Manlio Dinucci
L'arte della guerra Annali della strategia Usa/Nato (1990/2015)
Zambon Editore, pagg.549, € 18,00
Il giornalista Manlio Dinucci ha raccolto in questo libro numerosi saggi e articoli che nel corso di venticinque anni – dalla Guerra del Golfo del 1991 al 2015 – è andato pubblicando in volumi collettanei e, soprattutto, sulle colonne dei quotidiani Liberazione e il manifesto dove il martedì cura la seguitissima e apprezzata rubrica "L'arte della guerra". Il primo capitolo prende in esame la Guerra del Golfo del 1991, un'aggressione – spiega l'Autore – che fu favorita "dalle mutate condizioni internazionali, in seguito alla crisi sovietica e allo scioglimento del Patto di Varsavia, che fornivano a Washington nuove possibilità". Restando l'unica superpotenza su scala globale, gli Usa avevano bisogno "di un nuovo nemico, il primo di una serie, con cui motivare la loro nuova strategia di dominio". Dinucci rivela che gli Stati Uniti ottennero l'astensione di Pechino (membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu) funzionale all'approvazione della Risoluzione n.678 contro l'Iraq sbloccando "un prestito di 140 milioni di dollari della Banca Mondiale alla Cina, [...] riprendendo così le relazioni congelate dopo i fatti di Tien Anmen". La Guerra del Golfo del 1991, la "Hyperwar", fu "la prima guerra su vasta scala (preceduta dall'invasione di Panama) non motivata con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione che era stata alla base di tutti gli interventi militari statunitensi nel Terzo Mondo, dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall'invasione di Grenada all'operazione contro il Nicaragua". Nel dopo-guerra-fredda, il "pericolo" può essere chiunque: "un regime nazionalista che cerchi di emergere quale potenza regionale rompendo l'equilibrio di forze su cui si basa l'influenza statunitense, così come un Paese o gruppo di Paesi che ostacoli l'accesso statunitense alle materie prime e ai mercati, oppure un movimento nazionale che lotti contro un regime alleato degli Stati Uniti". Il "pericolo" può altresì essere rappresentato da qualunque popolo che "si ribelli a un ordine mondiale che vede poteri e ricchezze crescenti concentrarsi sempre più in poche mani e in pochi Paesi". La "Hyperwar" ha aperto la via che "conduce verso altre guerre, destinate a loro volta ad acuire le tensioni preparando il terreno ad altri conflitti". Nel secondo capitolo, intitolato "Il riorientamento Usa/Nato per nuove guerre", l'Autore prende in esame una serie di documenti statunitensi tra cui il "Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999". Vi si legge che il primo obiettivo di Washington consiste nell'"impedire il riemergere di un nuovo rivale, o sul territorio dell'ex Unione Sovietica o altrove, che ponga una minaccia nell'ordine di quella posta precedentemente dall'Unione Sovietica". Gli Usa hanno anche "visto con sospetto e osteggiato" il progetto di una difesa comune europea capace di "allentare il legame atlantico e di conseguenza l'influenza statunitense in Europa". Passando ad analizzare l'intervento della Nato contro la Serbia (1999), la seconda guerra del dopo-guerra-fredda, Dinucci scrive che, alimentando la disgregazione politica dei Balcani, gli Stati Uniti miravano a colpire "l'asse economico formatosi tra Europa occidentale e orientale (Russia compresa)" dopo la fine dell'Urss. Tale asse avrebbe potuto rappresentare in prospettiva il "principale centro economico mondiale, capace un giorno di rendersi autonomo anche sul piano militare". Così, nel 1999, il vero scopo della guerra contro Belgrado non era la soluzione della questione del Kosovo, "ma quello di ridisegnare la carta geopolitica e geostrategica sia dei Balcani che dell'intera regione europea in base alle logiche di potenza e di spartizione di aree di influenza". Questo disegno è stato perseguito anche con l'espansione della Nato a est e con il nuovo concetto strategico che ha conferito "all'Alleanza il compito di intervenire con la forza armata al di fuori del proprio territorio". Dinucci vede nell'Unione europea "una alleanza basata sugli interessi di oligarchie economiche e poteri forti che individualmente fanno di volta in volta quello che più loro conviene. Ciò spiega perché non solo la Gran Bretagna, alleata tradizionale degli Stati Uniti, ma Francia e Germania, relativamente più autonome, abbiano accettato (sicuramente in cambio di contropartite) di scatenare una guerra nel cuore dell'Europa". Dopo la guerra contro la Serbia, è la volta della "guerra al terrorismo" che prende le mosse dagli attentati dell'11 settembre 2001, riguardo ai quali l'Autore ritiene che "la verità sia molto più complessa della versione ufficiale" che, senza prove, "attribuisce gli attacchi terroristici unicamente a Osama bin Laden e alla sua organizzazione Al Qaeda". A proposito dello sceicco saudita il giornalista avanza il sospetto che, nel 2011, potrebbe essere stata "inscenata l'uccisione di un Bin Laden già morto o catturato, per rafforzare il presidente Obama ai fini della rielezione e, allo stesso tempo, creare la motivazione per intervenire ancora di più in Pakistan". Per cogliere i reali obiettivi perseguiti dagli Stati Uniti nella guerra contro l'Afghanistan, il giornalista del manifesto suggerisce di guardare la carta geografica: "l'Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest'area si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali". "Da qui – osserva Dinucci – la necessità di «pacificare» l'Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio". Con la guerra alla Libia (2011), i «falchi globali» si prefiggevano di "portare la sua ricchezza energetica sotto il dominio Usa/Nato". Quanto all'Isis, Dinucci ritiene che esso sia "una pedina del nuovo grande gioco imperiale in Medio Oriente", "funzionale alla strategia statunitense di demolizione degli Stati attraverso la guerra coperta". È operativa una multinazionale che si "occupa di demolizioni e restauri. Non di edifici, ma di interi Stati. La casa madre è a Washington, dove nella White House risiede il Chief executive officer (Ceo), l'amministratore delegato. I principali quartieri regionali si trovano a Parigi e Londra, sotto rampanti direttori e avidi comitati d'affari, ma la multinazionale ha filiali in tutti i continenti". Nel maggio 2013, il "califfo" al-Baghdadi incontrò "in Siria il senatore statunitense John McCain, capofila dei repubblicani incaricato dal democratico Obama di svolgere operazioni segrete per conto del governo. L'incontro è documentato fotograficamente. Molto sospetto è anche l'illimitato accesso che l'Isis ha alle reti mediatiche mondiali, dominate dai colossi statunitensi ed europei, attraverso cui diffonde i filmati delle decapitazioni che, suscitando orrore, creano una vasta opinione pubblica favorevole all'intervento della coalizione a guida Usa in Iraq e Siria". L'Autore vede poi la "lunga mano dei servizi segreti" francesi dietro la strage di Charlie Hebdo, definita "l'11 settembre della Francia". Nel teatro di guerra ucraino, Dinucci denuncia la presenza, al fianco dei golpisti russofobi di Euromajdan, di "specialisti militari israeliani", testimoniata "dalla notizia, diffusa dalla Jta e altre agenzie ebraiche, che diversi feriti negli scontri con la polizia a Kiev sono stati subito trasportati in ospedali israeliani, evidentemente per impedire che qualcuno rivelasse altre scomode verità. Tipo quella di chi ha addestrato e armato i cecchini che, con gli stessi fucili di precisione, hanno sparato in piazza Maidan sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa)". Il volume – impreziosito da un'ampia e interessante "Nota di redazione" firmata da Jean Toschi Marazzani-Visconti e dalla "Prefazione" di Alex Zanotelli - contiene infine un articolo inedito, «Impero» e imperialismo, inviato al manifesto il 5 febbraio 2002 e mai pubblicato. Era dedicato al libro di Micheal Hardt e Antonio Negri, Impero. |