Gheddafi, l’Italia e la risoluzione 1973. Intervista con Carlo Jean Stampa E-mail

Gheddafi, l’Italia e la risoluzione 1973. Intervista con Carlo Jean

a cura di Francesco Algisi

 

gheddafi  Carlo Jean, Generale di Corpo d’Armata, è stato Capo dell’Ufficio Pianificazione Finanziaria e Bilancio dello Stato Maggiore dell’Esercito e Capo del IV Reparto dello Stato Maggiore della Difesa. È membro del Consiglio Scientifico della Treccani, del Comitato Scientifico della Confindustria e del Comitato Scientifico della Fondazione Italia-Usa. Collabora con la rivista di geopolitica Limes in qualità di membro del Consiglio scientifico della stessa. Docente di Studi strategici alla LUISS di Roma e di Geopolitica al Link Campus-Università di Malta, è autore e curatore di numerosi libri e saggi tra cui ricordiamo: Manuale di studi strategici (Franco Angeli, 2004), Manuale di geopolitica (Laterza, 2007), Militaria. Tecnologie e strategie (Franco Angeli, 2009), Italiani e Forze armate (Franco Angeli, 2010).

  Generale Jean, perché secondo lei la Russia e la Cina non hanno posto il veto alla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla Libia?

  Penso che i motivi siano stati due: innanzi tutto, perché ormai la repressione in Libia stava diventando intollerabile anche per l’opinione pubblica russa e per quella cinese; in secondo luogo, perché sicuramente Mosca e Pechino puntavano sulla divisione dell’Occidente. Divisione che si è poi realizzata.

  Sul Messaggero del 19 marzo 2011 lei ha scritto che gli Stati Uniti speravano nel veto di Mosca e Pechino nel Consiglio di sicurezza dell’Onu...

  L’apposizione del veto da parte della Russia e della Cina avrebbe consentito di chiudere la vicenda lasciando ai Libici ogni decisione relativa alla sorte del loro Paese senza l’intervento della comunità internazionale, quindi senza un impegno che avrebbe comportato oneri, spese e divisioni anche all’interno della comunità internazionale.

  In questi giorni si è detto e scritto che l’Italia non poteva esimersi dal partecipare alla missione contro la Libia. È realmente così?

  Evidentemente per noi i rapporti con la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti sono rapporti privilegiati: essi hanno sicuramente un’importanza di estremo rilievo per la politica estera nazionale. Inoltre, gli altri Paesi sarebbero intervenuti e, in tal caso, chi è assente ha sempre torto. Insomma, siamo intervenuti anche per difendere i nostri interessi nazionali.

  Non avremmo potuto assumere una posizione simile a quella della Germania?

  Questa sarebbe stata una delle opzioni. Però la decisione politica si è basata sulla priorità degli interessi congiunti che avevamo con gli altri Paesi menzionati poc’anzi: tali interessi erano superiori alla tensione che si sarebbe creata con la Libia. Bisogna poi dire che, facendo parte della coalizione, l’Italia può svolgere un’opera di mediazione e di moderazione rispetto agli atteggiamenti più bellicosi dei Francesi e degli Inglesi.

  L’art. 4 del Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008, prevede che “l'Italia non userà, né permetterà, l'uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l'uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l'Italia”…

  Dal punto di vista giuridico, sicuramente il Trattato è tuttora in vigore, come ha dimostrato il Prof. Natalino Ronzitti in un saggio particolarmente approfondito pubblicato sul sito dello IAI (Istituto Affari Internazionali): vi si legge come il Trattato non possa essere decaduto in quanto la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, sottoscritta anche dall’Italia, prevede che gli accordi fra Stati non possono essere modificati in modo unilaterale. Nel caso del Trattato con la Libia, inoltre, non è contemplata alcuna clausola di decadenza. Queste, peraltro, sono argomentazioni giuridiche alquanto sottili. La risoluzione 1973, collegata soprattutto con la risoluzione dell’Onu sul diritto di protezione delle popolazioni soggette a vessazioni e ad attacchi indiscriminati, dà sostanzialmente ragione all’interpretazione del governo italiano sul fatto che il Trattato è di fatto decaduto, poiché la Libia è venuta meno al rispetto dei diritti umani.

  Che cosa avrebbe dovuto fare il governo di Tripoli di fronte alla ribellione violenta e armata di una parte della popolazione?

  La risposta dipende molto dalla struttura sociale della Libia, che non è uno Stato-nazione ma un insieme di tribù e di regioni, le quali, anche storicamente, sono molto differenti tra di loro e sono state sempre divise (esse sono state unite a seguito dell’occupazione coloniale italiana). Di conseguenza, il governo di Tripoli, sostenuto da alcune tra le maggiori tribù in Tripolitania e nel Fezzan, ha represso la rivolta pensando che questa non potesse espandersi più di tanto.

  Entro quali limiti il governo libico avrebbe dovuto mantenere la repressione di una rivolta che poneva in discussione l’autorità del governo stesso e l’integrità territoriale della Libia?

  Non possiamo ragionare sulla base di ipotesi, ma dobbiamo attenerci alla realtà. Sicuramente ha influito molto l’astio esistente tra la Tripolitania e la Cirenaica e tra le stesse tribù libiche. Ricordiamo che le tribù sono 140, di cui una trentina sono le maggiori (tre le più grandi): esse sono sempre state in competizione tra di loro. Molto verosimilmente il governo libico pensava di poter domare la rivolta come già aveva fatto con le precedenti sommosse scoppiate rispettivamente nel 1993 e nel 1996.

  Sul piano umanitario, qual è la differenza tra la situazione creatasi in Libia in queste settimane e quella che si era instaurata a Gaza durante l’operazione “Piombo fuso” all’inizio del 2009?

  Sono due cose completamente differenti. Innanzitutto perché nel caso dell’operazione “Piombo fuso” esisteva uno Stato democratico come quello di Israele che impiegava la forza sotto il controllo dell’autorità politica. In Libia, a mio avviso, la situazione è scappata di mano.

  Secondo lei, quanto tempo potrà resistere Gheddafi?

  Per dei mesi, se vuole. La prima fase dell’attacco delle forze della coalizione si è concentrata soprattutto sulle basi aeree, sul sistema di difesa contraereo e sulle colonne di rifornimento logistico al di fuori delle città. Ora la maggior parte delle forze fedeli a Gheddafi, che sono piuttosto consistenti e sicuramente bene armate ed equipaggiate, si trova all’interno delle città: lì il potere aereo occidentale subisce limitazioni fortissime per il semplice fatto che bisogna evitare di fare più morti civili di quelli provocati dalla repressione di Gheddafi.

  Il destino del Colonnello pare comunque segnato…

  Su questo ho qualche dubbio. La sconfitta di Gheddafi è diventata molto probabile soprattutto da quando la Turchia si è allineata alla richiesta di Obama volta a ottenere la rinuncia al potere da parte del Leader libico. Però la partita è ancora aperta. Si è visto che la piazza araba è in rivolta contro l’Occidente. Qualche giorno fa il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, è stato aggredito al Cairo. E non è da escludere una reazione abbastanza forte da parte delle masse arabe che sicuramente condizionerà le decisioni dei governi degli Stati della coalizione. Gheddafi, inoltre, non può cedere.

  Perché?

  Perché se cedesse, tradirebbe le tribù che gli sono fedeli e, così facendo, perderebbe la faccia. Non dimentichiamo che l’onore costituisce uno degli aspetti fondamentali della cultura araba. Mentre Gheddafi e i suoi familiari al limite potrebbero rifugiarsi all’estero – lo Zimbabwe e il Venezuela hanno offerto l’asilo politico – salvando la pelle e il denaro, le tribù fedeli al Colonnello – in Tripolitania, nel Fezzan e anche in Cirenaica – rimarrebbero esposte alla rappresaglia dei vincitori.

  Gheddafi, comunque, non riveste formalmente alcuna carica in Libia…

  Questo dipende dal fatto che in Libia, dal punto di vista formale, non c’è una costituzione. La Jamāhīriyya è una sorta di governo del popolo regolato da un sistema di rappresentanza dei comitati popolari che, per certi versi, trova fondamento nel Corano. Il Libro sacro dell’Islam, infatti, prevede il majlis e la jirga, espressioni delle tribù e dei clan in cui sono divisi gli Stati islamici come la Libia, l’Afghanistan, lo Yemen e, in un certo senso, la Somalia.

 

23 marzo 2011

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