Nuova Storia Contemporanea, n.5 settembre/ottobre 2011
Le Lettere, pagg.168, Euro 11,50
Il progetto socialista è utopistico. Il programma di garantire a tutti le stesse condizioni di partenza attraverso politiche di equalizzazione e redistribuzione è irrealizzabile. O, meglio, è realizzabile solo abolendo la famiglia, prima e fondamentale agenzia di differenziazione e gerarchizzazione. Ma l'abrogazione della famiglia è una strada in fondo alla quale c'è l'estinzione della libertà individuale. Queste, in sintesi, sono le tesi sostenute da Luciano Pellicani (professore ordinario di Sociologia politica presso l'Università "Luiss-Guido Carli" di Roma) nell’articolo intitolato Potere, libertà ed eguaglianza, che troviamo nel n.5/2011 del bimestrale Nuova storia contemporanea. Nello stesso fascicolo, lo storico Vincenzo Pinto si occupa del fascismo “ingenuo, estetico e sentimentale” di Ettore Ovazza (1892-1943), “un personaggio frequentato quasi unicamente dagli storici dell'Italia fascista o dell'ebraismo italiano. I motivi sono piuttosto ovvi e noti: la sua particolare e roboante posizione politica (di ebreo di destra "fascistissimo" senza remore o pentimenti di sorta), la sua appartenenza etnico-comunitaria (alla religione giudaica e alla comunità ebraica italiana), le nefaste e infauste sorti del fascismo (il tracollo di Mussolini a seguito dell'avvicinamento alla Germania hitleriana) e la sua tragica morte (arso nella stufa della scuola di Intra insieme alla sua famiglia). Queste coordinate storico-politiche hanno fatto in modo che il banchiere ebreo torinese finisse per essere considerato un personaggio quasi romanzesco per la sua ingenua e fideistica adesione al fascismo o piuttosto un personaggio tragico, accecato dal proprio amor patrio a tal punto da non scorgere il nodo del destino sempre più stretto intorno al collo proprio e dei proprio cari”. Secondo l’Autore, l'amore di Ovazza per il fascismo mussoliniano “può essere anche letto come un tentativo di trovare una dimensione estetica nuova e alternativa al sentimentalismo borghese, chiuso in se stesso, incapace di riunire armonicamente spirito e materia. Una dimensione non onirica (come la vita campestre del pastore errante), ma reale ed effettiva attraverso la costruzione di una nuova idea di patria totalizzante e vissuta interiormente. Questo fu l'auspicio ovazziano, mai realizzato proprio per la sua visione squisitamente sentimentale ed estetica del fascismo, incapace di guardarlo per quello che materialmente era e stava diventando nel corso del tempo al di là dei proclami roboanti. C'è poi l'identità ebraica, che l'autore ha celato nelle sue composizioni e che ha cercato di difendere nelle sue ultime opere, senza riuscire a fare breccia alcuna. La sua visione spirituale dell'ebraismo e del fascismo si è scontrata con una visione e una realtà materiali che avevano preso il sopravvento”. L’antiamericanismo neofascista delle origini (1945-1954) di Luca Tedesco (docente presso l’Università degli Studi Roma Tre) ricostruisce “le diverse facce del prisma dell'antiamericanismo neofascista nei primi anni del dopoguerra”. “Le varie corde dell'antiamericanismo neofascista – spiega Tedesco - variarono […] da una forma assai debole di atlantismo nell'immediato dopoguerra al suo netto rifiuto da parte delle correnti di sinistra all'inizio degli anni Cinquanta. Poi, parallelamente all'emarginazione di queste, l'antiamericanismo sarebbe stato sostituito dall'anticomunismo e dall'atlantismo debole o addirittura negato si sarebbe passato a quello forte. La spinta a far assumere al Msi la contrapposizione comunismo/anticomunismo come strategicamente centrale e a sostituirla alla frattura fascismo/antifascismo sarebbe stata favorita ancora una volta anche da motivazioni di politica interna; dalla progressiva meridionalizzazione del partito, confermata ad ogni scadenza elettorale, alla necessità di evitare che la legge Scelba contro la ricostituzione del partito fascista, approvata nel 1952, potesse colpire il Msi”. Francesco Bello, autore di ricerche sui nuovi documenti del Dipartimento di Stato e dell'ambasciata americana a Roma, dedica il proprio intervento ad Aldo Moro e in particolare ai rapporti tra Stati Uniti e Italia nel periodo 1959-1965. Moro, spiega l’Autore, assunse in politica estera delle posizioni progressiste che erano di assoluta specificità rispetto a quelle dei leader delle altre nazioni europee, e che sono emerse con maggiore chiarezza grazie alla parziale apertura degli archivi americani avvenuta con la fine della guerra fredda. Moro, che fu il principale artefice dell'avvicinamento del Psi di Pietro Nenni all'area di governo, riuscì attraverso un'abile mediazione a convincere dell'opportunità del centrosinistra sia le diverse e litigiose componenti del suo partito sia l'alleato americano. Il politico democristiano offrì agli oppositori interni - soprattutto nel suo partito - e agli americani – […] un ampio ventaglio di buoni motivi: raggiungere la stabilità politica necessaria per concludere la fase di transizione post-centrista, governare lo squilibrio prodotto da uno sviluppo economico aggressivo e smisurato, allargare la base del consenso alle maggioranze a guida Dc, emarginare il nemico comunista sottraendogli l'alleato socialista. Quest'ultimo punto fu assolutamente indispensabile per l'appoggio statunitense - in massima parte ostile ad uno spostamento a sinistra del sistema politico - poiché il Pci senza i socialisti sarebbe rimasto l'unico partito d'opposizione, isolato e impossibilitato quindi a raggiungere da solo il governo del paese. Con queste premesse lo statista democristiano materializzò il suo ambizioso progetto”.
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