Nuova Storia Contemporanea, n.6 novembre/dicembre 2012
Le Lettere, pagg.168, € 11,50
Nemico delle pseudo storie, cioè delle storie concepite come cronaca celebrativa o racconto romanzato, e contrario alla subordinazione della storiografia alle schematizzazioni sociologiche e alle suggestioni ideologiche, Benedetto Croce ha lasciato una lezione ancora viva a sessant'anni dalla scomparsa. Questa è, in sintesi, la tesi sostenuta da Francesco Perfetti nel saggio che apre il fascicolo n.6/2012 della rivista Nuova Storia Contemporanea. Sergio I. Minerbi (diplomatico, docente universitario e storico, autore di importanti volumi sulla storia dell'ebraismo) ha scritto l’articolo intitolato Pio XII e il 16 ottobre 1943, nel quale accusa Papa Pacelli di non aver “adempiuto al suo ruolo di leader morale per milioni di credenti. Non ha nemmeno provato a salvare gli ebrei di Roma che attesero per tre giorni nel Collegio Militare a un miglio dal Vaticano, prima di essere mandati ad Auschwitz. La moralità era stata dimenticata, per questa ragione è così importante per la Chiesa di oggi, ora che quasi tutti gli ebrei deportati sono morti, beatificare Pio XII, e reprimere, così, ogni possibile critica da parte dei fedeli.” Missili e democristiani è il titolo dell’articolo firmato da Leonardo Campus (ricercatore in Storia e formazione dei processi socio-culturali e politici nell'età contemporanea presso l'Università "La Sapienza" di Roma). L’Autore analizza la reazione italiana alla crisi dei missili di Cuba (ottobre 1962), cercando di mettere in luce, attraverso l’ausilio di documenti inediti, “il ruolo giocatovi da una delle personalità politiche più interessanti di quegli anni: Giorgio La Pira”. Paolo Valvo (ricercatore in Scienze Storiche presso l'Università degli Studi della Repubblica di San Marino) prende in esame il memoriale di mons. Gaetano Cicognani del 12 aprile 1938, il giorno in cui le truppe della Wehrmacht entrarono nel territorio austriaco, cercando di ricostruire l’atteggiamento della Curia nei confronti dell’Anschluss. “Fino a quel momento – scrive l’Autore - la Santa Sede aveva evitato accuratamente di esprimere un giudizio ufficiale sulla questione - che in Austria come in Germania accendeva entusiasmi e suscitava timori - mantenendo una linea di rigorosa neutralità; a ben vedere, però, vi erano almeno due ordini di ragioni che impedivano di condividere l'Anschluss. Innanzitutto l'unione dell'Austria cattolica a una Germania in maggioranza protestante e governata dai socialisti, come quella dell'immediato dopoguerra, non avrebbe potuto essere vista di buon occhio dal Vaticano, anche se il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri mostrava almeno altrettanta riluttanza nei confronti dei disegni antitedeschi della Francia, che mirava a separare le regioni cattoliche della Germania meridionale per unirle all'Austria in uno Stato tedesco cattolico, da opporre a quello protestante prussiano. Nell'ottica di Gasparri e di monsignor Eugenio Pacelli, allora nunzio a Monaco di Baviera, una Germania forte ed unita avrebbe potuto infatti rappresentare un solido baluardo contro le minacce bolsceviche a oriente e contro il "laicismo antiromano" a occidente, assolvendo alla funzione di difesa della religione cattolica svolta in precedenza dagli imperi centrali.” Nell’articolo intitolato Le riforme sociali nell'Inghilterra edoardiana, Giovanni Aldobrandini (docente di Storia delle dottrine politiche presso l'Università Luiss "Guido Carli" di Roma) analizza “alcune importanti interpretazioni di storici inglesi sulle origini della riforme sociali edoardiane fino al 1914 e sul dibattito politico e ideologico che lo accompagnò e in taluni casi ne costituì le premesse. Il dibattito si sviluppò fondamentalmente su tre livelli: in ambito accademico, in particolare con le riflessioni dei filosofi neoidealisti, T. H. Green, il suo allievo David G. Richtie, Bernard Bosanquet e Francis H. Bradley; in ambito culturale, con l'elaborazione teorica e politica degli scrittori e giornalisti progressisti "new liberals", quali John Hobson, Leonard Hobhouse e Charles Mastermann; e infine all'interno del partito liberale, con la realizzazione delle nuove policies da parte di Winston Churchill e David Lloyd George.” Domenico Fracchiolla (dottore di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss "Guido Carli" di Roma) ricostruisce la storia delle trattative che portarono alla dichiarazione di guerra dell’Italia al Giappone. “È stato autorevolme osservato – spiega Fracchiolla - che la dichiarazione di guerra dell'Italia al Giappone, così come in precedenza quella alla Germania, è da considerarsi "nulla e non avvenuta", perché presentata da un paese sconfitto e sottoposto a un regime di resa incondizionata. In vigenza delle disposizioni del "lungo armistizio", l'Italia era priva di qualsiasi sovranità in politica estera, e ogni suo atto internazionale sarebbe stato valido e avrebbe potuto esplicare efficacia solo se esplicitamente approvato da vincitori. Questo giudizio è pienamente condivisibile e rispondente al dato giuridico per la sottoscrizione, da parte del governo italiano, del documento di resa incondizionata. Tuttavia la ricostruzione delle trattative che portarono alla decisione di massima del governo italiano prima, e alla forrnalizzazione della dichiarazione di guerra poi, svolta in queste pagine, suggerinscono una conclusione differente e meno tranchant. Dalla documentazione diplomatica sembra evidente l'attivazione dei processi decisionali interni agli Alleati in particolare agli Stati Uniti e Gran Bretagna che condizionarono fortemente la decisione italiana e soprattutto avvallarono in ultima istanza l'iniziativa, conferendole i crismi del consenso necessario alla validità degli atti del governo.”
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