Il grande tsunami (Limes n.1/2011) Stampa E-mail

Il grande tsunami (Limes n.1/2011)

Gruppo Editoriale L’espresso, pagg.318, Euro 14,00

 

limes1_2011  Limes, la rivista italiana di Geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, è in libreria e in edicola con il primo numero del 2011 dedicato al “grande tsunami”, “la gigantesca onda anomala che sta spazzando la facciata arabo-mediterranea dell’universo islamico, dalla Tunisia all’Egitto e alla Libia”.
  “Quale che sia l’esito politico dei sommovimenti in atto – si legge nell’editoriale intitolato Per chi suona la campana -, di sicuro muta lo scenario geopolitico arabo-mediterraneo, per noi centrale. […] Lo status quo è saltato. Non potrà essere restaurato. Le alchimie della politica politicante, le verniciature del vecchio per spacciarlo nuovo, non s’applicano alle macrodinamiche territoriali. Una rivoluzione geopolitica è partita. Nessuno sa fin dove si spingerà, a quali stazioni si fermerà. Ma non tornerà a quella di partenza. Per molte ragioni, una sopra tutte: sono entrati in gioco nuovi attori. Non solo i giovani rivoluzionari del Cairo o di Tunisi, protagonisti politici che non potranno essere semplicemente rimandati a casa a fare i compiti, come molti nel democratico Occidente sperano. Sulla spinta dello tsunami, emergono o ritornano ambiziose potenze regionali, dotate di proprie agende, di specifici interessi, di progetti non sempre compatibili con il mainstream occidentale. Ma nemmeno con il neocolonialismo soft di marca cinese, la gran moda in Africa e in Asia occidentale”.
  Nell’intervista curata da Lucio Caracciolo e Fabrizio Maronta, Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa e attuale consigliere per le Questioni militari del ministro degli Esteri, afferma che “le crisi nordafricane stanno dimostrando l’impotenza dell’Occidente nell’influire sugli eventi mondiali. Nello specifico il grande perdente è l’Europa, specialmente se si concretizza la svolta neo-isolazionista degli Stati Uniti, che appaiono orientati a un ripiegamento strategico. Viceversa, la grande vincitrice è la Cina, che forte dei suoi attivi finanziari sta espandendo la sua presenza nelle tradizionali aree d’influenza occidentali (quella cinese era tra le prime comunità straniere in Libia) e sta costruendo un arsenale militare che, probabilmente, userà meno scrupoli di noi”.
  L’articolo di Germano Dottori (cultore di studi strategici alla Luiss-Guido Carli di Roma) focalizza l’attenzione sull’”uso strategico del falso nel caso libico”. “Il conflitto sul terreno – spiega l’Autore – non esaurisce più la prova di forza, che invece si sviluppa a un livello più alto, nel mondo dell’informazione, con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica interna e internazionale attraverso l’impiego di sofisticate strategie asimmetriche […]. […] La lotta viene rappresentata come un duello tra il prepotente e il prevaricato indifeso, e poi rapidamente trasfigurata in una contrapposizione frontale tra il Bene e il Male assoluti”.
  Sotto le rivolte, gas e petrolio è il titolo dell’intervento di Margherita Paolini (consigliere scientifico di Limes). Secondo l’Autrice, all’origine della rabbia esplosa dal Mediterraneo al Golfo Persico vi sarebbe l’uso privato delle risorse nazionali da parte dei regimi, d’intesa con le international oil companies: “La rendita petrolifera dei Paesi produttori più ricchi che sparisce nei meandri degli affari privati dei regimi, la povertà che dilaga, lo sfruttamento intensivo di risorse che sacrifica all’export possibilità vitali di sviluppo, l’esplosione demografica che produce percentuali altissime di giovani senza lavoro. È il denominatore comune del gigantesco moto sussultorio che si è propagato a vista d’occhio nel bacino Sud del Mediterraneo fino al Golfo Persico, mettendo in fibrillazione anche i regimi improbabili della Penisola arabica”.
  Lorenzo Trombetta, corrisponde da Beirut per Limes e altre testate nazionali e internazionali, traccia un resoconto dei giorni della rivolta che ha determinato la caduta del presidente egiziano Mubarak. “I trascinatori della rivolta – scrive l’Autore – sono giovani di età compresa tra i 20 e i 35 anni, per la maggior parte nati quando Mubarak era già presidente. Sono studenti universitari e liberi professionisti, per lo più medici, avvocati, ingegneri. Figli della media borghesia, non sono ricchi ma nemmeno poveri. Hanno buona conoscenza dell’inglese, una spiccata dimestichezza con i nuovi media e hanno tutti più di un profilo su Facebook, Twitter, Youtube e Flickr. Molti di loro sono stati in passato fermati dalle forze di sicurezza, rimanendo una o più notti in prigione. […] La maggior parte di questi rivoluzionari comincia l’attività politica anti-regime usando la sponda delle massicce proteste anti-israeliane del 2000, in coincidenza con lo scoppio della seconda Intifada palestinese, e di quelle anti-americane durante l’invasione anglo-statunitense dell’Iraq nel 2003”.
  Il Gen. Fabio Mini, nell’articolo intitolato Alla guerra dei bit, esamina il ruolo giocato da Internet nelle rivolte nordafricane, che hanno consacrato la dimensione virtuale come ambito di azione politica e militare del XXI secolo. Secondo l’Autore, ci troviamo agli albori della cyberwar, che ridefinirà la dottrina strategica e il volto dei conflitti: “La prima guerra digitale mondiale non è stata combattuta da WikiLeaks, ma per WikiLeaks; così la terza rivolta del mondo islamico in atto non è condotta da Assange, ma ciò che il suo sito ha fatto sapere ha avuto senz’altro un ruolo determinante nella decisione delle masse di passare all’azione. In particolare, WikiLeaks ha fornito ai paesi del Mediterraneo (e non solo) soggetti a regimi autoritari e corrotti la prova di ciò che essi da tempo sospettavano: che i governi americani predicano in pubblico libertà e democrazia per gli oppressi, ma in privato difendono e consolidano gli oppressori. La stessa divaricazione tra retorica pubblica e Realpolitik diplomatica accomuna il Libano, la Palestina, il Marocco, la Libia, il Sudan, lo Yemen, l’Arabia Saudita, gli Emirati e la Siria”.
  Nell’intervento di Reuven Pedatzur (docente all’Università di Tel Aviv ed editorialista di Yedioth Ahronot), si legge che “la minaccia dal versante egiziano non aumenterà, anche nel caso che i Fratelli musulmani salissero al potere in Egitto. Anzi, in uno scenario del genere le minacce potrebbero perfino diminuire sensibilmente. Di fatto, la caduta del regime di Mubarak non modifica l’equilibrio di forze in campo militare, le condizioni geostrategiche dell’area e soprattutto gli interessi egiziani, i quali escludono in modo assoluto una guerra contro Israele. L’ascesa al potere dei Fratelli musulmani porterebbe all’immediata interruzione degli aiuti militari americani, delle manovre militari congiunte e della fornitura di parti di ricambio – assolutamente necessarie per il mantenimento di aerei da guerra. La forza dell’esercito egiziano – in uno scenario del genere – scemerebbe molto velocemente. Si tratta di un esercito basato sulle armi americane e sulla donazione annua di 1,5 miliardi di dollari che l’amministrazione Usa concede all’Egitto”.
  Intervistato da Diego Fabbri, Graham E. Fuller, ex vicepresidente del National Intelligence Council e professore di Storia presso la Simon Fraser University, dichiara che – dopo gli attentati dell’11 settembre – “Washington decise di dichiarare una guerra convenzionale al paese che ospitava l’organizzazione responsabile dell’attacco. La sensazione è […] che l’invasione dell’Afghanistan fosse già stata decisa per ragioni geopolitiche: su tutte, collocare nuove basi militari nella regione per limitare l’influenza cinese e russa in Asia centrale”. Fuller aggiunge anche che il dipartimento di Stato Usa ha utilizzato per decenni “il presunto pericolo jihadista per giustificare una politica egemonica che, in realtà, ha come unici obiettivi lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e il mantenimento dello Stato d’Israele”.