André Gide
Ritorno dall'URSS seguito da Postille al mio «Ritorno dall'Urss»
SE, pagg.160, € 21,00
Nel panorama della letteratura politica del XX secolo, "Ritorno dall'URSS" (1936) di André Gide, seguito dalle "Postille al mio «Ritorno dall'URSS»" (1937), rappresenta un documento eccezionale tanto per la sua forza testimoniale quanto per il rigore morale con cui affronta il tema del disinganno ideologico. L'opera, inizialmente concepita come resoconto di un viaggio ufficiale nell'Unione Sovietica, si trasforma ben presto in un'analisi impietosa della distanza tra il mito rivoluzionario e la realtà autoritaria dello Stato stalinista. La recente edizione italiana restituisce appieno la complessità del pensiero gideano in uno dei momenti più critici della sua maturazione intellettuale.
Gide si reca in URSS nel 1936, in un momento storico particolarmente delicato: l'Europa è attraversata da tensioni totalitarie, mentre la propaganda sovietica si propone come baluardo della giustizia sociale e del progresso umano. Intellettuali di fama mondiale, come Romain Rolland e Bertolt Brecht, avevano già espresso entusiasmo per l'esperimento sovietico, e Gide stesso, autore con una lunga militanza nella sinistra culturale europea, si accosta all'URSS con una disposizione d'animo non certo ostile.
La delusione che emerge dalle sue pagine, tuttavia, non è frutto di pregiudizio, ma dell'osservazione diretta e onesta di un uomo deciso a verificare con i propri occhi ciò che altrove gli veniva narrato con toni apologetici. La differenza fondamentale tra Gide e altri visitatori illustri dell'URSS consiste proprio in questa volontà di non accontentarsi della superficie né della messinscena: egli ricerca la verità nei margini, negli scarti, nei silenzi ufficiali.
Il primo testo, "Ritorno dall'URSS", ha la forma di una narrazione saggistica che alterna momenti descrittivi a riflessioni teoriche. Gide si muove tra Mosca, Leningrado, Tbilisi e altre località, osservando le strutture pubbliche, parlando con operai, contadini, studenti, dirigenti. Le sue prime impressioni sono spesso positive: l'industrializzazione forzata ha prodotto risultati tangibili, l'istruzione è capillarmente diffusa, l'entusiasmo popolare sembra genuino. Tuttavia, dietro queste conquiste, l'autore inizia a percepire crepe profonde: la paura generalizzata, l'uniformità ideologica, l'assenza di libertà critica.
Gide non indulge mai nel tono dell'invettiva; al contrario, la sua scrittura è sobria, quasi trattenuta, come se si trovasse costantemente in bilico tra la volontà di credere e l'impossibilità di ignorare l'evidenza. Questa tensione conferisce all'opera un valore unico: non siamo di fronte a un semplice reportage, ma a una meditazione etica sulla responsabilità dell'intellettuale di fronte alla verità.
Se il "Ritorno" può essere letto come il progressivo emergere del dubbio, le "Postille" rappresentano il momento della presa di posizione definitiva. Scritti in risposta alle violente critiche ricevute da parte di numerosi esponenti della sinistra europea - che accusarono Gide di tradimento ideologico - questi testi chiariscono il senso profondo del suo gesto.
Gide ribadisce di non essere mai stato un nemico del socialismo, ma di non poter accettare l'identificazione tra socialismo e terrore, tra giustizia e repressione. Il vero scandalo, per lui, non è la delusione personale, ma il silenzio complice di molti intellettuali occidentali che, pur a conoscenza degli orrori del regime stalinista, preferivano tacere per non indebolire la causa rivoluzionaria.
In questo senso, le "Postille" non sono un'aggiunta marginale, ma un secondo momento essenziale, che completa e rafforza il primo. L'autocritica di Gide non riguarda la sua iniziale simpatia per l'URSS, ma la lentezza con cui ha riconosciuto la radicale contraddizione tra ideali proclamati e prassi concreta.
Sul piano stilistico, Gide adotta una prosa limpida, razionale, mai barocca né compiaciuta. Il lessico è preciso, la struttura argomentativa solida, e l'uso della prima persona non è strumento di autocelebrazione, ma veicolo di una testimonianza che si vuole autentica. La narrazione è permeata da un ethos di responsabilità, che si traduce in una costante interrogazione di sé e del proprio ruolo. La lucidità con cui Gide riesce a descrivere la propria metamorfosi interiore, senza scorciatoie retoriche, è una delle qualità più pregnanti del libro.
Alla sua uscita, "Ritorno dall'URSS" suscitò reazioni violentissime. Gide, fino a quel momento osannato come coscienza morale della Francia progressista, fu isolato da buona parte della sinistra intellettuale. A distanza di quasi un secolo, tuttavia, la sua scelta appare come un atto di raro coraggio intellettuale, tanto più significativo in quanto compiuto da un autore che aveva tutto da perdere, e nulla da guadagnare, da una simile presa di posizione.
Dal punto di vista storiografico e politologico, l'opera fornisce uno spaccato di straordinario interesse sulla percezione occidentale dell'URSS negli anni Trenta, sulle dinamiche del consenso totalitario e sul ruolo ambivalente degli intellettuali nei confronti del potere. Ma vi è anche un livello più profondo: il libro è, soprattutto, una riflessione sulla fragilità dell'ideologia quando entra in contatto con la realtà, e sulla necessità di mantenere viva una coscienza critica anche — e soprattutto — all'interno delle proprie convinzioni.
"Ritorno dall'URSS" e le "Postille" costituiscono un dittico fondamentale per comprendere non solo l'evoluzione del pensiero di André Gide, ma anche le tensioni che attraversarono il Novecento europeo sul piano politico, morale e intellettuale. La loro lettura, oggi più che mai, risuona come un monito contro ogni forma di dogmatismo e come un invito alla vigilanza etica. In un'epoca in cui le illusioni collettive sembrano riemergere con nuova forza, Gide ci ricorda che la verità è spesso più scomoda della menzogna, ma anche infinitamente più necessaria. |