La Guerra fredda e l’Italia. Intervista con Ennio Di Nolfo Stampa E-mail

La Guerra fredda e l’Italia. Intervista con Ennio Di Nolfo

a cura di Francesco Algisi

 

dinolfo_guerrafredda  Ennio Di Nolfo, nato a Melegnano nel 1930, laureatosi a Pavia nel 1953, ha insegnato all’Università di Padova, alla Luiss e nella Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, dove oggi è professore emerito di Storia delle Relazioni internazionali. È vice presidente della Commissione per la pubblicazione dei Documenti diplomatici italiani, editorialista di politica internazionale per  Il Messaggero, direttore della collana “Storia delle relazioni internazionali” presso la casa editrice Polistampa di Firenze. Ha pubblicato da ultimo: Le paure e le speranze degli Italiani1943-1953, Milano 1986 (premio Acqui storia), Dagli Imperi militari agli imperi tecnologici.La politica internazionale dal XX secolo a oggi, Bari-Roma 2007 (premio Sissco nel 2002 per la prima edizione), Dear Pope (corrispondenza di M.C. Taylor con i presidenti americani 1939-1952), Roma 2003, Prima lezione di storia delle relazioni internazionali, Roma-Bari 2006, Storia delle Relazioni Internazionali dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari 2008, La Gabbia infranta. Gli alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, Roma-Bari 2010 (coautore Maurizio Serra). È altresì autore del volume La Guerra fredda e l’Italia (Polistampa, pagg.696, Euro 48,00), in cui ha esaminato alcuni momenti importanti della politica italiana in relazione al “conflitto” tra Stati Uniti e Unione Sovietica dal 1943 al 1989.

  Professor Di Nolfo, che cosa intende dire esattamente quando scrive – pag. 73 del libro La Guerra fredda e l’Italia - che, in pratica, “il Patto Atlantico non è mai esistito se non sulla carta che ne esplicita il contenuto giuridico”?

  Intendo dire che il Patto Atlantico, in quanto alleanza teoricamente difensiva, è esistito come documento. Nella prassi, tuttavia, non ha mai avuto occasione di essere applicato se non dopo la fine della Guerra fredda (per esempio nel caso dell’Afghanistan e, se non ricordo male, dell’Iraq). La clausola dominante del Patto Atlantico è rappresentata dall’art. 5, un articolo che si presta a tante letture e sul quale c’è una disputa che dura dal 1949. L’art. 5 dice che, in caso di aggressione a uno dei Paesi membri dell’alleanza, gli altri sono solidali con l’aggredito e ciascuno adotta le reazioni appropriate. Il Patto è sottoposto a una condizione seria e molto complessa: la volontà del Senato americano di accettare la decisione relativa ai modi di soccorrere l’aggredito. Questo ha sempre posto il problema della credibilità della garanzia americana, tranne per gli anni di Carter e degli euromissili (che erano praticamente automatici, dal momento che imponevano una reazione nell’ordine di tre-quattro minuti di tempo). Insomma, il Patto atlantico, secondo me, non è mai esistito perché non ha mai avuto occasione di essere utilizzato in quanto tale.

  Lei scrive (cfr. pag. 84,) che la NATO doveva costituire, nelle intenzioni degli Americani, la base per il riarmo della Repubblica Federale Tedesca…

  Come alleanza politica, il Patto atlantico durò praticamente un numero limitato di mesi (dall’aprile 1949 al giugno 1950, quando scoppiò la guerra di Corea). Quest’ultima offrì agli Americani e ai Tedeschi l’occasione per porre il problema relativo al comportamento che avrebbero tenuto gli Europei nel caso di una “guerra per procura” (così veniva definita in quegli anni la guerra di Corea) in Europa. Gli Europei non avevano ancora un esercito adeguato e senza le truppe tedesche non sarebbero stati in grado di difendersi. Quindi sorse in quel momento (estate 1950) il problema della formazione di un esercito europeo. Esso si poteva costituire soltanto attraverso il riarmo della Germania, che però - se fosse stato riservato solo alla Germania – avrebbe incontrato l’ostilità francese. Bisognava perciò inserirlo in una serie di organismi, il primo dei quali era la Nato e il successivo sarebbe stata la Comunità europea di difesa (quest’ultima entrerà in funzione più tardi, alla fine del 1954, trasformata in Unione Europea Occidentale, dopo la bocciatura, in agosto, del Trattato CED da parte dell’Assemblea nazionale francese).

  Perché, secondo lei, la “Guerra fredda non ha mai avuto luogo” (cfr. pag. 73)?

  Questo è uno dei miei paradossi. Se si guarda alla storia del Seicento e del Settecento, si nota che dal 1648 al 1815 tra la Gran Bretagna e la Francia c’è stata una lunga guerra fatta di tanti conflitti minori, più limitati (la Guerra dei sette anni, la Guerra di successione spagnola, la Guerra per l’indipendenza americana, le Guerre napoleoniche). Nessuno, però, pensa di definire questo periodo come la “grande guerra” tra la Gran Bretagna e la Francia: tutti utilizzano le dizioni specifiche. Anche nel caso della Guerra fredda, la generalizzazione a mio parere semplifica molto una serie di episodi diversi. Penso che la Guerra fredda – come spiego anche nelle prime pagine del libro – sia stata il frutto di due diversi modi di evolvere della società americana e di quella russa (prima) e sovietica (poi). Il modo di evolvere della società americana portò gli Stati Uniti a esportare verso l’Europa i modi di produzione e il sistema economico-politico americani: ciò fu in contrasto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, con il modo di produzione e di impostazione del sistema politico sovietico. Poiché nel 1947 i Sovietici non accettarono il Piano Marshall (d’altra parte, se lo avessero fatto, avrebbero dovuto accettare la logica del sistema capitalistico), nacque un conflitto che però, in quel momento, riguardava soltanto l’Europa e soprattutto il controllo della Germania. Tra il 1947 e il 1955 il problema del controllo della Germania si risolse: con l’ingresso della Repubblica Federale Tedesca nel Patto atlantico, da un lato, e con quello della Repubblica Democratica Tedesca nel Patto di Varsavia, dall’altro, la situazione in Europa si stabilizzò al punto che, quando nel 1956 scoppiò la rivoluzione d’Ungheria, nessuno si mosse. Tra il 1947 e il 1955, ebbe luogo un conflitto tra gli Stati dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale, rispetto al quale gli Stati Uniti dall’esterno appoggiarono l’Europa occidentale. Tale conflitto si concluse grosso modo nel 1955 e si spostò in un altro settore, nel Mediterraneo. Dal 1956 in poi, dopo la guerra di Suez, la guerra israelo-palestinese e la rivoluzione ungherese, cominciò la fase mediterranea della Guerra fredda, che durò fino all’inizio degli anni Settanta. Al tempo stesso tutto si spostò in Africa e nei Paesi in via di decolonizzazione. A questo punto, è legittimo dare a tutti questi fenomeni profondamente diversi (perché nel primo caso siamo di fronte a un conflitto tradizionale europeo, nel caso del Mediterraneo siamo davanti a un conflitto tradizionale mediterraneo e nel caso africano e della colonizzazione siamo davanti a un fatto del tutto nuovo come la rivolta dei popoli coloniali contro le potenze colonizzatrici, rispetto alle quali le superpotenze prendono posizione) la denominazione di Guerra fredda, inserendoli nel contesto europeo o mediterraneo? Si tratta in realtà di episodi distinti, che soltanto per una chiarezza storiografica vengono sussunti sotto la stessa etichetta di Guerra fredda. Se poi consideriamo anche la distensione, dal 1971 al 1975, vediamo che c’è addirittura un vuoto di conflitto (la distensione è il contrario della guerra). Tra il 1976 e il 1979 il conflitto riprese con la questione degli euromissili e con l’attacco sovietico all’Afghanistan. Ma nel 1982, quando cominciarono seriamente i negoziati di Ginevra (1982-1985), e soprattutto con l’arrivo al potere di Gorbaciov nell’Unione sovietica, si aprì una nuova fase nella quale i negoziati prevalsero sul conflitto. Prevalendo sul conflitto, è legittimo chiamare ancora Guerra fredda questa fase dei rapporti bipolari? La risposta rimane aperta, perché coinvolge una questione di terminologia, di chiarezza storiografica e di propensione degli storici ad assegnare etichette a periodi più o meno lunghi e di varia natura.

  Dunque, lei – a differenza di altri studiosi - non ravvisa nella Guerra fredda una sorta di Terza guerra mondiale…

  Penso, al contrario, che la Guerra fredda sia stata paradossalmente il più lungo periodo di pace di cui abbia goduto l’Europa. Le guerre balcaniche, infatti, sono cominciate dopo la fine della Guerra fredda (questo è un fatto significativo e importante). Non credo che si possa usare il concetto di Guerra fredda per descrivere qualcosa che abbia davvero travolto l’Europa. Certamente essa condizionò il modo di essere di una parte dell’Europa, soprattutto quella orientale, la quale dovette assumere comportamenti, modi di produzione e forme di distribuzione del lavoro che ne rallentarono la crescita economica (come si è visto dopo il 1989 con il crollo del sistema sovietico).

  A pag. 83 lei spiega che furono gli Europei a “invitare” gli Americani a stipulare un’alleanza militare dopo la Seconda guerra mondiale, mentre la creazione della NATO non sarebbe stata il risultato di tale invito europeo, bensì dell’espressa volontà americana…

  Questo è un discorso storiografico molto lungo e complesso, in ordine al quale ci sono due scuole. Lo storico norvegese Lundestad, rappresentante della prima scuola, sostiene che l’Impero americano sull’Europa sorse su invito europeo. Egli ritiene – come spiega nel suo saggio principale intitolato Empire for invitation - che gli Europei abbiano praticamente invitato gli Americani nel 1946-47 a occuparsi dell’Europa e a sorreggerla di fronte alla minaccia sovietica. A mio parere, la realtà è molto più soffice, misurata e non così radicale. Ponendo l’inizio del conflitto nel 1947 grosso modo (è una delle ipotesi che si possono fare), il Piano Marshall non fu soltanto l’espressione del bisogno degli Europei di essere aiutati, ma fu anche la manifestazione della volontà degli Stati Uniti di aiutare gli Europei perché avevano bisogno di un mercato con cui lavorare pacificamente e commerciare senza squilibri monetari troppo forti (che sarebbero certamente avvenuti, se l’Europa non fosse stata in grado di ricostruirsi economicamente in maniera efficace). Negli anni precedenti il 1950, gli Americani invitarono e si orientarono verso una volontà che ebbero anche gli Europei. Nel 1950 gli Europei avevano davvero voglia di riarmare la Germania? Questo è un grosso punto di domanda: a cinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Europei – soprattutto i Francesi e un po’ anche gli Italiani - guardavano con un minimo di distacco e di preoccupazione alla rinascita dell’esercito tedesco, l’esercito per natura e per capacità organizzative più forte d’Europa (come poi dimostreranno i fatti d’Algeria rispetto all’esercito francese e altri fatti nel mondo rispetto agli grandi eserciti ex-imperiali). A questo punto furono gli Americani a imporre agli Europei di accettare il riarmo della Germania come condizione (che John Foster Dulles chiamerà la “revisione angosciosa”) per ridare credibilità e forza militare effettiva al Patto atlantico.

  A pag.138, riguardo al referendum sul futuro istituzionale dell’Italia, si legge che gli Inglesi erano favorevoli al mantenimento della monarchia, la quale avrebbe offerto maggiori garanzie alla loro futura politica nel Mediterraneo. Come si spiega questo?

  In un recente volume intitolato La gabbia infranta (Laterza, 2010), credo di avere dimostrato che il 25 luglio – oltre a essere stato l’espressione del dissenso interno al fascismo - fu anche il frutto di una serie di azioni svolte da uomini del Regime (come Dino Grandi) e da personalità vicine alla monarchia (come gli ambienti imprenditoriali e l’alta borghesia italiana) per cambiare le cose politicamente lasciandole inalterate strutturalmente. Il che significava appoggiarsi più agli Inglesi che agli Americani, perché i secondi in quella fase erano fortemente orientati ad appoggiare Sforza, un repubblicano (era il principale esponente del Partito d’azione) tendenzialmente disponibile ai compromessi. Gli Americani vedevano in Sforza la garanzia per formare in Italia una coalizione di partiti antifascisti guidata dai democratici (centristi o di centro-sinistra) capaci di cambiare la forma politica e la struttura sociale del Paese, modernizzandolo. Gli Inglesi guardavano invece con favore agli uomini vicini alla monarchia, perché l’Italia monarchica aveva sempre considerato la Gran Bretagna come la padrona del Mediterraneo: quindi, avendo numerosi interessi da tutelare in quell’area, erano desiderosi di chiudere la parentesi fascista nella quale Mussolini aveva osato sfidarli proprio nel Mediterraneo. Un’Italia sconfitta, guidata da una dinastia screditata, sarebbe stata molto più docile di un’Italia repubblicana governata dai partiti antifascisti.

  Nel libro (pag. 233), però, lei accenna anche all’ostilità inglese verso l’Italia e alla delusione degli ambienti monarchici (compreso Badoglio) verso la Gran Bretagna dopo l’8 settembre…

  Certamente. I mesi che sancirono il futuro dell’Italia del dopoguerra furono quelli intercorsi tra l’armistizio (8 settembre 1943) e l’occupazione di Roma (giugno 1944). In quel periodo – poca gente ne è al corrente – accanto agli scontri interni tradizionali tra i partiti italiani e alla preoccupazione vivissima negli ambienti conservatori rispetto al Partito comunista, ebbe luogo una durissima lotta tra gli Usa e i Britannici: gli uni e gli altri volevano chiarire il punto su quale delle due potenze alleate avesse realmente liberato l’Italia e avesse quindi il diritto di determinare il futuro del nostro Paese. Ho pubblicato un documento americano precedente l’8 settembre con il quale, prima degli sbarchi in Marocco e in Italia, l’Alto comando americano chiariva a Eisenhower, che in quel momento comandava le truppe alleate nel Mediterraneo, che le operazioni in procinto di cominciare erano di natura americana e sarebbero state guidate dagli Americani anche in futuro. Ovviamente gli Inglesi avevano un’opinione diversa, sintetizzata dalla formula “siamo due su un piede di parità”. Ci fu una contesa diplomatica molto aspra fra i due Paesi. Alla fine Roosevelt e Churchill giunsero alla conclusione di considerarsi “eguali”. Ciò non toglie, tuttavia, che gli Americani, avendo più forza e cannoni da mettere al fuoco, finirono per essere i dominatori.

  Come va interpretato il dissenso fra Badoglio e Vittorio Emanuele III riguardo alla necessità di dichiarare guerra alla Germania (cfr. pag. 140)?

  Credo che fosse una “furbata” del re, il quale non voleva lasciarsi trascinare in una contesa dalla quale pensava che la dinastia avrebbe perso il prestigio e la rappresentatività, mettendosi contro formalmente e giuridicamente un Paese che fino a poche settimane prima era stato alleato dell’Italia. Invece Badoglio subiva fortissimamente i condizionamenti di Eisenhower, che gli imponeva di dichiarare guerra alla Germania come condizione per riconoscere la cobelligeranza dell’Italia e per alleviare un po’ i termini dell’armistizio. In caso diverso, le clausole armistiziali sarebbero state applicate in maniera molto più dura di quanto non avvenisse allora. Si trattava in sostanza di sapere se gli Anglo-americani volessero riconoscere il governo Badoglio come il governo legittimo dell’Italia o se invece lo considerassero come l’amministrazione provvisoria di un Paese che più tardi (cioè qualche mese dopo, una volta occupata tutta l’Italia) avrebbero amministrato a loro piacimento.

  Quindi, la riottosità del re a dichiarare guerra alla Germania nascondeva il desiderio di salvare l’istituzione monarchica in Italia…

  Senza dubbio. Fu uno dei vari modi che egli mise in essere con la speranza di raggiungere tale obiettivo. Un po’ esprimeva anche la sua indole personale: era un uomo particolarmente testardo. Aveva proprio la speranza di contribuire a tenere alta la sorte della monarchia.

  Lei ritiene “priva di verosimiglianza” (cfr. pag. 225) l’ipotesi di un’influenza sovietica sull’Italia, fra il 1942 e il 1958…

  I sovietici erano abituati a esercitare la propria influenza in due modi: 1) occupando il territorio (come disse Stalin nel famoso colloquio con Milovan Gilas, “dove arriviamo noi, instauriamo un regime sociale completamente diverso e nuovo”), una prassi che seguirono in tutta l’Europa orientale; 2) utilizzando i partiti comunisti come veicolo della loro influenza nel resto del mondo, nei Paesi dove i partiti comunisti fossero particolarmente forti (il PCI era allora il più organizzato dei partiti esistenti in Italia). Però Togliatti era tornato in Italia alle condizioni stabilite dagli Alleati tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944: vi lasciamo riorganizzare il Partito comunista a patto che voi comunisti svolgiate una politica interna al sistema democratico e facciate la vostra propaganda per una democrazia progressiva senza spingervi oltre i limiti della propaganda. Dunque, senza l’appoggio delle forze comuniste italiane, l’esercito sovietico avrebbe avuto una capacità d’azione circoscritta e in quanto tale non avrebbe potuto acquistare un’egemonia effettiva sulla politica interna italiana (come del resto la storia italiana ha dimostrato fino al 1978 e, con l’eccezione della brevissima parentesi del ’78, dal 1979 in avanti).

  Dunque, lei pensa che i sovietici non avessero intenzione di sovvertire l’ordine internazionale emerso dopo la Seconda guerra mondiale?

  No, non ne avevano l’intenzione né sarebbero stati in grado di aprire un nuovo conflitto in Europa e nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale, perché la situazione interna sovietica era tale da non consentire loro di fare nuovi sacrifici. Gli unici modi in cui avevano la possibilità di operare erano quelli che utilizzarono in Nord Corea, quelli che permisero di adottare a Mao in Cina e a Ho Chi Min in Vietnam.

  Come si spiega, secondo lei, la creazione di Gladio in Italia?

  Questo è un argomento di cui mi sono occupato solo marginalmente. Gladio era una struttura per la tutela contro la sovversione interna. Nulla di più.

  L’antica prassi della diplomazia italiana – si legge a pag. 238 - consiste nell’incunearsi nelle rivalità fra i vincitori per migliorare le conseguenze di una situazione difficile. Quali sono le radici storiche di questa tradizione diplomatica?

  Questo è un tema molto interessante che soltanto da poco tempo viene studiato. In genere, si pensa che, dopo la guerra, l’Italia fosse diventata interamente succube della politica estera americana e agisse secondo gli ordini provenienti da Washington. Questo non è affatto vero. Nei limiti concessi dal Patto atlantico e non volendo porsi in aperta contraddizione con gli Stati Uniti, il governo italiano ha cercato, per esempio, di condurre una propria politica verso il Medio Oriente e l’Unione sovietica (come testimoniano il viaggio di Gronchi in Urss nel 1961 e l’azione di Mattei nel Medio Oriente, oltre a una serie di episodi che cominciano a essere studiati soltanto adesso). Allora in Italia c’era una volontà di sfruttare gli spazi liberi e vacanti, le occasioni offerte dalla decolonizzazione e dalla politica dei Paesi neutrali, per sviluppare interessi propri. Ciò risulta perfettamente in linea con la tradizione diplomatica sabauda (o addirittura con quella rinascimentale), che prevedeva di appoggiarsi a chi era più forte in Europa per cercare di accrescere i propri domini regionali. Se vogliamo arrivare più vicino a noi, tutta la tradizione risorgimentale è basata sulla capacità di appoggiarsi o sull’Austria (se si voleva mantenere l’ordine costituito) o su Napoleone III (che lo voleva cambiare e vi riuscì favorendo la creazione di un’Italia unificata).

 

6 novembre 2010

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