. Hitler in realtà aveva imparato dall'esperienza della prima guerra mondiale. Aveva concluso che la Germania doveva evitare di combattere contemporaneamente su due fronti e che aveva bisogno di un modo per conseguire vittorie militari rapide e decisive. Nella pratica, realizzò questi obiettivi nei primi anni della seconda guerra mondiale, ed è per questo che il Terzo Reich fu in grado di spargere tanto sangue e tanta distruzione in tutta Europa. Questo caso illustra il punto sull'apprendimento a cui ho già accennato: gli Stati sconfitti di norma non concludono che la guerra sia un'impresa futile, ma si sforzano di non ripetere gli stessi errori nella prossima guerra" (pag.241).
  "Gran parte del successo di Hitler – aggiunge Mearsheimer - fu dovuto alle macchinazioni dei suoi rivali, ma non c'è dubbio che egli agì abilmente" (pag.242). "Hitler riconobbe anche la necessità di dar vita a uno strumento militare in grado di conseguire rapide vittorie ed evitare le sanguinose battaglie della prima guerra mondiale. A questo scopo sostenne l'istituzione delle divisioni corazzate di panzer e intervenne personalmente nell'elaborare la strategia della guerra lampo che consentì alla Germania di ottenere sulla Francia una delle più stupefacenti vittorie militari di tutti i tempi (1940). La Wehrmacht riportò anche sorprendenti vittorie contro potenze minori: Polonia, Norvegia, Yugoslavia e Grecia. Come scrive Sebastian Haffner: "Dal 1930 al 1941 Hitler riuscì praticamente in tutto ciò che intraprese, in politica interna ed estera e infine anche in campo militare, tra lo stupore costernato del mondo". Se Hitler fosse morto nel giugno 1940 dopo la capitolazione della Francia, probabilmente sarebbe passato alla storia come "uno dei più grandi statisti tedeschi"" (pag.243).
  Anche "Lenin ben presto divenne «un realista politico secondo a nessuno». Anzi, Richard Debo sostiene che Lenin abbandonò così in fretta l'idea di diffondere il comunismo da far dubitare che l'avesse mai presa sul serio. Stalin, che gestì la politica estera sovietica per quasi trent'anni dopo la morte di Lenin, fu anch'egli spinto dalla fredda logica del realismo, come dimostra la sua disponibilità a cooperare con la Germania nazista tra il 1939 e il 1941" (pag.216). In sostanza "ogni volta che l'URSS si comportò aggressivamente per la sicurezza nazionale, l'azione potè essere giustificata come promozione della diffusione del comunismo. Ma ogni volta che i due approcci entrarono in conflitto, a vincere fu invariabilmente il realismo. Gli Stati fanno tutto ciò che è necessario per sopravvivere, e da questo punto di vista l'Unione Sovietica non ha rappresentato un'eccezione" (pag.217).
  Le grandi potenze – spiega ancora Mearsheimer – "tendono a vedere gli Stati particolarmente prosperi, o che si muovono verso quella condizione, come serie minacce, indipendentemente dal fatto che possiedano o meno una formidabile capacità militare. Dopotutto, la ricchezza può essere sempre convertita abbastanza agevolmente in potenza bellica. Un esempio calzante è quello della Germania guglielmina tra la fine del XIX e l'inizio del XX. Il semplice fatto che la Germania avesse una grande popolazione e un'economia dinamica bastò a spaventare le altre grandi potenze europee, anche se il comportamento della Germania ci mise del suo per alimentare quei timori. Timori analoghi esistono oggi nei confronti della Cina, che ha una popolazione enorme e un'economia che sta compiendo una rapida modernizzazione. Viceversa, le grandi potenze ten dono a temere in minor grado gli Stati in discesa nella classifica mondiale della ricchezza. Gli Stati Uniti, per esempio, temono la Russia meno di quanto temessero l'Unione Sovietica, perché la Russia non controlla la stessa quantità di ricchezza mondiale che controllava l'URSS nei suoi tempi migliori; la Russia non può dotarsi di un esercito altrettanto potente di quello del suo predecessore sovietico. Se l'economia della Cina dovesse oggi deragliare senza più riprendersi, i timori che essa suscita come potenza asiatica scemerebbero fino a scomparire" (pag.171).
  Insomma, si sarà capito da quanto riportato sopra che l'opera di Mearsheimer va letta e studiata attentamente per comprendere le dinamiche – anche attuali - della politica internazionale. Gli unici difetti della presente edizione sono rappresentati dai frequenti refusi e dall'assenza dell'indice dei nomi e della bibliografia, strumenti che avrebbero reso più agevole la consultazione dell'opera (per non parlare delle note – che si estendono per circa cento pagine – poste in fondo al libro anziché a piè di pagina). Inoltre, sarebbe stato opportuno aggiornare i riferimenti bibliografici presenti nelle note con l'indicazione di eventuali edizioni in lingua italiane delle opere citate.