Alessandro Vanoli
Storia del mare
Laterza, pagg.576, € 24,00
Alessandro Vanoli conduce il lettore in un avvincente viaggio alla scoperta del mare, ripercorrendone la storia dalle origini ("In principio era un'acqua scura, nauseante, scossa da onde gigantesche") lungo i secoli.
Secondo l'Autore, per ben comprendere il mare, bisogna tenere conto di tre elementi fondamentali: la salinità, la temperatura e la pressione.
Vanoli spiega che "il mare è il grande contenitore che ci ha generato ed è lì, ancora oggi, che si cela e si conserva la maggior parte di ciò che è vita su questo nostro mondo". Esso "è ovunque attorno a noi; ben più vasto delle terre emerse. Il settantuno per cento dell'intero globo, per essere precisi. Non è un gioco facile da fare – ci vuole un certo sforzo mentale – ma provate a immaginare la carta al contrario: con la terra al posto del mare, per intenderci. Tanto basta per capire non solo che il mare è immenso, ma che è unito: gli oceani, infatti, comunicano tutti tra loro e costituiscono un sistema omogeneo".
L'acqua del mare è salata per "effetto del dilavamento causato da agenti chimici: l'acqua corrode le rocce, scompone i minerali in atomi o molecole che vengono poi rimossi in soluzione dai fiumi o dalle falde. Insomma, più o meno quello che succede quando sciogliamo il sale nell'acqua della pasta: dal minerale si passa a ioni di sodio e di cloro che se ne stanno in soluzione rimescolati dal cucchiaio. Così in un processo durato centinaia di milioni di anni, è andata a finire che oggi negli oceani vi siano ioni in abbondanza: soprattutto cloro, sodio, solfato, magnesio, calcio e potassio; tutti assieme a produrre quella particolare salinità che conosciamo così bene. Specificando, poi, che occorre distinguere; perché la salinità è in genere più bassa in superficie e più alta in profondità; e che pur aggirandosi ovunque attorno ai 35 grammi per chilogrammo, un poco varia da zona a zona: dal mar Baltico che è anche sotto i 20, sino al Mediterraneo che può raggiungere anche punte di 38 o 39".
La "salinità degli oceani è direttamente collegata con la loro temperatura. Proprio a causa dei sali disciolti in essa, infatti, l'acqua di mare non ghiaccia a zero gradi, ma un po' più sotto, a –1,9 gradi per l'esattezza. Poi per il resto le temperature degli oceani sono le più varie: vanno dal punto di congelamento sino agli oltre 30 gradi che si possono registrare in certe zone delle acque tropicali. Ma questo vale solo per la superficie: per poco più di un centinaio di metri sotto il livello del mare. In profondità gli oceani sono gelidi, con una media che oscilla tra zero e tre gradi".
La pressione, negli oceani, è connessa "alla profondità e come regola generale si può dire che aumenta di un'atmosfera ogni dieci metri che si scende. In altri termini, vuol dire che a dieci metri di profondità abbiamo il doppio della pressione rispetto a quando stiamo all'aria; a venti metri già tre volte tanto. E si fa presto il conto: a quattro chilometri di profondità siamo schiacciati da un peso terribile, quattrocento volte maggiore della superficie. E queste altissime pressioni abissali provocano una leggera compressione dell'acqua, contribuendo ad aumentarne la densità".
Il mare, inoltre, ha ormai assorbito "il novantatré per cento del calore dovuto al riscaldamento globale. Se non ci fosse stato l'oceano, cioè, la temperatura della Terra oggi sarebbe aumentata non poco. Ma questo salvataggio ha avuto inevitabili conseguenze: dagli anni Settanta, la temperatura media dell'oceano, almeno verso la superficie, è aumentata di 0,11 gradi per decennio".
Il primo grande poema del mare fu l'Odissea, nel quale "il Mediterraneo di Ulisse si allarga a un mondo occidentale e tirrenico di cui, ai tempi di Troia, i micenei dovevano sapere ancora ben poco": "Un mondo mediterraneo che è già quello delle colonie greche e delle rotte di mercanti orientali. Un mondo mediterraneo dalle dimensioni ormai ben più vaste".
I romani chiamavano il Mediterraneo Mare nostrum. "Anzi – spiega l'Autore -, per essere più precisi, Nostrum mare, come più spesso suonava". «Nostro», tuttavia, non va inteso "nel senso che ci appartiene, come spesso ancora si studia (quella, semmai, fu un'idea fascista, una delle tante strane cose del XX secolo), ma «nostro» perché più familiare, più vicino all'idea che i romani avevano ormai di civiltà".
Il Mediterraneo divenne "uno spazio romano. Dominato dalle sue leggi e sempre più controllato dai suoi soldati. Lo si sarebbe visto chiaramente molti anni dopo, quando venne il momento di farla finita con i tremendi pirati dell'Adriatico. È una storia nota: erano ormai i tempi di Cesare, pochi anni prima del triumvirato. E toccò a Pompeo di risolvere la questione dei pirati. Allora lui, con strategia e tattica militari, si mise a dividere il mare in settori, con precisione cartografica; e, così ripartiti, si mise a setacciarli uno alla volta e ripulirli. Nel 67 a.C. i pirati non c'erano più: anche sull'acqua il potere era ormai solo di Roma".
Anche gli ottomani, "dinastia proveniente da un popolo nomade delle steppe, impararono poco alla volta a conoscere e capire il mare". Quel popolo "aveva tutto da imparare riguardo al mare. E lo imparò, anche discretamente in fretta. Anche perché il Mediterraneo – come l'oceano, peraltro – poneva problemi non da poco: la lotta contro veneziani, genovesi, spagnoli e portoghesi; gli scontri con i pirati; la protezione del commercio; i contatti con le diverse coste di un territorio che andava ingrandendosi a vista d'occhio. Così i sultani cominciarono ad adattarsi a un tipo di guerra che ancora non conoscevano, adottando le tecniche navali dei loro avversari. E ci riuscirono egregiamente considerando che a metà del XVI secolo, poco prima della battaglia di Lepanto, la supremazia navale nel Mediterraneo apparteneva ormai a loro. I motivi di questo successo erano stati molti: innanzi tutto la presenza in abbondanza sui loro territori di tutte le materie prime necessarie a costruire una flotta potente; inoltre l'uso sistematico della competenza dei tanti corsari; infine la notevole capacità di copiare e migliorare le tecnologie degli avversari".
Nel 1890, l'ammiraglio americano Alfred Thayer Mahan elaborò una teoria fondata su un antico adagio: "Chi controlla i mari controlla il mondo". "E da allora – osserva l'Autore – ha ricevuto aggiustamenti, note e riflessioni, ma non è stata mai realmente messa in discussione. Ciò che conta è controllarne gli snodi strategici, gli stretti. Quelli che nella lingua franca degli strateghi sono chiamati chocke points, «punti di strangolamento», e che in italiano, con minore durezza, preferiamo chiamare «colli di bottiglia». In un mondo dove circa il novanta per cento delle merci si sposta sul mare, controllare gli stretti vuol dire avere la capacità di chiudere o aprire le arterie dell'economia globale; e, in termini militari, di essere nella posizione giusta per poter dissuadere o colpire il nemico. E ad oggi questo controllo dei mari è ancora nelle mani degli Stati Uniti, che si muovono anche come una talassocrazia, una potenza navale che controlla gli oceani, dividendo le proprie flotte in zone di competenza e ponendo sotto controllo militare i vari stretti".
Gli Stati Uniti, però, devono oggi fare i conti con un rivale come "la Cina, che ha ormai costruito una strategia diretta agli oceani, come catapulta verso l'economia globale". |