Sergio Romano
Il declino dell'impero americano
Longanesi, pagg.126, € 14,90
In questo nuovo libro, Sergio Romano ripercorre le manifestazioni della politica estera americana dell'ultimo decennio alla luce dei criteri della logica imperiale. L'Autore spiega che un "impero non cresce soltanto acquisendo terre e vassalli. Cresce anche costringendo altri imperi a rimpicciolire le loro ambizioni. Pochi americani, naturalmente, lo avrebbero ammesso. Per scaltrezza politica? Soltanto in piccola parte. Ogni impero è straordinariamente capace d'ingannare se stesso con nobili bugie alle quali finisce per credere". Un impero, inoltre, "sposta mentalmente le proprie frontiere il più lontano possibile e considera un pericoloso intruso chiunque osi spingersi sino alle sue mura". Con l'attacco scatenato contro l'Iraq nel 2003, gli Stati Uniti miravano a "rifare la carta della regione. Negli anni precedenti un gruppo di neoconservatori americani, prevalentemente ebrei, aveva preparato un progetto che avrebbe cambiato i rapporti di forza del Medio Oriente. Erano Richard Perle, Paul Wolfowitz, Douglas Feith, Michael Ledeen, Scooter Libby, Charles Krauthammer, Stephen Bryen, David Frum, Robert Kagan, David Wurmser, Dov Zakheim, Norman Podhoretz, John Podhoretz, Elliot Abrams, Frederick Kagan, Alan Dershowitz, Daniel Pipes, Eliot Cohen, Bill Kristol, Irving Kristol, Max Boot, Marc Grossman, Joshua Bolten. Il loro progetto prevedeva un cambiamento di regime in due paesi che George W. Bush, in un discorso sullo stato dell'Unione, avrebbe definito «canaglie». Occorreva cominciare con l'Iraq e proseguire, in un secondo tempo, con l'Iran. I due colpi, assestati se possibile a breve distanza di tempo, avrebbero garantito la sicurezza d'Israele, distrutto due centri d'agitazione antiamericana, dimostrato all'intera regione di quali mezzi di persuasione disponessero gli Stati Uniti d'America". Undici anni dopo, si può vedere come quel conflitto abbia prodotto un effetto "paradossale": gli Usa hanno "distrutto il regime del sunnita Saddam Hussein, acerrimo nemico dell'Iran sciita, per regalare il potere al maggiore partito sciita, sempre più amico dell'Iran [...], vale a dire del paese che Bush aveva definito «canaglia» e che buona parte della classe politica americana considerava la maggiore minaccia alla stabilità politica della regione". Osserva a questo punto Romano: "Quando sopravvive ai duri colpi di un nemico potente, un piccolo Stato o una banda di guerriglieri può vantare una vittoria morale. Quando distrugge il regime di uno Stato ostile ma non riesce a raggiungere gli obiettivi che si era prefisso, un grande Stato è politicamente sconfitto". "Gli Stati Uniti – aggiunge l'Autore - sono la maggiore potenza militare del pianeta. L'esercito, la marina e l'aeronautica degli Stati Uniti hanno basi, installazioni, scali e radar in Afghanistan, Arabia Saudita, Australia, Bahrein, Bulgaria, Corea del Sud, Cuba (Guantanamo), Diego Garcia, Emirati Arabi Uniti, Germania, Giappone, Gibuti, Gran Bretagna, Grecia, Groenlandia, Guam, Israele, Italia, Kirghizistan, Kosovo, Kuwait, Oman, Paesi Bassi, Pakistan, Portogallo, Qatar, Singapore, Turchia. Queste basi rappresentano una minaccia per alcuni paesi, un fattore di sicurezza per altri, una imprescindibile realtà per tutti. Che cosa accadrebbe se gli Stati Uniti si ritirassero all'interno delle proprie frontiere? A quali e quanti assestamenti dovremmo prepararci? Nessun paese responsabile può desiderare il subitaneo collasso della potenza americana. Di fronte al grande spettacolo americano siamo una captive audience, una platea prigioniera, libera di guardare, ma alquanto limitata nella sua capacità di reagire. La crisi dell'America non può cominciare che da se stessa". Quanto a Barack Obama, che agli occhi dei suoi oppositori ha (tra gli altri) il difetto di non essere wasp (white, anglo-saxon, protestant), "non ha mai esplicitamente rinunciato al ruolo mondiale degli Stati Uniti. Se lo avesse fatto, avrebbe deluso i propri connazionali, offerto un'arma ai suoi oppositori interni, incoraggiato le avventure di molti tribuni e signori della guerra sparsi per il mondo". "La parabola del declino americano – conclude l'Autore - sarà tanto meno pericolosa quanto più verrà accompagnata dalle scelte prudenti e ragionevoli della Cina, della Russia, del Brasile, dell'Iran e dei paesi a cui ho già dedicato alcune pagine. Ma la responsabilità maggiore, in questo quadro, è dell'Europa. L'Unione europea e gli Stati Uniti hanno un enorme patrimonio di interessi comuni nell'economia, nella finanza, nella ricerca scientifica, nella lotta contro il terrorismo e la criminalità internazionale. Ma l'Ue non può accompagnare e assecondare l'America in ciò che ancora rimane della sua politica imperiale e le sarà tanto più utile quanto più diverrà, nel mondo multipolare, «terza forza», una sorta di Svizzera continentale. Dipende interamente dai suoi membri. Se continueranno a rifiutare la prospettiva di un governo comune, saranno indotti a coltivare la propria individualità e continueranno ad avere, per meglio giustificare la propria esistenza, interessi diversi. Un'Europa divisa, per gli Stati Uniti, è il migliore degli alleati possibili. L'affermazione spiacerà a molti, ma l'unità dell'Europa si farà soltanto a dispetto dell'America. Lo scopo non è quello di scavare un fossato tra i due continenti, ma quello di garantire all'Europa un ruolo in un mondo in cui lo spazio creato dal declino dell'impero americano verrebbe riempito esclusivamente da potenze extraeuropee". |