La sinistra assente Intervista con Domenico Losurdo
a cura di Francesco Algisi
Domenico Losurdo è professore emerito di Storia della filosofia presso l'Università degli Studi di Urbino. Autore di numerose pubblicazioni – tra le quali ricordiamo "Controstoria del liberalismo" (Laterza, 2006), "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" (Carocci, 2008), "La lotta di classe" (Laterza, 2013), "Nietzsche, il ribelle aristocratico" (Bollati Boringhieri, 2014, II edizione) – ha recentemente dato alle stampe "La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra" (Carocci, 2014). Al pari dei precedenti, anche quest'ultimo saggio si legge con grande profitto. Su alcuni dei temi affrontati nel testo, abbiamo rivolto alcune domande all'Autore.
Prof. Losurdo, lei scrive che "ogni leader sgradito a Washington, che si tratti di Castro, Gheddafi o Saddam Hussein, sa che deve guardarsi quotidianamente e in ogni istante della giornata dalle trame e dai tentativi di assassinio orchestrati dalla CIA" (pag.127). Questo fatto incontestabile giustifica, a suo avviso, il mancato (o comunque "problematico") sviluppo "di rapporti realmente democratici all'interno dei paesi più deboli" (pag.136) e costretti "a vivere sotto l'incubo dell'aggressione" (pag.194) da parte degli USA?
Rispondo formulando a mia volta una domanda: il pericolo del ripetersi negli USA di attentati terroristici «giustifica» la decisione di rinchiudere a Guantanamo, senza processo e anzi senza neppure una notificazione del reato contestato, persone della più diversa età (compresi ragazzini e vegliardi) e di torturarle sistematicamente? E «giustifica» la decisione di procedere, grazie ai droni, a esecuzioni extragiudiziarie senza curarsi neppure dei cosiddetti «danni collaterali»? Nonostante l'11 settembre, i rischi corsi dai presidenti statunitensi sono ben inferiori a quelli cui erano e sono esposti Castro, bersaglio di innumerevoli tentativi di assassinio, o Gheddafi, in effetti catturato, selvaggiamente torturato e poi assassinato. Possiamo ben criticare il modo in cui Castro, Gheddafi ecc. fronteggiano lo stato d'eccezione, ma senza mai dimenticare che lo stato d'eccezione è imposto loro dall'imperialismo (da considerare il principale responsabile).
A pag.134, lei spiega che "in certi casi la dipendenza economica giunge sino alla rinuncia della sovranità monetaria (il dollaro statunitense sostituisce la moneta locale)". A quali casi si riferisce in particolare?
Un articolo di Rocco Cotroneo sul «Corriere della Sera» del 13 settembre 2000 inizia così: «L'esperimento, il primo al mondo per un Paese così grande, ha l'approvazione di Washington e dell' Fmi. L'Ecuador rinuncia al sucre e sceglie il dollaro: "Con la moneta USA vinceremo l'inflazione". Ma l'opposizione protesta: "Ora siamo una vera colonia"»
Le interferenze esercitate dagli USA a Piazza Tienanmen (1989) furono all'origine di quell'evento o si collocarono in una fase successiva e tale da favorirne uno sviluppo idoneo a screditare la dirigenza cinese sul piano interno e internazionale (cfr. pag.152)?
Come spiego nel mio libro, nel 1989 l'ambasciatore degli USA a Pechino era James Lilley, che già da decenni lavorava per la CIA. Egli conosceva perfettamente il mandarino e ancora oggi nelle sue memorie si vanta di aver a suo tempo «stabilito solidi rapporti con membri dell'esercito, del movimento studentesco e della classe intellettuale», rapporti che erano suscettibili di conseguire cospicui «dividendi». Quali possono essere i «dividendi» derivanti dal rapporto con membri e settori dell'esercito cinese? Sempre Lilley riferisce che, al momento degli incidenti, l'«attaché militare» dell'ambasciata statunitense lavorava fianco a fianco «con le sue controparti nelle ambasciate australiana, britannica, canadese, francese, tedesca e giapponese», armati di «radiotelefoni portatili contrabbandati dall'estero» (e vietati dalle convenzioni diplomatiche), mantenendosi in stretto contatto tra di loro, pattugliavano la capitale cinese. Qui, per un'altra strana coincidenza era presente anche Gene Sharp, il teorico delle «rivoluzioni colorate» e delle operazioni di destabilizzazione miranti al regime change. E proprio in quei giorni, come risulta da altre informazioni, menti raffinate procedevano alla contraffazione della «testata del "Quotidiano del popolo"», l'organo ufficiale del Partito comunista cinese: era un'operazione suscettibile di lacerare in due frazioni contrapposte il Partito al potere e lo Stato in quanto tale. Non c'è dubbio: gli incidenti di Piazza Tienanmen sono stati un tentativo di «rivoluzione colorata», di destabilizzazione della repubblica popolare cinese e di regime change.
È giusto, secondo lei, collocare al vertice della scala di priorità dei valori universali – come fanno alcuni Paesi assediati da Washington (per esempio, Cina, Cuba e Vietnam) – il valore, "esso stesso universale, dell'indipendenza e dignità nazionale" (pagg.159-160)?
L'indipendenza nazionale è uno dei valori universali. Gli abitanti di un paese che vive sotto la minaccia di essere bombardato, aggredito, invaso, vengono privati di quella «libertà dalla paura» (freedom from fear) che secondo Franklin Delano Roosevelt è uno degli essenziali diritti dell'uomo.
A suo giudizio, la politica adottata dai dirigenti cinesi per conseguire "gli spettacolari successi" (pag.160) in campo economico è esente da critiche?
Va da sé che nessuno è esente da critiche. Ma un giudizio critico è sensato solo se sa distinguere aspetto principale e aspetto secondario. L'ex cancelliere della Repubblica federale tedesca, Helmut Schmidt, ha osservato a proposito di Mao Zedong: «Egli ha ristabilito la Cina dopo un secolo e mezzo di colonizzazione». E, nel far ciò - aggiungo io ¬– Mao ha contribuito potentemente ad abbattere il colonialismo su scala mondiale e a porre fine a un lungo capitolo di storia caratterizzato dal trionfo della legge del più forte e dall'assoggettamento e schiavizzazione di fatto delle nazioni più deboli. Questo è l'aspetto principale. Uno studioso statunitense, Ezra F. Vogel, ha scritto in relazione Deng Xiaoping: «C'è un altro leader nel ventesimo secolo che abbia fatto di più per migliorare la vita di un numero così alto di persone? C'è un altro leader novecentesco che abbia esercitato un'influenza così grande e così duratura sulla storia mondiale?». È chiaramente una domanda retorica; la risposta è negativa e sottolinea la grandezza del processo di emancipazione che ha avuto luogo in Cina. E questo è l'aspetto principale.
Lei ravvisa una "contraddizione di fondo" (pag.164) nel fatto che "ad agitare con zelo particolare la bandiera dell'universalismo è il paese che incarna l'etnocentrismo più esaltato", cioè gli USA. Non è invece proprio da questa visione etnocentrica ("nazione eletta da Dio") che discende, come logica conseguenza, la pretesa che tutti gli altri Paesi adottino l'american way of life per potersi considerare "civili"?
Universalismo da un lato e sciovinismo ed etnocentrismo dall'altro sono tra loro in contraddizione sul piano logico. Ma, come dimostra la storia del colonialismo e neocolonialismo, spesso lo sciovinismo agita la bandiera dei valori «universali» al fine di legittimare i suoi obiettivi espansionistici ed egemonici.
A pag.167, si legge il seguente interrogativo: la democrazia di cui si fregiano gli USA e l'Occidente "li autorizza a bombardare o smembrare ogni Stato da essi sovranamente definito Stato-paria (o canaglia o antidemocratico) o a condannare la sua popolazione, oppure tutto ciò è la dimostrazione del carattere antidemocratico di coloro che pretendono di esercitare un dispotismo planetario? La risposta corretta sembrerebbe la seconda...
Sì.. Come sul piano interno così su quello internazionale rivendicare ed esercitare un potere sovrano e assoluto è il contrario della democrazia: è il suo affossamento.
Nel corso dell'ultima fase della Guerra fredda – come si legge a pag.169 – la Cina è stata "di fatto alleata degli Usa". Quali fattori hanno reso possibile questa "alleanza"?
Era inevitabile lo scontro tra la Cina di Mao e l'URSS prima di Kruscev e poi di Breznev? Non credo. Il 16 maggio 1989, nell'incontrare Gorbacev a Pechino, Deng Xiaoping tracciava un bilancio convincente del conflitto sino-sovietico: «Io non ritengo che ciò sia avvenuto a causa delle dispute ideologiche; non pensiamo più che fosse giusta ogni cosa detta allora. Il problema principale era che i cinesi non erano trattati da eguali e si sentivano umiliati. Tuttavia, non abbiamo mai dimenticato che, nel periodo del nostro primo piano quinquennale l'Unione Sovietica ci aiutò per gettare le basi dell'industria».
Come contrappeso alla "superpotenza solitaria" lei sembra nutrire maggiore fiducia nella Cina che nella Russia, fermo restando il giudizio positivo su V. Putin "che ha ristabilito il controllo della Russia sul suo patrimonio energetico e ha bloccato lo scivolamento del grande paese euroasiatico in una condizione di dipendenza neocoloniale dall'Occidente" (pag.181)...
Putin è riuscito a scrollarsi di dosso la dipendenza neocoloniale, che gli USA stavano imponendo ai tempi di Eltsin, ma non è riuscito a porre fine realmente a una debolezza di fondo: oltre alle risorse energetiche, la Russia esporta soprattutto tecnologia militare o para-militare (le centrali nucleari a uso civile), ma non è riuscita a edificare un'articolata struttura industriale ed economica. Ben diverso è il caso della Cina, dove il partito comunista può perseguire piani a lunga, lunghissima, scadenza e sta di fatto annullando la «grande divergenza» che da alcuni secoli separa l'Occidente tecnologicamente più avanzato dal resto del mondo.
L'"internazionalismo" della sinistra occidentale è funzionale al disegno di Stato mondiale agognato dagli USA (cfr. pag.187)?
Oggi negli USA «internationalists» amano definirsi coloro che teorizzano il diritto d'intervento universale degli Stati Uniti o della Nato, anche senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Ignorando il principio dell'eguaglianza tra le nazioni, il presunto internazionalismo si rovescia nel suo contrario, diventa nella pratica uno sciovinismo esaltato e aggressivo. È un punto essenziale che la sinistra occidentale sembra avere difficoltà a comprendere.
Lei osserva che la Repubblica Popolare Cinese ha liberato centinaia di milioni di persone dalla miseria disperata, "sia pure a conclusione di un tormentato processo di apprendimento". Che cosa significa?
Al momento della conquista del potere, il Partito comunista cinese non aveva idee chiare su come gestire l'economia ed era anche consapevole di dover ancora accumulare esperienze muovendosi su un campo inesplorato e minato. Il «socialismo dalle caratteristiche cinesi», il socialismo che combina mercato e piano, che apre all'Occidente più avanzato impegnandosi al tempo stesso a mantenere e anzi a rafforzare l'indipendenza nazionale anche sul piano tecnologico ed economico, questa linea politica non si è affermata immediatamente ma solo dopo tentativi, errori, contraddizioni e lotte di ogni genere.
Le denunce riportate dalla stampa europea e nordamericana riguardo allo "sfruttamento" della classe operaia in Cina sono fondate (cfr. pag.228)?
Proviamo a sintetizzare la storia della Cina. A partire dalle guerre dell'oppio, il paese di più antica civiltà del mondo subisce un assoggettamento coloniale e neocoloniale, che consegna un intero popolo alla morte per inedia su larga scala e il cui orrore è sintetizzato dal cartello che alla fine dell'Ottocento campeggia all'ingresso della concessione francese a Shanghai «Vietato l'ingresso ai cani e ai cinesi». È questa l'epoca dello «sfruttamento» e dell'oppressione generalizzati. La Cina, che nel 1949 era il paese più povero del mondo, sta ora bruciando le tappe dello sviluppo economico e tecnologico. Ci sono sacche di «sfruttamento» nell'ambito di questo processo che riguarda il paese più popoloso del mondo, che è al tempo stesso un paese-continente? Certamente. Ma l'aspetto principale è un altro: centinaia di milioni di persone sono state liberate dalla miseria, mentre da diversi anni i salari crescono a doppia cifra.
Il superamento, da parte della Cina, "della devastante crisi economica abbattutasi sull'Occidente" può giustificare uno "sviluppo non rispettoso dell'ambiente" (pag.229)?
Sulla drammaticità della questione ambientale in Cina a ragione l'Occidente non si stanca di insistere (rimossi sono però il grande smog che nel dicembre 1952 provocò a Londra migliaia di morti e la catastrofe ecologica forse più grave della storia umana, verificatasi a Bhopal e della quale fu responsabile la filiale indiana della Union Carbide, una multinazionale di fertilizzanti e insetticidi agricoli che aveva il suo centro negli Stati Uniti). Tuttavia, occorre non perdere di vista i successi che la Cina comincia a conseguire anche in questo campo. Già nel 2005, scrivendo sull'«International Herald Tribune» del 3 novembre, T. L. Friedman scriveva: «L'innovazione verde ha cominciato a diffondersi rapidamente in Cina [...] Ancora un decennio e dovremo importare la nostra tecnologia verde da Pechino [...] La sfida della Cina verde sarà molto più insidiosa di quella della Cina rossa [...] Poiché le tecnologie verdi sono qui adottate su scala sempre più larga [...], la Cina fisserà gli standard per il mondo». L'inquinamento ambientale si rivela ancora più grave in paesi come l'India o l'Indonesia, e tuttavia anche in questo caso occorre tener presente una verità elementare: dovendo scegliere tra la morte per inedia e la sopravvivenza in una condizione ambientale deteriorata, di regola l'individuo preferisce la seconda opzione. Un autentico ecologismo deve sapersi battere anche per lo sviluppo economico e tecnologico dei paesi più poveri.
Che cosa pensa del cammino intrapreso dal Vietnam negli ultimi anni (cfr. pag.231)?
Credo che il «socialismo dalle caratteristiche cinesi» sia stato fonte di ispirazione per il «socialismo dalle caratteristiche vietnamite».
Nel volume non viene dato spazio alla Corea del Nord...
Si sa poco sulle condizioni reali di quel paese. L'unico punto chiaro mi sembra questo: il tentativo di sviluppo autarchico dell'economia è fallito, e nelle condizioni odierne (di globalizzazione e di supremazia tecnologica dell'Occidente) è destinato a fallire.
Come mai riscuote successo la categoria di "capitalismo autoritario" – formulata da S. Žižek (cfr. pag.231) – applicata alla Repubblica Popolare Cinese?
Nel mio libro sottolineo che la supremazia multimediale e ideologica dell'Occidente è ancora più accentuata di quella militare. Peraltro, un autore illustre quale Giovanni Arrighi ha efficacemente contestato il discorso che parla di restaurazione del capitalismo in Cina. E per quanto riguarda l'aggettivo «autoritario», Helmut Schmidt fa notare che l'informazione in Cina relativamente all'Occidente è nettamente superiore all'informazione in Occidente relativamente alla Cina. L'aggettivo «autoritario» fa pensare a un sistema chiuso nel quale non circolano le idee provenienti dal mondo esterno. Ha senso applicare tale aggettivo a un paese come la Cina, le cui élite intellettuali regolarmente studiano e si formano in Occidente e le cui università pullulano di visiting professors provenienti in primo luogo dagli USA?
A pag.242, lei scrive delle guerre scatenate dagli USA "senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU". Questa legittimazione giuridica le avrebbe forse rese meno criminali (si veda, per esempio, il caso dell'aggressione contro l'Iraq del 1991)?
La legittimità di una decisione non significa che essa sia saggia e giusta: ciò vale sul piano nazionale come su quello internazionale. Per quanto riguarda quest'ultimo piano l'Organizzazione delle Nazioni Unite presenta non pochi limiti: la pressione che in occasione di votazioni importanti i paesi più ricchi esercitano sui paesi più poveri (in quel momento membri a rotazione del Consiglio di sicurezza) fa pensare alla capacità di corruzione e di intimidazione della grande ricchezza nel processo democratico delle società capitalistiche; ma la pretesa di una grande potenza o di una grande «civiltà» di poter decidere in modo sovrano le sue spedizioni punitive è sul piano delle relazioni internazionali l'analogo di quello che il colpo di Stato rappresenta all'interno di un singolo paese.
Lei non pare favorevole al contenimento della tassazione quale misura per rilanciare la crescita economica (cfr. p.257)...
In Žižek (e in Sloterdijk) io critico la delegittimazione dell'imposizione fiscale progressiva (che è il fondamento dello Stato sociale), critico la regressione al discorso proto-liberale o neoliberista, che pretende di «risolvere» la questione sociale facendo appello alla generosità o carità individuale, piuttosto che a una norma e a un ordinamento oggettivo. Il livello della tassazione va invece decisa a partire dall'analisi concreta delle condizioni vigenti in un determinato paese e in un determinato contesto politico ed economico.
20 gennaio 2015
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