Niccolò Rettagliata
Neri come la morte Lo squadrismo italiano dalle origini al regime
Diarkos, pagg.437, € 19,00
Questo libro di Niccolò Rettagliata (storico e ricercatore indipendente dei movimenti reazionari della prima metà del Novecento) racconta la storia dello squadrismo, "l'espressione pratica, armata, sul campo, del fascismo", e degli uomini che lo animarono, approfondendo anche il rapporto sussistente tra gli squadristi e il movimento fascista.
Fino alla presa del potere nell'ottobre 1922, spiega l'Autore, il movimento fascista non abbandonò mai "un'ispirazione di rinnovamento economico e sociale palingenetico. Se l'anticomunismo sarà un filo rosso essenziale attraverso tutto il fenomeno dello squadrismo, esso sarà spesso accomunato a una idea di rivoluzione nazionale tanto vaga quanto magnetica per studenti, reduci, sbandati che cercavano un obiettivo. Reazionario nella pratica, innovativo nella teoria, il fascismo si proponeva come forza nuova, capace di adattarsi alle circostanze ma soprattutto utile sul piano della realpolitik. Proprio il miscuglio di miti di rinnovamento abbinati a una sostanziale volontà restauratrice, una sorta di "eterno ritorno" politico, assicurò al fascismo e allo squadrismo insorgente il favore dei ceti medi".
Uno degli elementi peculiari dello squadrismo, secondo Rettagliata, deve essere ravvisato nella "capacità di intervento pervasiva". Lo squadrismo "fu sempre consapevole che la sua forza era nell'attivismo, nella presenza costante, nel costituire la prima linea di una intimidazione che rendeva impossibile per gli avversari fornire una risposta attraverso metodi sperimentati che si rivelavano ora inefficaci".
La violenza, "portata avanti spesso e volentieri con l'aperta complicità delle forze dell'ordine", divenne parte "di un discorso propriamente politico più ampio che, alla fine del 1920, era praticato in forma metodica solo dai fascisti. I ras locali più rinomati e capaci, che con il loro operato contestavano attivamente a socialisti e popolari il controllo delle regioni dove l'attività organizzativa del proletariato si era dimostrata più avanzata, raccogliendo così consenso, permettevano agli altri gruppi di agire indisturbati sull'onda della normalizzazione".
"Le squadre – aggiunge l'Autore – erano il nucleo fondante e attivo dei Fasci di combattimento, ciò che permetteva a un movimento ancora minoritario e di nicchia di farsi spazio nella vita politica nazionale". Esse risultavano "quali gruppi tendenzialmente omogenei. La gioventù piccolo borghese, digiuna di esperienze politiche altre, ne costituiva il nerbo portante e sovrarappresentato rispetto all'effettivo nucleo sociale da cui provenivano. Certo vi era una natura interclassista e intergenerazionale ma, dati alla mano, risulta chiaro come vi fosse un referente principale e maggioritario dello squadrismo all'interno del corpo sociale tutto".
Sul piano geografico, lo squadrismo non conobbe una diffusione omogenea nella penisola: "Ben radicato nel Venezia Giulia, presenta grossi focolai in Emilia, Romagna, Veneto, Lombardia e Piemonte. Anche in questi contesti ci si deve figurare, però, una mappa a pelle di leopardo, estremamente sensibile agli equilibri locali. La situazione a Torino poteva essere completamente differente rispetto a quella astigiana o alessandrina. Nel centro la roccaforte era costituita dalle squadre toscane famose per la brutalità e la violenza, particolarmente attive nel contado. Al sud la presenza si faceva ancora più rarefatta, concentrata prevalentemente nelle Puglie, dove Fasci locali leccesi e baresi avevano risposto alla chiamata di San Sepolcro già nel 1919. Nel tacco d'Italia lo sviluppo dello squadrismo fu legato strettamente allo scontro con il sindacalismo socialista nelle campagne, un attacco sostenuto attivamente dai grandi latifondisti intenzionati a liberarsi dalla fastidiosa presenza dei rossi che minacciavano di ribaltare equilibri secolari".
Secondo l'Autore, l'essenza dello squadrismo è "profondamente localistica, territoriale e anarcoide, le gerarchie non sono necessariamente quelle fissate dal movimento da Milano quanto piuttosto quelle che si costruiscono e rinsaldano nell'azione. Si può vedere all'opera una dinamica definibile quale "economia del prestigio" per cui il capo rimane tale fintantoché risponde agli standard più alti fissati dal gruppo e riesce a garantire i risultati".
La preparazione teorica degli squadristi era secondaria rispetto al "consolidamento dell'identità di gruppo" e alla "fidelizzazione assoluta dei militanti". "Era meglio – aggiunge l'Autore – saper maneggiare ed essere pronti a usare un manganello o una pistola piuttosto che aver letto Sorel. Tutto era stato quindi messo in secondo piano rispetto all'antibolscevismo che andava esercitato quotidianamente, senza preoccuparsi minimamente di gestire un profilo pubblico di legalità. L'impostazione era quella pura e semplice di una gang di picchiatori, indulgenti nell'uso di alcolici e stupefacenti, ben stipendiati per la loro attività e che all'organizzazione funzionale di questa avevano dedicato ogni tipo di sforzo. Il nome stesso preso dalla squadra era ben lontano dall'immaginario arditista, irredentista o romantico che fosse, e richiamava piuttosto la tradizione goliardica".
In definitiva, lo squadrismo esercitò un ruolo cruciale "nello sviluppo del movimento e nella scalata al potere di cui fu protagonista". Ciò che permise al movimento fascista di "emergere fu la capacità militare di cui dette prova e la determinazione con cui la dispiegò". |