Il giuramento. Intervista con Maurizio Parri Stampa E-mail

Il giuramento. Intervista con Maurizio Parri

a cura di Francesco Algisi

 

parri_giuramento  Maurizio Parri, nato nel 1963, ha frequentato l’Accademia Militare di Modena (1983-85). Ufficiale dei carristi, laureato in scienze strategiche all’Università di Torino (1998), dal settembre del 2008, col grado di colonnello, comanda il 132° reggimento carri della brigata «Ariete». Egli ha curato la pubblicazione del diario di suo nonno, Generale Dino Parri (1887-1962), comandante a El Alamein e in seguito prigioniero di guerra negli Stati Uniti fino all’ottobre 1945. Il volume, oggetto di questa intervista, s’intitola Il giuramento ed è stato pubblicato dall’editrice Mursia.

 

  Colonnello Parri, a pagina 179 del Giuramento suo nonno esprime critiche riguardo all’entrata in guerra dell’Italia e all’alleanza con la Germania…

  Questa critica è riportata nella parte del diario relativa al periodo della prigionia. Questo diario è stato scritto giorno per giorno e la pagina 179 corrisponde alla data fatidica dell’8 settembre 1943 giorno in cui anche ai prigionieri in America giunse improvviso, via radio, l’annuncio della firma dell’Armistizio. Mio nonno in quel momento conosceva tutti gli avvenimenti che avevano preceduto quel fatto ma non poteva ancora conoscere quello che sarebbe accaduto subito dopo. E forse sperava addirittura che la guerra potesse concludersi e che il Paese si salvasse da ulteriori distruzioni. Se si illuse, questa illusione durò poco perché di certo egli non poteva ignorare la reazione della Germania della quale ben conosceva la potenza militare ed organizzativa.

 

  Suo nonno maturò tale posizione ex post (in seguito alla disfatta militare italiana)?

  Non conosco in che preciso momento queste critiche maturarono nella coscienza del Generale Parri; certo è che dalle pagine relative alla condotta della campagna di guerra in Africa settentrionale, mi pare emergere chiara la sua consapevolezza di professionista militare in merito alla pochezza dei mezzi disponibili per condurla. Accanto a tale consapevolezza vi è sempre il sentimento di sorpresa per quanto i nostri soldati riuscivano a fare nonostante il loro equipaggiamento inadatto a condurre una guerra di quel tipo in quell’ambiente particolarissimo. Forse qualche cenno critico attraversò la sua mente in più di un’occasione, ma da vecchio soldato egli reagì alla pochezza dei mezzi e alla frustrazione in modo militarmente ineccepibile: nella criticità del momento offrì il meglio di sé per sopperire a tutto il mancante e fare del proprio meglio per svolgere il compito assegnatogli. In questo si comportò esattamente come fece la maggior parte dei nostri combattenti su quel fronte che resta una pagina più che onorevole del lungo libro che racconta delle virtù della nostra gente.

  Ovviamente, dopo la disfatta, trascorso già un anno di prigionia con scarsissime notizie della propria famiglia e con radio e giornali che raccontavano ogni giorno del procedere dell’invasione alleata lungo la penisola e dei bombardamenti alleati sulle nostre città penso che il vecchio Generale non potesse fare a meno di concludere un ragionamento iniziato chissà quando sui risultati oggettivi di un’avventura politica e militare che ci aveva portati alla rovina.

 

  A pagina 265, c’è una chiara allusione al Duce laddove suo nonno parla di “chi lasciò l’Italia in balia della ferocia tedesca”. Non crede che tale giudizio sia alquanto impietoso, soprattutto alla luce del fatto che, se Mussolini non avesse accettato di porsi a capo della RSI, la rappresaglia tedesca contro il nostro Paese sarebbe stata ferocissima?

  Certo, si tratta di un giudizio molto severo. Ma occorre secondo me ricordarsi di due cose. La prima è che quando il Generale Parri affidava questo giudizio alle pagine del suo diario egli si trovava in America nella perdurante condizione di prigioniero di guerra. Mi pare necessario sottolinearlo perché la pagina 265 del libro coincide con il 25 aprile 1945 e nonostante l’armistizio, la cobelligeranza e il ritorno del governo legittimo del Re a Roma già dall’anno prima, quel Generale, nonostante la sofferta accettazione della cooperazione, era ancora un prigioniero di guerra in mano a un nemico che non era più nemico. Questa condizione di cattività non favoriva certamente la completa conoscenza della situazione. Di certo, nei lunghi mesi trascorsi tra i reticolati in America, il prigioniero di guerra aveva notato che la posta spedita dai familiari residenti nei territori della RSI arrivava ai prigionieri con maggiore frequenza e puntualità, mentre chi li aveva nelle zone liberate non ne riceveva granché.

  La seconda osservazione è che noi possiamo anche riconoscere a Mussolini e alla Repubblica Sociale il merito di aver dato continuità allo stato italiano nei territori occupati dai tedeschi e di aver in qualche modo evitato che la ferocia nazista potesse essere ancora peggiore di quella che fu. Tuttavia non possiamo non ricordare che la strada alla situazione in cui si arrivò fu aperta dalle scelte avventurose fatte dallo stesso Mussolini in base a pronostici evidentemente del tutto sbagliati.

  Infine voglio sottolineare che malgrado il severo giudizio espresso nei confronti del dittatore, il Generale Parri nella stessa pagina critica con maggiore asprezza e severità l’eccidio senza processo e lo scempio vergognoso di piazzale Loreto.

 

  Suo nonno era animato da sentimenti antifascisti?

  Nel diario di mio nonno e nei carteggi post bellici, non vi è mai una dichiarazione di sentimenti anti-fascisti. Mio nonno era figlio dei suoi tempi, un uomo che nel 1902 si era arruolato quindicenne nell’Esercito Italiano, in un’epoca pienamente intrisa del mito risorgimentale. Un vecchio soldato che aveva combattuto nella guerra di Libia, nelle guerre coloniali e nella prima guerra mondiale e che dalla nascita aveva visto crescere la potenza e il prestigio del suo Paese in un mondo sicuramente meno complesso di quello presente.

  Proviamo a calarci nella sua testa. Da militare avrà anche apprezzato taluni risultati conseguiti dal regime fascista per ridare stabilità, ordine e sviluppo a un paese scosso dal bolscevismo e dalla crisi economica conseguente alla prima guerra mondiale. Ma come ho detto sopra lui era un figlio dei suoi tempi. Era un soldato italiano, un soldato del Re e nel libro è ben spiegato cosa fosse per lui questo sentimento. E un buon soldato non impronta mai le proprie azioni ad una fede politica.

 

  Il Gen. Parri riconobbe che le condizioni di vita dei prigionieri di Camp Monticello non erano particolarmente aspre. Ciò riguardava soltanto gli alti ufficiali?

  Il trattamento che gli americani riservarono ai nostri prigionieri di guerra fu senz’altro un buon trattamento. Lo fu ovunque per la qualità degli alloggiamenti, lo fu per l’abbondanza del cibo. Lo fu per la varietà dell’equipaggiamento, per il livello dell’assistenza sanitaria, per l’organizzazione del tempo libero, ed anche per le possibilità di contatto con la popolazione dei luoghi. Lo fu in sostanza per tutti gli aspetti materiali che contraddistinguono una prigionia. La qualità di tale trattamento fu estesa indifferentemente a tutti senza distinzione di grado né di categoria. Tuttavia, si trattò comunque di prigionia e non di villeggiatura.

  I nostri soldati, cooperatori o no, lavorarono sodo, furono sottoposti a disciplina rigida, talvolta a privazioni e violenze e alla discriminazione politica.

  La qualità del trattamento non era soltanto un’espressione dell’indole democratica degli Stati Uniti, ma anche un efficace strumento di guerra psicologica volto a offrire ai nostri soldati (ma anche a Tedeschi e Giapponesi) il lato buono del vincitore per far emergere nelle loro menti il confronto con i regimi in guerra contro l’America.

  Solo il Campo di Hereford fa testo a sé in virtù della particolare forza morale posseduta dai prigionieri ivi rinchiusi. Qui gli americani rafforzarono la guerra psicologica con misure coercitive particolarmente dure raccontate con dovizia di particolari in numerosi libri di ex prigionieri.

  A parte questo, la prigionia negli Stati Uniti fu in generale una prigionia “dorata” soltanto perché nel resto del mondo le altre prigionie furono molto peggiori. Nemmeno in America mancarono tuttavia episodi sporadici, più o meno isolati, di violenza, crudeltà e di sopraffazione, ma questi fanno parte dell’animo umano che ahimè li rende inevitabili in determinate circostanze.

 

  Come spiega il silenzio di suo nonno riguardo alla morte di Roosevelt e ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki?

  Ecco, mi fa piacere che non le sia sfuggito questo particolare per certi versi sorprendente che ha colpito anche me. In effetti il diario abbraccia tutto il periodo della guerra tra il febbraio 1941 e l’ottobre 1945 eppure non fa alcun cenno del duplice bombardamento atomico sulle due città giapponesi. Mi sono chiesto anch’io il perché di questa apparente omissione ma non sono riuscito a trovare alcuna spiegazione. Non me la sono sentita perciò di avanzare alcuna ipotesi al riguardo, tuttavia voglio sottolineare che nemmeno nei libri editi da altri ex prigionieri di guerra in America (tutti editi da ex prigionieri del campo di Hereford) si fa menzione dei funghi atomici alzatisi il 6 e il 9 di agosto 1945 sulle città di Hiroshima e Nagasaki.

  In quanto alla morte del Presidente Roosevelt, avvenuta il 12 aprile 1945, forse avvenne in un frangente decisivo per le sorti della guerra in Italia e per quanto rilevante passò in secondo piano nella lista dell’attenzione dei prigionieri. Può sembrare una spiegazione banale ma spesso è la banalità a regnare sulla logica.

  Certo sarebbe utile indagare sulle forme e sui tempi di accesso alle informazioni concessi ai prigionieri per capire se le notizie (tutte?) venivano date loro più o meno tempestivamente.

  Sono però propenso a credere che nella primavera e ancor più nell’estate del 1945 la concentrazione di quelle persone fosse orientata quasi esclusivamente al problema del ritorno alle loro case e che una sorta di disinteresse generale per i fatti del mondo non di diretto interesse si fosse diffusa tra loro. Il lato umano della faccenda può sembrarci semplicistico, ma credo che in quei frangenti fosse assolutamente preponderante e può non aver fatto comprendere ai nostri la grande portata epocale dell’avvenimento.

 

  Dalla lettura del diario si ricava l’impressione che gli americani abbiano ottenuto la collaborazione del Gen. Parri con la minaccia di mandarlo a Hereford…

  È molto più di un’impressione. Hereford era un campo di particolare durezza e disagio. I prigionieri, anche quelli che non c’erano mai stati, ne erano informati da coloro i quali erano stati trasferiti da un campo all’altro. La minaccia di invio in quel campo fu utilizzata come arma di pressione per indurre i meno tenaci a rivedere le proprie posizioni in merito alla cooperazione. In merito all’efficacia di quest’arma è il Generale stesso a confermarla quando dice di essersi convinto a firmare solo quando fu seriamente minacciato di essere mandato nel campo di Hereford.

  Il tema è però molto più delicato e sottile di quanto sembri. Il Generale Parri non aveva posto un rifiuto totale alla cooperazione con gli alleati, ma lo aveva condizionato al rispetto delle leggi italiane. Non era una questione politica, ma di indipendenza nazionale. Era pronto a cooperare purché non fosse costretto a rinunciare al suo status di militare italiano sottoposto alle leggi italiane. Cooperare sì, ma non da servo, da soldato italiano, sotto l’autorità del governo reale, il governo legittimo pienamente riconosciuto dagli USA. Un atteggiamento forse eccessivamente sofisticato per la gente pratica di oltre oceano che infatti, senza perdere tanto tempo a differenziare, andavano raccogliendo a Hereford tutti i prigionieri che non intendevano per nessuna ragione prestargli collaborazione. E gli americani dipingevano tutti questi dello stesso colore. Chi veniva mandato a Hereford era agli occhi di tutti semplicemente un fedele mussoliniano. Il Generale non voleva essere confuso con i mussoliniani perché intendeva far prevalere il suo giuramento di soldato su qualunque altro credo personale, alla fine obbedì con fiducia agli ordini dei suoi superiori.

  Poco importa se oggi sappiamo dai libri di Mieville, di Tumiati o di Boscolo che a Hereford l’ambiente era molto più eterogeneo di quanto gli americani volessero credere. Tra l’altro quel campo ebbe un fermento culturale eccezionale che nessun altro campo di nostri prigionieri ebbe, segno che vi furono rinchiuse personalità interessantissime.

 

  L’antipatia di suo nonno sembra indirizzata più verso gli inglesi (e Churchill) che verso gli americani (che lo tenevano prigioniero)…

  È vero. Io non ho mai conosciuto mio nonno, ma i miei fratelli mi hanno confermato che non ha mai speso una parola gentile nei confronti degli inglesi che giudicava, ovviamente alla luce dei suoi tempi, come un popolo avido ed egoista.

 

  A pagina 324, tuttavia, si legge che gli americani “davano l’impressione” di voler continuare “a combattere contro di noi la loro guerra totale per riuscire a distruggere anche quel poco che della nostra povera Patria era rimasto nelle nostre menti e nei nostri cuori”.

  Beh, io credo che gli Americani in quel momento storico stessero combattendo molto seriamente una guerra totale. Il risultato che ci si prefigge in una guerra di questo tipo è la distruzione dell’identità dell’avversario, della sua organizzazione statale, del suo credo, dei suoi riferimenti ideali. Era il tipo di guerra che stavano combattendo tutti i principali attori del secondo conflitto mondiale. Di sicuro era il tipo di guerra in cui si era impegnata anche la Germania, il Giappone, la Russia, forse meno, ma forse solo nei confronti di noi italiani, i Britannici. Soltanto noi italiani combattevamo con scarsissimi mezzi e scarsissima organizzazione una guerra classica, almeno negli scopi e qui credo sia l’evidenza che noi italiani eravamo solo dei comprimari in questa grande vicenda.

  Sì, credo che gli americani combattessero con grande determinazione una guerra totale contro gli italiani tant’è che si impegnarono a fondo per mutare le nostre istituzioni. Come italiano me ne dolgo, ma non posso condannarli per questo perché siamo stati noi ad allungare le mani per primi.

 

  Che ruolo ebbe la fede monarchica del Gen. Parri nell'ostilità che egli subì nel dopoguerra da parte dei "nuovi" vertici militari?

  Nel lasso di tempo che va dal 1943 fino al Trattato di Pace con gli Alleati l’indipendenza dell’Italia, almeno dal punto di vista militare, era davvero sotto lo scacco americano. Dopo aver dato il ben servito al Maresciallo Messe, al vertice militare italiano fu fatto insediare il Generale Trezzani destinato a restare al suo posto fino al 1954. Sarebbe veramente ingenuo pensare che questa nomina non sia stata pilotata dagli USA.

  Nel libro sono ben delineati i rapporti che si instaurarono tra questo nostro Generale e le autorità americane. Di questi ultimi poi emerge in modo palese l’avversità all’ordinamento monarchico e ai suoi sostenitori. La discriminazione politica cui furono colpiti i prigionieri di guerra italiani trattenuti negli Stati Uniti non si limitò a fare la fronda di chi si dichiarava filo mussoliniano, ma in modo più subdolo selezionò soprattutto i lealisti monarchici come mio nonno. A questa inconfessabile selezione, condotta dall’intelligence militare statunitense, parteciparono anche nostri ufficiali di fede repubblicana asserviti agli USA già prima della capitolazione. Altri ne cavalcarono l’onda come sempre succede nei fatti umani per trarre vantaggio e ricostruirsi una verginità a spese dei propri colleghi con delazioni e tutto il campionario di meschinità che il genere umano può mettere in campo nelle situazioni di degrado spirituale.

  Il Generale Trezzani era il più alto in grado degli Ufficiali prigionieri in America ed assecondò sicuramente il gioco e gli interessi degli Americani in tal senso. L’estromissione di mio nonno dal servizio è la prova che egli perseverò in tale atteggiamento anche dopo essere rientrato in Patria almeno finché il vacuum legislativo glielo consentì.

 

  Secondo lei, l'influenza esercitata dagli americani sull'organizzazione delle Forze Armate italiane dopo la guerra fu condizionata da una pregiudiziale antimonarchica?

  Direi proprio di sì e direi che fu qualcosa di più che una pregiudiziale. Ma dal 1946 in poi, dopo l’affermazione della Repubblica, fu un fatto inevitabile secondo me se non altro per realizzare una necessaria chiarezza istituzionale e per dare un segnale di rottura col passato. Poi si è sentita la mancanza di tante cose che fanno parte della nostra tradizione e che erano state eliminate in modo grossolano. Per fortuna alcune sono state ristabilite.

 

  Come reagì suo nonno di fronte alla sconfitta dei monarchici nel referendum del 1946?

  Posso solo immaginarlo. Penso che abbia vissuto quei giorni in grande difficoltà perché vedeva messa in discussione una cosa che non credo avesse mai immaginato potesse diventare oggetto di scelta. Ritorno alla sua educazione. Sicuramente a questo si sarà aggiunta la grande frustrazione di essere escluso insieme a tanti altri reduci dal diritto di voto; infatti le liste elettorali si erano chiuse nell’aprile del 1945 prima del suo rientro… non voglio nemmeno avventurarmi sul terreno dei paventati brogli e sulla non totale chiarezza del risultato che oramai è inutile affrontare… ma la mia famiglia continuò per moltissimi anni a inviare gli auguri a casa Savoia in occasione dei compleanni e delle nascite… poi a poco a poco questo sentimento si spense perché la vita si basa sui fatti e non sulle speranze. Resta il fatto che egli accettò il risultato, magari con la recondita speranza che il Re potesse tornare prima o poi. Questa però è una mia congettura.

 

  Come giudica l’atteggiamento tenuto dal Gen. Parri riguardo all’invito giuntogli nel 1954 dal Comando militare territoriale?

  Non ne ho la certezza, ma credo che in quel momento mio nonno avesse ormai completamente chiaro ciò che gli era successo, il perché e i nomi dei colleghi che gli avevano causato tutti i suoi guai. Forse la giudicò una richiesta eccessivamente tardiva, del resto erano trascorsi quasi dieci anni. Poi forse si nutriva un sentimento di esclusione, teniamo anche conto che insieme a tantissimi altri ex combattenti tornati dalla prigionia di guerra non gli era stato neppure concesso il diritto di esprimere il proprio parere nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Anche questo un episodio davvero poco esemplare della nostra storia contemporanea inaccettabile per chi si dichiari un uomo di cultura democratica.

  Credo insomma che fosse sufficientemente demoralizzato ed umiliato per poter credere che l’orgoglio di essere stato per tanti anni un onesto, bravo e leale soldato dovesse essergli lasciato intatto.

  Poi forse era stanco, stufo e forse era nell’età in cui si comprende che la vita non è del tutto uguale al sogno che di essa abbiamo. Ma questo è solo un mio pensiero che me lo fa rendere ancora più caro.

 

  Perché non ha pubblicato la memoria che suo nonno scrisse in opposizione al provvedimento che – dopo il ritorno dalla prigionia - lo collocava a riposo?

  Beh. Come mi era sembrato di aver spiegato nella mia introduzione, la parte propriamente diaristica del libro si ferma alla partenza dal porto di Norfolk l’8 settembre 1945 per tornare in Italia. La parte seguente del racconto è un’estrapolazione narrativa desunta dai carteggi redatti da mio nonno proprio nel tentativo di far valere le sue ragioni. Non ho omesso alcunché del contenuto degli abbondanti carteggi in mio possesso, tuttavia ho ritenuto di dover conferire anche a questa parte del testo una forma narrativa. Il solo documento che non sono stato in grado di rintracciare è la memoria che il Generale Trezzani indirizzò al Presidente del Consiglio dei ministri per indicare, peraltro in modo del tutto arbitrario, quelli che secondo lui erano gli Ufficiali ex prigionieri di guerra non meritevoli di essere trattenuti in servizio nelle Forze Armate italiane. Un'altra fonte di documenti che avrei avuto interesse a consultare sono i verbali degli interrogatori resi dagli Ufficiali in rientro dalla prigionia di guerra in America. Io però mi ero posto il compito di raccontare una storia. Ad altri il compito di approfondirla.

 

6 luglio 2010

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