A cura di Pia Pera
Vita dell'arciprete Avvakum scritta da lui stesso
Adelphi Edizioni, pagg.244, € 18,00
L'Autore di quest'opera, Avvakum Petrovič, - spiega Pia Pera nell'ampio saggio introduttivo che precede il testo - "era nato nel 1620 nel villaggio di Grigorovo, nella diocesi di Nižnij Novgorod, una delle più importanti città russe di allora, fiorente per i commerci sia interni che esteri, e centro amministrativo di rilievo". Sin dalla giovinezza, divenne consapevole "dell'esigenza di moralizzare la Chiesa, e decise di rendersi all'altezza del compito che si era prefisso. Conobbe un buon uomo che gli insegnò a leggere i libri di chiesa, poi partì per un paese sulla Volga, Nikol'skoe-Sobolevo, dove sposò la figlia di un pope, trovandosi così a far parte del clero come lettore e cantore, e svolgendo quell'attività di direzione morale cui aspirava".
Egli "visse nella tempesta religiosa del Seicento russo, che culminò nello scisma. La sua parte era quella del perdente, la parte dei raskolniky, i «Vecchi Credenti», contrari a ogni correzione dei testi sacri e a ogni grecizzazione nella liturgia e nella dottrina. Allora la Russia si spaccò in due, e quella spaccatura si prolungò per tutta la sua storia, sino alle dispute fra occidentalisti e populisti nell'Ottocento, fino a oggi".
La storia di Avvakum "è inseparabile da quella dello scisma" dei Vecchi Credenti, tant'è che il manoscritto della "Vita" – che secondo molti ha dato inizio alla grande letteratura russa – circolò per quasi due secoli fra i raskolniky.
L'opera – scrive la Curatrice - "si attiene solo superficialmente alle regole del genere agiografico. Ne mantiene la struttura esteriore, con una prefazione, la narrazione della vita e i miracoli compiuti. La stilizzazione resta piuttosto limitata, anzi: nelle descrizioni della natura e dei costumi siberiani Avvakum si rivela un osservatore attentissimo, e quanto ha scritto è stato utilizzato da geografi ed etnografi. Quella di Avvakum è inoltre un'opera autobiografica, e questa è un'altra ragione per cui non poteva seguire in pieno le convenzioni agiografiche: scrivendo di se stesso l'arciprete non poteva certo lodarsi. Inoltre intendeva convincere, non poteva quindi dilungarsi in luoghi comuni, o rischiare di non essere compreso da tutti adoperando una lingua troppo diversa da quella parlata". "Ogni vero credente – scrive Avvakum - deve giungere le dita della mano in modo chiaro e fermo, e segnarsi tenendole così: non bisogna farsi il segno della croce con mano incerta, con poco zelo e con soddisfazione dei demoni, ma bisogna bensì porre la mano sul capo, sul ventre e poi sulle spalle recitando la preghiera, in modo che il corpo avverta, e la mente ponga attenzione a questi misteri – poiché le dita della mano configurano i misteri sommi. È questo che bisogna capire. Secondo la tradizione dei Santi Padri bisogna giungere tre dita così: il pollice il mignolo e l'anulare devono venire congiunti insieme per la cima; essi figurano la divinità nelle tre ipostasi, Padre Figlio e Spirito Santo. Poi l'indice e il medio: questi due devono venire giunti piegando leggermente uno dei due, il medio: questo raffigura la testimonianza della divinità e dell'umanità di Cristo; poi l'atto di levare la mano al capo significa lo spirito non creato: il Padre che genera il figlio, Dio preeterno, prima dei secoli dei secoli; l'atto di porla sull'ombelico è l'incarnazione di Cristo, figlio di Dio, per la santa e divina Vergine Maria; levare poi la mano sulla spalla destra figura l'ascensione di Cristo che sta seduto alla destra del Padre, ed è anche dove stanno i giusti; porre poi la mano sulla spalla sinistra raffigura la separazione dei peccatori dai giusti, la loro cacciata nei tormenti e la condanna eterna." |