Stalin e la sinistra. Intervista con Giorgio Galli |
Stalin e la sinistra. Intervista con Giorgio Galli a cura di Francesco Algisi
Giorgio Galli, politologo e saggista, ha insegnato per molti anni Storia delle dottrine politiche all’Università Statale di Milano. Ha condotto ricerche per la Fondazione Agnelli, l’Istituto Cattaneo del Mulino ed è stato consulente della Commissione stragi negli anni 1994-95. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo: I partiti politici italiani (1943-2004), Il prezzo della democrazia, L’Impero americano e la crisi della democrazia, e per BCDe, Piombo rosso (2004), Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano (2005), Il decennio Moro-Berlinguer (2006), Storia del socialismo italiano (2007), I partiti europei (2008). Nel 2009, per i tipi di Baldini Castoldi Dalai Editore, è stato pubblicato il libro Stalin e la sinistra: parlarne senza paura. Professor Galli, nel libro Stalin e la sinistra: parlarne senza paura, lei scrive, richiamando la scuola politologica italiana di Mosca e Pareto, che ogni regime è “un mix di repressione e consenso”. Qual era il rapporto tra questi due fattori nella Russia di Stalin? Vi era un massimo di repressione con un minimo di consenso. Però vi erano tutti e due i fattori. Ci sono dei regimi con più repressione e con meno consenso. Nella Russia di Stalin, la componente di repressione era fortissima e infatti la GPU era uno dei pilastri del regime. Nello stesso tempo, c’era anche un certo grado di consenso, perché nessun regime può reggersi soltanto sulla repressione. Lo storico britannico Overy calcola che le vittime di Stalin furono complessivamente nove milioni… Sì, mi sembra la cifra più attendibile. Questo fu il prezzo "inevitabile" per costruire la seconda potenza globale del XX secolo e modernizzare la Russia? O si poteva raggiungere tale obiettivo anche senza un così alto sacrificio di vite umane? Probabilmente sì, forse si poteva raggiungerlo. Ma il mio saggio è volto a stabilire che il prezzo è stato di quelle dimensioni. Si poteva raggiungerlo? Come? Qui vi è uno dei più grossi problemi della storia, cioè la storia contro-fattuale, la storia alternativa. Era possibile uno sviluppo democratico di modello occidentale in Russia? Io credo di no. Forse sì, teoricamente il prezzo è stato elevatissimo e infatti anche adesso la scuola storiografica russa, che cerca di collocare storicamente la figura di Stalin, mette in luce che questo prezzo è stato elevatissimo; che le sofferenze dei popoli sovietici erano tali da non giustificare sotto questo aspetto il regime staliniano. La rivalutazione che adesso è in corso in Russia riguarda soprattutto il ruolo svolto da Stalin nella guerra antinazista (definita la “grande guerra patriottica”). Sembra, tuttavia, che anche l’attuale storiografia russa consideri eccessivo questo prezzo e quindi ritenga che costruire la seconda potenza globale, modernizzare la Russia si potesse ottenere a un prezzo inferiore. Nella figura di Stalin, secondo lei, è prevalente il ruolo di statista russo o quello di leader del movimento comunista internazionale? Io credo quello dello statista russo. Credo che Stalin sia stato avvantaggiato in certe situazioni proprio per il suo ruolo di leader del movimento comunista internazionale. Sottolineo che furono degli intellettuali comunisti occidentali a metterlo in guardia contro il rischio dell’attacco hitleriano (sia gli intellettuali che lavoravano per l’Unione sovietica nei servizi segreti inglesi sia Richard Sorge a Tokyo). Quindi egli fu certamente avvantaggiato da intellettuali occidentali che vedevano in lui il leader del movimento comunista internazionale. E fu avvantaggiato soprattutto per quanto riguarda la costruzione della bomba atomica prima e la bomba all’idrogeno poi, perché certamente nel periodo staliniano la Russia costruì un’attrezzatura tecnologica che le avrebbe comunque permesso di realizzare questi ordigni, ma ci sarebbe riuscita con più difficoltà e in un arco di tempo maggiore. Quindi, Stalin fu certamente avvantaggiato dal fatto di essere visto dagli intellettuali occidentali, che erano in posizioni chiave, come leader del movimento comunista internazionale. Io credo, però, che il suo ruolo prevalente sia stato quello di costruttore della Russia moderna e probabilmente sarà come tale ricordato nella storia quando il movimento comunista internazionale sarà un ricordo del XX secolo. A pagina 92 del libro, lei scrive che Stalin aveva cominciato a “collocare il suo regime nella storia della grandezza russa”. Questo fatto si spiega come un superamento da parte di Stalin della propria appartenenza ideologica al marxismo? Quindi, c’è stata un’evoluzione del pensiero di Stalin in questa direzione? Non credo. Il marxismo ha avuto diverse interpretazioni anche molto diverse. Per esempio, i primi critici di Stalin furono proprio marxisti sia russi (naturalmente Trotsky) sia italiani (Amadeo Bordiga, il fondatore del Partito comunista d’Italia, fu uno dei primi critici appunto considerandosi un rigoroso marxista). Quindi, l’ortodossia marxista è difficile da definire visto che il pensiero di Marx è stato interpretato dai suoi continuatori in modo alquanto diverso. Io credo che Stalin si sia sempre ritenuto un marxista. Egli, quindi, non solo si definiva un “marxista ortodosso”, ma si riteneva l’interprete più conseguente del marxismo. Di fatto, la sua era una delle tante interpretazioni del marxismo. Già durante il suo regime aveva valorizzato alcuni elementi tipici della storia nazionale russa. Tra l’altro, io credo che, a proposito della sua prima domanda (se quel prezzo - nove milioni di vittime - si potesse ridurre), una delle ragioni che hanno influito sia la tradizione politica russa, una tradizione di regimi di tipo autocratico e non di regimi liberal-democratici. Quindi, questo aspetto della cultura politica russa ha senz’altro influito sulle scelte drastiche di Stalin e sull’elevato prezzo che è costata la costruzione della Russia moderna. Ma egli aveva ereditato alcuni aspetti specifici della tradizione russa. Già negli anni Trenta, soprattutto dopo l’eliminazione di Tukhachevsky, l’Armata rossa era stata costruita con un criterio di distinzione tra il corpo degli ufficiali e i soldati; erano stati ripristinati i gradi, le spalline; in qualche misura, si era anche attenuato l’ateismo di stato, che certo veniva sempre proclamato, ma in parte era stato concesso qualche spazio in più alla Chiesa ortodossa, sia pure come chiesa di Stato subordinata al regime. Inoltre, la svolta decisiva era stata costituita dalla guerra contro Hitler, definita tuttora, ma già dallo stesso Stalin, la “grande guerra patriottica”. Degni di nota sono i suoi appelli durante il periodo bellico: è rimasto famoso quello all’inizio della guerra, in cui egli si rivolse ai Russi non utilizzando la classica espressione “compagni”, bensì l’espressione “fratelli e sorelle”; richiamò le grandi tradizioni russe; addirittura disse ai combattenti che difendevano Mosca che erano protetti dalla grande ombra di Alexandr Nevskij; ricordò i generali zaristi - molto reazionari, evidentemente – Suvorov e Kutuzov. Certo, alla fine concluse dicendo “sventola su di voi la bandiera vittoriosa del grande Lenin”. Costruì una specie di storia della grandezza russa che cominciava con Alexandr Nevskij per culminare in Lenin. Quindi direi che complessivamente alcuni elementi della storia russa sono stati valorizzati da Stalin nei momenti più drammatici del suo regime, anche se egli ha continuato a considerarsi un marxista. Questa evoluzione della Russia stalinista in un senso, per così dire, nazional-patriottico, fu una svolta tattica dovuto alla guerra o si trattò invece di un naturale sviluppo del “socialismo in uno solo Paese”? Io credo che sia stata un’evoluzione abbastanza naturale. Stalin si è ritenuto al contempo il costruttore di uno Stato che lui definiva socialista, ma anche l’erede della grandezza russa. Ci sono molto suoi discorsi in tal senso. La stessa industrializzazione, con il primo piano quinquennale del 1929, era stata varata come la prova che la Russia si stava affrancando da un giogo secolare. Era finito il giogo tartaro: “non siamo più servi dei signori polacchi, stiamo costruendo la grande Russia”. Quindi, io credo che questo non sia un elemento soltanto tattico, non sia stato un’improvvisazione, ma sia uno sbocco quasi naturale: si comincia col dire “costruiamo il socialismo in uno solo Paese”, e questo paese è in fondo la grande Russia, quella che già gli slavofili nel XIX secolo presentavano come “terza Roma” (la prima Roma, quella dell’Impero romano appunto; la seconda Roma, quella dell’Impero bizantino; e Mosca come terza Roma). Credo che questa tradizione sia radicata nel pensiero politico russo e in qualche misura lo stalinismo l’ha ereditata. Alla luce di questo, in che misura Stalin appartiene alla storia del comunismo? Alla storia del comunismo in qualche misura vi appartiene nel senso che lui stesso si considerava un comunista e - come ho detto prima - per un lungo periodo il comunismo internazionale ha visto in lui una figura eminente. La III internazionale l’aveva sciolta proprio durante la guerra, ma questa appartenenza ha continuato a essere vissuta non solo da intellettuali ma anche da masse consistenti. In Europa, soprattutto in Italia e in Francia, generazioni, milioni di persone sono cresciute con la convinzione che Stalin fosse il comunismo internazionale. Quindi, questa convinzione ha costruito una parte di storia anche di altri Paesi. Come legge la rivalutazione di Stalin nella Russia di oggi? Intanto bisogna collocare la rivalutazione di Stalin nel quadro culturale della Russia di oggi. La Russia di oggi è erede di una tradizione sostanzialmente autocratica. La tradizione della cultura politica russa non è quella liberal-democratica. Oggi la classe dirigente russa definisce il regime una democrazia sovrana, mettendo l’accento sulla sovranità. In questa particolare collocazione diciamo di cultura politica del regime, Stalin non viene certamente rivalutato come comunista. Oggi si dice che Stalin non ha costruito né il capitalismo né il socialismo, ma in questa revisione si sottolinea che Stalin ha costruito la Russia moderna (sia pure a un prezzo troppo alto, come si diceva prima), che adesso si viene organizzando nella forma di una democrazia sovrana, secondo l’autodefinizione che il sistema politico russo dà di se stesso. Il regime della democrazia sovrana è la continuazione della Russia moderna, alla cui costruzione anche Stalin ha contribuito. In questo senso, viene rivalutato oltre che, naturalmente, per la vittoria nella “grande guerra patriottica”. Putin ha definito la scomparsa dell’Urss una “catastrofe” dal punto di vista geopolitico. Che cosa ne pensa? Questo è il modo con il quale l’attuale regime politico russo presenta se stesso come erede degli aspetti positivi della costruzione della Russia moderna. È una giustificazione della situazione attuale. Putin rivaluta anche Stalin, ritiene che il crollo dell’Unione sovietica abbia avuto molti aspetti negativi e, quindi, rivendica, come merito della svolta cominciata con la sua prima elezione nel 1999, il superamento di un periodo catastrofico. Secondo me, la definizione di “catastrofe geopolitica”, da un punto di vista storico, è eccessiva: mi pare più un’accentuazione per rivendicare i meriti dell’attuale sistema politico che avrebbe superato una situazione catastrofica. Quindi personalmente non condivido questa definizione, ma cerco di capire perché Putin l’abbia data. 15 marzo 2010 Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA |