Nuova Storia Contemporanea, n.4/2011 Stampa E-mail

Nuova Storia Contemporanea, n.4 luglio/agosto 2011

Le Lettere, pagg.168, Euro 11,50

 

nsc4_2011  In apertura del n.4/2011 del bimestrale Nuova storia contemporanea, troviamo un saggio del direttore, prof. Francesco Perfetti, dedicato alle ideologie e alle culture dell’Italia repubblicana. La cultura liberale italiana, dopo la caduta del fascismo, fece registrare un declino o un rapido deperimento. Maggiore udienza ebbero le tesi provenienti dal composito mondo azionista. La diffusione della cultura marxista fu il contraltare della cultura liberale. Il suo successo, combinato con l'incontro con l'azionismo, è alle origini dell'egemonia marxista nella cultura italiana. Spiega l’Autore: “La crisi del comunismo, a livello internazionale, e il suo crollo hanno favorito la rinascita di una cultura liberale, che, peraltro, non si era mai spenta del tutto e che, anzi, pur operando in ambienti ristretti e sostanzialmente elitari - basterà rammentare, in proposito, la vivace esperienza di riflessione culturale e politica legata alla rivista «Biblioteca della libertà» e al circolo che vi ruotava intorno - era andata precisandosi e, soprattutto, acquisendo nuove caratteristiche grazie all'attenzione rivolta alle espressioni e manifestazioni teoriche del liberalismo internazionale. L'impegno di un Bruno Leoni, per esempio, e di un Sergio Ricossa aveva consentito la conoscenza in Italia, per fare un solo nome, del pensiero di Friedrich von Hayek, mentre quello di un Antonio Martino aveva contribuito alla circolazione delle teorie di un Milton Friedman e quello di un Dario Antiseri aveva reso quasi popolari le posizioni epistemologiche di un Karl Popper. Un elemento chiave di questa cultura sta nella riscoperta del "mercato" e quindi anche nel superamento della vecchia questione del rapporto liberalismo-liberismo che essa tende a risolvere in termini né di contrapposizione né di separazione ma in termini di identificazione. In questo quadro si colloca la popolarità crescente delle opere degli autori della scuola "austriaca", cui però fa riscontro la riscoperta del pensiero liberale di Raymond Aron”.
  George-Henri Soutou (professore emerito di Storia contemporanea e di Storia delle relazioni internazionali presso l'Università Sorbona e l'Istituto di Studi politici di Parigi) ha scritto un articolo su L’Intelligence francese e l’Europa dell’Est. La tesi sostenuta dall’Autore è che “è che intorno al 1954 (con il disastro di Dien Bien Phû nella Guerra Indocinese), gli apparati militari riguadagnarono discretamente il controllo della maggior parte delle procedure di Intelligence. I francesi si resero conto che era impossibile penetrare davvero nel sistema sovietico e valutare le intenzioni di Mosca, e provarono a sviluppare un sistema obiettivo dei primi indicatori delle reali imminenti azioni sovietiche. Di qui una riorganizzazione e un nuovo punto di vista dell'Intelligence del 1954, grazie ai quali divenne certamente migliore”.
  Del rapporto fra il mondo cattolico e la politica sociale del Fascismo si occupa Massimiliano Tenconi (studioso di Storia contemporanea e autore di ricerche sulla prigionia degli italiani in Germania, sul lavoro coatto nel Terzo Reich e sulle vicende legate ai prigionieri di guerra alleati in Italia). L’Autore scrive che fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale “il fascismo ricevette […] l'appoggio determinante del mondo cattolico. Al consenso che scaturì dalla base del clero dettato da un vero culto per la figura di Mussolini, si aggiunse quello strumentale che aveva come finalità l'utilizzo del fascismo per giungere alla creazione di uno Stato autoritario di stampo cattolico. Questo secondo atteggiamento si fondava sull'idea di poter separare il giudizio economico-sociale da quello politico permettendo in tal modo di accogliere quelle realizzazioni che più si confacevano alla dottrina cattolica valutandole solo in un'ottica di carattere religioso. Per i cattolici, infatti, la particolare forma di governo, in sede di un corretto giudizio sul valore della politica di uno Stato, era un aspetto del tutto secondario. Secondo la loro idea non erano le forme politiche che creavano il buon governo ma bensì "lo spirito di chi ha in mano il potere" e una diffusa coscienza aderente ai principi di una maggior giustizia e solidarietà cristiana. Fondamentale era soprattutto il rispetto dell'ordine naturale di cui la Chiesa si faceva interprete e portatrice. Ne derivava che tanto più la Chiesa e la religione erano rispettate, tanto più ci si avvicinava all'ordine naturale e quindi alla realizzazione di un sistema equo”.
  I corrispondenti di guerra italiani e la campagna di Russia è il titolo del saggio del giornalista Fabio Fattore. I corrispondenti di guerra chiamati a seguire la campagna di Russia formavano “una squadra di professionisti con una missione speciale: approfittare dell'occasione storica che si presenta per risollevare il consenso del fascismo, ma anche capaci, poi, di trasformare una disfatta in una vittoria, almeno sulla carta stampata, che è il loro campo d'azione”.
  Alessandro Orsini
(docente di Sociologia politica e Sociologia dell'educazione nell'Università di Roma "Tor Vergata" e nell'Università LUISS "Guido Carli") prende in esame il “ruolo importante” rivestito da Filippo Turati nella storia del secolo passato, con particolare riguardo alla “cultura politica dei riformisti”. “Sulla figura di Turati – osserva l’Autore - ha pesato a lungo il giudizio negativo di Palmiro Togliatti, secondo cui Turati fu "uno zero" in fatto di teoria politica, oltre a essere stato un uomo corrotto, disonesto e moralmente spregevole. Queste parole - scritte in occasione della sua morte e pubblicate nell'aprile del 1932 sulla rivista «Lo Stato Operaio» - si sono tramandate per generazioni, screditando la figura di Turati in Italia e all'estero”.
  Questo numero della rivista contiene, inoltre, l’introduzione al volume dello storico e diplomatico Maurizio Serra, La Francia di Vichy. Una cultura dell’autorità, in corso di pubblicazione per i tipi della Casa Editrice Le Lettere. “La vicenda dell'''Etat français de Vichy" – vi si legge -, sigla altisonante che coprì una forma istituzionale fuida e mai compiutamente definita, si esaurisce nel giro di quattro anni in tutto, a non voler considerare l'appendice della fuga-sequestro in Germania dei resti del regime nel 1944-1945: periodo relativamente breve, dominato dall'emergenza dell'occupazione, diretta o indiretta, del territorio nazionale. Ma essa affonda le radici nella nazionalizzazione delle masse, a partire dalla rivoluzione del 1789 e alla cesura mai tuttavia psicologicamente compiuta con l'ordine universalistico-monarchico, gesta Dei per Francos. È un retaggio che riappare regolarmente nel dibattito odierno: si tratti delle ombre sul passato di Mitterrand o di altri leader politici, del tardivo processo all'ex prefetto e ministro Papon, dell'ascesa del Fronte Nazionale di Le Pen o delle polemiche sulle tesi negazioniste, che in Francia sembrano aver attecchito più che altrove. Uno dei primi proclami della "rivoluzione nazionale" di Pétain, che salutava "la terra, che, essa, non mente!" sembra risuonare negli anatemi scagliati dal leader del movimento altermondialiste, il carismatico poeta-contadino José Bové, dai lunghi mustacchi spioventi alla Vercingetorige, contro le "menzogne" dell'industrializzazione e della globalizzazione. Ma questo straripamento nell'attualità pone un dilemma allo studioso, che ha bisogno di ancorarsi a punti fermi, a concetti temporalmente definibili, senza lasciarsi fuorviare da tentazioni universalistiche o da confronti che, per essere brillanti, rischiano di diventare arbitrari. Il dato di partenza è il trauma della sconfitta del maggio-giugno 1940 e il crollo della Terza Repubblica: da lì ogni narrazione prende necessariamente le mosse.”