David Le Breton
La vita a piedi Una pratica della felicità
Raffaello Cortina Editore, pagg.218, € 14,00
Il sociologo e antropologo David Le Breton, docente presso l'Università di Strasburgo, svela in questo libro il piacere e il significato, ponendone in rilievo le virtù terapeutiche per attenuare i disagi prodotti dalla vita tecnologica e resistere "contro le tendenze del mondo contemporaneo, che spossessano ogni individuo di una parte della propria sovranità e del proprio piacere di essere se stesso".
Negli ultimi anni, il camminare ha conosciuto "un successo planetario, diversamente da quello che è accaduto ai valori maggiormente radicati nelle nostre società. Questa passione contemporanea coniuga molteplici significati per uno stesso camminatore: volontà di ritrovare il mondo attraverso il corpo, di prendere le distanze da una vita troppo abitudinaria, di popolare il tempo di scoperte, di sospendere gli affanni del giorno; desiderio di rinnovamento, di avventura, di incontri".
L'umanità contemporanea – osserva l'Autore – è sedentaria: è seduta e langue davanti "agli schermi dei cellulari, dei computer e dei televisori, al volante delle vetture o in ufficio".
La sedentarietà rappresenta "una delle principali preoccupazioni della sanità pubblica. In Francia, negli anni Cinquanta, si percorrevano a piedi, in media, sette chilometri al giorno. Oggi, appena trecento metri. Molti dei nostri contemporanei sono ostacolati da un corpo di cui non riescono assolutamente a servirsi, se non per eseguire alcuni compiti nelle proprie abitazioni o per raggiungere la propria automobile e uscirne".
Il corpo è diventato "un oggetto da portare con sé", "viene trasportato, non ci trasporta più".
Numerosi sono i vantaggi offerti, invece, dal camminare che Le Breton sottolinea. Camminare è "una rivendicazione della lentezza, di un ritmo proprio, non dettato da alcuna autorità esterna, nel rifiuto della tecnologia che fa guadagnare tempo e perdere la propria vita"; restituisce "lo spessore della presenza, è uno strumento potente per ritrovarsi con i congiunti"; "è un elogio della conversazione, della disponibilità verso l'altro".
La marcia in solitaria "acuisce la sensazione della propria presenza nel mondo" ed "è cosmica, nel senso che non pone alcuna distrazione fra l'individuo e il mondo, sollecitando soprattutto le risorse interiori, senza la deconcentrazione provocata dalle conversazioni con gli altri o dalla necessità di tenere conto della loro presenza e di condividere la pianificazione del tempo".
Camminare – spiega ancora il sociologo – equivale a "riprendere corpo, smettere di perdere il controllo e di fare passi falsi".
Indipendentemente dalla sua età e dalla sua storia personale, "il camminatore abbandona la routine che rischiava di imprigionarlo in una trappola, nell'irreversibilità del proprio disagio morale o dei conflitti con gli altri. Scopre con stupore che la vita è davanti a sé, mai dietro". |