America 2011 (Aspenia n.51)
Il Sole 24 ore Libri, pagg.216, Euro 12,00
Il trimestrale Aspenia (rivista di Aspen Institute Italia) dedica il n.51 agli Stati Uniti. In apertura troviamo la conversazione del direttore, Marta Dassù, con Giuliano Amato sullo stato delle istituzioni americane dopo la sconfitta di Obama nelle elezioni di midterm. Amato osserva che, “in due anni di Casa Bianca, Obama è stato abbandonato da molti suoi propri elettori. È impressionante che degli oltre 100 milioni di elettori alle presidenziali, Obama ne abbia persi 25 e più con le elezioni di midterm. Sono prevalentemente i delusi di Obama che sono rimasti a casa: se avessero votato, avrebbero forse ridotto sensibilmente la perdita di seggi alla Camera. In sostanza, l’astensionismo è stato in larga misura democratico”. Le elezioni di midterm sono al centro anche dell’analisi di Sergio Fabbrini, docente di Scienze politiche e Relazioni internazionali alla LUISS Guido Carli di Roma, il quale scrive che “Obama si è dimostrato troppo cerebrale, finendo così per essere percepito come un leader distaccato, un’espressione della élite intellettuale del paese piuttosto che un prodotto della sua politica democratica. Un paradosso non da poco per un afroamericano che, per di più, si era formato politicamente nell’umile e duro lavoro di community organizer in una città come Chicago. Soprattutto quando si vogliono introdurre riforme i cui costi sono certi e i benefici incerti, la retorica presidenziale è fondamentale per convincere gli elettori dubbiosi ad allearsi con gli elettori convinti. In una democrazia composita come quella americana, spetta al presidente elaborare una narrazione che possa ricondurre i singoli fatti a un disegno più generale. Il presidente Obama non è riuscito a fare questo lavoro di collegamento, perdendosi talora nel tecnicismo e talora nella vaghezza”. Secondo Massimo Teodori, professore di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti all’Università di Perugia, lo spostamento del pendolo elettorale è abbastanza tipico nella storia americana e riflette l’avversione storica alla concentrazione del potere nelle mani di un solo partito. L’esito delle elezioni del 2012 resta apertissimo, specie se Obama sceglierà una strategia di compromesso e se i repubblicani non troveranno un candidato di sintesi, che non schiacci il partito sulle posizioni dei Tea Party. William A. Galston, senior fellow alla Brookings Institution di Washington, ritiene che, al di là degli errori e dell’ambiguità di Obama, la spiegazione della sconfitta dei democratici consista nel fatto che il presidente americano ha scelto di ignorare un tratto di fondo della democrazia statunitense: la decisiva influenza che l’opinione pubblica esercita sull’agenda politica e sulle priorità, e il populistico rifiuto, negli Stati Uniti, di ogni forma di elitarismo. Mattia Ferraresi, corrispondente da Washington del quotidiano Il Foglio, spiega che il voto di midterm ha dimostrato che la critica al centralismo di Washington è trasversale. L’amministrazione Obama ne dovrà tenere conto, se vorrà recuperare una sintonia con i poteri locali, soprattutto in previsione delle elezioni presidenziali dal 2012. La potenza a debito è il titolo dell’analisi di Carlo Jean, presidente del Centro studi di geopolitica economica di Roma. Secondo l’Autore, il problema principale del bilancio militare americano – pari al 47 per cento delle spese militari mondiali – non consiste nella sua sostenibilità nel breve-medio termine, ma in quella a lungo termine. Il debito federale – spiega Jean – sta diventando “il problema centrale della sicurezza nazionale americana nel lungo periodo. Il bilancio del Pentagono non ne è responsabile. Nel 1980 questo raggiungeva quasi il 6% del PIL; oggi supera di poco il 4%, ma è destinato a diminuire – secondo le previsioni del CBO – a circa il 2,7% del PIL nel 2028, pur mantenendo almeno il valore attuale in termini reali. Ogni possibile suo taglio avrebbe, quindi, effetti diretti quasi irrilevanti per la finanza pubblica americana”. Dal bilancio 2011 si evince che “gli Stati Uniti non sono affatto intenzionati a rinunciare alla loro superiorità strategica globale. Tuttavia, mai il mondo ha visto all’opera forze tanto gigantesche interrelate fra di loro; se […] qualsiasi nuovo ordine mondiale poggerà sulla superiorità militare americana, esso sarà comunque plasmato dalla geoeconomia e dalle politiche monetarie e finanziarie adottate anche da altri paesi”. Secondo John C. Hudson, membro permanente del Council on Foreign Relations, due sole sono le questioni geopolitiche decisive per gli Usa: come entrare in compartecipazione con le nuove potenze emergenti e come salvaguardare i paesi rivieraschi dell’Oceano Indiano in quanto motori della crescita globale. “Il dramma – osserva l’Autore – è che l’Occidente conterà sempre meno, ogni anno che passa. Abbiamo a disposizione un decennio o forse meno per guidare il passaggio a una nuova era, il cui avvento appare ormai inevitabile. L’unica questione che rimane aperta è se riusciremo a controllare il corso della storia o se invece ne verremo travolti. È assolutamente l’ora di concentrarsi sull’essenziale”. I rapporti russo-americani sono al centro dell’analisi di Maurizio Massari, capo servizio stampa e informazione del Ministero degli Affari esteri. Scrive l’Autore: “Il reset con Mosca è stato finora il principale successo in politica estera dell’amministrazione Obama. […] Il reset non equivale però ancora a un “partenariato strategico”, che presupporrebbe una comunanza di obiettivi strategici e azioni comuni per far fronte alle sfide del XXI secolo, dal disordine monetario, al climate change, alla sicurezza energetica, ai nuovi assetti della governance globale. La stessa proliferazione nucleare – e il caso Iran in particolare – sono percepiti in maniera diversa: come principale “minaccia” a Washington, come “sfida da gestire” a Mosca. Soprattutto, il reset si verifica in una fase storica in cui è venuta meno la centralità del rapporto russo-americano nell’equazione complessiva della sicurezza internazionale”. David Frum, già assistente speciale di George W. Bush, spiega che l’imperativo dei “repubblicani responsabili” è quello di impedire la candidatura di Sarah Palin alle presidenziali del 2012: “Fermare la Palin è la priorità su cui, nell’immediato, si concentreranno gli sforzi. […] La sbandata rientrerà, man mano che i repubblicani riscopriranno i fondamenti della politica statunitense. Gli americani, infatti, sono persone pratiche, tolleranti e sostanzialmente miti, che hanno molto da perdere dal radicalismo di ogni genere. E di solito votano di conseguenza: non proprio sempre, ma quasi”.
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