Antonino De Francesco
L'antichità della nazione Il mito delle origini del popolo italiano dal Risorgimento al fascismo
Franco Angeli, pagg.240, € 29,00
Pubblicato originariamente in lingua inglese, questo saggio di Antonino De Francesco (professore ordinario di Storia moderna presso il Dipartimento di studi storici dell'Università degli Studi di Milano) compie "un viaggio tra i meandri del nazionalismo italiano", partendo "dalle origini del mito dell'antichità italica, rintracciate negli anni napoleonici, per snodarsi lungo tutto il XIX secolo, coinvolgere la prima metà del Novecento e concludersi con l'inabissamento del tema in parallelo al crollo del fascismo".
L'Autore esamina "le diverse fortune dell'antichità italica, muovendo dall'uso che se ne fece in epoca risorgimentale per misurare come e in quali termini quella specifica lettura venisse recuperata negli anni dell'Italia liberale prima e quindi in quelli del fascismo per poi concludere sulla sua dissolvenza dopo la seconda guerra mondiale".
Nel 1804, Vincenzo Cuoco pubblicò i primi due tomi di un "ambizioso lavoro", il "Platone in Italia", un romanzo che "si dipana lungo i sentieri dell'erudizione, mediante lo stratagemma della pubblicazione d'un antichissimo manoscritto tradotto da un antenato di Cuoco nel 1774". L'opera compie "un ispirato percorso a ritroso nella storia d'Italia, alla ricerca di un passato di prestigio attorno al quale imbastire una prospettiva (o almeno un auspicio) per il futuro", prestandosi "da subito ad una lettura in chiave patriottica, dove l'insistito ricorso al primato culturale e all'antichità della stirpe italiana dapprima valse ad animare il Risorgimento e dopo il 1861 a sostenere il difficile processo di nazionalizzazione della penisola".
Agli inizi del Novecento, Giovanni Gentile presentò il romanzo del Cuoco "come una concreta testimonianza dei termini mediante i quali si fosse posto mano, seppur con alterni risultati, alla nazionalizzazione delle masse". Secondo la ricostruzione gentiliana, Vincenzo Cuoco rappresentava "il fondatore della cultura politica italiana, perché la sua distanza dal democratismo dei Lumi, il suo rifiuto di ogni influenza straniera e le sue tante denunzie dell'astrattezza giacobina, nonché la sua diffidenza nei confronti dei sistemi rappresentativi, lo proponevano quale un sicuro anticipatore di quella nuova Italia che il fascismo soltanto, posto fine al trasformismo del sistema liberale, aveva infine provveduto a edificare".
De Francesco spiega che "il processo di nazionalizzazione in Italia" fu "il risultato dell'incontro d'una pluralità di modelli culturali, all'interno del quale, non di meno, le esclusioni come le inclusioni costantemente si susseguirono: gli stessi stilemi, che sembrano ossessivamente ripetersi, sono infatti piegati di volta in volta ad esigenze diverse e destinati, a seconda del frangente, a tratteggiare profili differenti. Tutti – compreso l'ultimo, messo a punto in chiave autoritaria dal fascismo – nascevano dal rimescolamento di suggestioni e di contributi non di rado sorti in altro contesto storico e sotto segno politico-ideologico addirittura opposto: insomma, per dirla in breve, non esiste un nazionalismo italiano che si sia venuto sviluppando in modo lineare lungo il secolo XIX, ma una pluralità di forme di nazionalizzazione, che sarebbero sorte in modo distinto per fare spesso anche incrocio e dare conseguentemente vita a modelli differenti, tutti destinati a seguire le modalità, spesso drammatiche, con le quali la società italiana fece incontro con la modernità politica". |