Nuova Storia Contemporanea, n.3/2011 Stampa E-mail

Nuova Storia Contemporanea, n.3 maggio-giugno 2011

Le Lettere, pagg.168, Euro 11,50

 

nsc3_2011  Il saggio di Antonio Ciarrapico, intitolato Che necessità ha oggi l’Italia di esistere, apre il terzo numero del 2011 della rivista Nuova Storia Contemporanea. A chi lamenta la scarsa omogeneità dell'Italia l’Autore obietta che l'Europa è infinitamente meno omogenea. Egli ritiene necessario non rinunciare allo Stato-nazione ma attribuirgli un significato profondo che non contrasta con le aperture alla collaborazione internazionale.
  Michel Ostenc,  professore emerito di Storia contemporanea presso l'Università di Angers, prende in esame i rapporti italo-francesi nei giorni del “putsch di Algeri”. “Francia e Italia – scrive l’Autore - avevano stabilito forti rapporti d'amicizia già dalla fine della Seconda guerra mondiale: entrambe le nazioni facevano parte del Patto atlantico e si erano impegnate, nonostante il fallimento della Comunità europea di difesa (Ced), nel progetto di costruzione dell'Europa. Ma l'Italia non poteva restare indifferente di fronte al processo di decolonizzazione del nordafrica: oltre ai numerosi cittadini italiani che vivevano ancora in Tunisia, erano circa 100.000 quelli che risiedevano in Algeria. Le difficoltà con cui si confrontava la Francia nella sua opera di decolonizzazione spingevano Roma a ribadire il suo tradizionale ruolo diplomatico di mediazione tra Oriente e Occidente.”
  Nixon e Brandt. Détente e ostpolitik a confronto (1969-1972)
è il titolo dell’intervento di Veronica Uva (ricercatrice dell’Università del Salento). Vi si legge che “tra il 1968 e il 1969, l'avvento di due nuove figure nella scena politica mondiale produsse una scossa che smosse il sistema internazionale, pur senza scardinarne gli equilibri esistenti. Si trattava di Richard Nixon, repubblicano, eletto trentasettesimo presidente degli Stati Uniti il 5 novembre 1968, e di Willy Brandt, il primo cancelliere socialdemocratico nella storia della Repubblica Federale Tedesca, a partire dal 21 ottobre 1969.”
  Alle implicazioni navali della guerra d’Etiopia è dedicato il saggio di Alessandro Mazzetti (esperto di Storia militare del Novecento con particolare riguardo al periodo compreso fra le due guerre mondiali). L’Autore spiega che “la nuova politica inaugurata da Mussolini svincolava l'Italia dalle scelte inglesi, e questi persero un partner importantissimo nel Mediterraneo, sia pure temporaneamente. Gli inglesi compresero che la Società delle Nazioni non era un organismo sufficiente per mantenere lo status quo europeo; le medie potenze nate dallo smembramento degli Imperi centrali avevano comunque bisogno di amicizia e protezioni e non potevano da sole o con il solo aiuto della Società delle Nazioni contenere le spinte espansionistiche di una Germania in piena ripresa economica e politica. La guerra d'Etiopia segna profondamente un cambio di rotta della politica inglese, reindirizzandola verso una politica di potenza e quindi navale. Per far questo bisognerà comunque spendere più soldi per il riarmo, e condurre l'opinione pubblica inglese ad abbandonare la fallace politica del partito della pace. Il governo inglese sarà costretto, suo malgrado, a dover riformulare una nuova politica nel Mediterraneo tenendo conto, sia pure solo formalmente, del nuovo status di Impero che Mussolini ha dato all'Italia.”
  Sabrina Sgueglia della Marra (ricercatrice in Storia contemporanea presso l'Università Roma Tre e autrice del volume Montezemolo e il Fronte Militare Clandestino) prende in esame le aggressioni agli ufficiali nel primo dopoguerra. “Dopo l'armistizio, l'Italia visse una crisi profonda determinata dall'acuita conflittualità sociale, dal deterioramento delle istituzioni liberali, ma anche dall'impossibilità di una comune elaborazione dei traumi subiti e di un'adeguata celebrazione della vittoria. Il primo conflitto mondiale, se da molti fu vissuto e, in seguito alla vittoria, celebrato come supremo momento di coesione, non favorì affatto l'edificazione di un'identità nazionale ma approfondì le spaccature già esistenti nel tessuto sociale producendo una crescente corporativizzazione”.
  “La propaganda antimilitarista del partito socialista – aggiunge l’Autrice -, la relazione finale della Commissione di'inchiesta su Caporetto, in cui il mondo militare ravvisò un malcelato tentativo del parlamento di celare le responsabilità governative a detrimento della sua reputazione, l'incapacità della classe dirigente di farsi promotrice di una memoria condivisa della guerra e la scelta di non utilizzare la commemorazione della vittoria come mezzo catalizzatore del consenso, concorsero inesorabilmente ad aggravare il già profondo distacco tra esercito e paese e a esasperare ulteriormente il clima politico. L’aperta sconfessione della guerra e di chi l'aveva voluta e combattuta da parte del partito socialista, propugnatore di una serrata campagna denigratoria volta a rimarcare l'inutilità del conflitto, urtò fortemente la sensibilità dei reduci che, additati al pubblico disprezzo e obbligati a non indossare la divisa e a nascondersi, furono oggetto di scherno, intimidazioni e, talora, di violenza”.