Storia militare della Prima Repubblica. Intervista con Virgilio Ilari |
Storia militare della Prima Repubblica. Intervista con Virgilio Ilari a cura di Francesco Algisi
Virgilio Ilari (Roma 1948), già docente di storia del diritto romano nell’Università di Macerata, dal 1987 insegna Storia delle istituzioni militari nell’Università Cattolica di Milano, sua alma mater. Dopo alcuni contributi giovanili alla storia delle istituzioni militari del mondo antico, si è dedicato per circa quindici anni allo studio della politica di difesa e delle istituzioni militari della Repubblica italiana. La sua interpretazione del terzo dopoguerra italiano (iniziato nel 1991), esposta in due saggi del 1997 e 2001 pubblicati da Ideazione, lo ha indotto in seguito a dedicarsi alla storia militare degli antichi Stati italiani dalla guerra di successione spagnola alle guerre napoleoniche, formando con Piero Crociani e altri specialisti un collaudato gruppo di lavoro che ha finora pubblicato otto opere per complessivi quattordici tomi. Presso l'editrice Widerholdt Frères è uscita la nuova edizione della Storia militare della Prima Repubblica, opera in cui il Prof. Ilari ha ricostruito la storia dell'Italia dal 1943 al 1993 sotto il profilo della politica di sicurezza e di difesa. Professor Ilari, il 31 luglio 1947 l’Assemblea costituente ratificava – con 262 voti contro 68 e 80 astenuti - il Trattato di pace firmato a Parigi nel febbraio dello stesso anno. Tra i contrari alla ratifica si segnalavano – come ricorda nel suo libro – Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando… Il fatto di aver ottenuto un trattato di pace – a differenza del Giappone e della Germania – fu una conquista vantaggiosa, perché in tal modo l’Italia veniva riconosciuta come soggetto internazionale. Chiaramente il trattato conteneva delle clausole punitive: d’altronde, avevamo pure combinato qualche piccola “marachella”. L’opposizione di Croce e Orlando alla ratifica del Trattato, pertanto, era assurda, “angelista”, puramente testimoniale, tipica di chi si chiama fuori e fa la bella figura, senza farsi carico dei problemi del Paese. Sono atteggiamenti che riscontriamo anche oggi. Pensiamo, per esempio, all'accordo raggiunto con la Libia: chi non ama Berlusconi lo ha stigmatizzato, accusando il governo di aver coonestato il dittatore libico. Ma gli interessi, gli affari, le cose concrete andavano in quella direzione. Molto spesso in politica estera ci sono queste dissociazioni. Tutti sono sostanzialmente d’accordo che si debba prendere una determinata decisione; poi, però, ci sono le anime belle che fingono di ignorare cosa fa la mano sinistra. La posizione di Croce e Orlando riguardo al Trattato di pace era diffusa presso la popolazione? Sì. Bisogna tener conto che, in quell’epoca, anche le sinistre volevano la conservazione delle colonie, perché queste venivano viste come il posto in cui mandare le braccia esuberanti, una destinazione utile per l’emigrazione italiana. Dopo la Seconda guerra mondiale in Italia c’era un forte elemento di emigrazione e il fatto che ci venissero tolte le colonie (cosa che alla fine si rivelerà una fortuna) sul momento veniva interpretato come estremamente negativo e punitivo. Inoltre, poiché nell’autunno del 1943 avevamo dichiarato guerra alla Germania, si era diffusa l’idea che l’Italia andasse annoverata tra i vincitori della Seconda guerra mondiale. Quindi, l’opinione pubblica era un po’ confusa. Alla luce di ciò, la posizione di Vittorio Emanuele Orlando e di Benedetto Croce, rappresentanti della tradizione liberal-patriottica risorgimentale, fu generalmente condivisa dalla popolazione. L’adesione dell’Italia alla Nato fu una conseguenza del Trattato di pace? No. Nessuno voleva l’adesione al Patto atlantico: essa fu un’imposizione degli Stati Uniti. L’Italia, che temeva un’insurrezione comunista, auspicava un’alleanza diretta, bilaterale, come la Spagna; gli Usa, invece, posero come condizione che l’Italia facesse parte del Patto atlantico. L’Italia voleva l’aiuto degli Stati Uniti senza schierarsi con la politica americana e senza assumere una posizione antisovietica. Perciò, De Gasperi faticò non poco per convincere la Democrazia cristiana, che in termini di seggi era, dopo le elezioni del 1948, il partito di maggioranza (assoluta): quando ebbero luogo le votazioni dei gruppi parlamentari, Gronchi e altri votarono contro. Costoro erano favorevoli all’alleanza con gli Stati Uniti, ma non volevano entrare nella Nato. La diplomazia italiana (l’ambasciatore Alberto Tarchiani, per esempio) aveva invece capito che la questione non poteva essere affrontata con i parametri della politica interna, bensì con quelli della politica internazionale: l’ingresso dell’Italia nella Nato sarebbe stato enormemente vantaggioso, perché sarebbe servito a ristabilirci su un piede di parità con i vincitori minori (l’Inghilterra e la Francia) della Seconda guerra mondiale. Tanto è vero che l’Inghilterra, che ci odiava, non voleva che l’Italia entrasse nella Nato: gli inglesi, infatti, non avevano ancora rinunciato a mantenere una presenza nel Mediterraneo e quindi non volevano che il nostro Paese riacquisisse lo status di potenza a tutti gli effetti. E la Francia? La Francia, invece, premeva perché l’Italia aderisse al Patto atlantico: anche i francesi non ci amavano, ma temevano che, in caso di neutralità italiana, gli americani si sarebbero limitati a difendere l’Inghilterra e il Marocco (i due punti su cui si sarebbe dovuta stabilire la difesa), rinunciando alla difesa dell’esagono francese. L’ingresso italiano nella Nato, invece, avrebbe favorito la difesa nella pianura padana, impedendo quindi l’aggiramento da sud dell’esagono. Nel libro, lei riferisce una serie di episodi (Mattei, Sigonella, etc.) utili per stabilire un’analogia tra l’Italia della Prima Repubblica e la Romania di Ceausescu… L’Italia, al pari della Romania di Ceausescu, voleva avere le mani libere. Ceausescu, alla fine, denunciò una potenza straniera (penso che alludesse all’Unione sovietica di Gorbaciov) quale responsabile del golpe che lo aveva deposto. Egli aveva flirtato con la Francia, Israele, etc., cercando di seguire una propria politica estera indipendente. In un certo senso, anche l’Italia lo fece. Noi pensavamo di avere un rapporto speciale con gli Stati Uniti e di essere i vice-sceriffi degli americani nel Mediterraneo. Gli Stati Uniti – che avevano ereditato gli imperi coloniali francese e inglese - stavano scalzando dal Mediterraneo l’Inghilterra e la Francia, i nostri veri nemici. Storicamente noi siamo sempre stati i brilliant second della potenza egemone nel Mediterraneo: in un primo tempo, fummo i succedanei dell’Inghilterra, la quale condizionò la nostra politica coloniale fino al 1935-36, allorché con l’impresa d’Etiopia andammo contro la volontà britannica; e in seguito, quando gli inglesi cominciarono la loro decadenza, ci unimmo agli americani. Un caso emblematico è rappresentato dall’operazione Mousquetaire: l’Italia rifiutò l’invito della Francia e dell’Inghilterra a partecipare alla guerra di Suez, sposando in toto la posizione americana, sebbene il governo Segni, e soprattutto il ministro degli Esteri Martino, avessero manifestato un certo interesse per quell’avventura coloniale europea. Secondo lei, quindi, Ceausescu sarebbe stato probabilmente eliminato dall’Unione Sovietica, a causa della politica autonoma seguita dalla Romania rispetto al Patto di Varsavia. Si può dire la stessa cosa a proposito della classe dirigente della Prima Repubblica, eliminata dagli Usa tramite Mani pulite? Anche se non ho le prove per sostenerlo (d’altronde, faccio lo storico, non il dietrologo), questo fatto lo pensai e ne accennai in Guerra civile, un volumetto pubblicato nel 2001 per i tipi di Ideazione. Per come si sono svolti i fatti, l’idea certamente viene. Nelle posizioni degli Stati, comunque, ci sono sempre molteplici atteggiamenti, interessi, fattori che tendono a sovrapporsi. Ho l’impressione che – se non proprio la Prima Repubblica – alcuni uomini della stessa (penso in particolare ad Andreotti e Craxi) abbiano pagato Sigonella e altre vicende, cioè il fatto di aver avuto una posizione indipendente rispetto agli Stati Uniti. Nel libro (pag.61), lei accenna brevemente all’epurazione del generale Mecozzi dalla direzione della Rivista Aeronautica a causa delle critiche che egli rivolse alla strategia nucleare americana… Fu lui a denunciarla nei suoi libri polemici. Si trattò, comunque, di un fatto minore, un dettaglio. A quell’epoca, negli anni Cinquanta, erano tutti molto suscettibili. Vi era chi auspicava che l’Italia si dotasse di armamento nucleare. Alla fine la cosa non ebbe seguito, perché ci si rese conto che non c’era nessuna necessità di farlo. Ci fu da parte dei francesi un tentativo di coinvolgerci nell’operazione nucleare, perché pensavano di non farcela dal punto di vista finanziario. Lei ha definito gli interventi militari internazionali del post-Guerra fredda come “spedizioni multinazionali e neocoloniali” (pag.115)… Li ho definiti “multinazionali” perché a quell’epoca si svolgevano al di fuori dell’ambito della Nato, la quale era ancora un’alleanza regionale difensiva. Poi, successivamente, quando il libro era già stato stampato da alcuni anni, la Nato modificò completamente il proprio statuto, in occasione del suo cinquantesimo anniversario, nel 1999, diventando un’agenzia delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali. E difatti questa è la ragione formale che giustifica la presenza della Nato in Afghanistan. Ricordiamo la teorizzazione di Rumsfeld, in base alla quale non è la coalizione a definire la missione, ma è la missione a definire di volta in volta le coalizioni, che sono quindi a geometria variabile. Ho utilizzato l’espressione “neocoloniali”, che può essere considerata polemica (più che dispregiativa), perché si assiste a una sorta di istanza di ricolonizzazione da parte degli stessi Paesi del Terzo mondo, con una prospettiva completamente diversa rispetto al vecchio colonialismo. Quest’ultimo si basava sul presupposto che le colonie fossero una ricchezza per i Paesi. La posizione neocoloniale, invece, auspica una ricolonizzazione dei Paesi che, divenuti indipendenti, hanno dimostrato di non essere in grado di sostenersi. Ciò viene ammantato da una serie di giustificazioni morali, le quali, pur essendo diverse da quelle sostenute nell’epoca coloniale, nascondono anche oggi interessi non meno sostanziali. Definirebbe “neocoloniale” l’attacco all’Iraq del 2003? Senza dubbio. La guerra all’Iraq ha assunto delle caratteristiche che, a mio avviso, con la guerra al terrore c’entrano ben poco (il regime ba’athista era la bestia nera degli estremisti islamici). Quella guerra ha avuto luogo nel punto in cui era situato il cuore dell’impero britannico, all’altezza della cerniera tra l’India e il Mediterraneo. All’epoca dell’impero britannico il petrolio era un elemento considerato nella politica britannica, ma certamente non nella misura attuale. Nella considerazione odierna, l’aspetto che caratterizza gli interventi militari internazionali è al tempo stesso geopolitico, geoeconomico e geostrategico. La logica di fondo è volta a consolidare la situazione di fatto imperiale determinatasi dopo la fine della Guerra fredda. Le due Guerre mondiali furono guerre per il potere mondiale, volte a decidere il futuro della storia: esse si conclusero sostanzialmente con un solo vincitore e, quindi, favorirono la ricostituzione nel mondo moderno di qualcosa di simile a quello che, nella tradizione occidentale, fu l’impero romano e, in quella cinese, fu la dinastia dei Qing, che unificò la Cina dopo l’epoca dei regni combattenti. Il mondo attuale presenta uno scenario simile ai due imperi appena citati. L’impero romano era molto diverso dall’impero britannico: quest’ultimo, sebbene largamente esteso, non era universale e, in linea di principio, coesisteva con altri imperi; l’impero romano, invece, si basava sul principio Roma communis patria. In un certo senso, questo aspetto è simile a quello che oggi ravvisiamo negli Stati Uniti. Ho avuto modo di approfondire questi concetti nel saggio Debellare superbos. Lei scrive che, durante la guerra Iran-Iraq, l’Italia vendette le armi a “quello dei due contendenti che Washington di volta in volta indicava”. Ma gli Usa, in quel conflitto, non erano schierati a fianco dell’Iraq? Gli Stati Uniti appoggiarono principalmente l’Iraq; la loro politica, tuttavia, fu essenzialmente volta a far scontrare i due Paesi per stabilizzare l’area. Quindi, gli americani non volevano che l’Iraq vincesse la guerra. Tra l’altro, Israele appoggiava l’Iran e le minoranze curde che lottavano contro il governo di Saddam Hussein. Perché la creazione di un “esercito di mestiere”, nel dibattito degli anni Settanta e Ottanta, incontrò tanta ostilità? La ragione di fondo era che l’esercito di mestiere è necessariamente un esercito “bonsai”. All’epoca in cui ebbe luogo quel dibattito, vi erano degli obiettivi importanti e la quantità delle forze che dovevano essere mantenute era quella stabilita dalla Nato. Facendo appello al volontariato, l’Italia non sarebbe stata in grado di raggiungere tale quota per una ragione molto semplice: il nostro Paese possedeva (e possiede ancora oggi) forze di polizia estremamente numerose e, soprattutto a quell’epoca, militarmente organizzate. Quindi, disponeva già di un esercito di mestiere, quello delle forze di sicurezza. Le Forze armate erano composte grosso modo da centomila ufficiali e sottufficiali di carriera; il resto era costituito dalla naja. Le cifre ruotavano intorno ai 400-450mila uomini. Questo era il problema fondamentale. Poi c’erano anche altre questioni legate alla tradizione, alla coesione sociale, al fatto che il servizio militare era una forma di identità nazionale e di socializzazione. Esso aveva tutta una serie di funzioni di carattere etico-politico, che erano la continuità con il periodo storico precedente ed erano connesse con la tenuta dello Stato e della nazione durante la Prima Repubblica. A quell’epoca l’esercito era destinato esclusivamente alla difesa del territorio nazionale: le ipotesi di impiego delle Forze Armate erano all’interno dei confini (erano insomma delle forze di baluardo che presidiavano il territorio italiano). Tradizionalmente la difesa della città assediata è stata sempre fatta dai cittadini. Oggi l’esercito e le Forze armate vengono impiegati nelle operazioni internazionali: sono un po’ come gli ausiliari dell’esercito romano. Perciò, diventa sempre più difficile formare dei contingenti di questo tipo con il personale di leva. Inoltre, durante la Prima Repubblica si stava meglio economicamente e risultava quindi appetibile fare l’ufficiale o il sottufficiale, ma certamente non il soldato semplice di leva; adesso invece con la disoccupazione diffusa il mestiere del soldato diventa interessante. C’è un’apertura indiscriminata alle donne favorita anche dal cambiamento dei rapporti sociali e dal nuovo tipo di armamento in dotazione: ancora negli anni Ottanta ciò non era possibile (anche nei Paesi che avevano il servizio militare femminile gli incarichi erano molto più limitati rispetto a oggi, perché la conformazione delle forze era tale che non poteva consentire un largo numero di personale femminile). Ormai i piloti da combattimento non esistono quasi più: in futuro verranno completamente aboliti e sostituiti dai droni, aerei telecomandati senza pilota (da una consolle le persone non corrono alcun rischio e non subiscono alcuno stress particolare). I governi europei, con le loro appendici militari, che cosa contano oggi? Abbastanza poco, se non proprio niente. Non vengono consultati, per esempio, sulla strategia da adottare in Afghanistan: la stabilisce Obama col generale McCrystal o col generale Petraeus. Se un predicatore americano decide di bruciare il Corano – o per lo meno fa battage sul fatto che forse lo farà –, può compromettere la sicurezza dei contingenti europei esattamente come quella dei contingenti americani del tutto a loro insaputa e nell’assoluta impotenza dei governi, i quali possono avere una posizione saggia quanto si vuole nei confronti della religione islamica e tesa proprio a prevenire questo genere di rischi, ma alla fine è irrilevante. Gli eserciti europei sono un po’ come gli eserciti consolari nella Roma repubblicana, i quali erano composti da due legioni di cittadini e da due di alleati, i soci italici. I Paesi europei si sono completamente smilitarizzati: gli eserciti sopravvivono, ma sono sempre più residuali (nell’Europa orientale non esistono praticamente più). La stessa Gran Bretagna sta progressivamente smantellando le proprie Forze armate perché non riesce più a mantenerle. D’altra parte, quando la decisione della pace e della guerra è ormai giuridicamente e tecnicamente incentrata nel Presidente degli Stati Uniti, che senso ha ancora la sovranità militare delle nazioni alleate? I Paesi che conservano una certa sovranità militare sono da un lato quelli che competono tra di loro (come India e Pakistan), e dall'altro quelli che sono teatro di guerra (come l’Afghanistan o l’Iraq): è chiaro che lì ci sono delle caste militari che svolgono un ruolo politico, controllano il potere reale, le forze, etc., e con le quali bisogna fare i conti. Che cosa intende precisamente con l’espressione “fondamentalismo occidentalista” (pag.125)? È la posizione di chi è pregiudizialmente a favore degli Stati Uniti. All’epoca della Prima Repubblica, questo “fondamentalismo occidentalista” da chi era rappresentato? Nella Prima Repubblica, i partiti atlantisti erano essenzialmente il Partito repubblicano e quello liberale (anche se quest’ultimo aveva una caratterizzazione diversa rispetto al primo). Questo non significa ovviamente che fossero dei "vendepatria" sul libro paga della CIA! Durante la Guerra fredda, l’Italia seguiva la politica dei “due forni”, che in un certo senso era quella tradizionale dello Stato sabaudo (uno studioso della tradizione strategica italiana, Brian Sullivan, ha definito la posizione italiana come la “strategia del peso decisivo”: stare con l’uno o con l’altro ed esercitare il peso decisivo; questa era anche la posizione di Craxi). Casa Savoia si trovava esattamente a metà tra la Francia dei Borbone e gli Asburgo: in genere cominciava la guerra con uno e la finiva con la stessa parte, non prima di aver fatto qualche "giro di valzer". Alla vigilia dell’8 settembre 1943 Vittorio Emanuele III stava ripensando a un episodio avvenuto esattamente 240 anni prima, cioè nel settembre 1703, allorché il piccolissimo esercito sabaudo (4-5mila uomini), che era stato dato dal Duca di Savoia (allora non era ancora Re) all’alleato francese, venne fatto prigioniero perché nel frattempo il Duca si era alleato con gli austriaci. In seguito, essi riuscirono in gran parte a scappare; Torino invece subì l’assedio dell’esercito francese. Perché Vittorio Emanuele III ripensò a quell’episodio nel settembre del ‘43? Egli rifletteva sul fatto che, passando dall’alleanza con la Germania a quella con gli anglo-americani, avrebbe messo a rischio le forze italiane dislocate all’estero (nei Balcani, in Francia, etc.). Infatti, dopo l’8 settembre molti soldati italiani (anche gran parte di quelli che si trovavano nel territorio nazionale) furono fatti prigionieri. C’è una lunga tradizione di questi episodi… Il Partito repubblicano, nell’ambito della politica italiana, era il custode di questa tradizione. Perciò, agli Stati Uniti faceva piacere che Spadolini, persona di assoluta fiducia per loro, fosse ministro della Difesa. Diverso è invece lo schierarsi "a prescindere" con le posizioni più oltranziste e intransigenti presenti nel dibattito politico americano. Il fondamentalismo è una posizione ideologica, alla fine controproducente, perché la politica estera è materia complessa e non può essere condotta con gli slogan. Beninteso tra gli interessi nazionali rientra la difesa dei principi e dei valori della comunità internazionale: il cinismo alla fine diventa stupido e la politica del sacro egoismo porta alla catastrofe (la Germania alla fine ha pagato a caro prezzo, e giustamente, la ribellione assoluta ai principi del diritto internazionale). Il conformismo ideologico può essere urticante per un moralista che vorrebbe sempre poter dire pane al pane e vino al vino, ma è un rospo che gli statisti debbono essere disposti ad ingoiare. Se, per assurdo, avessi ricoperto il ruolo di ministro degli Esteri o di Presidente del Consiglio, avrei magari preso esattamente le decisioni che nel libro biasimo. Perché sono strade obbligate. Lei è molto critico riguardo alle pubblicazioni edite dalla Difesa durante la Prima Repubblica. Scrive che erano “in gran parte inutili”. Rispetto ad allora la situazione è cambiata? È peggiorata. Il livello culturale dei nostri ufficiali non è mai stato eccelso, ma un tempo erano comunque costretti ad assumere responsabilità di livello strategico, che oggi ricadono totalmente sui loro colleghi americani. Non si richiede loro di elaborare visioni strategiche, ma solo la capacità tecnica di cooperare col Grande Fratello. Ma paradossalmente questa situazione rialza il prestigio di noi italiani, perché pure inglesi, francesi, tedeschi, per non parlare di spagnoli ecc., sono ormai regrediti. Non essendoci più scuole di pensiero militare nazionali, non si notano più le magagne della nostra. Cambia pure la formazione dei giovani ufficiali: sempre meno pensiero strategico e storia militare, sempre più fuffa socio-antropo-psicologica. Che cosa pensa, invece, delle pubblicazioni di argomento militare scritte e curate dai “civili”? Quelle sono nettamente migliori. Paradossalmente più gli eserciti europei si civilizzano e decadono culturalmente, più si eleva la qualità degli studi strategici e storico-militari coltivati da studiosi civili. In Occidente, anche in Italia, ha avuto luogo - soprattutto dopo la fine della Guerra fredda - una fioritura della storia militare. Fino agli anni Ottanta la produzione storico-militare era di un livello modestissimo. Adesso invece c’è una serie di lavori di estremo interesse. Le scuole militari vere, di pensiero sono, per esempio, in Israele: lì si lavora con profitto e serietà, perché quello israeliano è un Paese che lotta per la propria identità e sopravvivenza. Questo discorso vale anche per il Pakistan, l’India, la Cina, ecc.. Per l’Iran… Anche per l’Iran, certo. È molto difficile entrare nella logica iraniana: soprattutto non bisogna giudicarla dalle cose caricaturali riferite dai mezzi di informazione. Tutti quelli che hanno incontrato nelle sedi internazionali i negoziatori di Teheran hanno avuto l’impressione di trovarsi di fronte degli ossi duri. Il gioco che stanno conducendo sul nucleare è talmente rischioso che oggi è impossibile fare un pronostico su ciò che accadrà in futuro. Tutto sommato, gli iraniani si stanno comportando con estrema abilità in una situazione in cui non so fino a che punto abbiano altre carte da giocare. Comunque, in tutti i Paesi citati poc’anzi esiste un sistema politico che si pone come soggetto internazionale, in cui gli aspetti militari e quelli di crescita sociale, economica, ecc. sono parte di una strategia complessiva e coerente. Nei Paesi europei non è più così: qui la questione militare è integralmente delegata agli Stati Uniti; quindi, tutto il resto è pura facciata. Gli inglesi, che hanno ancora un minimo residuo di serietà, sciolgono la pattuglia acrobatica nazionale, le Red Arrows (Frecce rosse). L’Italia, invece, la mantiene, con un costo pari all’1,2 per cento del bilancio dell’Aeronautica e senza alcuna concreta utilità. Quindi, l’ultradecennale condizione italiana di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti ha prodotto la decadenza, anche culturale, delle Forze armate italiane… Paradossalmente non era quello che gli Stati Uniti auspicavano. Gli Usa non vogliono avere concorrenti né aprire un fronte con l’Europa: d’altra parte, noi saremmo dei pazzi se lo volessimo. Washington vorrebbe che l’Europa facesse la sua parte per sostenere le spese. È nella logica delle alleanze disuguali, giacché la sicurezza è un bene indivisibile. Se il mondo è sicuro, ne beneficiamo tutti, indipendentemente da quanto abbiamo speso per produrre sicurezza; poiché gli americani debbono per forza pagare per la sicurezza di tutti, gli altri tendono chiaramente a scaricare sugli Usa quest’onere (l’onere che deriva dall’avere un impero…), diventando “evasori”. È una disgrazia avere un impero. Il mini-impero degli slavi del Sud, la Jugoslavia, è stato minato dagli stessi serbi più che dalle minoranze oppresse: a un certo punto, infatti, sono stati propri loro a riscoprire il nazionalismo, perché si sentivano penalizzati dal fatto di dover fare i conti con i bosniaci, gli sloveni, i croati, i montenegrini, gli albanesi. Fatalmente è il nucleo egemone che si vuole scrollare la passività degli altri. Magari ci fosse ancora l’Unione Sovietica! Quello era il migliore dei mondi possibili: la guerra era una cosa totalmente virtuale. Però tutto si manteneva secondo un certo equilibrio. C’era un gioco delle parti e l’Italia poteva muoversi con autonomia. Non ritiene possibile che col tempo si ripresenti un altro attore capace di contrastare l’egemonia statunitense (magari sotto la forma di un’aggregazione di Stati: la Cina, la Russia, l’India…)? A quest’ultima ipotesi non credo, perché quelli citati sono tutti Stati caratterizzati da interessi reciprocamente conflittuali. Potranno esserci delle convergenze occasionali su singole questioni, ma non alleanze strategiche generali. La Cina potrà forse assumere il ruolo di antagonista globale degli Stati Uniti. Constato, tuttavia, che Pechino cerca assolutamente e disperatamente di evitare uno scenario del genere. Tutta la sua politica è di basso profilo e di grande attività (soprattutto in Africa, in Europa, ecc.): tende a evitare qualunque forma di provocazione per l’Occidente, perché pensa che comunque il tempo lavori a proprio favore. L’Occidente ha sempre avuto paradossalmente un vantaggio. Quale? Quello del difensore: è stato sempre economicamente e culturalmente all’attacco, però militarmente sulla difensiva. Quando assedi una città divenuta rifugio degli “sfigati” (come è stato il caso della Germania, nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, e poi dell’Unione Sovietica), ciò che temi è che l’assediato a un certo punto ti faccia la sortita. Quando cerca di fare la sortita e di rovesciare con la forza la situazione, il risultato è inevitabile: la resa. La Guerra fredda ha seguito lo stesso schema delle due guerre mondiali, con l’Unione Sovietica al posto della Germania, e con una condizione nuova: le armi nucleari. Queste sono state le armi della non guerra: l’Occidente non aveva interesse ad attaccare, perché sapeva che il tempo lavorava a suo favore e alla fine il sistema sovietico sarebbe crollato sotto il peso della propria inefficienza. E così è stato. Oggi, invece, la sfida cinese è molto diversa e molto più subdola, perché la Cina non vuole esportare il proprio modello, non mira all’instaurazione del comunismo nel mondo. I sovietici lo desideravano, perché l’ideologia marxista aveva suggerito loro che il comunismo in un solo Paese non si sarebbe potuto reggere: perciò, o diventava comunista il mondo oppure l’Urss sarebbe crollata. I dirigenti cinesi, invece, sono molto più pragmatici: sono marxisti per modo di dire. Conducono una politica essenzialmente incentrata su di loro e cercano di evitare provocazioni “muscolari”. L’Urss faceva le parate militari sulla Piazza Rossa e - come il Giappone a Pearl Harbor, o la Germania con il blitz-krieg - seguiva la dottrina militare del “primo colpo” (bisogna colpire per primi se e quando la guerra diventerà inevitabile). I cinesi cercano assolutamente di non fare questo: le loro forze sono di carattere difensivo. Allora paradossalmente è l’Occidente che si trova a doversi inventare un ruolo militarmente offensivo nei confronti della Cina; ma non è una cosa facile. Come si potrebbe minacciare la Cina? L’invasione è fuori questione: sarebbe un’assurdità. I cinesi si sono comprati tutta l’Africa non ponendo alcuna condizione ai governanti africani: “fate come vi pare, abbiate pure il tipo di regime che preferite, basta che noi commerciamo, facciamo affari, costruiamo, investiamo, cooperiamo, ecc.”. Gli Usa come rispondono all’avanzata cinese in Africa? Con una cosa ridicola come Africom, il comando americano per l’Africa, composto da 1500 persone che risiedono in Germania, in Italia, ecc.; poi ci sono dei piccoli nuclei di addestratori che danno la caccia ai “qaedisti” in una quarantina di Paesi africani, oltre a una serie di trattati di cooperazione bilaterali con cui vengono venduti agli africani i ferri vecchi e la tecnologia obsoleta dell’Occidente. E con questo che cosa si ottiene? Certamente non si contrasta l’influenza cinese. Si conoscono le elites militari, ma il fatto di conoscerle non significa controllarle. Anche ammesso che la dipendenza militare dall’Occidente delle forze armate africane possa essere significativa, l’impatto che questo fatto ha sulla potenzialità dell’Africa come spazio geoeconomico della Cina è inesistente. E paradossalmente quello è secondo me una specie di terreno di paragone del tipo di rovesciamento che l’Occidente sta conoscendo nel suo rapporto con la guerra offensiva.
11 settembre 2010 Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA |