Gli occhi di Stalin. Intervista con Gian Piero Piretto |
Gli occhi di Stalin. Intervista con Gian Piero Piretto a cura di Francesco Algisi
Gian Piero Piretto (1952) si è laureato in Lingue e letterature straniere (lingua e letteratura russa) all'Università di Torino. Ha insegnato nelle Università di Torino, Bergamo e Parma. Dal 1994 è docente di Cultura russa e Metodologia della cultura visuale presso l’Università statale di Milano. Curatore dell’edizione in lingua italiana delle opere di Čechov, Okudzava, Popov e Gavrilov, ha scritto numerosi saggi, tra cui Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche (Einaudi, 2001). Il suo ultimo volume – oggetto di questa intervista - è intitolato Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana (Raffaello Cortina Editore, pagg.248, Euro 22,00).
Prof. Piretto, lei scrive (cfr. pag. 42) che l’iconografia leninista privilegiava la dinamicità del portamento, mentre la caratteristica dominante di quella staliniana era la staticità. Qual era il messaggio che le due iconografie volevano trasmettere e veicolare? Gli anni immediatamente successivi al 1917 erano stati segnati da una grossa necessità di accelerare i tempi, di recuperare in fretta il passato borghese e l’arretratezza della Russia zarista. Quindi, c’era bisogno di un leader che incarnasse anche queste esigenze; e infatti Lenin era costantemente rappresentato con il cappotto al vento, mentre indicava la strada con la mano e il dito tesi. Alcuni hanno voluto addirittura vedere come radice ispiratrice di questo atteggiamento l’icona della Madonna Odigitria che ha la mano tesa benedicente ma pure indicante una strada. La strada doveva essere tracciata con la massima fretta possibile. A questo va aggiunto che Lenin veniva raffigurato con il kepì che ne segnalava ulteriormente l’appartenenza al proletariato e alla categoria degli operai. Tutto concordava nell’assegnare a Lenin il ruolo di guida sul campo, quasi sempre rappresentato all’aperto, su un podio, in situazioni anche di difficoltà sul piano climatico, che sottolineassero la sua storia, l’arrivo al vagone blindato, la capanna in cui era dovuto stare nascosto. Lenin, d’altra parte, era un uomo d’azione proveniente dal circolo dei rivoluzionari di estrazione proletaria. Con Stalin invece si passa a un socialismo realizzato (per lo meno sulla carta): quindi, l’immagine del capo deve mutare. La strada, precedentemente segnata e già percorsa, negli anni staliniani comincia a mostrare i risultati. Stalin è un uomo non tanto d’azione quanto di pensiero. Dunque, l’iconografia lo vuole spesso seduto al tavolino con libri e penne. C’è un manifesto famoso (di cui parlo nel libro) ripreso anche in un film: vi si nota Stalin seduto di notte allo scrittoio al Cremlino mentre lavora “per il bene di ciascun cittadino”. Secondo la leggenda, c’era una finestra del Cremlino presso cui si teneva sempre la luce accesa perché chi passava sulla Piazza Rossa potesse dire: “ecco, là c’è Stalin che lavora per noi”. Stalin, nei propri scritti, si è occupato di molte questioni, dalla linguistica alla letteratura, dalla politica alla storia (ha scritto persino poesie): l’iconografia voleva sottolineare questo suo aspetto di uomo di lettere e di pensiero. Anche quadri, striscioni e quant’altro lo rappresentavano quasi sempre all’interno, al chiuso o durante i banchetti al Cremlino, comunque in un posto per così dire sicuro. Questo poteva forse nascere da sue pulsioni personali, giacché aveva terrore delle folle. Se Lenin era un oratore che arringava la folla e attraverso l’oratoria riusciva a ottenere i suoi risultati, Stalin lo faceva con il presenzialismo dell’icona, della rappresentazione del suo corpo (statua o altro) e attraverso i libri e gli scritti, non mediante la voce. La cultura della propaganda sovietica era “centripeta”, si legge a pag.44… Significa che il punto di tensione, la direzione vettoriale era rappresentata da Mosca, dalla Piazza Rossa e dal Cremlino. Quindi, chi meritava un premio (dall’onorificenza al diritto di sfilare davanti o sotto gli occhi di Stalin) per riceverlo doveva recarsi sulla Piazza Rossa. Stalin non si spostava, non si scomodava per raggiungere i territori più sperduti del Paese, ma occupava la sua tribuna sul mausoleo di Lenin: chi si era conquistato il premio arrivava lì a riceverlo. Anche la rappresentazione, la letteratura e il cinema hanno contribuito a sottolineare questo aspetto. Tutto il Paese tendeva a Mosca e tutto si svolgeva nella Capitale (per esempio, le riunioni degli stacanovisti). Nella struttura urbanistica a circonvallazioni concentriche di Mosca si è voluto vedere una conferma del fatto che il centro, l’ombelico di tutto il Paese fossero la Piazza Rossa e il Cremlino. All’interno del Cremlino – tanto più segreto quanto più centrale – vi erano i “territori” privati: l’appartamento privato, le sale di grande rappresentanza cui erano ammessi esclusivamente gli eroi del lavoro, gli stacanovisti, coloro che per prestigio si fossero guadagnati l’ammissione a quel territorio sacrale. Il nazismo, invece, era “centrifugo”: ogni città tedesca (e probabilmente anche ogni villaggio) poteva diventare sede di manifestazioni e di sfilate. Hitler si concedeva molto spesso al popolo, fendeva e attraversava la folla, cosa di cui Stalin aveva una vera e propria fobia. Poiché Hitler era decentrato rispetto a Berlino, i luoghi sacralizzati in Germania si moltiplicavano. Per l’occasione si costruivano monumenti particolari legati alla tradizione germanica e collegati al nuovo “culto” nazionalsocialista: essi potevano ospitare quei giganteschi, mastodontici raduni, i bagni di folla per Hitler. In Unione Sovietica, invece, Stalin non avrebbe mai fatto ciò anche a causa delle sue fobie. Non si sentiva sicuro nemmeno della lingua russa che parlava (era di origine georgiana e non aveva un’oratoria, una facondia come quella di Hitler): anche su questo aveva giocato la costruzione dello spazio culturale. Che cosa intende con l’espressione “tradizionalismo populistico” staliniano (pag.63)? È un punto molto complesso. I concetti di populismo e di spirito popolare (o spirito del popolo) hanno un’antichissima tradizione russa, legata precedentemente alla religione ortodossa e sfruttata anche dall’autocrazia zarista. L’Unione sovietica prima e Stalin poi hanno a loro volta fatto ricorso a questo concetto di spirito del popolo, traducendolo naturalmente a seconda delle proprie esigenze in un linguaggio sovietico. Negli anni staliniani, l’aspetto più interessante di questa nuova declinazione consisteva nel far risultare come esigenze nascenti dal popolo quelle che il realismo socialista, per esempio, poneva all’ordine del giorno. Quindi, non si facevano arrivare dall’alto delle imposizioni, ma si costruiva un discorso volto a legittimare tutta una serie di regole in ambito artistico (il canone artistico dettato dal realismo socialista) come esigenze della popolazione. Restava l’antico spirito popolare dei russi tradotto in chiave proletaria, operaia, contadina, depurato però di tutto ciò che fosse religione, superstizione, folclore. Si uccideva così uno degli aspetti più profondi dello spirito russo: la malinconia, la tendenza al sacrificio. Stalin aveva imposto l’allegria di Stato, la gioia di vivere proclamata dallo Stato a cui non restava che adeguarsi, convincersi e autoconvincersi di goderne e di farne parte. Anche questo era stato chiamato narodnost’, l’antico termine cui era stato attribuito un nuovo significato. Come si spiega il recupero da parte di Stalin, nei primi anni Trenta, “di modalità passatiste e atteggiamenti demodé” (cfr. pag.63)? Ciò era dovuto alla necessità di creare una nuova classe elitaria, la nuova intelligentsia: i dirigenti dello Stato sovietico staliniano non dovevano più essere i rozzi proletari giunti al potere con la rivoluzione d’ottobre, ma dovevano essere preferibilmente giovani capaci di comportarsi secondo le buone maniere. Costoro dovevano conoscere il galateo, apprezzare la musica e l’arte, sapersi vestire con gusto e meritare quindi anche una produzione di beni materiali e di consumo (per esempio, di cosmetici). Ci sono moltissimi manifesti pubblicitari propagandistici che segnalano l’esistenza in Unione sovietica di rossetti e profumi: questi prodotti, che la rivoluzione bolscevica aveva bollato e condannato come feticci borghesi e superati, vennero recuperati da Stalin per la sua nuova élite. Tali vantaggi erano riservati – questo è un aspetto molto interessante – a pochi “eletti”, ma venivano esaltati e ostentati come nuove conquiste affinché fossero fatti propri per emulazione anche dalla gente comune. Tutti sapevano che taluni vestiti, prodotti alimentari o automobili, per esempio, esistevano solo per chi avesse saputo meritarseli. Ciò avrebbe suscitato non solo la cosiddetta emulazione socialista, ma anche molto più banali invidie e gelosie: tutto era stato investito in questa direzione. Non erano più tollerati il contadino maleducato o l’operaio malvestito incapace di stare seduto a tavola come si deve: doveva nascere una nuova classe. Sorse così il concetto di “lusso democratico”, improntato ai principi della competizione e dell’emulazione socialista; era un lusso che si pretendeva antitetico a quello della competizione capitalista d’Occidente. Moltissimi film, manifesti e opere letterarie avrebbero efficacemente trasmesso e divulgato questo concetto. Nel concetto del “lusso democratico” rientra la figura del “dandy staliniano” (cfr. pag.171)? Sì. Il giovane (o la giovane) lavoratore d’assalto, stacanovista, aveva a disposizione cifre considerevoli di denaro, negozi riservati, prodotti non reperibili normalmente in commercio per vestirsi con eleganza, sfoggiare un’automobile decapottabile, frequentare caffè e ristoranti esclusivi con tovaglie di lino e champagne (champagne sovietico naturalmente, che doveva contrastare la diffusione della vodka e la piaga dell’alcolismo di antica memoria). Per questo ho parlato di “passatismo”: tutta una serie di oggetti condannati negli anni Venti erano tornati in auge (per es. il tradizionale samovar russo, che Majakovskij nei suoi versi aveva addirittura bollato come simbolo di superata intimità familiare e borghese, venne recuperato in nome della tradizione e rientrò fra gli oggetti che venivano dati in dono alle persone meritevoli). Ciò vale anche per il grammofono, che negli anni Venti era stato visto come simbolo del salotto borghese dove si suonavano le romanze tzigane: nei tardi anni Trenta Stalin lo resuscitò, trasformandolo in dono prezioso riservato ai soliti migliori rappresentati del Paese. In tal modo, vennero contraddetti i principi istituiti da Lenin e dai bolscevichi più duri negli anni Venti, con cui si erano condannati comportamenti, gusti, arredamento, oggetti ornamentali, soprammobili. Lei scrive (cfr. pag. 165) che l’ideologia staliniana raccolse i principi della religione, sostituendoli “al messaggio e al monito cristiano”… Stalin divenne una sorta di dio o di semi-dio da venerare o addirittura da adorare (lo stesso Chruščëv ne avrebbe condannato il culto della personalità). Le modalità di costruzione del discorso culturale e sociale, dopo la rivoluzione d’ottobre, avevano emulato la religione ortodossa: le prime festività sovietiche erano cadute nelle stesse date in cui si celebravano quelle religiose, cambiando semplicemente il nome della festa e sostituendo al Santo di turno la celebrazione dell’elettrificazione, del pilota o di altre categorie autenticamente sovietiche. In tal modo, si cercava di semplificare la vita a chi dovesse ancora una volta cambiare tutte le proprie abitudini: sarebbero stato più difficile convincere i contadini, legati al ciclo del raccolto che coincideva con le feste, se anche la data della festa fosse stata cambiata. Questo aveva avuto inizio negli anni Venti. Lenin post mortem era stato trasformato in una sorta di santo (mediante l’imbalsamazione) contro la sua volontà: egli, infatti, si era più volte detto contrario al sorgere di un culto pseudo-religioso per la propria persona. Stalin invece investì consapevolmente nella costruzione di un culto e in una ritualità che riprendeva il modello religioso. Quindi, se si può parlare di religione bolscevica per gli anni Venti, sicuramente si deve parlare di una religione staliniana per il periodo successivo: di tale “religione” Stalin era non solo l’oggetto di culto, ma anche il grande sacerdote, colui che attraverso la ritualità e la trasformazione della quotidianità in rito sfruttava le modalità religiose per raggiungere i propri obiettivi. Si dice che egli avesse inventato un’onorificenza per ogni cittadino sovietico, affinché nessuno si sentisse trascurato. Le occasioni di premiazione, di conferimento di medaglie etc. sostituivano la Chiesa e le feste religiose. Nei primi anni Venti, si cercò di investire su questo fronte anche per combattere l’alcolismo: c’era stata una campagna che denunciava le festività religiose come un’occasione per sbronze o ubriacature. Stalin sarebbe andato ancora più in là: avrebbe insegnato a brindare, a centellinare il bicchiere di champagne invece di ingurgitare la vodka come si faceva un tempo; invece di brindare a Natale, a Pasqua o nelle altre feste religiose “comandate”, lo si sarebbe potuto fare nelle occasioni che vedevano Stalin come dio, semi-dio, idolo pagano. Un’immagine del 1949, pubblicata - in occasione dei settant’anni del leader sovietico - sulla copertina di un rotocalco molto diffuso, vede Stalin sulla Piazza Rossa come una sorta di stella da cui emana una luce molto speciale e particolare, ovviamente staccato e in posizione molto più elevata rispetto alla folla che riempie la piazza: è indubbiamente un’immagine di “santificazione” a leader ancora vivo e operante. Che cos’è il “pathos idraulico” contrapposto al “pathos igneo” dei primi anni Venti (cfr. pag.71)? Queste sono espressioni un po’ criptiche e misteriose. Negli anni Venti, il fuoco ebbe notevole importanza, allorché l’iconoclastia tendeva a bruciare e a distruggere col fuoco (ho analizzato questo aspetto in un libro pubblicato una decina di anni fa). Era stata promossa, per esempio, la cremazione dei corpi in luogo della sepoltura. Il fuoco era il simbolo della rivoluzione. La locomotiva era diventata uno dei simboli più potenti (con il carbone che bruciava, il vapore, etc.): la forza della locomotiva corrispondeva alla forza della rivoluzione. Con il passaggio allo stalinismo, la strada era stata segnata (è un po’ quello che si diceva prima per l’iconografia) e non c’era più bisogno di un leader che cavalcasse la tigre e incendiasse: si approdò così al “pathos idraulico”, nella fattispecie a riempire Mosca di fontane. Questo rientra nella fantasmagoria della trasformazione di Mosca che - per fortuna - non venne realizzata fino in fondo. Il progetto per la ricostruzione della Capitale prevedeva una mediterraneizzazione della città: Mosca si sarebbe dovuta riempire di piante se non tropicali almeno mediterranee, getti d’acqua e fontane che ovviamente avrebbero potuto funzionare forse per un paio di mesi all’anno, ma avrebbero fornito l’immagine di una riclimatizzazione della città. Il nuovo albergo Moskva, costruito intorno alla metà degli anni Trenta, era provvisto di un caffè sul tetto, all’aperto, riservato alle categorie che già abbiamo identificato. L’architettura staliniana contemplava ballatoi, terrazze, balconi, arcate, come se fosse stata destinata a una città termale. Per questo l’attenzione dall’elemento fuoco si era spostata all’elemento acqua e il cinema si era riempito di getti di fontane. Alcuni hanno voluto leggere questo in chiave erotica o sessuale, con l’acqua come elemento fecondante o addirittura come metafora più o meno nascosta di eiaculazioni o realtà del genere. Personalmente non ne sono così convinto e non condivido queste interpretazioni. Sicuramente la presenza delle fontane è caratteristica degli anni staliniani: in seguito, venne progressivamente dimenticata perché il clima non era favorevole (insistervi sarebbe stata un’assurdità, un andare contro la natura). Perché Mosca, la capitale, veniva rappresentata nell’iconografia staliniana falsandone la realtà geografica (cfr. pag. 94)? Per il bisogno di trasformarla in una città che varcasse i limiti che la natura e la posizione geografica le avevano imposto. Si coltivava l’illusione di fare di Mosca una città di mare, una città termale o anche di collegarla con il fiume Volga (di qui un’altra grande epopea…). Poiché la natura non aveva concesso al mitico fiume della Russia di bagnare la mitica capitale, si costruì un canale che collegasse Mosca alla Volga: attraverso una serie di canali Mosca sarebbe stata ribattezzata la “città dei sette mari”. Non dimentichiamo che la Russia non aveva neppure un mare vero e proprio: questo era uno dei problemi che assillavano Stalin. Pietro il Grande aveva costruito San Pietroburgo sulle rive del golfo di Finlandia per avere un accesso al mare. Stalin con la costruzione dei canali (che peraltro erano anche campi di lavoro forzato) avrebbe cercato di rendere Mosca una città-porto: la natura, che aveva tanto spaventato le generazioni dei secoli precedenti per la sua potenza e la sua bellezza, era stata invece soggiogata dall’uomo staliniano e non incuteva più paura né timor panico perché era al servizio dell’uomo. Dunque, Mosca poteva diventare una città marittima con tutti i giochi architettonici ricordati poc’anzi. Naturalmente tutto ciò trionfava nella rappresentazione, mentre la realtà rimaneva quella di una città dove per dieci mesi all’anno regnavano il freddo e il gelo e le vie di comunicazione erano impraticabili. La mitologia, tuttavia, valeva più della realtà effettuale. Nel libro (cfr. pag.146), si parla anche della presenza delle “foglie di palme” nell’iconografia relativa alla nuova Mosca staliniana… Gli interni degli alberghi e dei palazzi erano pieni di palme e di ficus, perché si doveva simulare una realtà climatico-geografica che non corrispondeva a quella della natura russa. Lei scrive (cfr. pag. 135) che “il tratto comune a tutta l’architettura sovietica della seconda metà degli anni Trenta” fu il trionfalismo, mentre il primo periodo rivoluzionario era stato caratterizzato dalla “sobrietà spartana del costruttivismo”… Negli anni Venti, il costruttivismo promuoveva la semplicità, addirittura la scomodità proprio in virtù della lotta all’ornamentalismo, considerato borghese. Anche i mobili non dovevano avere cuscini e fronzoli, la lampadina doveva essere nuda, priva di abatjour e paralumi; le case dovevano essere – così come il costruttivismo testimonia – essenziali, senza balconi, con una planimetria molto razionale. Addirittura si era eliminata la cucina ritenendola il luogo di condanna della figura femminile. Dovevano esistere soltanto delle mense collettive o delle fabbriche-cucine, dove persone regolarmente assunte e pagate dallo Stato avrebbero cucinato per tutti. Il costruttivismo - spartano, semplice, privo di orpelli - lasciò tracce anche nell’abbigliamento, nell’arredamento, nella rilegatura delle copertine dei libri. Con Stalin ritorna invece il gusto dell’ornamentalismo, del dettaglio ornamentale, per premiare – come si diceva prima – coloro che lo avessero meritato, e per sostenere in ambito architettonico il discorso relativo alla riclimatizzazione della città. Quindi, balconi, terrazze, balconate assolutamente anacronistici e scarsamente fruibili (vista la situazione climatica) dovevano portare all’estero una certa immagine di Mosca e del territorio circostante. Che cosa faceva rientrare la censura staliniana nell’accusa di “formalismo” (cfr. pag.161)? Il “formalismo” era un atteggiamento artistico-letterario non aderente in toto al canone del realismo socialista e caratterizzato da un gusto e da uno stile suscettibili di molteplici interpretazioni. Invece di essere semplice, facilmente comprensibile, condivisibile e soprattutto unilaterale (come il realismo socialista esigeva), il formalismo lasciava aperte possibilità di lettura tra le righe, di sguardi diversi e svariati punti di vista. Un’opera letteraria, cinematografica o artistica che non veicolasse una sola possibilità di lettura veniva prontamente accusata di formalismo. Tale accusa significava anche, molto più genericamente, mancata adesione ai canoni di ciò che si potrebbe definire come kitsch: immediata comprensione, emotività facile e scontata, condivisione soprattutto empatica (provo la stessa reazione che provano tutti gli altri e in questo riconosco il bene di quest’opera artistica). Le opere censurate – nel cinema, nella musica o nella letteratura – erano invece di più difficile interpretazione, richiedevano un’attenzione particolare e offrivano di conseguenza possibilità di lettura diverse da quelle previste dall’ideologia ufficiale. Quindi, come per gli esseri umani si era inventata la formula di “nemico del popolo” che non aveva una ben precisa morfologia (chiunque oggi potrebbe diventare nemico del popolo, sebbene ieri non lo fosse, proprio perché la definizione era duttile ed elastica), così era per l’accusa di formalismo che prendeva le mosse dalla corrente teorica degli anni Venti (i formalisti suggerivano di prestare più attenzione al procedimento che non al risultato, di indagare, per esempio, con quali tecniche e artifici un romanzo fosse stato scritto e di non ragionare soltanto sull’esito finale dello stesso). Il realismo socialista, invece, si disinteressava totalmente del procedimento e mirava solo al trionfalismo, al grande effetto eroico finale (per esempio, quando il minatore Stakhanov realizzò il proprio primato, nessuno si chiese o si sarebbe mai permesso di interrogarsi su come avesse fatto a raggiungerlo: contava soltanto l’esito ottenuto e l’effetto trionfale, l’effetto di condivisione emotiva). Chi avesse pensato in altro modo sarebbe stato accusato di pensiero formalista e di voler indagare dettagli e particolari che ormai il realismo socialista aveva cancellato e accantonato. Come interpreta il recupero della funzione materna all’inizio degli anni Trenta insieme con la rinnovata proibizione di aborto, divorzio, omosessualità e liberalizzazione sessuale (cfr. pag.117)? Rientra anche questo nel recupero di “passatismo”. Nella loro furia iconoclasta, gli anni Venti avevano bollato anche la famiglia come un residuo della mentalità borghese, della proprietà privata, della gelosia: tutti sentimenti filistei sconosciuti all’uomo nuovo bolscevico. Si parlava di coppia aperta, di liberalizzazione sessuale, di rivalutazione della figura femminile anche attraverso una maggiore disinvoltura nell’approccio al sesso. Questa era un’utopia che sarebbe sfociata in un tragico aumento degli aborti, perché il maschilismo innato nella cultura russa faceva sì che l’attenzione nei confronti delle donne, per quanto liberalizzate, fosse molto scarsa. A un certo punto, verso la metà degli anni Venti, sembrava che l’Unione sovietica potesse diventare il Paese della liberalizzazione sessuale dal quale il resto dell’Europa avrebbe preso esempio e modello. Con Stalin tutto ciò venne rifiutato perché, da un lato, se ne era verificato lo scarso funzionamento: sicuramente il modello utopistico era fallito (non aveva funzionato, diciamo un po’ più eufemisticamente…). Poi c’era di nuovo bisogno di nuclei familiari e di ridare alla donna un ruolo che aveva perso: il matriarcato slavo di antica concezione doveva tornare in auge. Si riprese a parlare della bellezza dell’intimità. Anche la pianificazione degli appartamenti abbandonò le utopie degli anni Venti. La donna-madre doveva tornare a farsi carico dell’educazione dei figli, mentre negli anni Venti si diceva che soltanto lo Stato sarebbe stato responsabile dell’educazione dei bambini (i bambini sarebbero stati portati tutti negli asili). La pianificazione costruttivista delle case aveva previsto anche degli asili per ogni futuro palazzo. Con Stalin si assiste all’ennesima retromarcia: si rivaluta la modalità tradizionalmente russa della madre, coinvolta sì nel lavoro e nella costruzione del socialismo, ma soprattutto dedita alla cura della prole e, per così dire, angelo del focolare. Anche questo rientra nel recupero di un passatismo e nella rivalutazione molto particolare della figura femminile. Studiando i manifesti di pubblicità e di propaganda si vede che, se la donna negli anni Venti era mascolina, vestita spartanamente, alla costruttivista, magari anche in maniera trasandata, la donna staliniana invece aveva il diritto, ove se lo fosse meritato e conquistato, di avere un abito frivolo, di utilizzare cosmetici, di essere elegante; al contempo doveva essere responsabile dell’unità familiare. Addirittura dopo la guerra si sarebbe istituito il titolo di “madre eroina” per chi avesse partorito più di undici figli (ciò succedeva anche nel fascismo italiano e nel nazismo tedesco, quindi non era una caratteristica solo staliniana). Sicuramente il “ribaltamento” della figura femminile rientra nell’investimento staliniano a rieducare anche dal punto di vista del galateo e delle buone maniere la popolazione sovietica. Come il proletario rozzo e villano non era più tollerato, allo stesso modo non si concepiva più la donna malvestita, mal pettinata o troppo mascolina. C’era stata una rifemminilizzazione dell’immagine della donna, con il contestuale recupero dei doveri e degli atteggiamenti comportamentali della donna che la rivoluzione bolscevica aveva condannato. Quindi, la cultura visuale sovietica nell’era staliniana aveva anche una funzione pedagogica… Sicuramente. Essa mirava a fornire una visione del mondo in cui credere. Tutti erano consapevoli che la realtà quotidiana in cui vivevano non corrispondesse a quella mostrata al cinema o dipinta sui manifesti. Però l’ideologia obbligava l’artista a rappresentare la quotidianità non nella sua banalità grigia, abitudinaria di tutti i giorni, ma così come le conquiste l’avrebbero presto trasformata. Nell’attesa di viverla realisticamente, si cominciava a percepirla attraverso la cultura visuale. Questo era il grande compito, la grande responsabilità di tutto ciò che afferiva alla cultura visiva: fornire un’anticipazione, che venisse percepita come già esistente, di ciò che l’ideologia avrebbe creato dei trionfi imminenti del socialismo. È possibile individuare alcuni tratti comuni alla cultura visuale dell’Urss staliniana e a quella dell’Italia fascista? Questo è un tema assai complesso. Ci sono moltissimi studi che comparano il nazismo, il fascismo e lo stalinismo. Sicuramente alcuni tratti possono sembrare simili o addirittura coincidenti. In realtà ci sono molte sfumature che ne segnalano la distanza e la differenza. Apparentemente tutto era investito sul bel corpo plastico, però anche nel nudo maschile e in quello femminile ci sono differenze piuttosto considerevoli che richiederebbero un libro intero. Segnalerei soltanto in questa occasione l’apparente sovrapposizione e la troppo facile tendenza a vedere nei tre grandi totalitarismi del Novecento punti comuni. In realtà, dietro le apparenze ci sono notevoli differenze – proprio perché ogni dittatore conosceva molto bene il proprio Paese e la propria popolazione e quindi sapeva investire con estrema, efferata sofisticazione nei particolari che quel popolo specifico avrebbe saputo cogliere e a cui avrebbe più facilmente abboccato.
16 dicembre 2010 Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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