Gherardo Colombo con Franco Marzoli
Farla franca La legge è uguale per tutti?
Longanesi, pagg.288, Euro 13,90
A vent’anni dall’inizio delle indagini di Mani Pulite, Gherardo Colombo, che fu pubblico ministero presso la Procura di Milano dal 1989 al 2005, rivela in un dialogo/intervista con Franco Marzoli i retroscena di quella stagione, sottolineandone effetti, limiti e aspettative mancate. Racconta le inchieste sulla P2 e sui «fondi neri» dell’Iri, prime avvisaglie dell’intreccio tra poteri che Mani pulite avrebbe portato allo scoperto senza riuscire però a mettervi fine. Ripercorre le moltissime accuse mosse all’indagine dai politici coinvolti, le polemiche sull’abuso della custodia cautelare, le misure attuate dalla classe politica in propria difesa. Ricorda l’ex pm: “Credo che complessivamente, per Mani pulite, siano state arrestate, nel giro di almeno tre anni, circa mille persone. Si trattava di una percentuale non elevata rispetto al numero generale degli arresti. Mediamente uno al giorno, rispetto ai venti circa in totale. Nonostante […] la frequente notevole gravità dei fatti. Nelle indagini sono state coinvolte più di cinquemila persone: abbiamo complessivamente chiesto il rinvio a giudizio per oltre tremiladuecento persone; per altre milleduecento circa gli atti sono stati trasmessi ad altre procure; per altri ancora si è chiesta l'archiviazione o il proscioglimento. Questo per dire che non di tutti è stato chiesto l'arresto. Io credo che nessuno avrebbe avuto da ridire se i casi emersi nel medesimo contesto temporale fossero invece stati scoperti nel giro di anni. Nessuno si sarebbe lamentato se fosse stato arrestato, poniamo, il dirigente di una grande municipalizzata che avesse, in un contesto isolato, ricevuto decine o centinaia di milioni di lire per assegnare un contratto a chi lo aveva pagato, invece che all'impresa meritevole di vincerlo. Quindi è stata la concentrazione delle indagini dovuta alla inimmaginabile diffusione dei fatti illeciti a provocare la sensazione di un eccessivo ricorso alla misura cautelare. Forse, senza le carcerazioni preventive sarebbe stato più difficile scoprire tutto quello che abbiamo scoperto, ma ciò probabilmente sarebbe avvenuto proprio perché si sarebbero concretati i rischi che la legge tende a evitare, l'inquinamento della prova, soprattutto. Del resto si deve considerare che ammissioni sono state fatte anche da parte di chi era libero, credo anche indipendentemente dal voler far venir meno i presupposti giustificativi della custodia preventiva in carcere”. Sollecitato da Marzoli, Colombo cerca di chiarire la nota vicenda dell'invito a comparire recapitato a Silvio Berlusconi nel novembre 1994, proprio mentre, in qualità di presidente del Consiglio, era a Napoli per il convegno internazionale sulla criminalità: “Decidemmo di usare tutte le cautele possibili per evitare che l'invito a comparire (sottolineo che si trattava di un invito a comparire, non solo di una «informazione», come sembra abbiano creduto per anni milioni di persone) potesse essere divulgato. Il presidente del Consiglio aveva in quei giorni un impegno internazionale a Napoli, ma sapevamo, perché così ci aveva riferito il generale dei carabinieri ai quali era stato dato l'incarico di recapitare l'invito, che la sera del 21 novembre sarebbe rientrato a Roma per partecipare a un Consiglio dei ministri. La consegna doveva avvenire a Roma quella sera, ma Berlusconi rientrò in effetti il giorno dopo, e dunque solo il giorno dopo, appunto a Roma, l'atto gli fu notificato. La sera del 21 i carabinieri che erano andati a Roma per consegnare l'invito non lo trovarono, lo contattarono telefonicamente e lo informarono di parte del contenuto dell'invito. La mattina successiva il Corriere della Sera pubblicò la notizia del suo coinvolgimento nell'inchiesta. Come ti dicevo, adottammo tutte le cautele possibili per evitare che la notizia potesse arrivare alla stampa, e tuttavia il Corriere riuscì ad averla". Riguardo al cosiddetto «decreto Biondi», varato dal Governo il 13 luglio 1994, Colombo osserva che esso parve ai magistrati del pool “in forte contrasto con basilari principi costituzionali (tra cui il principio d'uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione), e anche con la logica: si sarebbe andati in carcere preventivo per un furto aggravato, ma non per reati finanziari o per corruzioni gravissime, perché per questi ultimi la legge vietava la custodia cautelare. Questa, per esempio, era ammessa per l'estorsione, reato commesso da un privato, ma non per la concussione, che in una sua forma è esattamente un'estorsione commessa da pubblico ufficiale, con abuso dei suoi poteri". “Il decreto – aggiunge l’ex pm - fu un vero ostacolo alla prosecuzione delle indagini, soprattutto quelle sulla corruzione all'interno della guardia di finanza. La custodia cautelare era anche in quel caso tesa ad evitare soprattutto il rischio di inquinamento della prova, ancor più spiccato che negli altri settori d'investigazione. La corruzione è di per sé una materia in cui la prova è molto difficile da scoprire in quanto è interesse comune del corrotto e del corruttore, che verrebbero puniti entrambi, nascondere l'illecito. Passati circa un paio d'anni dall'inizio delle indagini la raccolta delle prove cominciò a divenire progressivamente difficile, al contrario dei tempi in cui le persone facevano la fila davanti alle nostre porte per riferirei anche episodi che non conoscevamo. Si era diffusa una certa tendenza alla reticenza, era diventato più difficile acquisire documenti rilevanti. Comunque, nel caso specifico delle indagini su membri infedeli della guardia di finanza, il pericolo di inquinamento delle prove, ripeto, era molto elevato. La pratica di alcuni militari della guardia di finanza consisteva nel «condividere» con altri colleghi la tangente raccolta per ammorbidire o omettere le verifiche fiscali, in una vera e propria «rete» di cui noi avevamo scoperto allora solo alcuni fili. Per molti soggetti, già coinvolti nelle indagini o che lo sarebbero stati di lì a poco, il decreto Biondi costituì una grande occasione per poter inquinare le prove". Rispondendo alla domanda sulle priorità della giustizia penale in Italia, Gherardo Colombo spiega che bisogna “cambiare le regole del processo, eliminando quelle garanzie formali che servono solo a renderlo lungo; dotare i giudici di strumenti effettivi (non tanto le fotocopiatrici e cose del genere, quanto persone che li coadiuvino); organizzare adeguatamente gli uffici giudiziari, ridurre drasticamente il numero degli avvocati. Non sarebbero interventi difficili: se non si attuano è perché dietro ci sta una cultura molto diffusa in tutti gli strati della cittadinanza, secondo la quale se la giustizia funziona male non è poi un gran danno, anzi.”
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