Eden in fiamme Stampa E-mail

Gabriele Marconi

Eden in fiamme

Castelvecchi Editore, pagg.191, € 17,50

 

marconi eden  I protagonisti di questo avvincente romanzo di Gabriele Marconi (già direttore del mensile "Area") sono tre giovani che, all'indomani dell'8 settembre 1943, aderiscono alla Repubblica sociale italiana, che "fu Impossibilità al di là di ogni illusione. Ma, come si dice, era una cosa che andava fatta. Punto. Ci saremmo risparmiati una tonnellata di dolore, restandocene a casa, eppure non esitammo un solo istante a prendere posizione, andandoci a infilare in un abisso di orrore".

  L'io narrante si dichiara convinto che l'adesione alla Rsi "fu la scelta giusta, malgrado tutto. E malgrado tutto lo sono ancora. Lo sono ancora".

  D'altra parte, l'armistizio aveva lasciato quei giovani "come naufraghi boccheggianti tra i rottami di una nave spazzata via dal mare in tempesta, sotto un cielo cupo e nero che li privava di qualsiasi punto d'orientamento, ma finalmente avevano trovato uno scoglio a cui aggrapparsi. Su quello scoglio avevano ripreso fiato, si erano asciugati e, tornando a mettersi in piedi, i sopravvissuti avevano scoperto di non essere soli".

  Ad animarli era "un sentimento semplicissimo: la lealtà, che precedeva qualsiasi ragionamento e impediva anche solo di prendere in considerazione la possibilità di voltare le spalle all'alleato con il quale, fino al giorno prima, avevi combattuto spalla a spalla. Non c'era riflessione, spiegazione o logica, ma per tutti loro mancare alla parola data sarebbe stato un sacrilegio che non riuscivano nemmeno a concepire. Qualche volta avevano provato a parlarne, stesi sulle brande a fine giornata, sfiancati dagli addestramenti. Ma qualunque argomentazione che avevano cercato di esprimere era uscita maldestra e balbettante, lontana anni luce dalla chiarezza limpida del sentimento che provavano".

  La scelta di arruolarsi comportò un addestramento "duro, ma scandito dai versi spavaldi di Vent'anni, che gli allievi paracadutisti cantavano durante le marce e sugli autocarri quando venivano portati ai campi... «A noi la morte non ci fa paura /ci si fidanza e ci si fa l'amor /se poi ci avvince e ci porta al cimitero / s'accende un cero e non se ne parla più». Il rancio aveva una sola pietanza fissa: il riso. Non ce la facevano più, riso a pranzo e a cena... e qualche volta pure a colazione, inzuppato nel latte".

  Mese dopo mese, quei giovani "avevano dovuto dimenticare l'addestramento ricevuto e si erano dovuti abituare a muoversi e a ragionare come i partigiani che avevano di fronte. Combattimenti mordi e fuggi, inseguimenti e ritirate, incursioni nel silenzio dei boschi come indiani all'assalto delle giacche blu: per evitare qualsiasi rumore avevano dovuto rinunciare anche alle piume sull'elmetto, perché sbattendo sul metallo distraevano dall'ascolto dei fruscii che potevano segnalare la presenza del nemico".

  Alla fine di aprile del '45 giunse la notizia della fucilazione del Duce: "Nessuno voleva crederci, però la notizia era vera e molti piansero, ma cantarono tutti un'ultima volta, adesso che la fine li aveva raggiunti: «M rossa, uguale sorte / fiocco nero alla squadrista, / noi la morte l'abbiam vista / con tre bombe e in bocca un fior...». Le lacrime di tanti si fusero con la pioggia che già rigava i loro volti. Quei ragazzi avevano sofferto e combattuto davvero come leoni e la morte l'avevano vista ogni giorno, nei diciotto mesi passati a difendere metro per metro quella terra martoriata fermando le brame dei partigiani titini. E adesso che i bersaglieri andavano via, i comunisti della Natisone avrebbero indicato ai loro compagni slavi la via più rapida per arrivare a Trieste, che stava per vivere uno degli incubi peggiori dei suoi duemila anni di storia..."