Betty Bouthoul
Il Vecchio della Montagna
Adelphi Edizioni, pagg.216, € 22,00
Questo libro dell'artista e scrittrice francese Betty Bouthoul (1903-1977) venne pubblicato nel 1958 quale versione rivista di "La Grande Maitre des Assassins" (1936), e narra la storia di Hasan-i Sabbah, nato "a Rayy, in Persia, verso la metà dell'XI secolo" e "passato alla storia come il «Vecchio della Montagna». Di qui il titolo dell'opera che appare adesso nella collana "L'oceano delle storie" delle Edizioni Adelphi nella traduzione curata da Svevo D'Onofrio.
Il Vecchio della Montagna, spiega l'Autrice, "rimane il personaggio più misterioso del mondo. Se i mezzi di cui si servì per agire sugli uomini possono essere spiegati in diversi modi, nessuna spiegazione si impone come evidente – e neppure lo scopo della sua politica criminale, né i motivi della gelida passione che lo animava".
Dopo una "vita di lotte, nove anni di ricerche, di privazioni, di pazienza infinita", Hasan era giunto "a possedere un castello sperduto tra le montagne, senza ricchezze, senza armi". La fortezza si trovava "nel distretto del Rudbar, non lontano da Qazwin", "sulla sponda meridionale del Mar Caspio".
Alamut, "situata su un'altura inaccessibile, aveva ricevuto il nome di «Nido dell'Aquila» in virtù della sua eccezionale ubicazione. Ha la forma di un leone accovacciato, con la testa poggiata a terra. Le mura sono a strapiombo, intagliate nella roccia. È accessibile solo da un punto, che per giunta è facilmente difendibile: vi si sale tramite stretti gradini, o meglio, solchi scavati nella roccia".
Bouthoul scrive che "l'uomo che nella regione era chiamato il signore della montagna aveva iniziato col cacciare da Alamut, insieme alle loro famiglie tutti gli uomini gracili, vecchi e malati, a meno che non fossero versati in qualche scienza. Aveva anche cacciato i musicisti e i cantastorie. Ma il numero degli abitanti non diminuiva, anzi, perché non passava giorno senza che si presentasse al castello un Ismailita giunto da altre contrade o un uomo desideroso di conoscere la dottrina. Si diceva infine che la fortezza contenesse un centinaio di fedeli, divisi in misteriose gerarchie e tutti ciecamente devoti al loro signore. Le spie non erano riuscite a penetrare nel castello stesso, abitato da Hasan e da una ventina di suoi discepoli preferiti. Erano rimaste colpite dal silenzio e dal mistero che lo avvolgeva e dalla tristezza che sembrava regnarvi, che ben si accordava all'aspetto tetro della regione".
Il castello "aveva assunto l'aspetto di un convento" e ospitava, in alcune delle grandi gallerie del pianterreno e del primo piano, "i fedeli, raggruppati secondo il loro grado iniziatico; le altre stanze erano state adibite a sala d'armi, sala di preghiera, sala studio, e quanti conoscevano qualche lingua straniera la insegnavano agli altri".
Nel castello, risiedeva pure la moglie di Hasan insieme "con la figlia e il figlio minore nella massima frugalità. Il figlio maggiore, appena arrivato, aveva chiesto di essere iniziato e viveva nel castello come gli altri Fida'i", gli Ismailiti votati alla morte.
Hasan – si legge ancora nel testo – "continuava a rifiutare il titolo di gran maestro, lasciandolo al fantomatico e timido 'Abd al-Malik-i 'Attash. Rifiutava anche di assumere un titolo da potentato territoriale o militare, come principe, malik o emiro: non governava né un principato né una provincia, diceva, ma un Ordine, una confraternita al di sopra degli Stati. I fedeli si riferivano a lui come «nostro Signore», ma la gente del posto lo chiamava Shaykh al-Jabal, cioè il «Padrone (o Signore) della Montagna»".
Egli "abitava in una piccola stanza umile e spoglia accanto alla biblioteca", nella quale "si chiudeva talvolta per ore". "Era il primo a dare l'esempio di quell'ascetismo che esigeva da coloro che lo circondavano. Il cibo, i vestiti – bianchi come quelli dei neofiti cristiani e dei sufi – erano i più poveri possibili. Era vietato, sotto pena di morte, bere vino nella fortezza".
Per conferire maggiore coesione alla setta, nel frattempo mutata in confraternita, Hasan "aveva ridotto a sette il numero dei gradi iniziatici". I Fida'i, i Devoti di Hasan-i Sabbah, assumevano l'hashish e per questo dalla gente erano chiamati con l'appellativo di «Hashishin», che significa appunto «consumatori di hashish».
L'Ordine, al cui interno "vigeva una disciplina ferrea, accettata da tutti e probabilmente cercata da alcuni come una forma più totale di abbandono", "non si limitava a rivelare ai Fida'i il senso profondo della loro morte, ma li addestrava accuratamente al mestiere di assassini". Essi, "senza distrazioni, senza consolazioni, senza piaceri di sorta, si consacravano senza riserve a un'idea fissa: la devozione al gran maestro che li aveva sottratti a un mondo morto e fallace, la vita reale, per rivelargli un altro mondo, quello verace della religione, dell'esaltazione che li avrebbe condotti all'eterna beatitudine".
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