L’unità d’Italia e la Santa Sede. Intervista con Padre Giovanni Sale |
L’unità d’Italia e la Santa Sede. Intervista con Padre Giovanni Sale a cura della Redazione
Padre Giovanni Sale è nato a Mara (Sassari) il 1° marzo 1958. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Sassari, è entrato nella Compagnia di Gesù, nella quale è stato ordinato presbitero nel 1996. Ha conseguito la licenza in Storia della Chiesa moderna e il dottorato in Storia della Chiesa contemporanea presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Attualmente fa parte della redazione della rivista La Civiltà Cattolica, insegna Storia contemporanea nella Facoltà di Storia della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana di Roma ed è direttore dell'Istituto Storico della Compagnia di Gesù. Autore di numerosi volumi, ha recentemente dato alle stampe il saggio L’unità d’Italia e la Santa Sede (Jaca Book, pagg.200, Euro 18,00). Padre Sale, quale fu il contributo offerto dai cattolici all’unità d’Italia? Innanzitutto, va detto che il cosiddetto «Risorgimento nazionale», inteso come movimento di idee, è nato e cresciuto all’interno del pensiero politico cattolico e all’interno di questo ha ricevuto il suo primo programma di azione. Insomma accanto a Mazzini e prima ancora di Cavour ci sono stati Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, che pensarono al nuovo assetto politico e sociale della penisola in termini «italiani», e che videro nel confluire di culture e tradizioni locali diverse, amalgamate dallo stesso cemento della fede cattolica, le condizioni per la nascita di uno Stato confederale sottoposto alla medesima direzione politica ed economica. Tali teorie politiche, indicate dalla letteratura laicista con il termine spregiativo di «neoguelfismo», sebbene un poco astratte e fantasiose, in quegli anni di intensa trasformazione politica e sociale, furono condivise da molti italiani sinceramente interessati al «riscatto» della nazione, e ciò prima ancora che i Savoia sposassero pienamente la causa unitaria, indirizzandola secondo i propri interessi particolari. Le teorie giobertiane, e in qualche modo anche rosminiane avevano il merito di pensare l’unificazione nazionale non soltanto in chiave politica e istituzionale - come poi in effetti la ridusse la strategia cavouriana - ma anche culturale e sociale, accordandola al particolarismo delle tradizioni regionali dei diversi Stati della penisola e utilizzando come cemento unificatore della nuova identità nazionale il grande patrimonio culturale e di fede della tradizione cattolica italiana. L’unificazione, come sappiamo, avvenne poi in altro modo e secondo altri ideali, e ciò portò a forti lacerazioni nel Paese «reale», che pesarono molto sulla formazione di uno Stato nazionale realmente unitario, e che furono definitivamente sanate soltanto quando i cattolici – dopo la lunga e travagliata vicenda del Non expedit - rientrarono a pieno titolo nella vita politica nazionale. La storiografia cattolica ha spesso presentato l’unità d’Italia come “un fatto che riguardò soprattutto le élites liberali e censitarie della nazione” (pag. 96), ma non il popolo. Condivide questa tesi? Nonostante la mitologia dei «mille», l’unità d’Italia non fu un vero e proprio movimento di popolo. Questa idea è stata recentemente ripresa da alcuni studiosi, secondo i quali il governo sabaudo-italiano appena instaurato fu fortemente avversato nel Centro e nel Meridione dalle classi meno abbienti, a nostro avviso più per motivi economici (tassazioni e servizio militare) e sociali, che ideali e religiosi. Il nuovo Stato unitario nasceva in contrapposizione alla Chiesa e al Papa, al quale veniva tolta ogni sovranità territoriale, e quindi ogni reale e visibile indipendenza e autonomia nella gestione degli affari ecclesiastici universali. Ma in quel periodo la grande maggioranza degli italiani erano cattolici e fedeli alla causa papale. Il conte Ponza di San Martino, legato del Re d’Italia, disse a Pio IX che egli il suo sovrano era obbligato a occupare Roma, dalla volontà di 24 milione di Italiani. A queste parole il Papa rispose prontamente: «Dite quattro; quattro milione vi accordo, giacché 20 milioni sono con me». Di fatto l’occupazione di Roma da parte dell’esercito italiano fu avvertito da molti cattolici (successivamente definiti dalla storiografia come intransigenti) come un gesto sacrilego e ciò nella nuova Italia avrebbe contribuito ad allargare la distanza tra «Paese legale» e «Paese reale». Lei scrive che l’esistenza del piccolo Stato della Città del Vaticano, oltre a “rendere la Santa Sede più libera e aperta al mondo”, ha contribuito “a rendere lo Stato italiano più «laico»” (pag. 104). Che cosa significa? Risolvere l’annosa questione romana, che a partire dal 1870 contrapponeva il giovano Stato italiano alla Santa Sede, significava sostanzialmente garantire al Papa l’indipendenza e l’autonomia nell’esercizio della sua funzione al servizio della Chiesa universale, da ogni pressione di carattere politico. Tale indipendenza, inoltre, per non generare sospetti di parzialità, doveva essere reale e visibile a tutti. Per ottenere questo era necessario riconoscere al Papa la sovranità su una porzione anche piccola di territorio. Come è noto si giunse a questo, dopo lunghe e difficili trattative, nel 1929 con la stipulazione dei Patti lateranensi tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Tale fatto pose fine alla controversia, o meglio alla lotta, che per decenni aveva avvelenato la vita politica nazionale, tra clericali e laicisti, instaurando un clima di fiduciosa collaborazione tra le due autorità, che si riconoscevano ciascuna nel proprio ambito indipendente e sovrana, come poi affermerà a chiare lettere il primo comma dell’art. 7 della Costituzione italiana. In tal modo all’anticlericalismo militante del periodo post-unitario si andò sostituendo nel nostro Paese una nuova visione dei rapporti tra Stato e Chiesa fondata su una sana e legittima laicità, indirizzata, almeno a livello di principi, a separare e distinguere ciò che è di Cesare da ciò che è di Dio. Anche se nella pratica tale separazione non fu sempre facile e in diverse occasione, da ambedue le parti, si prestò a pericolose strumentalizzazioni. A pag. 123 si legge che la rivista “non intendeva parteggiare per nessuna forma di governo in particolare, ma «li rispetta tutti purché siano legittimi (altrimenti li tollera)»”. Potrebbe spiegare brevemente questo concetto? Tale principio adottato fin dalla fondazione dalla nostra rivista, e sostenuto nei loro articoli dai padri Taparelli D’Azeglio e Liberatore, in realtà era stato accolto, dopo le rivoluzioni europee del 1848, in ambito cattolico (e in qualche modo anche dal magistero pontificio), al fine di separare l’ordine politico, in rapida trasformazione e ormai dominato dalla nuova borghesia al potere, da quello religioso. Sia Pio IX, sia i suoi successori (in particolare Leone XIII) sostennero che la Chiesa non parteggiava per nessuna forma di governo in particolare, purché fossero legittimi, cioè istituiti senza costrizione o violenza, e fossero «fattualmente operanti»; a tale riguardo ricordiamo il celebre trattato del p. Taparelli, sul diritto naturale «fondato sul fatto». In questo modo la Chiesa, dopo secoli di «unione sacra» tra trono e altare, prendeva le distanze dall’assolutismo monarchico (quello di carattere divino) e iniziava ad accogliere, non senza resistenze e ripensamenti, le moderne teorie sullo stato liberale. Lo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa accompagnò tale percorso e poco alla volta avvicinò il pensiero cattolico alle moderne teorie democratiche: tale prospettiva fu però interamente accolta dal magistero dei Papi soltanto dopo l’immane catastrofe della prima guerra mondiale. In seguito all’abolizione del potere temporale dei Papi, i padri redattori della Civiltà Cattolica “decisero nel 1870 di trasferirsi da Roma a Firenze” (pag. 125), rimanendovi fino al 1887, allorché “Leone XIII richiamò a Roma tutta la redazione”. Come si spiega l’abbandono della sede romana e, soprattutto, il volontario “esilio” in una città caratterizzata da “una forte e aggressiva tradizione anticlericale”? La presa di Roma da parte dei piemontesi nel 1870 e la conseguente abolizione del potere temporale furono un duro colpo inferto al Papa. I padri della Civiltà Cattolica non vollero rimanere estranei a questi fatti: come protesta contro i cosiddetti «fatti compiuti» decisero nel 1870 di trasferirsi da Roma a Firenze, «città più atta a farci continuare – si diceva in un editoriale – l’opera nostra consueta», sebbene avesse una forte e aggressiva tradizione anticlericale. Nel frattempo, nella conduzione della rivista c’era stato un vero e proprio salto generazionale. Della vecchia guardia erano rimasti soltanto l’anziano p. Liberatore di cui il nuovo Papa si servì per la redazione dell’enciclica Rerum novarum, e il p. Oreglia; il resto degli scrittori era costituito da gesuiti appartenenti alla cosiddetta seconda generazione, come ad esempio i padri Steccanella, Cornoldi, Zocchi, Ballerini e Franco: tutti questi padri lavorarono per la rivista durante il lungo pontificato di Leone XIII. Va però sottolineato che vi è una sostanziale differenza tra i primi e i secondi. I fondatori della rivista (Curci, Taparelli, Liberatore) furono uomini di pensiero prima ancora di essere strumento al servizio degli interessi politi papali. Essi, pur nel vincolo di un’obbedienza, svolsero opera autonoma preparando il terreno a quella ripresa neoscolastica che Taparelli non vide e che fu solennemente sancita da Leone XIII. La seconda generazione invece visse in pieno il periodo della protesta cattolica contro i cosiddetti «fatti compiuti». Questi padri dovettero combattere per difendere gli interessi della Santa Sede e del Papa, che ritenevano illegittimamente violati dal nuovo assetto istituzionale italiano. Tutto questo segnò profondamente lo stile della rivista e il suo orientamento politico: essa divenne in Italia in quegli anni – insieme all’Osservatore Cattolico di don Davide Albertario e all’Unità Cattolica di don Giacomo Margotti – la roccaforte dell’intransigentismo non solo politico ma anche ideologico, paladino della difesa ad oltranza dei diritti violati del Romano Pontefice. Con l’inizio del pontificato di Leone XIII, La Civiltà Cattolica attraversò un momento di crisi. Il nuovo Papa mal sopportava quell’intransigentismo duro e battagliero che la rivista negli anni fiorentini aveva incrementato. Egli, infatti, non amava né il linguaggio apocalittico spesso adoperato da giornali e riviste intransigenti, né l’eccessiva insistenza di essi su questioni rivendicazioniste. Tuttavia, passeranno ancora diversi anni prima che si decidesse il trasferimento della direzione della rivista da Firenze a Roma. Ciò avvenne, su richiesta di Leone XIII, nel 1887. Da questo momento in poi La Civiltà Cattolica fu sottoposta alla «revisione presentiva» dell’autorità ecclesiastica, divenendo, fin ad oggi, organo «ufficioso» della Santa Sede; ciò diede alla rivista romana dei gesuiti autorevolezza e prestigio, facendone negli anni successivi un importante strumento di mediazione culturale tra le istanze del mondo cattolico «papalino» e quelle del mondo laico.
18 marzo 2011 © RIPRODUZIONE RISERVATA
|