La cortina di vetro Stampa E-mail

Micol Flammini

La cortina di vetro
Vecchie paure e nuovi confini
L'Europa dell'est oltre il passato sovietico


Mondadori, pagg.228, € 18,50

 

flammini cortina  L'Occidente, da tempo immemore, si è illuso che la dissoluzione dell'Unione Sovietica avrebbe comportato la fine della cortina di ferro e la fine della divisione tra il blocco occidentale e quello comunista. Tuttavia, i Paesi che hanno vissuto all'ombra di quella tragedia sono rimasti in bilico tra passato e futuro, tra democrazia e autocrazia.

  Ucraina, Bielorussia, Polonia, i paesi baltici e i Balcani hanno subito le conseguenze della divisione dei blocchi politici e sono rimasti sempre in attesa, con il fiato sospeso, di ciò che il futuro avrebbe loro riservato. Alcuni sono rimasti legati alla Russia, altri hanno invece abbracciato il mondo occidentale, mentre altri ancora hanno intrapreso una corsa frenetica per entrare nella NATO e nell'Unione europea, considerando queste come l'unica forma di protezione contro l'aggressività russa.

  Tra questi Paesi c'è proprio l'Ucraina, per cui la scelta di parteggiare da una parte o dall'altra è diventata una questione di vita o di morte. Queste nazioni portano ancora oggi il peso di una storia incompiuta e cercano continuamente una risoluzione al loro passato.

  In questo libro, Micol Flammini (giornalista del «Foglio») racconta questo mondo che, nonostante tutto, è rimasto in sottofondo per trent'anni. Una cortina che, col passare del tempo e grazie ai rapporti economici, agli scambi culturali e ai viaggi, ha perso la sua impenetrabilità e si è trasformata in una parete di vetro.

  L'invasione dell'Ucraina del 24 febbraio 2022 e l'ennesima guerra in Europa non sono solo il gesto folle di un presidente che cerca il suo impero, ma rappresentano invece il culmine di un percorso ben preciso che era stato scrutato e analizzato dai paesi vicini alla Russia sin dall'implosione dell'URSS.

  Solo partendo dal passato e dalla comprensione della storia di questi paesi si può effettivamente arrivare a comprendere il mondo di domani.

  Il volume è un vero e proprio caleidoscopio che riesce a riprodurre magistralmente la vita e le storie straordinarie dei personaggi che hanno vissuto nell'orbita sovietica, affrontando paure inimmaginabili e decidendo il futuro dei loro paesi in un contesto storico assai complicato.

  I confini hanno subito inevitabili mutamenti, suscitando reazioni contrapposte nei cittadini, che dovevano trovare il coraggio di adattarsi a una nuova realtà. Così facendo, devono instaurare un rapporto armonioso con l'attuale potere di Mosca e, allo stesso tempo, con l'Occidente. Le loro lotte per la democrazia, sia antiche che recenti, meritano un posto di rilievo in questo libro, ma è il caso dell'Ucraina che si rivela una scottante questione di vita o morte.

  Flammini offre un'analisi minuziosa e sorprendente di come questi Paesi abbiano affrontato notevoli cambiamenti, che talvolta hanno portato avanti non senza complicazioni e difficoltà. Grazie alle sue argute osservazioni, Flammini ci guida attraverso un mondo a volte sconosciuto ai più e ci fa capire quanto complicato sia stato il cammino verso la democrazia di questi Paesi, che hanno dovuto lottare strenuamente per la conquista dei loro diritti e per la loro stessa sopravvivenza. In sostanza, questo è un libro di grande importanza storica e culturale che consigliamo a tutti coloro che sono appassionati di politica internazionale e di fatti storici che hanno plasmato la nostra società.

  "Da quando fu eletto – si legge nel testo -, Lukashenka lavorò al progetto di riunificare Bielorussia, Russia e Ucraina all'interno di una nuova entità statale sul modello sovietico, credendoci più di Mosca e sicuramente più di Kyiv, che invece non voleva saperne. Lo sviluppo più importante di questo programma consiste in un accordo firmato da lui e da Eltsin per la creazione di una federazione con la Russia che non si realizzò mai, ma che, secondo Lukashenka, avrebbe dovuto essere a guida bielorussa, perché soltanto Minsk era rimasta fedele ai principi dell'Urss. Per un periodo abbastanza lungo, sul piano economico la Bielorussia risultò essere la più sana delle ex repubbliche socialiste sovietiche, più sana anche della Russia. E il segreto stava soprattutto nel non aver mai davvero tentato di aprire la sua economia: per anni il prodotto interno lordo di Minsk è stato il doppio rispetto a quello di Ucraina o Georgia, che invece stavano sperimentando l'economia di mercato.

  "La Bielorussia aveva mantenuto la centralizzazione mentre gli altri, privatizzando le aziende statali, avevano creato le premesse per un pericoloso sistema oligarchico. Inoltre, rispetto alle altre nazioni sovietiche, Minsk non ha mai davvero tentato di staccarsi da Mosca, dimostrando una fedeltà che le ha consentito di godere delle risorse energetiche russe a prezzo scontatissimo. Con il passare del tempo, però, la fedeltà al tabù del capitalismo ha reso l'economia della Bielorussia stagnante e sempre più dipendente dalla Russia. Gli occhi dei bielorussi hanno così cominciato ad aprirsi su cosa significasse vivere in uno Stato rimasto indietro, più povero dei suoi vicini, anche di quelli ex sovietici, e su che senso avesse fare finta che l'Urss fosse ancora in piedi. La situazione si è aggravata con l'arrivo della pandemia, quando Lukashenka non ha voluto prendere decisioni che rischiassero di risultare impopolari: non ha introdotto alcun lockdown, non ha imposto l'uso di mascherine e consigliava di curare la malattia con sauna, lavoro sui trattori – l'orgoglio nazionale – e vodka. La Bielorussia è rimasta un'enclave sovietica ai confini dell'Europa con un sistema politico ed economico farraginoso e poco riformato, che ha dato a Minsk un periodo di crescita e di stabilità, ma soprattutto di dipendenza dal Cremlino di Vladimir Putin (...).

  "In Bielorussia il russo è la lingua ufficiale, nessuno ha mai sentito la necessità di rinvigorire il bielorusso, che esiste ma è usato da una minoranza della popolazione. Per le strade si parla in russo, nelle scuole si insegna in russo, la stampa è in russo, e nessuno rivendica l'uso della lingua bielorussa come elemento nazionalistico. Il sogno originario di Lukashenka, quando fece dimettere Shushkevich e iniziò a progettare la sua scalata, era quello di ricostituire un'Unione Sovietica in piccolo ma che avesse come centro Minsk. La cosa gli sembrava quasi probabile con Eltsin, del quale aveva poca stima, tuttavia svanì con l'arrivo di Vladimir Putin. Il presidente russo apprezzava molte cose di Lukashenka, ma soprattutto il fatto che non avesse mai voltato le spalle all'Unione Sovietica, neppure all'inizio della carriera politica, quando il suo partito, Comunisti per la democrazia, fu l'unico a votare contro l'accordo di Belaveža nel Parlamento di Minsk. Inoltre, in lui Putin ammirava la capacità di rimanere al potere, di aver fatto della Bielorussia un paese stabile, non come gli altri Stati ex sovietici affetti da continui tentativi di rivoluzione. Minsk era la purezza e agli occhi di Putin, arrivato alla presidenza quasi sei anni dopo, Lukashenka costituiva a suo modo un esempio. Doveva prendere lezioni dall'uomo che si era definito "l'ultimo dittatore d'Europa" e, dicono i bielorussi, anche la passione per l'hockey di Putin è nata per emulare Lukashenka. Non si sa quanto sia vero, ma sicuramente durante le partite a hockey i due hanno trovato un modo di intendersi e i loro scambi sul ghiaccio sono utili a capire come sono cambiate le dinamiche reciproche: da partite giocate regolarmente, lasciando alla bravura o alla sorte la vittoria, si è arrivati a una competizione che non ammette altro vincitore se non Vladimir Putin".