Roberto Chiarini
Storia dell'antipolitica dall'Unità a oggi Perché gli italiani considerano i politici una casta
Rubbettino Editore, pagg.194, € 16,00
Lo storico Roberto Chiarini (professore emerito di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Milano e attualmente Presidente del Centro studi sulla Rsi di Salò) ricostruisce in questo saggio l'origine e gli sviluppi del sentimento di estraneità/ostilità nei confronti della classe politica nel nostro Paese, distinguendo "due tipi estremi di antipolitica": l'uno è il "disgusto verso la politica che ha esiti direttamente politici" con la richiesta di affidare il governo ai competenti o "di restituire la sovranità al popolo"; l'altro è costituito dalla "critica corrosiva della politica centrata sulla denuncia dell'effetto distorsivo della democrazia rappresentativa (la famigerata "democrazia dei partiti") che non si esaurisce nella protesta, ma prefigura un suo trascendimento in vista dell'autogoverno del popolo stesso".
L'antipolitica non va confusa con il populismo. Pur "contigui nella critica", i due fenomeni "differiscono nella proposta". In entrambi si riscontra "l'accusa ai partiti e ai politici di essere i primi responsabili dei problemi che affliggono l'odierna società così come la denuncia dei tanti loro vizi: un linguaggio oscuro, impenetrabile ai comuni mortali, lo spirito di casta, l'autoreferenzialità che li rende estranei al cittadino, per non dire dell'irresolutezza del loro agire".
Sul terreno della proposta, spiega l'Autore, tra l'antipolitica e il populismo si riscontra una distanza. "La prima, per il pregiudizio che nutre verso la politica, tende a precludersi la possibilità di competere avanzando un'offerta di cambiamento, elaborando un'identità, allestendo un'organizzazione. Il secondo, invece, non rifugge dall'affrontare la competizione per consumare un cambio della guardia al vertice dello Stato. Riesce a realizzare una temibile presenza nelle urne e a rappresentare una seria minaccia ai palazzi del potere. L'una si rifugia per lo più nella protesta, l'altro la fomenta ma non improduttivamente. Spesso anzi la sa capitalizzare nel consenso".
Sebbene sia tuttora "privo di una compiuta sistemazione teorica", il concetto di antipolitica presenta "uno spettro semantico ampio, per di più non sempre coerente, contraddistinto com'è da un uso indifferenziato, oltre che da una forte polisemia. Viene usato, infatti, per screditare indifferentemente diversi aspetti della vita pubblica: stati d'animo, stili discorsivi, strategie retoriche, orientamenti dell'opinione pubblica, movimenti e partiti anche tra loro distanti sia nelle modalità di intervento che nei programmi politici, pur tuttavia unificati dalla contestazione, in specifico della classe politica in carica, più in generale degli istituti propri della democrazia rappresentativa nonché dalla riluttanza a farsi classificare all'interno del continuum destra/sinistra".
Secondo Chiarini, l'Italia rappresenta "se non la patria elettiva, almeno il luogo dove l'antipolitica riscuote forse la maggior fortuna. Trova proseliti sia a destra che a sinistra. Dilaga nei programmi e nei codici comunicativi dei partiti, nel linguaggio dei leader e nell'immaginario dell'uomo della strada. Seduce tanto i comuni cittadini quanto la classe dirigente. Il suo ingombro nella vita democratica, il rilievo assunto dalle sue parole d'ordine, la pervasività del suo linguaggio sono così pronunciati da averle fatto conquistare posizioni di testa nella competizione politica nazionale e grande rilevanza in quella europea".
Le radici di tale "sentimento irriflesso di estraneità/ostilità alla politica" vanno ricercate nella "plurisecolare esperienza di dominazioni straniere e signorili subite" dal nostro Paese. Nel corso del tempo, esso si è "consolidato in una specifica cultura civica nazionale che ha incorporato come suo tratto saliente il disprezzo/rigetto della politica".
All'epoca della costruzione dello Stato nazionale, l'antipolitica ha trovato "nuovo, vigoroso alimento" in primo luogo nella "contrarietà nutrita dai cattolici nei confronti di un'Italia ostaggio dei liberali, massoni e mangiapreti", in secondo luogo nel "carattere antisistema che ha contraddistinto l'azione dei socialisti, degli anarchici e degli stessi repubblicani".
Al termine della Prima guerra mondiale, l'antipolitica, "sotto le mentite speglie dell'iperpolitica, si fa becchino della democrazia", "incondizionata ripulsa dei regimi parlamentari. In nome del rifiuto della democrazia rappresentativa e della disintermediazione dai partiti si arriva alla formazione di un regime a partito unico".
Dopo il 1945, invece, si consuma "la trasfigurazione dell'antipolitica dalla versione iperpolitica propagandata dal regime totalitario a una ipopolitica suggerita dal suo franamento rovinoso".
"Per circa mezzo secolo – aggiunge l'Autore – la critica alla partitocrazia è stata appannaggio quasi unicamente del Movimento sociale, della stampa di destra e di poche isolate, anche se popolarissime firme giornalistiche controcorrente (su tutti, prima Guareschi, poi Montanelli). Ora fa breccia nell'opinione pubblica nei media. Si innesta una spirale che si autoalimenta allargandosi vertiginosamente". |