Richard Overy
Sangue e rovine La Grande guerra imperiale 1931-1945
Einaudi, pagg.1360, € 58,00
Questa monumentale opera di Richard Overy (uno degli storici inglesi più illustri, professore onorario di Storia all'Università di Exeter) ricostruisce la storia della Seconda guerra mondiale intesa come "l'ultima guerra imperiale", sottolineando il ruolo centrale esercitato dall'"impero territoriale nel definire la vera natura del lungo periodo di belligeranza iniziato nel 1931 fino al caotico dopoguerra del 1945".
Secondo l'Autore, ciò che accomuna "tutte le diverse aree geografiche e forme del conflitto è l'esistenza di un ordine imperiale globale, dominato principalmente dagli inglesi e dai francesi, che plasmò e stimolò le fantasiose ambizioni di Giappone, Italia e Germania – le cosiddette nazioni deprivate -, desiderose di assicurarsi la sopravvivenza nazionale ed esprimere la loro identità di nazione conquistando ulteriori zone di dominio imperiale".
A partire dalla Prima Guerra mondiale, o addirittura "da prima, progetti e crisi imperiali determinarono l'origine e l'andamento del secondo conflitto, così come l'esito conclusivo della guerra pose fine a mezzo millennio di colonialismo e favorì il consolidamento dello stato-nazione. I secoli della spietata espansione europea lasciarono il posto a una contrazione dell'Europa. Ciò che restava del tradizionale dominio coloniale crollò rapidamente nei decenni successivi al 1945, quando le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, vennero a dominare la creazione di un nuovo ordine globale".
"L'impero – aggiunge Overy – ebbe un ruolo nel definire più chiaramente il potere della madrepatria evidenziando le presunte contrapposizioni tra cittadino e suddito, uomo civilizzato e primitivo, moderno e arcaico – polarità che esprimevano il modo in cui gli stati imperiali vedevano i popoli e i territori di cui avevano assunto il controllo, come continueranno a farlo fino agli anni Quaranta. Tale visione del mondo era condivisa da tutte le potenze imperiali e si basava su un disprezzo quasi assoluto verso le culture e i valori esistenti nei territori occupati. Nella maggior parte dei casi, le speranze di ciò che l'impero poteva fornire – da nuovi consumatori a convertiti religiosi – erano fortemente esagerate. Quelle che Birthe Kundrus ha definito «fantasie imperiali» svolsero un ruolo determinante nello stimolare la competizione tra stati, perfino quando era evidente che i costi dell'impero avrebbero potuto facilmente superare i benefici, spesso limitati, offerto dal fatto di possederlo. Si trattava di potenti fantasie su insediamenti in selvagge zone di frontiera, o sulla prospettiva di un Eldorado di ricchezze, su un'esaltata «missione civilizzatrice», o sul compimento di un destino manifesto che avrebbe infuso nuovo vigore alla nazione. Esse plasmarono il modo in cui si sarebbe considerato l'«impero» nei cinquant'anni a venire".
Tali «fantasie imperiali» "attingevano, ed erano a loro volta di stimolo, a un ambiente intellettuale e scientifico impegnato in una visione dell'impero condivisa tra i tanti stati imperialisti. Il concetto di competizione nazionale doveva molto all'applicazione di un paradigma darwiniano sulla sopravvivenza del più adatto e al carattere naturale della gara tra stati moderni. L'argomento era stato ampiamente dibattuto negli anni antecedenti al 1914, ma era presente una linea di pensiero dominante, associata ad alcuni dei più illustri successori di Darwin, secondo cui le nazioni «sane» erano destinate per natura ad assoggettare al loro dominio i popoli inferiori".
Tra gli elementi peculiari del nuovo imperialismo Overy segnala "la sua intrinseca instabilità e diffusa violenza – elementi che segnarono l'espansione imperiale dagli anni settanta del XIX secolo fino agli anni Quaranta. Tra la fine del XIX secolo e il decennio precedente la Prima guerra mondiale, gli argomenti a favore dell'impero si basavano in buona parte su una necessità strategica imposta da quello che veniva ampiamente considerato un contesto naturale e instabile tra i tanti imperi-nazione; essi si basavano tuttavia anche sulla necessità di garantire la sicurezza nelle zone di influenza o di interesse economico, dove la pressione imperiale aveva innescato la reazione violenta delle comunità locali".
L'Autore ritiene fuorviante vedere "nel 1914 la fine della pace", dal momento che il "mondo sempre più globalizzato che era emerso prima della guerra era regolarmente destabilizzato da conflitti su larga scala (e momenti di crisi acuta) che influenzavano profondamente i rapporti tra le maggiori potenze europee e quella futura dell'Asia".
Nel corso degli anni Trenta, tra le potenze emergenti – Germania, Italia e Giappone – andò rafforzandosi l'idea "che si rendeva necessario un rinnovato ordine economico e politico globale, non più basato sul defunto internazionalismo dei decenni precedenti ma fondato invece su un sistema di blocchi economici imperiali chiusi, dominati – al pari dei territori degli imperi britannico e francese – dal potere assoluto della madrepatria. Allora più che mai, il potere dell'impero era considerato indispensabile alla sopravvivenza nazionale, rilanciando così il paradigma imperiale stabilito alla fine del XIX secolo".
"La battaglia per conquistare nuovi territori e assicurarsi risorse – osserva lo storico britannico -, se necessario con la guerra, riportò l'orologio a un'età imperiale ormai passata". |