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Il mito delle origini.
Religione dell'eroe e della terra nella cultura tedesca
di Luca Leonello Rimbotti (*)
uomo-libero.com - del 14/01/2006
Le tradizioni prendono forma col procedere del tempo e con il progressivo allontanamento dall’Inizio. E’ allora che l’Origine diventa mito dell’origine, dando vita a immagini simboliche che contengono il significato e il suo opposto, la norma e il suo rovescio. E’ così che in terra tedesca si accentrano su Odino-Wotan, ancestrale modello archetipico gravato di occulto, tutte le contraddizioni, rendendolo vaso contenitore di estremi; egli stesso, anzi, manipola e impone gli eccessi. La regalità odinica veicola un topos germanico che non avrà requie se non a seguito del più abissale scatenamento del tragico, vissuto retrospettivamente come colpa collettiva pressoché inespiabile. Odino è figura sovrana, solare, molto simile al Giove olimpico, si presenta con elmo d’oro e corazza e nella mano destra reca l’infallibile Gungnir saettante; è insieme il burrascoso e il bonario, il terribile e il sapiente, è dio dell’amore e della guerra, sa trasformarsi in aquila e atterrire nelle notti di tregenda, quando col suo esercito di spettri rompe l’aria di ululati per recarsi alla caccia selvaggia della Wildfrau; è il padre pietoso di tutti, ma anche colui che impone sacrifici cruenti in suo onore; è mago e poeta, in una parola: è dio del bene e del male.
Wotan è rappresentazione cosmica delle esasperate possibilità della natura e della vita e come tale ha potuto incombere a lungo sulla psiche tedesca. In qualità di Allvater, poi, è stato anche visto come un annunciatore dell’idea monoteistica, benché sovrano di un pantheon popoloso1. Principio regale e principio tellurico convivono in lui, nel momento in cui le sue energie demiurgiche si dispongono ora alla distruzione ora invece a regolare l’ordine delle cose; eroe solare o mago lunare, la sua è la funzione sovrana dell’onnipotenza. Secondo Carl Gustav Jung, l’archetipo «Wotan» è un fattore psichico in grado di produrre «effetti collettivi» manifesti o riposti, che sposandosi al kàiros, il tempo propizio, può esplodere fragorosamente o implodere occultamente, come fosse una «epilessia latente»2.
Siamo dunque oltre la mitologia, al cospetto di un mito vivente. Il mito eroico si accompagna pertanto alla concretezza del reale, non è affabulazione onirica ma precipitato di significati vivi, a contatto diretto con la storia. E a contatto pure col vissuto materiale, con la terra percepita nel suo ruolo di madre, ventre sempre fecondo da cui scaturisce la vita. Mythos e logos, secondo Walther Friedrich Otto, sono già in Omero parole univoche ed entrambe si intrecciano al terreno accadere: «Mythos è la “storia” nel senso dell’accaduto o di ciò che sta accadendo» e come tale non va tradotto ma accettato, rendendolo creativo attraverso l’agire, ad esempio «grazie alla mano» che erge la colonna e dà forma al sacro3. In questo senso, il mito germanico presenta la stessa struttura di quello greco, veicola una paideia-Bildung, impone un destino e si inscrive nella volontà d’azione. L’eroe omerico conosce la sua più elevata stilizzazione nell’eseguire con onore il codice di casta che esige il compimento dell’opera fino al sacrificio di sé. Prende vita così una concezione esistenziale fondata sul grandioso e sul tragico, per il quale vi è vittoria solo nella fedeltà al destino. «Lotta e vittoria […] rappresentano non solo il trionfo fisico sull’avversario, ma la conferma dell’areté strappata alla natura con dura disciplina»4.
Questo ergersi dell’eroe a protagonista che non subisce ma pretende il destino, in qualunque sua forma, giunge alla fine di una struttura psicologica che è quasi una cerca del suicidio, alimentandosi a un tempo di hybris semidivina e di ardente megalopsychos, aristocratico orgoglio di ascendere all’onore perpetuo. In nulla diverso è l’eroe germanico: egli lotta con le potenze infauste – esemplificate dalla corruzione apportata dall’oro, quello nibelungico, quello dei Volsunghi -, primeggia in valore, reclama la lotta, non rifugge quando occorra dall’inganno (vi ricorre lo stesso Sigurd) e tantomeno dalla rovina: Hagen uccide Sigfrido per tener fede al patto, non per malvagità, ma per compiere la volontà del destino. Forze oscure e luminose, telluriche e celesti confluiscono su eventi e personaggi tanto nell’epica greca quanto nella saga nordica. Esse costituiscono i contorni di una memoria che è ricordo dell’origine, del momento iniziale in cui l’uomo arcaico sperimentò per la prima volta gli abissi della vita e della mente. E in seguito ne fece monito (che equivale a monstrum) a saper fronteggiare l’eccesso e l’estremo limite con la volontà e il giuramento di fedeltà a se stesso. Il modello più esorbitante di tale attitudine è proprio Odino, il dio che sacrifica se stesso a se stesso, il dio dei suicidi5.
La convivenza di valori eroici e ctonii, di cui è così a fondo intriso l’archetipo botanico, non è prerogativa germanica, la si ritrova in tutto l’ambito indoeuropeo, a svolgere la trama di una Tradizione in fondo unitaria. Basti pensare all’eroe-antenato, cui si attribuiva un culto che in area ellenica abbìna la solarità del personaggio alle relative pratiche cultuali, tipicamente ìnfere, comprensive di sacrifici notturni, olocausti di nere vittime, devozione magica al tumulo da cui si diparte un’aura fausta per l’intera comunità di appartenenza.
Sappiamo che l’eroe divinizzato era l’ampliarsi su sfera religiosa di precise personalità storiche, date per realmente vissute, il cui retaggio costituiva patrimonio primario del gruppo, con tutti i suoi valori, spirituali come materiali, olimpici come tellurici. E’ sufficiente l’esempio dell’argonauta Anfiarao, uno dei Sette contro Tebe, che col suo carro solare sprofondò tra le viscere della terra e che venne divinizzato in qualità di nume divinatore. Procedimento non dissimile, nel suo significato di fondo, ha avuto nella cultura tedesca il passaggio di personaggi archetipici da reali a mitici, da concreti a teofanici: ne fa fede l’Imperatore dormiente nel santuario turingio del Kyffhäuser, luogo di culto dei valori comunitari, in cui ciò che si mitizza è tanto il Barbarossa storico quanto l’impersonale sovrano che segna una maestà senza tempo.
Una così evidente riattualizzazione dell’evento storico associato al cominciamento atavico ebbe nell’Ottocento tedesco un risveglio improvviso, associabile anche alla crisi politica in atto dal 1948. E, accanto a una schiera di storici e poligrafi minori, fu Wagner a recitare la parte dell’ispirato suscitatore di virtù primordiali, chiamate a rivelarsi di nuovo. In un suo scritto giovanile, anticipatore della tetralogia nibelungica, dedicato ai Wibelungen, Wagner operò un’identificazione tra il dio solare Sigfrido e il Barbarossa, che di quello doveva essere stato la reincarnazione e il proseguimento principiale, così come l’oro del Reno poteva essersi tramutato nel Santo Graal attraverso un principio di traslazione compiuto dall’inconscio collettivo tedesco. I Wibelungen – termine immaginoso che stava per «Ghibellini» e «Nibelunghi» allo stesso tempo – assurgono a garanti di una sacralità che trasferisce sugli Hohenstaufen – e quindi sugli Hohenzollern, quando sapranno rivelarsi i restauratori dell’antica dignità germanica – il ruolo di stirpe eletta votata al dominio, secondo la tradizione. Il biografo R.W.Gutman così tratteggia il mitologema wagneriano:
Wagner sostiene che tale tradizione si è preservata tra il Popolo anche durante i periodi di degenerazione. Grazie alla loro discendenza dal dio-eroe Siegfried, i grandi imperatori germanici gli erano subentrati nel diritto di lottare simbolicamente per l’oro nibelungico e per il suo potere di dare il dominio sul mondo. Questi eredi del tesoro dovettero compiere grandi imprese, poiché la vittoria sul drago da parte del dio-eroe andava ripetuta sempre di nuovo; la conquista, il possesso e la conservazione dell’autorità divennero un rituale per questi regali eredi di Siegfried, votati alla simbolica riconquista del pegno6.
Il mito autentico, insomma, nasconde la capacità di reincarnarsi nelle epoche. Come in Grecia, è la storia pensata nel senso del sublime, sia idillico che tragico7.
A fianco e al di sotto della potente ricreazione dell’opera wagneriana, si agitava nella Germania imperiale – come fosse una energia incubatrice di future sintesi politiche – tutta una cultura incentrata sul recupero storico del mito e del risveglio delle origini. Dalla riproposta di un nuovo germanesimo, arcaico e insieme moderno, effettuata ad esempio da un Felix Dahn, storico e narratore che scriveva saghe eroiche alla maniera degli antichi scaldi8, fino agli anni venti del secolo XX ed oltre, fu una così intensa riemersione di tematiche neogotiche e mitiche, primordiali e völkisch, che ricorrere solo a qualche spunto potrebbe non bastare per rendere la valenza di cultura popolare diffusa, penetrata a fondo nel conglomerato ereditario tedesco in epoca moderna. Ma facciamo ugualmente alcuni esempi. Un caso paradigmatico fu certamente quello di Guido von List, l’erudito esoterista che fece scuola nel suo sforzo di recuperare cimeli linguistici antico-germanici e nella sua teoria che l’arcaico wotanismo era scorso incorrotto per secoli al di sotto dello strato esteriore imposto dalla religione cristiana ufficiale; così che nella scultura, nella pittura, nella grafica, nei resti archeologici, un po’ ovunque si celerebbero i segni certi della presenza pagano-germanica. Glifi, simboli, nomi, geometrie araldiche, una volta letti alla luce di una precisa volontà di sapere, non mancherebbero di rivelare la perdurante potenza e presenza della religiosità odinica, le cui rune magiche si erano dovute ritirare nel mondo segreto della conoscenza esoterica9. Ma questo mistico ricercatore – il cui approccio antiscientifico è stato da G.L. Mosse definito «metodo storico intuitivo» - diceva di più. Così come nel corso dei tempi il vero sapere germanico era divenuto patrimonio forzato di cerchie esclusive – il «tribunale nascosto» della Santa Vehme, i Minnesänger, le varie gilde medievali – ad altri cenacoli doveva nel tempo presente riservarsi il compito storico di custodire l’avìta religione per poi, in virtù di qualche augurabile e fatale accadimento, rivelarla a tutto il popolo, finalmente riconsacrato.
Era, questa di List, l’idea dell’Armanenschaft, sodalizio sacerdotale di devoti a Wotan: idea non rara in un’epoca ricca di tendenze settarie di ispirazione teosofica, ma assai rivelatrice in quanto riproposta, sotto rinnovate spoglie, di memorie antichissime, riferite al concetto di scuola filosofica e, ancor più, a quello di associazione culturale e operativa legata alla religione degli eroi: affiliazioni di questo tipo in Grecia vigevano di norma. Sotteso a un programma simile, oltre al tentativo di sviluppare in chiave moderna il retaggio tradizionale delle fratrìe – che, nel germanesimo primevo, corrispondono ai Berserkir, i gruppi di guerrieri-ossessi a sfondo iniziatico – innestandolo in quello tipicamente tedesco dei Männerbunde, c’era anche e forse soprattutto il disegno di inserire queste tematiche culturali nel vivo tessuto dell’attualità politico-sociale, col fine di influire sui fatti, nel senso di promuovere la restaurazione di una comunità popolare tornata agli obliati valori delle origini.
Questo è il momento in cui la Kultur diventa politica e l’ideale pazientemente coltivato per intere epoche da pochi veggenti si apre all’azione, diviene di nuovo, come un tempo, storia in atto. Come è stato esattamente sottolineato a proposito del pensiero rivoluzionario-conservatore di Hofmannsthal, l’ordine antico può essere visto come utopia mitica che si realizza nella Kultur «oggettivata», cioè appunto nella Politica10.
La valorizzazione del ruolo svolto dalle società segrete virili rituali – a suo tempo studiate dal Dumézil e dagli studiosi accettate come tipiche ma non esclusive del mondo germanico – finì poi per consegnare al Nazionalsocialismo un coltissimo strumentario antropologico-culturale, sul quale non fu difficile innestare il filone ideologico più interno di quel movimento politico, recante anch’esso l’omaggio all’elezione di cerchie privilegiate, nel senso di un sistema a gerarchia aperta, destinata alla produzione delle sempre rinnovate aristocrazie di popolo: dapprima le “populiste” SA, in seguito le più esclusive SS. Ma, le une e le altre, ideologicamente in stretto contatto con la memoria delle antiche società occulte germaniche. Gli studi svolti negli anni trenta del Novecento da eruditi quali Otto Höfler e Lily Weiser sulle associazioni iniziatiche maschili, furono il risvolto ideologico e politicizzato di un’eredità ancestrale mantenuta vitale dalla cultura tedesca, incentrata sulla coppia rappresentata dall’Eroe e dalla Madre Terra, poli solo esteriormente in opposizione tra di loro, in realtà l’uno necessario e funzionale all’altro. Alfred Baeumler considerò il Männerbund una forma «inscindibile della manifestazione di vita di tipo eroico» che al tempo stesso scaturiva dalle intimità del mondo contadino11.
Quando viene evocata la saldatura rivoluzionaria fra la Germania mitica e quella reale del Reich a venire, ciò che si compie è il prodigio speciale dell’utopia tradizionalista, il raccordo, cioè, spontaneo e per nulla inibito da circostanze anche le più avverse, tra origine e momento attuale. L’eroe è un simbolo regale e potrebbe apparire a qualcuno in netta contrapposizione con immagini di dionisismo sacerdotale; eppure nell’eroe frenetico, nel Berserkir rapito da furor guerriero, i due elementi si accoppiano e l’inveterato dualismo che grava sulla Tradizione (giorno-notte, sole-luna, maschio-femmina, fermezza-deliquio ecc.) in realtà stempera l’antitesi, in nome di una necessaria complementarietà. Nell’uomo-orso, oppure nell’uomo-lupo della schiera di Odino, scatenati nell’eccitazione animalesca, noi leggiamo una facoltà psicologica che è propriamente medianica ed estatica, il che riporta alle considerazioni dedicate da Schelling alla malattia sacra di Eracle, «vale a dire l’epilessia, giacché quest’espressione è estesa a tutti i mali connessi con una perdita di sé, con la catalessi, con stati estatici. La malattia di cui soffre colui che è dato originariamente per la salvezza dell’umanità era certamente una ierà nòmos, una malattia religiosa, un morbus sacer, perché proveniva da uno stato estatico della coscienza»12. Eracle, l’eroe per eccellenza, è eminente in tutti i dominî, anche in quello ctonio, da lui conosciuto per aver lungamente combattuto con Thanatos, la morte. Eracle, eroe solare, è nondimeno archetipo misterico e magico. Eracle è un Berserkir.
La connaturata giustapposizione di motivi discendenti e ascendenti non ci pare debba riferirsi al discusso passaggio dalla condizione matriarcale a quella patriarcale: il potere rimane nelle mani dell’elemento virile, ma è il potere visibile, essoterico; l’altro potere, quello riposto della possessione e dell’incontro con l’ignoto, rimane anch’esso sovrano sulla parte, pericolosa ma ineludibile, che è rivolta all’enigma e al misterioso. I contrari si completano a vicenda e sfuggono ad antitesi intellettualizzate se portati sul terreno della vita autentica, a contatto dell’uomo, che è fatto di spirito come di materia. I contrari convivono se fecondati da un mito vero e non artefatto, da un mito che è sangue e storia e non ipotesi di lavoro o materiale di ricerca. Questo lo sapeva assai bene un ricercatore del rango di Bachofen, «l’unico studioso che identifica mito e storia, se escludiamo alcuni suoi molto cauti precursori ottocenteschi»13 e che conosceva tutte le pieghe dell’umana compiutezza, da lui una volta richiamata anche con l’esempio del duplice amore di Psiche, quello lascivo afroditico e quello gioioso consumato con Eros. Ma, precisava Bachofen, nonostante che qui si compia un passaggio dal carattere tellurico a quello uranico, «Psiche viene elevata dalla terra ctonia a quella celeste»14, senza che si verifichino particolari ascensioni nel puro trascendente. E’ viva e rimane esempio di vita.
Forse per questo Bachofen fu riscoperto proprio dai Cosmici monacansi, i «filosofi della vita». Di questi, Klages fu forse l’ingegno maggiore. Egli introiettò la convinzione bachofeniana che il culto arcaico dei morti, giunto a noi nelle sovrabbondanti simbologie funerarie dei sarcofagi, delle lapidi, dei sepolcreti, lungi dall’essere la manifestazione di una paura psicotica della morte, era al contrario celebrazione dello svolgersi della vita al di là della temporalità materiale, era un canto al superamento di ogni barriera e alla possibilità umana di esperire una dimensione di eternità. Klages affermò che la trascuratezza per le anime dei trapassati, invalsa nella Modernità quale sincope della Tradizione e rinnegamento del legame psichico che crea la catena degli avi e degli eredi, era la causa prima della caduta dell’uomo privo di centro nel perenne stato di angoscia, afflitto da quel senso di vuoto esistenziale che pervade chiunque non sappia vivere una dimensione ulteriore rispetto a quella logico-positiva dell’effimero.
I morti allora diventano vampiri:
Le anime dei morti che l’egoistica freddezza dei vivi ormai non nutre più divengono vampiri assetati di
sangue, ed è vano cercare di placarle con ecatombi di animali e di uomini. Nervo cardiaco del presente
di tutti coloro che sono caduti nella pazzia della fede nel futuro è l’angoscia: angoscia di fronte alla
morte, angoscia di fronte al domani, angoscia in generale, e angoscia per il prossimo minuto, angoscia
per il delittuoso lasciarsi sfuggire la vita15.
Il culto dei morti, altrimenti esprimibile come rispetto per la Tradizione, fedeltà al passato che garantisce il futuro, è dunque in realtà un culto della vita, è un culto eroico, è anzi il culto eroico per antonomasia, se solo si pensa a quel particolare rituale arcaico che era l’incubazione, in cui le spoglie dell’eroe venivano deposte a diretto contatto con la madre terra, con le potenze racchiuse nelle sue viscere, celebrando così un matrimonio mistico fra il cielo e la terra, le cui energie riunite erano viatico sacrale e augurale.
Alle spalle di tutto ciò vigeva il senso dell’Essere che domina sul Divenire, il Sein che sovrasta il Werden, da cui scaturisce quel sentimento di Ehrfurcht, la deferenza per i valori tradizionali della stirpe, di cui ad esempio ha parlato G.Cambiano a proposito del patrimonio collettivo dorico considerato da K.O. Müller un vertice insuperabile delle potenzialità culturali e politiche umane16. Un patrimonio che tutti gli ingegni anti-moderni, tedeschi e non, considerarono che ormai poteva dirsi appartenente al passato, a causa dello sfrenamento vorticoso dell’ultima arma in mano al nichilismo logico-razionale, cioè la tecnica, o meglio il tecnicismo: inerte materia non guidata da alcun valore d’ordine superiore. Una macchina che Klages giudicò costruita dalla voracità di ciò che egli chiamava Geist, lo Spirito, la ragione calcolante, brutale annientatore dell’Anima che invece, per millenni, aveva fatto pulsare l’Eroe all’unisono con la Magna Mater. Un nemico vittorioso, le cui insidie maggiori egli diceva provenire proprio dalla sua abilità nel farsi riflessivo e “ragionevole” e quindi credibile. Ciò che Heidegger, col medesimo significato, definiva come «ragione nemica del pensiero»17.
Il «cosmo divenuto uomo» nel senso di Klages – e di Stefan George, e di tutti i portatori del pensiero mitico, Nietzsche compreso – volge all’ascendenza e alla coincidenza tra umano e sovrumano, così da riannodare i dispersi legami di un sentimento daimonico della vita, alla cui frantumazione lavorò fra i primi il Cristianesimo, questa «religione nemica della vita». Pagano per noi non significa una parte di storia, ma la fede nella «realtà extrapersonale dell’attimo fiammeggiante», scrisse Klages18. Il concetto di «realtà extrapersonale» è in stretta relazione con quello di Mutter Erde, è la terra avvolgente bacino di potenze arcane acquisibili in stati di particolare ricettività psichica. Ma non si tratta di qualcosa di assolutamente impersonale, se lo stesso Klages ebbe a scrivere: «Dobbiamo quindi distinguere con precisione il contenuto dell’ebbrezza e le condizioni del suo presentarsi. Anche se queste possono essere nell’unione di una folla, sia per una festa, sia per gli usi di un culto, l’ebbrezza può nondimeno appartenere alla specie di quelle proprie del singolo», così da ingenerare quell’intenso moto dell’anima che è l’Eros che si compie19.
Il momento estatico della trance pulsionale è una vittoria dell’Io che si compie col concorso del Cosmo: antica certezza, questa, presente in terra tedesca già nel valore interiore dell’esperienza mistica quale atto conoscitivo personale, secondo il pensiero “ereticale” di Meister Eckhart: «Perché chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che esso ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti, nessuno può conoscere Dio se non conosce prima se stesso»20. La fede non solo come atto misterico, ma come atto eroico. E’ stato detto che Paul Natorp – il filosofo che seppe cogliere meglio di altri il rapporto moderno tra l’individuo e la funzione sociale – scorse in Meister Eckhart «il fondamento della individualità che, basata sulla interiorità, non nega la comunità, ma, anzi, dando luogo alla vera “università”, rende possibile un più profondo rapporto con chi ci circonda»21.
L’eroismo della fede si confonde con quello della comunità, l’uno, che «è il cielo, il creativo», si sposa col due, che «è la terra, il femminile e il ricettivo»22, testimoniando in questo modo con quale profondità la cultura tedesca tradizionale seppe assumere in sé il duplice mito degli eccessi, dall’ordine aristocratico-regale a quello magico-orgiastico, dalla devozione alla luce a quella per l’occulto. Questi temi, radicalizzati e portati alle estreme conseguenze negli anni delle ideologie rivoluzionarie, li ritroviamo integrati e inseriti nel mito politico comunitario del Nazionalsocialismo, dalla cui ideologia più interna fu compiuta l’ardita saldatura tra la modernità faustiana e i primordiali mitologemi, tanto gli eroici quanto i tellurici.
Se pensiamo infatti al doppio binario su cui corse quella ideologia – eroico e, ad un tempo, materno – noi vediamo che il cerchio si chiude dalle origini al moderno, costituendo un percorso parabolico. Nell’ideologia nazionalsocialista, lo scatenamento prometeico dell’Eroe, oggettivato nell’Io collettivo della razza come nella figura del Führer visto quale provvidenziale salvatore, si salda in modo pieno e complementare con l’affidarsi alla matrice misteriosa del Blut e del Boden, in qualità di scrigni di tutte le virtù più segrete e preziose del Volk.
Meister Eckhart piacque ad Alfred Rosenberg, che ne parlò estesamente ne Il mito del XX secolo; gli piacquero la sua coscienza aristocratica, il suo orgoglio eroico, quasi superomistico, la sua concezione della morte come semplice episodio della vita:
Da questa massima consapevolezza filosofica risulta per uno spirito libero come Eckhart anche la
necessaria conseguenza antiecclesiastica, che la morte non è il soldo del peccato, come ci vogliono
dare ad intendere gli scribi prendenti le mosse da una dimostrazione di tremebonda paura, bensì un
evento naturale e in fondo poco importante che non tocca ciò che vi è in noi di eterno, che era
prima e dopo continuerà ad essere. Con magnifico gesto Eckhart grida al mondo: «Io sono la causa prima di
me stesso»23.
Ma anche altrove, noi riconosciamo simili attitudini. In Hölderlin, ad esempio. Sua è la celebrazione di un tempo primevo segnato dalla pànica assonanza di valori umani e divini, sullo sfondo di una natura che farà da scenario alla rappresentazione del mito tragico24; sua è anche la volontà di dotare l’anima di una sempre crescente scorta di potere, fino a padroneggiare la coscienza al di là del bene e del male: «E’ una grande risorsa dell’anima che lavora in segreto il fatto che essa, giunta al più alto grado di coscienza, eviti la coscienza e, prima ancora che il dio presente effettivamente la afferri, lo fronteggi con un linguaggio temerario, spesso addirittura blasfemo e conservi così la sacra vivente possibilità dello spirito»25.
Sono parole chiare e gravi, da poeta che conosce il linguaggio degli dèi e lo rivolge al suo popolo. Hölderlin definiva le saghe «la voce del popolo», l’attimo creativo in cui «un popolo è memore della sua appartenenza all’ente nel suo insieme» - secondo quanto scrisse Heidegger – guidato sulla via della memoria e del destino dalla figura pontificale del poeta26. Se per Hölderlin origine, natura e sacro coincidono, dobbiamo però sottolineare che non si tratta per lui di disegnare un quadretto di maniera: l’Ellade cui il poeta pensò come all’originario alveo dell’Essere, e di cui la Germania era lo specchio, è un luogo di passioni veritiere, il tragico non è cupa ossessione di rovina ma il risvolto problematico della chiarità mediterranea, sulla quale indugiarono un po’ i rètori e gli esteti alla Winckelmann, innamorati come neoclassicisti di una Grecia a volte da stampa d’epoca, trascurando la vera Grecia, che fu sì apollinea, ma anche dionisiaca.
Hölderlin è un parametro essenziale per distinguere il filo rosso che unisce l’ancestrale wotanismo ai miti ideologizzati del Novecento. Le sue esclamazioni titanistiche - «ho vissuto una volta come gli dèi: e di più non occorre», scrisse nella poesia Alle parche – sono la voce di un poeta fattosi eroe della parola e traduttore dell’indicibile nella lingua del popolo. La natura sacra, prima e dopo Hölderlin, rappresenta a un tempo il barbaro e il virginale, la sfrenatezza e la purezza, e alla natura insieme solare e lunare si rivolgono spesso tanto gli spiriti mistici, quanto i raziocinanti.
Non erano state soltanto individualità particolari come Paracelso o come Jakob Böhme a proclamare che «l’uomo come anima è analogo alla natura»; anche in Goethe il mito dell’identificazione primaria uomo-natura è fondamentale, e stabilito in una eguale capacità di creare27, cosicché soggetto biologico e soggetto ontologico sono indistinguibili nella loro perenne integrazione. A questo si aggiunga che la stilizzazione di forme culturali eroicizzanti, quali Prometeo, Egmont e Goetz von Berlichingen, operata da Goethe, completa il quadro del discorso nel senso da noi proposto, unificando l’universo naturistico della Madre con quello volontaristico dell’Eroe28. E c’è chi ha visto in Goethe, e anche in Beethoven, al di là del loro sbrigliato titanismo, due cultori della fedeltà al patto fatale che lega l’uomo al suo destino29. La cultura tedesca è attraversata in lungo e in largo dal sentimento panteistico della natura, ciò che sotto forma di Sehnsucht lascia scaturire un eterno anelito di smarrimento e insieme di compenetrazione col Tutto cosmico: sensibilità pagana, frutto di quella «introversione obiettiva» che Hermann Keyserling disse connaturata all’indole nordica.
Dal momento che il trauma moderno è consistito nel distacco dalla natura, che ha prodotto la scissione morale generatrice di angoscia diffusa30, ciò che è accaduto nel frattempo è stato l’abbandono dei referenti magici in ossequio al contro-mito sradicante divulgato dalla civilizzazione. Mago Merlino – uno dei simboli, tra l’altro caro a F.Schlegel, della fusione simbiotica col ciclo mutevole ma eterno della natura – è stato per così dire abbandonato nella foresta sacra, il tempio vivente dei Germani. Il contatto primordiale si è interrotto nella coscienza e nella mente. E’ ciò che intese rilevare Wagner nel tratteggiare la figura di Erda, la tenebrosa Grande Madre Terra dalle nere chiome che compare nell’Anello dei Nibelunghi. E’ il grembo che chiama, è l’origine. Finché non diventò la voce del sangue, una voce cui non è dato sottrarsi senza rinunciare alla personalità e all’identità.
La discendenza della religione della Madre dallo spirito della terra – anche intesa, questa, in senso geologico – è troppo nota perché vi si indugi. Ciò che importa accennare è che il mito arcaico ebbe un rapporto fisiologico e viscerale con gli accadimenti tellurici dell’epoca preistorica e ne riportò impressa la memoria, leggibile nei reperti terminologici e mitografici giunti fino a noi. Il contatto col grandioso prodursi di enormi fenomeni sismici fu con tutta probabilità all’origine del mito dei Giganti, che in area tedesca spesso troviamo in competizione con Wotan, e i cui nomi tradiscono la provenienza da un’immaginazione fortemente traumatizzata: Ymir è il tonante, Logi cela un ètimo che significa fiamma, Beli è il boante, ecc. Giganti, Titani, Centomani, Ciclopi, sono i protagonisti di una teogonia cui lo stesso Esiodo prestò i contorni di evento caotico fondatore dell’ordine31. In base a un sincretismo simbolico assai esplicito, Helios, dio del sole, è generato dal Titano Iperione e dalla Titanessa Tea, identificata con la Luna, il che ne fa un frutto delle nozze tra la terra e il cielo, ma invertiti di ruolo rispetto alla tipologia maschio-femmina abituale: qui la Luna è celeste e il Titano è tellurico, sindrome traspositiva che ritroviamo nel genere femminile del vocabolo tedesco Sonne, che torna maschile solo nel suo aspetto funzionale, der Sonnengott. Questi intrecci semantici ci interessano per sottolineare in che modo l’antica polarità degli opposti non costituisse affatto un dualismo irrisolvibile, nonostante la loro conflittualità che, come sempre, anche qui, è parte integrante dell’ordine. Non c’era una virilità buona e positiva che inibisce e osteggia una femminilità perversa e negativa – secondo un refrain tardo-antico su cui hanno insistito a lungo vari studiosi, come ad esempio Neumann o Evola – ma al contrario c’era il fruttuoso interagire, paritetico in dignità religiosa e simbolica, di due elementi, lo spirituale e il corporeo, egualmente necessari per dare completezza alla visione delle cose del mondo.
La loro è una lotta tra eguali, né questa lotta ha esiti che stabiliscano priorità morali. Ha scritto K.Kerény che «la battaglia tra natura e spirito ha avuto inizio e continuerà a essere combattuta finché esisterà l’uomo europeo, erede dello spirito greco»32. Gli studi di Franz Altheim, tra gli altri, hanno dimostrato la decisiva importanza della presenza del siriaco Sol Invictus (per altro di provenienza caldaico-iranica) nel tardo pantheon romano, accolto come identificazione del prisco e autoctono Sol Indiges e portatore di una solarità multiforme, dove il lato femminile e quello virile giungevano a tale compenetrazione da farsi talora indistinguibili. Ad esempio, Altheim riporta il caso delle pratiche di guerra in uso presso la dinastia mediorientale di Emesa, devota ai culti solari, durante le quali le donne – come accadeva in talune tribù germaniche - con le loro grida erano solite spronare i guerrieri sul campo di battaglia, così da far loro raggiungere lo stato di «entusiasmo estatico» necessario a conseguire la vittoria33. Il germanesimo non ebbe bisogno di attendere influssi orientali per far salire al livello del conscio il dato acquisito che la divinità eroica era in simmetria e non in opposizione con quella materna. Questa ne era anzi il presupposto, in qualità di ventre fecondo e, al tempo stesso, ne era la destinazione: la tomba. La Mutter Erde germanica, l’Alma Dei Mater dei Latini, la nostra sopravvissuta Madre Natura, anche quando messa in ombra dall’invasivo e più tardo Padre Onnipotente di matrice biblica, è sempre stata una presenza costante, se pure riposta e, alla fine, circonfusa di una greve aura di “peccato”. Ma non si tratta tanto della primitiva Grande Madre pre-indoeuropea, la genitrice animalesca, sanguinaria, protagonista delle ère paleolitiche presso quei sostrati umani ancora oscurati dall’incultura. La Madre tradizionale è invece quella figura femminile che entra nei pantheon delle civiltà greca, latina, germanica con i tratti ingentiliti ma naturali dell’istinto atavico, del ricordo memoriale della stirpe, del prezioso forziere genetico in cui viene preservata la fecondità del ceppo. Albrecht Dieterich, lo storico delle religioni che ebbe non poco influsso sull’antropologia culturale tedesca del Novecento, scrisse:
Sarebbe strano che l’antica fede in una divina Madre Terra, che dall’antichità aveva sempre agitato l’intimo dell’umanità, venisse distrutta completamente nel momento in cui la religione vittoriosa instaurava la preghiera al Padre Nostro. Ma non è stato così: il più profondo credo religioso nella Madre Terra, sulle orme di Demetra e di Iside, non è affatto morto. Esso continua a vivere, a vibrare e a tessere nel profondo, per assicurarsi di nuovo vita e forma34.
L’esatta coscienza che l’Eroe non è veramente tale se non posto alla prova con la sua origine prima, che colloca la genesi di tutto nella femmina e nel complesso di enigmi che essa sottende in maniera irrisolvibile, la sensazione cioè che non vi è compiutezza se non nel confronto con l’ignoto interiore, ha nel tempo generato incantamenti di poeti, misteriosofie, estasi malinconiche di ogni sorta dinanzi all’insondabile: nulla di tutto ciò ha però tolto energia al decisionismo prometeico che il genio – sia individuale che collettivo - percepisce ora come anelito all’essere e al sapere, ora come più quieto adattamento all’ordine delle cose, ora invece come scatenamento di energie conquistatrici. L’alta cultura come la cultura popolare tedesche vivono sia la volontà titanica che il segreto della femmina, che si esprime anche come operosità, armonia col creato. La vicinanza col «dio oscuro», col «dio ignoto» - sensazione già greca - è in Hölderlin, in Nietzsche35, come in Gottfried Benn, ma la ritroviamo anche nella devozione irriflessa del contadino, attento alle stagioni, ai cicli, agli influssi astrali, e come tale cultore naturale di divinità locali, prossime, domestiche, legate alla terra su cui vive e da cui trae alimento.
Col confluire di tutti questi apporti dapprima nel pensiero rivoluzionario-conservatore e quindi nell’ideologia nazionalsocialista, avviene un fenomeno di sintesi che potremmo definire come la versione politica di un procedimento alchemico. Il fine dell’alchimista è quello di liberare la materia per liberare lo spirito. Jung parlò di «ripetizione dell’abbraccio cosmico di nous e physis», l’evento che permette di assicurare all’eroe, di cui esiste il mito alchemico, la forza d’animo che occorre per affrontare il viaggio nel «fuoco occulto» infero e di lì tornare col pegno, che è la vittoria sulla morte. Il fine più interno del Nazionalsocialismo, il suo fine metapolitico, fu per l’appunto di provocare la nascita di un nuovo mito, risorto dalla coniunctio oppositorum fra la volontà eroica e aristocratica dell’Io, espressa col simbolo della ruota solare sovrana, e il mondo primordiale del Noi comunitario, la fertilità biologica, la razza, di cui era simbolica rappresentazione la triplice runa della memoria, in uso presso le SS. E su tutto si agitava, anche qui, il mito dell’immortalità, del dominio sulla morte. Nella gloria eterna dell’Eroe, e nel suo ingresso nel pantheon memoriale del popolo, si ha un classico tipo di vittoria sulla morte e sulla caducità della vita. E, ugualmente, nella ciclica eternità della stirpe legata alla terra e alla figura generatrice della Madre, si ha il trionfo sull’effimero e la morte stessa torna ad essere nulla più che un episodio della vita. Nella mistica nazionalsocialista del sangue, dunque, noi vediamo ricongiungersi la coppia composta da Held e Mutter, in qualità di cardini del patrimonio immaginale comunitario. L’interpretazione del nuovo mito come «valenza libera» posta a basamento di una religiosità risorta dagli albori, è il risvolto ideologico della «funzionalità sociale dei valori di legame – di una “fratellanza” colorata anche misticamente»36. L’eroe non è mai solo, non lo è mai stato. L’eroe è popolo, appartiene a una stirpe, ha una Heimat; prima o poi, come Odisseo, come Odino il viandante, torna a casa.
Vivere la linea femminile-materna nel senso della terra nativa, del paesaggio che plasma il carattere e del focolare che è il nido del ceppo familiare e quindi la cellula della stirpe, vuol dire riconsacrare la terra, riscattare il mito tellurico dal gravame demonico impostogli dalle falsificanti trascendenze sopravvenute nella storia, considerarlo parte della vita che è in noi e, anche quando dà spazio al misterico, farne in ogni caso un motivo di riaffermata saldezza interiore, che tanto più solidifica l’Io, quanto più questo viene esposto al pericolo dell’illimite. Questo certo non significa abbandonarsi ai deliqui disintegratori dell’intimo centro immobile necessario a ogni matura rappresentazione coscienziale. L’oscuro, il male, il brutto sono altrove, sono nelle energie negative – che possono essere tanto spirituali quanto materiali – che aggrediscono la personalità, sia quella individuale che quella collettiva, privandola del dono di un’identità certa e relegandola nel dis-ordine innaturale. Questi argomenti erano presenti nella cultura e nella pubblicistica nazionalsocialiste. Possiamo menzionare un caso particolare, ma non isolato: quello del filosofo Ernst Bergmann. Titolare della cattedra di filosofia a Lipsia fin dal 1916, la mantenne anche durante il Terzo Reich, di cui divenne uno degli intellettuali più noti. Egli poté sviluppare addirittura una teoria sul primato del sesso femminile, che solo la lotta per la vita avrebbe ridotto ad un rango di subalternità sociale. Sebbene osteggiato da altri studiosi, in Germania e fuori – e tra di loro vi furono Rosenberg e Evola – Bergmann affermava che nel campo dei valori ultimi la donna conserverebbe un ruolo di preminenza fin dai tempi più lontani («il dio della bestia umana è, parlando concretamente, la donna»), assicurandosi una maestà spirituale anche nell’ambito della religione ufficiale del medioevo germanico, «dove la divinità gotica era una madre, personificante il vivo grembo materno del mondo nella figura dell’Alma Dei mater»37.
Il mito della potenza della razza aria non era dunque il bozzetto superomistico della propaganda storiografica post-bellica, ma qualcosa di più complesso che, svincolando l’ideologia dalla retorica, ogni volta comprendeva il fatto che un inno alla sanità della vita – quale, nietzscheanamente, intendeva essere il Nazionalsocialismo – è per forza un inno a tutta quanta la vita, in tutti suoi aspetti, dai luminosi agli oscuri, dai gioiosi ai tragici, dagli eroici ai materni. E proprio lo stato di grazia, l’illuminante percezione intuitiva del divino, era dal Bergmann ricondotto alla tensione verso il divino, la «volontà di indïamento», che opera la trasfigurazione: «L’uomo è veramente e veracemente Dio. Rendi questo divino in te ardente, deifica te stesso…»38. Il femminino, nell’universo immaginale prevalso in Occidente a seguito delle degradazioni prima confessionali e poi borghesi, è sceso al rango di mero strumento di seduzione, quando non di sabba stregonesco, e ciò è avvenuto a partire da talune violente forzature psicologiche attuate nella lotta per il potere in cui si è cimentata per secoli soprattutto la religione cristiana. Ma si è trattato di una trasposizione demonizzante puramente strumentale. In realtà, il regno del magico legato alla terra è sempre stato un appannaggio delle caste superiori, regali o sacerdotali, e nelle epoche pagane ha sempre avuto dignità sacrale.
I segnacoli di sopravvivenza che riemersero nella cultura esoterica e anche in quella esprimente il culto del suolo, che il Nazionalsocialismo veicolò, non furono altro che il tentativo politico di ripensare l’origine, compiendo un atto di riqualificazione tradizionale in epoca moderna: «Ricominciamo a sognare i nostri sogni originari», sono parole di Rosenberg. Come è stato correttamente osservato, «il problema tedesco è fondamentalmente un problema di identità», il che conduce la volontà di natura verso la «volontà di differenziazione, di distinzione, di individuazione»; vita dello spirito e vita della materia si equilibrano, poiché «il rapporto “mistico” col mito è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza vissuta»39.
La presenza di un nucleo magico-misterico – diretta filiazione del rinnovato rispetto per i valori legati alla terra – all’interno di un’ideologia della potenza e dell’eroismo non è affatto una novità storica, poiché la ritroviamo in molte civiltà tradizionali del passato. La «sublime chiarezza» del mondo omerico era, secondo Rilke, un paesaggio confacente alla «bufera dionisiaca»: ecco qui riuniti i due valori fondanti della nostra civiltà indoeuropea, l’apollineo e il dionisiaco, una volta di più accomunati in armonia di proporzioni esistenziali coincidenti. Il “sublime” e la “bufera” sono i due aspetti di un unico essere primordiale connaturato al mondo dorico, che impresse sulla civiltà d’Europa un sigillo plurimillenario. Rilke vide la lotta protostorica come un annuncio di quell’ordine in cui la luce e l’ombra avrebbero convissuto al medesimo ritmo: «Dopo il crepuscolo di lotta con cui ebbe fine la notte titanica, bellicosa, giunse il mattino di Omero, che diede alle cose confini divini. E il suo sole recò in fronte alle cose sublime chiarezza. Ma tutto questo ordinamento parve creato soltanto come un bel paesaggio per la venuta della bufera dionisiaca»40.
In base a svariate testimonianze, noi veniamo a sapere che Hitler considerava il Nazionalsocialismo qualcosa di più di una religione, la «volontà di creare il Superuomo» e sappiamo che egli mise in campo allo scopo la vasta organizzazione degli Ordensburgen, in cui si forgiavano gli uomini nuovi padroni della dottrina segreta del Movimento, al fine di creare un Ordine scelto, in linea con la tradizione delle società iniziatiche germaniche sopra ricordate. Secondo Hermann Rauschning – una fonte controversa, ma su questo punto convergente con molte altre – l’indirizzo educativo voluto da Hitler andava nel senso di attivare nell’Io delle giovani generazioni una disciplina dell’ascesi: «La sola scienza che io esigerò da quei giovani – affermava Hitler – sarà il dominio di se stessi. Essi impareranno a domare la paura. Ecco il primo grado del mio ordine, il grado della gioventù eroica. Di qui sorgerà il secondo grado, quello dell’uomo libero, dell’uomo che è la misura e il centro del mondo, dell’uomo creatore, dell’Uomo-Dio»41. Ma, nonostante questo spirito eroicizzante al massimo grado, Hitler era una sorta di mago, lui stesso segnato con lo stigma del morbus sacer, avendo per di più sempre avuto al suo fianco cerchie di esoteristi, o isolati ricercatori più o meno bizzarri che si occupavano di scienze occulte. Nella figura di Hitler sono dunque presenti tanto l’accezione eroica del Capo predestinato quanto quella sciamanica del posseduto da energie telluriche di tipo magico, esprimentesi attraverso la via intuitiva e istintuale, che così spesso governava le decisioni politiche del Führer.
Ma il demiurgo faustiano che esplora l’ignoto non rimane da solo, divulga al popolo certi gradi del sapere: nacquero così le liturgie di massa, il cerimoniale di una nuova sacralizzazione civile, il teatro cultuale e le sacre rappresentazioni religioso-popolari. Il drammaturgo Hanns Johst, ad esempio, uno dei maggiori intellettuali del regime, parlava del dramma come di cosa estranea all’interpretazione borghese, essendo esso piuttosto «il luogo cultuale del sentimento eroico»42, qualcosa da diffondere come espressione dei due poli opposti ma interagenti del Führer, cui si innalza il culto mistico dovuto all’Eroe43, e della Terra che dona la vita alla «nuova nobiltà di sangue e suolo»44. Poiché, così si pensava, vivere sulla terra e per la terra era metafora di innalzamento, di redenzione-rinascita (Erlösung era una delle parole-chiave del lessico nazionalsocialista) e ciò non nascondeva alcun attentato all’integrità personale dell’uomo, ma anzi ne presupponeva il potenziamento. In una poesia di Joseph Weinheber, poeta völkisch divenuto nazionalsocialista e suicidatosi nel 1945, così si esprimeva questa virtù redentoria della terra: «La terra che un giorno ci partorì / di nuovo ci accolse per purificarsi / E come ci inginocchiamo, al tuo servizio / la sua polvere ci donerà ali per divenire uomini»45.
L’avvento del Nazionalsocialismo come religione civile di massa provocò l’assunzione di soggetti arcaici, quali appunto l’Eroe e la Terra, all’interno del patrimonio valoriale del popolo, infrangendo il diaframma che ancora agli inizi del Novecento esisteva tra sodalizi esoterici e formazioni politiche della comunità allargata. Si venne a formare la ricreazione di una mitopoietica tradizionale al cui centro era posta, in un protagonismo assoluto, l’individualità collettiva del popolo. La letteratura del periodo nazionalsocialista – ma, già in precedenza, nel periodo del primo dopoguerra - è illuminante in proposito. Essa ci mostra che gli archetipi dell’Eroe e della Terra vennero assunti a pari titolo sul vertice della piramide ideologica, sotto le forme del romanzo di guerra e del romanzo contadino. Questi furono i generi di gran lunga più diffusi nella narrativa dell’epoca, ebbero vastissima popolarità, con tirature massicce: e in essi riappare una volta di più, in versione socializzata, modernamente tradizionale, il duplice tema di cui ci stiamo occupando, sotto forma del valoroso combattente e del suolo patrio. Spesso, poi, questi due referenti venivano unificati nel soggetto del soldato-guerriero che torna a casa e vi ritrova l’ordine immutabile di sempre, nel quale si reimmerge come in un caldo nido accogliente. Ma anche quest’ultimo topos, il romanzo del ritorno, era ben conosciuto dalla cultura tedesca precedente. Basta pensare alla poesia Arrivo a casa di Hölderlin, che Heidegger lesse come un mitico incontro col destino della patria46.
La capacità ideologica del Nazionalsocialismo di risalire al mito facendone il retroterra di un titanismo tecnologico è stata variamente interpretata47 e la presente rievocazione non è il luogo per ripercorrere un itinerario composito, non ancora scandagliato con la profondità e la competenza scientifica che meriterebbe. Ciò che vogliamo segnalare è il fenomeno di una reale continuità mitica, corrente dalla Tradizione primigenia fino all’ideologia di un moderno movimento di massa, alla fine sfociata nella simbologia insieme mobilitatoria e quietistica dell’Übermensch e del Blut und Boden. Si è trattato dunque di un organico sistema di «identificazione simbolica» che ha eretto con il Nazionalsocialismo «la forma più compiuta di esibizione dei caratteri fondamentali di questo processo di identificazione»48.
L’idea di fondo, dopotutto, era quella di fronteggiare lo straniamento e l’oblio, la perdita di identità provocata dalla civilizzazione illuminista, con un atto di volontà traboccante che sapesse ricondurre alla sorgente dei valori. Scrisse Nietzsche che col mito tragico «è lecito sperare tutto e dimenticare il dolore più angoscioso», provocato dalla diffusione in Germania di un pensiero estraneo e incongruente: «Ma per tutti noi il dolore più angoscioso è la lunga abiezione in cui il genio tedesco, straniato dal focolare e dalla patria, visse in servitù dei nani maligni»49. Alla luce di queste parole di Nietzsche, possiamo dunque interpretare il disegno nazionalsocialista di riguadagnare gli arcaismi simbolici e sacrali delle epoche tradizionali, appunto come il tentativo di imporre nell’epoca moderna la rivoluzionaria volontà politica di porre fine all’abiezione.
Luca Leonello Rimbotti
1 Cfr. V. Löwenthal, Mitologia tedesca, Paravia, Torino 1926, pag. 55.
2 C.G. Jung, Wotan (1936), in Opere, X, t.I, Bollati Boringhieri, Torino 1985, pagg. 286-287.
3 Cfr. W.F. Otto, Il mito e la parola (1952), in Il mito, il melangolo, Genova 1993, pagg. 31, 32, 40.
4 W. Jaeger, Paideia (1933), La Nuova Italia, Firenze 1991, I, pag. 36.
5 Si veda in proposito la strofa di Hàvamal in cui Odino acquisisce la sapienza runica attraverso il sacrificio di sé a sé: «Per nove notti al vento, mi sovviene / Stetti appeso ad un albero, trafitto / Di lancia, offerto a me medesimo, Odino». J.G. Frazer ne fece un parallelo col dio frigio Attis, sacerdote di Cibale ed orgiastica effige della natura, della morte e della rinascita, anch’esso dio suicida. Cfr. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1890), Bollati Boringhieri, Torino 1973, I, pagg. 555-557.
6 R.W. Gutman, Wagner (1968), Longanesi, Milano 1983, pag. 593. Si veda anche M. Gregor-Dellin, Wagner (1980), Rizzoli, Milano 1983, pagg. 210-211, in cui l’autore commenta il lavoro wagneriano giudicandolo «una mescolanza di mito e di storia». Altrove è stato scritto: «In Barbarossa Wagner vede l’ultimo grande wibelungo, che tentò di riunificate l’aspetto religioso della sovranità indoeuropea e di restituire così al mito germanico tutto il suo significato»: G. Locchi, Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis-LEDE, Roma 1982, pagg. 92 e segg.
7 Sul mito come evento storico e non immaginoso cfr. ad es. V. Benetti Brunelli, L’educazione nella Grecia eroica, Sansoni, Firenze 1939, pag. 64, e F. Graf, Il mito in Grecia, Laterza, Bari 1987, pagg. 92 e segg.
8 Cfr. F. Dahn, Sind Götter? Die Halfred Sigskaldsaga. Eine nordische Erzählung aus dem zehnten Jahrhundert, Druck und Verlag von Breitkopf und Härtel, Leipzig 1878, ad esempio pagg. 20-21.
9 Cfr. G. (von) List, Die Bilderschrift der Ario-Germanen. Ario-Germanische Hieroglyphik, Guido von List-Gesellschaft, Berlin 1910, ad esempio pagg. 26-27, dove si parla della triplice funzione di Wuotan, dio della Forza, della Volontà e del Sapere, ciò che ne fa l’Allvater, l’Assoluto. Dello stesso List si veda Il segreto delle rune (1910), Barbarossa, Milano 1994, ad esempio pag. 53: «In conseguenza del fatto che furono perseguitati e disprezzati, gli scaldi si riunirono segretamente e raccolsero la fede e la legge germanica in un ordine segreto».
10 Cfr. M. Cacciari, Intransitabili utopie, saggio in calce a H. von Hofmannsthal, La torre (1927), Adelphi, Milano 1987, pagg. 174-175.
11 Cit. da G. Moretti-R. Ronchi, L’ermeneutica del mito negli anni trenta. Un dialogo, in “Nuovi Argomenti”, 21, 1987, pag. 82. Cfr. inoltre C. Ginzburg, Mitologia germanica e nazismo (1984), in Id., Miti, emblemi, spie, Laterza, Torino 1986, pagg. 210 e segg.. Sui Berserkir cfr. G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero (1969), Rosenberg & Sellier, Torino 1974, pagg. 139 e segg., e inoltre M. Polia, «Furor», guerra e profezia, Il Cerchio, Padova 1983, pagg. 17 e seguenti.
12 F.W.J. Schelling, Filosofia della mitologia (1842-46), Mursia, Milano 1990, pag. 157.
13 U. Wesel, Il mito del matriarcato (1980), Il Saggiatore, Milano 1985, pag. 75.
14 J.J. Bachofen, Il simbolismo funerario degli antichi (1861), Guida, Napoli 1989, pag. 212.
15 L. Klages, Dell’Eros cosmogonico (1922), Multhipla, Milano 1978, pagg. 141-142.
16 Cfr. G. Cambiano, L’Atene dorica di Karl Ottfried Müller, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, XIV, 3, 1984, pagg. 1048-50.
17 In proposito cfr. G. Moretti, Hestia. Interpretazione del Romanticismo tedesco, Ianua, Roma 1988, pagg. 227-231.
18 Cit. da G. Moretti, Ludwig Klages fra paganesimo e cristianesimo, in Aa.Vv., Mitologie della ragione. Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno, Studio Tesi, Pordenone 1989, pag. 322.
19 L. Klages, Dell’Eros cosmogonico, op.cit., pag. 65.
20 Cit. da M. Vannini, Meister Eckhart e il “fondo dell’anima”, Città Nuova, Roma 1991, pag. 70.
21 M. Vannini, introduzione a Meister Eckhart, Opere tedesche, La Nuova Italia, Firenze 1982, pag. XLIX.
22 M.L. von Franz, Psiche e materia (1988), Bollati Boringhieri, Torino 1992, pag. 207. L’allieva di Jung ne parla a proposito della sapienza orientale contenuta ne I Ching, che si dilungano sul dualismo tra il cielo, padre freddo e metallico, e la nera terra, associata alla caldaia, alla simmetria, alla quantità, al ceppo familiare.
23 A. Rosenberg, Il mito del XX secolo. Una lotta per i valori (1930), Il Basilisco-Alkaest, Genova1981, pag. 160.
24 Cfr. F. Hölderlin, Iperione (1797-99), Feltrinelli, Milano 1987, pag. 132: «L’uomo non può negare di essere stato, un giorno, felice come i cervi della foresta e, dopo innumerevoli anni, arde ancora in noi, sia pure come sotto la cenere, una nostalgia per i giorni dell’età prima del mondo, quando ognuno percorreva la terra come un dio, prima che non so che cosa addomesticasse l’uomo».
25 F. Hölderlin, Sul tragico (1804), Feltrinelli, Milano 1989, pag. 104.
26 M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia (1936), in Id., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, pagg.55-57.
27 «Da tale identità di origine scaturisce il perfetto parallelismo che Goethe pone fra la vita della natura e la vita dell’io. La vita della natura consiste nel creare; la vita dell’io consiste nel creare»: M. Pensa, Il pensiero tedesco. Saggio di psicologia della filosofia tedesca, Zanichelli, Bologna 1938, pag. 225.
28 Cfr. L. Magnani, Goethe, Beethoven e il demonico, Einaudi, Torino 1976, pag. 9: «E’ il tempo in cui nasce la parola Übermensch, nell’accezione che essa avrà in Nietzsche e di cui Beethoven si fa precursore quando afferma: “Kraft ist die Moral der Menschen, die sich von anderen auszeichnen, und ist auch die meinige” (“La forza è la morale degli uomini che eccellono sugli altri, ed è anche la mia”)».
29 Cfr. ibid., pag. 10: «Come il loro Egmont, essi [Goethe e Beethoven] sanno che la fatalità demonica si allea alla libera volontà, alla forza e alla decisione individuale, che predestinazione e libero arbitrio sono conciliati da un patto arcano».
30 In proposito si veda G. Lami, La psiche germanica. Osservazioni sulla psicogenesi del totalitarismo, Morcelliana, Brescia 1948, pag. 21, dove si riferisce la convinzione di Klages che la moderna inquietudine spirituale sia dipesa dal distacco dal mondo istintuale e amorale della natura animale.
31 Cfr. G. De Lorenzo, Terra Madre, Fratelli Bocca, Torino 1907, pag. 125: «Tali miti non sono per me […] che magnifiche figurazioni plastiche dello svolgersi di forze telluriche, specialmente eruttive (vulcaniche) e sismiche, in contrasto con le forze atmosferiche». Si veda anche pag. 133.
32 K. Kerény, La Dea Natura (1947), in Aa.Vv., La Terra Madre e Dea, Red, Como 1989, pag. 68.
33 Cfr F. Altheim, Il dio invitto (1957), Feltrinelli, Milano 1960, pag. 42. Sull’interazione tra culti solari maschili e femminili cfr. a titolo d’esempio R. Del Ponte, prefazione a F. Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano (1906), Libreria Romana, Roma 1990, pag. V.
34 A. Dieterich, Mutter Erde. Ein Versuch über Volksreligion, Druck und Verlag von B.G. Teubner, Leipzig-Berlin 1905, pag. 116.
35 Cfr. F. Jesi, Germania segreta, Silva Editrice, Milano 1967, pag. 163.
36 F. Cuniberto, Mitologia della ragione o supplemento d’anima. Sugli sviluppi recenti della “Mythos-Debatte”, in “aut-aut”, 243-244, maggio-agosto 1991, pag. 82.
37 Cit. da M. Bendiscioli, Germania religiosa del Terzo Reich (1937), Morcelliana, Brescia 1977, pag. 83.
38 Cit. da G. Cogni, Il razzismo, Fratelli Bocca, Milano 1937, pag. 142.
39 P. Lacoue Labarthe – J.L. Nancy, Il mito nazi (1991), il melangolo, Genova 1992, pagg. 33, 50, 51.
40 Manoscritto rilkiano noto come Le postille di Rilke a «Die Geburt der Tragödie» di Nietzsche, rip. in F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, D’Anna, Firenze 1976, pag. 188.
41 In H. Rauschning, Hitler mi ha detto, Edizioni delle Catacombe, Roma 1944, pag. 234.
42 In K. Vondung, Magie und Manipulation. Ideologischer Kult und politischer Religion des Nationalsozialismus, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971, pagg. 24-25. Sulla parola sacrale e sulle tecniche di consacrazione, cfr. pagg. 140 e segg.
43 Cfr. I. Kershaw, Der Hitler-Mythos. Volksmeinung und Propaganda im Dritten Reich, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1980, pag. 65.
44 Cfr. W. Darré, La nuova nobiltà di sangue e suolo (1939), Edizioni di Ar, Padova 1978, ad esempio pagg. 125 e segg., dove si ricorda che il concetto di nobiltà tedesca era esteso per patto atavico a tutta la comunità popolare, costituendo aristocrazia e contaminato un unico nucleo razziale.
45 J. Weinheber, Widmung (1922), in Adel und Untergang, Hoffmann und Campe, Hamburg 1978, pag. 113.
46 In un discorso tenuto all’Università di Friburgo nel 1943, in occasione del centenario della morte di Hölderlin. Ora in M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., pagg. 16 e segg.
47 Cfr. ad esempio G. Galli, Nazionalismo ed esoterismo, in Aa.Vv., L’estetica della politica. Europa e America negli anni trenta, a cura di M. Vaudagna, Laterza, Roma-Bari 1989, specialmente pag. 209, dove si riferisce sul «recupero di una cultura che risale ai miti di Atlantide e del Graal».
48 P. Lacou Labarthe – J.L. Nancy, Il mito nazi, cit., pag. 19.
49 F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), Laterza, Bari 1969, pag. 196.
(*)Nato nel 1951 a Milano, laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea ed in special modo tedesca.Autore di "Il mito al potere", "Il fascismo di sinistra" e "Globalizzazione" (Settimo Sigillo), e del saggio "Le radici pagane dell'Europa: una lotta per l'identità" in "Il gentil seme" (Edizioni di Ar), ha collaborato con le riviste "Elementi", "Italicum", "Margini", "Linea", "Diorama letterario", "Trasgressioni". |
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Espressione politica e repressione del principio sovrumanista
di Giorgio Locchi
l'Uomo libero - Numero 53 del 01/03/2002
[Introduzione di Stefano Vaj]
Il recente rifiorire degli studi storici sul «fenomeno fascista» (1) non ha fin qui permesso un qualche progresso degno di nota ed anzi sta piuttosto oscurando il problema, compromettendo quanto di valido – ed era moltissimo – fu acquisito alla fine degli anni cinquanta. La ragione è assai semplice: non è 1'interesse storico bensì un interesse politico partigiano a motivare la massima parte degli «studiosi», interpreti in Italia delle angosce e preoccupazioni d'un sistema in crisi. Del resto la passione politica e le preoccupazioni di ordine «morale» hanno quasi sempre obnubilato negli studiosi del fenomeno fascista lo spirito di osservazione e paralizzato la facolta di deduzione, cosicché spesso il vero «oggetto» dello stesso è stato più occultato che messo in luce.
Ora, anche la Storia, nella misura in cui vuole essere «scienza», dovrebbe aver cura di procedere sine ira et studio, come voleva Spinoza; ammettere cioè che può costituirsi in quanto «scienza» soltanto a condizione di essere wertfrei, esente da pregiudizi di valore. Il «fenomeno fascista» fa parte del passato e, come tale, può essere oggetto di studi autenticamente storici, cioè spassionati. Senza dubbio il fenomeno si prolunga in qualche modo nel presente, come del resto ogni passato storico, e in quanto tale sollecita una presa di posizione «politica» (in realtà non soltanto politica): ma, per l'appunto, questa presa di posizione deve aver luogo al di fuori dello studio – e tanto più lo deve – giacché rischia altrimenti di fondarsi sull'ignoranza più o meno vasta dell' «oggetto» reale.
Vero è che oggi, trentacinque anni dopo il crollo dei regimi fascisti per cause esterne (2), il «fenomeno fascista» è soprattutto presente come fantasma dei suoi avversari, così che 1'attuale studioso e più che mai esposto al pericolo di dirigere la sua attenzione su un oggetto fantasmagorico. Allorquando, nel periodo prebellico e bellico, e poi subito dopo la guerra, la presenza del fenomeno si iscriveva pienamente nella realtà oggettiva, gli studiosi ebbero minore occasione di indursi in errore.
Anche quando essi deformavano nelle conclusioni l'oggetto del loro studio, quasi sempre si aveva 1'impressione che in realtà avessero riconosciuto più o meno la «verità», per quanto si sforzassero per 1'appunto di distorcerla, anzi di sotterrarla. nel timore («politico») che la «verità» potesse affascinare anziché provocare rigetti.
Negli ultimi tre decenni [ovvero dal 1950 all'epoca in cui l'autore scrive] è poi accaduto che alla falsificazione del discorso sul «fenomeno fascista» abbiano fortemente concorso coloro stessi che, per tradizione o per istinto, sarebbero stati e ancora sarebbero disposti a riconoscersi «fascisti». Ciò è perfettamente comprensibile, del resto, giacché a partire dal 1945 il «fascista» che intende condurre un'azione politica è costretto a condurla sotto falsa bandiera, e deve pubblicamente rinnegare gli aspetti fondamentali del «discorso» fascista, verbalmente sacrificando ai «principi» della ideologia democratica, alto stesso modo in cui sotto l'impero di Roma i cristiani dovettero offrire sacrifici a Cesare come divinità. Inevitabilmente, questo atteggiamento «obbligato» del fascista politico ha poi avuto riflessi sull'atteggiamento del fascista studioso di storia, sempre a causa della deplorata incapacità di separare studio storico e attività politica. Per di più, la catastrofe della «guerra perduta» ha esasperato la polemica tra le espressioni del fascismo legate a un diverso carattere nazionale e, all'interno dei fascismi nazionali, tra le varie correnti, ciascuno rivendicando per se ed il proprio campo un fascismo «buono», prudentemente ribattezzato con altro nome, e rigettando sugli altri la responsabilità di un «male» – all'occorrenza identificato in tutto o in parte con quelle «forme» del fascismo che avevano detenuto ii potere ed attirato l'universale condanna dei vincitori (3).
L'attuale proliferare di opere che soltanto aumentano la confusione e moltiplicano l'ignoranza a proposito del fenomeno fascista, rende più che mai opportuno un rinvio al risultato di quegli studi che davvero vanno presi sul serio, giacché hanno ben saputo vedere e discernere il loro oggetto, anche se magari lo hanno fatto secondo prospettive che oggi potremmo considerare «inattuali».
Per quanto concerne le opere valide dovute a studiosi che politicamente si situano nel campo avverso, bisogna rilevare che le stesse sono dovute quasi sempre a studiosi israeliti, mossi della volontà di «comprendere» davvero il fascismo per meglio combatterlo e farlo combattere. Citerò qui soltanto, come tipici ed unici esemplari ii saggio Dai Romantici ad Hitler di Peter Viereck (4); lo studio fondamentale dedicato da György Lukàcs [alias, alias] alla Distruzione della Ragione (5) (di cui esiste un compendio intitolato Von Nietzsche bis Hitler oder Der Irrationalismus in der deutschen Politik); e poi ancora, ma soltanto perché accumula una ricca documentazione «parallela», lo Hitler und Nietzsche di Ernst R. Sandvoss. Lukàcs e Viereck hanno in particolare il grande merito di aver messo in risalto 1'origine prima, la «matrice» del fenomeno fascista, ritrovata in tutto un importante filone della cultura tedesca ed europea, sebbene poi – qui obbedendo a evidenti scopi propagandistici – abbiano avuto cura di introdurre nel loro discorso il Leimotiv di una sorta di rottura qualitativa fra l'origine cultural-filosofica – cui era difficile non riconoscere importanza e nobiltà – e la successiva manifestazione politica del XX secolo, die sarebbe caratterizzata da incultura, barbaric intellettuale e. in ultima analisi, da un travisamento, o meglio da un involgarimento pedestre, del pensiero dei «maestri», Friedrich Nietzsche e Richard Wagner in particolare.
Nel dopoguerra è quasi assente una valida «riflessione storica» fascista sul fenomeno fascista: per forza di cose, cioè per la ragione assai semplice cui si è già accennato, insita nella illegalità o quanto meno nella conclamata intolleranza socio-politica verso qualsiasi manifestazione di natura autenticamente fascista (6). Poiché peraltro la «definizione legale» del fascismo soltanto coglie – e male – la «forma» particolare e congiunturale che s'incarnò, tra il 1922 e il 1945, nei «regimi» al potere ed ignora tutte le altre forme (che ebbero esistenza ally. stessa epoca ma non furono compromesse dall'esercizio del potere), così come necessariamente ignora tutto iI vasto campo culturale, filosofico, artistico che costituisce la matrice del fenomeno fascista, s'è creato un certo margine di libertà per quegli autori che, magari soltanto per esigenze «tattiche», si rifanno politicamente alle forme non incriminate (perché ignorate) del fascismo. Largamente determinate dalla costrizione esterna, le opere di questi autori, quand'anche strizzino I'occhio ad un lettore sperato complice, sono spesso difficilmente decifrabili. Per di più, dal momento che necessariamente restringono la definizione del «fascismo» alle sole «forme compromesse», falsificano il loro oggetto riducendolo arbitrariamente ad una sua sola parte, di per se stessa incapace di esistere; e, come detto prima, contribuiscono alla generale confusione di idee.
E' questo, in parte, il caso dei lavori «storici» di Julius Evola, quando Ii si prende come tali, giacché si tratta di lavori prevalentemente «filosofici» o «politici», che per di più esprimono il punto di vista di una singolare corrente, largamente rappresentata anche tra i Völkische della Germania austro-bavarese, con spiccata tendenza all'esoterismo e spesso incline, anche nella «riflessione», a restringere a se stessa la definizione del fascismo «valido» (7).
Tra gli «studiosi» che si sono riconosciuti fascisti o comunque si sono voluti «neutri» citero qui, per la rara validità dei loro studi, innanzitutto Adriano Romualdi, la cui opera e purtroppo restata frammentaria e incompiuta (8) ma al quale va il merito di essere quasi unico in Italia ad aver saputo abbracciare la totalità dell'oggetto, superando il pregiudizio nazionalistico; poi ad aver perfettamente riconosciuto la «matrice» del fenomeno fascista nel «discorso» di Nietzsche, infine ad aver messo in luce la logica «conclusione indoeuropea» di quel che – come vedremo – è il tipico «ripiego-sulle-origini/progetto-d'avvenire» di tutti i movimenti fascisti; e così ad aver anche compreso che, per il « fascista», la «nazione» finisce per essere ritrovata, più che nel presente, in un lontano «mitico» passato, e perseguita poi nell'avvenire, Land der Kinder (Nietzsche), terra dei figli più che terra dei padri.
Fondamentale è poi, ma da tutt'altro punto di vista, l'opera di Armin Mohler [alias] dedicata allo studio sulla Konservative Revolution in Deutschland 1918-1933 (9). Mohler fissa la sua attenzione su tutte le forme «non direttamente compromesse» del fascismo tedesco, e mette rigorosamente tra parentesi il nazionalsocialismo, soltanto indicando laconicamente che le prime starebbero al secondo come il trotzkismo al leninismo. Di fatto egli altro non fa che mettere in evidenza il Weltbild comune a tutti i movimenti fascisti (nella generica accezione del termine) prosperati in Germania, e mirabilmente precisa come esso strutturi nel proprio seno tutta una serie di Leitbilder la cui diversa accentuazione relativa finisce col qualificare le vane «forme» o correnti del fascismo tedesco, cioè della Konservative Revolution, nazionalsocialismo compreso (il quale ultimo però resta, come notato, assolutamente assente nel discorso esplicito di Mohler). Weltbild e Leitbilder si traducono letteralmente con «immagine del mondo» ed «immagini-guida» o «immagini conduttrici»; ma in realtà conviene, perche la realtà e così meglio designata, parlare di «mito» e «mitemi».
Curiosamente 1'opera di Mohler ha trovato un indispensabile complemento in quella di un marxista francese applicante i metodi della linguistica strutturale à la parisienne, Jean-Pierre Faye [alias] il quale nel documentatissimo libro dedicato ai Langages Totalitaires (cioè, per lui, fascisti) colma le volute lacune del libro di Mohler; inserisce nazionalsocialismo tedesco e fascismo italiano nella ben disegnata «topografia» della Rivoluzione conservatrice; ed anzi situa il primo nel «centro sintetico» del campo conservator-rivoluzionario tedesco. Faye prende però in considerazione soltanto il «discorso» politico immediato dei movimenti fascisti di allora, nel loro riferimento a problemi contingenti, trascurando la «visione del mondo» e dunque il «riferimento spirituale» (10).
Soltanto prolungando tutti gli studi che abbiamo citato (e altri ancora, evidentemente, dello stesso tipo) si può pervenire ad una reale comprensione del fenomeno fascista. Non si comprende nulla del fascismo se non ci si rende conto o non si vuole ammettere che il cosiddetto «fenomeno fascista» altro non è che la prima manifestazione politica d'un vasto fenomeno spirituale e culturale, che possiamo chiamare «sovrumanismo», la cui origine risale alla seconda meta del XIX secolo.
Questo vasto fenomeno si configura come una sorta di campo magnetico in espansione i cui poli sono Richard Wagner (raramente riconosciuto) e Friedrich Nietzsche. L'opera artistica di Richard Wagner e quella poetico-filosofica di Friedrich Nietzsche hanno esercitato un'enorme, profonda influenza sull'ambiente eulturale europeo della fin de siècle e della prima meta del XX secolo, tanto in senso negativo, provocando rigetti e reazioni, quanto in senso positivo, ispirando sviluppi (filosofici e artistici) animando azioni (spirituali, religiose e, infine, politiche) (11).
La loro opera, di fatto, è eminentemente «agitatrice», la loro importanza risiede infinitamente più nel «principio» nuovo che essa introduce nell'ambiente europeo che nella espressione stessa e nella prima «applicazione» che di questo principio immediatamente e proposta. Con «principio» intendo qui sentimento di sé e dell'uomo, che in quanto dice se stesso è un «Verbo» (logos); in quanto persegue un fine è «volontà» (personale e comunitaria); ed è poi anche, immediatamente poiché sentimento, sistema di valori. Quel che dell'opera di Wagner e Nietzsche entra in circolazione e si diffonde ovunque con maggiore o minor forza è dunque soprattutto il «principio», anche quando è imperfettamente «afferrato» o riceve, a causa della sua novità, interpretazioni ed «applicazioni» inappropriate. E' per le vie più traverse, magari sotterranee, che questo principio può essere ricevuto; ed e soltanto mezzo secolo più tardi (12), quando esso comincia ad ottenere una certa diffusione sociale, ad essere cioè accolto e fatto proprio da gruppi interi di uomini che vi si riconoscono, magari senza neanche sapere bene chi lo ha messo in circolazione, che se ne hanno le prime manifestazioni politiche coi movimenti «fascisti». Tra sovrumanismo e fascismo, più che il rapporto eminentemente intellettuale che per i marxisti si istituisce fra teoria e prassi, c'e rapporto genetico spirituale, adesione magari inconscia del secondo al «principio sovrumanista», con azione politico che immediatamente ne scaturisce. Proprio per questo – ma l'espressione non è perfetta – e stato detto che «it fascismo e azione cui e immanente un pensiero» e si e parlato di «mistica fascista», di carattere quasi «religioso» del fascismo.
I1 «principio sovrumanista», rispetto al mondo che lo circonda, diviene rigetto assoluto di un opposto «principio egualitaristico» che conforma quel mondo. Se i movimenti fascisti individuarono i1 «nemico», spirituale prima ancora che politico, nelle ideologie democratiche – liberalismo, parlamentarismo, socialismo, comunismo, anarco-comunismo – è proprio perché nella prospettiva storica istituita dal principio sovrumanistico quelle ideologie si configurano come altrettante manifestazioni, successivamente comparse nella storia ma tutte ancora presenti, dell'opposto principio egualitaristico, tutte tendenti in definitiva allo stesso fine, con diverso grado di coscienza; e tutte insieme causa della decadenza spirituale e materiale dell'Europa, dell.'«avvilimento progressivo» dell'uomo europeo, della disgregazione delle società occidentali.
Peraltro, se è possibile affermare che i movimenti fascisti hanno tutti un determinante istinto sovrumanistico, è anche chiaro che essi ne hanno pitù o meno vivamente coscienza: ed e proprio il diverso «grado di coscienza» a rispecchiarsi nella graduata varietà dei movimenti fascisti e nei loro rispettivi atteggiamenti politici. Le «forme politiche» dell'egalitarismo sono tutte individuate e combattute, le altre forme «culturali» non sempre, o molto di meno. E come sempre si crea tra campo fascista e campo egualitaristico una zona intermediaria, «oscillante», con «forme» spurie.
Essenziale, ai fini della presa di posizione « mitica» di un movimento fascista, è 1'analisi che esso fa della causa prima e dell'origine del «processo di decadenza e disgregazione» delle nazioni europee. Nietzsche le aveva individuate nel cristianesimo, come agente di trasmissione del «principio giudaico» che per lui s'identifica al principio egualitaristico. Wagner, l'altro polo del campo sovrumanistico, aveva denunciato invece l' origine del male nel solo «principio giudaico». Secondo lui il cristianesimo altro non sarebbe che una metamorfosi dell'ancestrale religione pagana, ma sarebbe stata poi completamente inquinato dal giudaismo, cui le Chiese ed i loro teologi avrebbero fatto ricorso per «stabilire i dogmi» (13).
Tra questi due « poli» (e le rispettive analisi) si iscrivono tutte le oscillazioni del campo fascista, le cui correnti assumono dunque atteggiamenti assai diversi nei confronti del cristianesimo e delle chiese (14). L'azione politica, poi, fu sempre condizionata dalla necessità di rispettare in larghi strati del popolo un sentimento che non poteva così facilmente essere estirpato come una convinzione ideologica. Per di più, i fascisti sono convinti della opportunità d'un sentimento religioso, che è legame comunitario, nelle masse; non vogliono distruggere quel che esiste, bensì progressivamente modificarlo, reinterpretandolo, fino al giorno in cui sarà «capovolto» in un'altra, fondamentalmente diversa, religione.
Mussolini, che era notoriamente ateo (15), deve fare i conti con I'« Italia cattolica» , ed una volta al potere istituisce un modus vivendi e vorrebbe romanizzare il cattolicesimo: «Roma, onde Cristo è romano» , punto di vista cui la Chiesa non si piega, replicando: «Noi cristiani siamo tutti semiti»,. Il III Reich tollera le Chiese e insieme le assedia, tenta di «degiudaizzare» il protestantesimo dando vita alla scissione della Reichskirche, favorisce i «deutsche Christen»; e più ancora la cosiddetta Gottesglaubigkeit, la credenza in una divinità che non e già più quella della Bibbia. Ma Hitler. in privato, affermava che il cristianesimo doveva a poco a poco essere totalmente estirpato (16).
La posizione estrema, che nella topografia fascista e centrale (17), perche più lontana dall'estremità del campo egualitaristico, è prettamente nietzschana: ritiene che «tutto è marcio», rigetta in blocco duemila anni di «occidente cristiano» per non ritenerne che il «negativo» esemplare (cioè le manifestazioni di sopravvivenza e risorgenza del paganesimo greco-romano-germanico), si fa «nihilismo positivo» e vuole ricostruire sulle rovine dell'Europa un «nuovo ordine», dando vita al «terzo uomo» (18).
Ciò vale, oltre che per le forme propriamente politiche, anche per quelle «culturali», giacché la cultura appare in complesso dominata dal principio egualitaristico: «Quando sento la parola "cultura"», dice Goebbels [alias] un intellettuale «prendo subito il revolver)» (19)
Resta il fatto che, in relazione al mondo che li cireonda, i fascismi sono «rivoluzionari» nel senso pin radicale della parola, che è poi quello etimologico. La riflessione più coerente dell'avversario ha finito con l'ammetterlo. Horkheimer, venuto dal marxisrno e divenuto infine apostolo di un neo-giudaismo astratto, riconosceva verso la fine della sua vita che «la rivoluzione può essere soltanto fascista», giacché soltanto il fascismo vuol totalmente capovolgere il «sistema di valori» esistente, «cambiare il mondo», e cioè considera il mondo attuale esattamente allo stesso modo in cui i primi cristiani consideravano il mondo greco-romano e l'imperium di Roma.
Proprio perche, nelle sue espressioni più coerenti, s'oppone drasticamente alla cultura dominante, che permea e conforma tutte le forme sociali e politiche, il «sovrumanismo» e le sue espressioni politiche hanno un «discorso» che non poteva e non può non sembrare «irrazionale» a chi per contro e animato dall'opposto principio egualitaristico. Questa «irrazionalità», di cui György Lukàcs ha fatto il suo cape d'accusa «filosofico» contro il «discorso fascista», designa di fatto due mezze verità contrarie, confuse e sovrapposte. E vero che il discorso fascista è «discorso mitico», ovvero rinvia ad un «mito». Gli autori fascisti, assai spesso, hanno esplicitamente proposto un mito. Ma cos'e un mito, nella visione sovrumanistica delle cose?
Mito è un discorso di particolare natura, che concepisce se stesso come volontà originaria e che, dicendosi, crea il proprio stesso linguaggio parassitandone un altro. Mito si ha quando un «principio» storicamente nuovo sorge in seno ad un ambiente sociale e culturale tutto informato e conformato – e in primo luogo nel suo linguaggio – da un principio opposto. Il principio nuovo, per dire se stesso, necessariamente deve – poiché non ha ancora un suo linguaggio – prendere per così dire a prestito il linguaggio preesistente, che è linguaggio dominato da un altro principio, da un altro Logos o Verbo; pertanto, mentre ne fa uso, anche deve però negarne la «ragione» o, più esattamente, la «dialettica» concettuale, che per 1'appunto e quella dell'altro, avverso Logos.
Così il «discorso» di un principio storicamente nuovo è sempre «discorso mitico», che nega la «ragione» del linguaggio usato, ed tale principio stesso – nella sua volontà storica – si dà come mito: un principio nuovo è sempre, in quanto nuovo, mito (20). Negare la dialettica del linguaggio usato (parassitato) vuol dire che i «contrari»; gli «opposti» istituiti da quella dialettica non sono più sentiti come tali, bensì come parziale unita e identità e, per altra parte, come semplice differenza, ma non opposizione. Ciò è quanto mai evidente in Wagner, e poi più ancora in Nietzsche, ad esernpio col rigetto altamente proclamato della fondamentale dialettica cristiano-egalitaristica «del bene e del male»; così come è non meno evidente più tardi, so un piano più strettamente politico, nella abitudine dei movimenti tedeschi della Rivoluzione Conservatrice di designare se stessi accoppiando e fondendo insieme termini concettuali che i1 «gergo» egualitaristico di Weimar considerava antitetici: nazional-bolscevismo, nazional-comunismo, nazional-socialismo, conservator-rivoluzionario e così via (21).
Il «discorso mitico» è, nella sua materialità linguistica, discorso dal quale è assente il Logos identificantesi col mito stesso in quanto principio; la materialità del linguaggio resta cioè conformata dall'altro principio e dall'altro Logos: e qui per 1'appunto risiede quella specifica ambiguità del mito, che storici e studiosi hanno da tempo messo in luce (senza peraltro individuarne la causa) e che induce altri a parlare di «irrazionalità». Ma se il «discorso» necessariamente appare ambiguo e irrazionale, il mito non lo è in alcun modo, relativamente a sè, cioè al proprio principio: il suo vero Logos è in realtà ben presente; ma non nella materialità del discorso, bensì in chi lo dice ed in chi lo intende, nel senso etimologico della parola. Un mito sempre presuppone l'esistenza di uomini che, al di la del linguaggio e del discorso, lo sappiano intendere. Alfred Rosenberg [alias], 1'impiccato di Norimberga, premetteva così al testo del suo Mito del XX Secolo (22)1'ammonimento di Meister Eckhart: «Questo discorso è detto soltanto a chi già lo dice suo come sua propria vita o, almeno, già lo possiede come struggente aspirazione del suo cuore» (23).
Ma se al mito, ed a chi se ne fa portatore e lo proclama, sempre s'accoppia la coscienza di essere origine, volontà, il mito appare necessariamente a chi ne e «fuori» come un ritorno impossibile alla «primitività», alla «barbarie» (24). ,Di fatto I'accusa di primitivita e di barbarie e stata rivolta non soltanto all'azione dei fascisti ma alla loro stessa concezione del mondo, alla loro «mentalità». Ciò era tanto più naturale, giacché la concezione della storia scaturente dal principio egualitaristico, che dominava e domina la cultura europea, è una concezione lineare, che rappresenta i1 divenire storico come un segmento compreso tra un Alfa (l'inizio della storia: uscita dall'Eden o passaggio dall'orda comunista primitiva alla prima società di produzione) ed un Omega (Apocalisse, fine della storia concepita come lotta di classe, con ingresso nell'eternità e in un perenne «regno della libertà» ).
Per converso, nella visione e nel sentimento sovrumanista, il tempo della storia non è lineare (ma non è neanche ciclico, come certuni ritengono, proprio perche non ne sanno decifrare i1 «discorso mitico»). Mohler ha ben indicato che «l'immagine che più conviene» per rappresentare il tempo della storia della visione sovrumanistica e «quella della Sfera», già presente nell'Also sprach Zarathustra di Nietzsche.
Mohler, peraltro, non ha saputo mettere in evidenza le implicazioni di questa immagine (Leitbild). Se in un tempo lineare, il «momento» presente è puntuale, così da dividere la linea del divenire in passato e futuro, e se d'altra parte non si vive dunque che nel presente puntiforme, nel tempo sferico della visione sovrumanista il presente è ben altra cosa, è la sfera le cui dimensioni sono passato, attualità, futuro; e 1'uomo è uomo e non animate proprio perché, in virtù della sua coscienza, egli vive in questo presente tridimensionale che e insieme passato-attualità-futuro, e così dunque è anche sempre totalità del divenire storico, però data secondo la sempre diversa prospettiva «personale» di ogni coscienza.
Se la sfera del divenire storico è proiettata a fini di rappresentazione (come impone la nostra sensibilità biologica) sull'unidimensionale, si configura quella linea che, se si assume la visione egalitaristica, rappresenta la storia stessa, e che invece per il sovrumanista è la linea dell'evoluzione biologica della specie umana, sulla quale la storia va per I'appunto a proiettarsi per rappresentare se stessa (e, poiché la sfera del divenire è un «presente» diverso per ogni coscienza, le rappresentazioni della storia sono necessariamente diverse).
Nel lettore può qui spontaneamente sorgere 1'interrogazione sulla «validità», sulla «verità» di queste due opposte visioni della storia, l'egualitaristica e la «sovrumanistica». Lo «storico» può soltanto constatare che l'una e l'altra sono reali, nel senso che esistono storicamente, che uomini concretamente esistenti le hanno sentite e le sentono, le hanno pensate e le pensano. Una «filosofia» conformata dal principio egualitaristico considererà falsa la visione della storia sovrumanistica, e falso il sentimento del tempo della storia che la fonda. Una «filosofia» sovrumanistica coerente considera invece la visione egalitaristica della storia come propria della coscienza del «secondo uomo» e come tale «superata» dalla autocoscienza del «terzo uomo» (25)
I «fascismi» hanno avuto tutti un sentimento sovrumanistico del tempo della storia, il che non significa punto che i fascisti ne siano stati sempre pienamente coscienti ed abbiano dunque davvero saputo «rappresentarselo». E' tuttavia evidente che il giudizio «fascista» su ciò che è storico nell'uomo ha sempre fondamentalmente differito, e differisce, da quello dell'egualitarista. Ad esempio per il «fascista» la «sfera economica» dell'umano appartiene sostanzialmente alla «sfera biologica», non a quella storica (26). D'altra parte concetti come «regresso», «conservazione» , «progresso» perdono il loro significato nell'uso che ne fa il discorso fascista e talvolta si confondono 1'uno nell'altro. Il fatto è che, nell'unidimensionale, la proiezione della sfera storica configura un ciclo, l'«Eterno Ritorno», sul quale ogni «progresso» è anche «regresso». Qui, del resto, sta l'«enigma» proposto da Nietzsche con l'immagine conduttrice (o mitema) dell'Eterno Ritorno e l'altra del Grande Meriggio e dello Zeitumbruch (la «frattura del tempo della storia»); 1' «identico» che ritorna è d'ordine biologico e non è «identico» che da un punto di vista materiale, non storico; ad essere storica e la diversità, a far la storia è I'apparizione di forme originali e originarie, che al limite può rigenerare la storia stessa provocando appunto lo Zeitumbruch. II termine generico col quale si sono (auto)-designati nel loro complesso tutti i vari movimenti «fascisti» tedeschi, cioè il termine di konservative Revolution, dice di per se stesso, in modo immediato, qual'era il sentimento che essi avevano della storia e quale posizione nella storia intendessero assumere, quella cioè di «provocatori dello Zeitumbruch» (27).
Sulla base del loro specifico sentimento della storia, i «progetti storici» dei movimenti fascisti si configurano sempre come un richiamo – ed un «ripiego» – su un'origine ed un «passato» più o meno lontani, che nello stesso tempo vengono proiettati però nel futuro come fine da raggiungere: «romanità» nel fascismo italiano (con varianti di romanità «imperiale», «repubblicana» o delle «fondazioni»), germanità precristiana nel nazional-socialismo hitleriano, cattolicità monarchica e quasi feudale nel maurrassismo... Quel che quasi mai è stato visto bene, è il fatto che il «passato» cui ci si richiama, e che magari e vantato a seopi demagogici di propaganda come tuttora vivo e attuale (nel «popolo» e nella «razza», intesi quasi come istintività residua), è in realtà pessimisticamente considerato come un bene perduto, «uscito dalla storia», e perciò da reinventare e creare ex novo. Così, ad esempio, Hitler diceva a Rauschning (vedi i Gespräche mit Hitler) che «non c'è più razza pura», che «Ia razza è da rifare»: e, di fatto, la politica razziale del Ill Reich è Aufnordung, azione «nordizzatrice» (28). L'origine, il «passato perduto» non sono in fondo presenti se non nel «fascista», come nostalgia e come progetto, non sono più incarnati nell'avversata quanto massiccia realtà sociale, culturale e politica.
La «topografia» del campo fascista nella prima metà del secolo si disegna proprio in rapporto a problemi che tutti si ricollegano, direttamente o indirettamente, anche all'analisi della «quantità di decadenza» dell'Europa e, di riflesso, alla decisione della «quantità di nichilismo positivo» cui conformare il proprio atteggiamento. Rispetto allo schieramento democratico, il «fascismo» non sta ne a destra ne a sinistra ne al centro, giacché lo schieramento democratico è determinato da criteri «egualitaristici» che non sono i suoi. Ci sono interferenze, certo, ma secondarie, inevitabili a causa della contiguità, cioè del fatto che il «fascismo» doveva agire su una realtà che era quella che era, e «parlare» a gruppi umani ed a masse acquisiti a ideali egualitaristici, o che esprimevano esigenze egualitaristiche.
It «fascismo» è andato a pescare là dove questi ideali e queste esigenze erano meno profonde, magari deboli, la dove insomma la «coscienza egualitaristica» era in crisi, e dove era dunque più facile creare una confusione con i propri ideali e le proprie esigenze (29). così senza dubbio accade che la topografia della Konservative Revolution è anche determinata dall'interrogativo concernente le forze, e magari le classi sociali, cui fare appello (30). Peraltro – fatto rivelatore – sono proprio coloro che più di altri ritengono di dover fare appello al «lavoratore», alla «classe operaia» (e il caso dei nazional-comunisti e dei nazional-rivoluzionari) che poi però, per converso, rifiutano I' «azione di massa» in nome d'un pregiudizio «aristocratico»; e, nonostante le esperienze, vogliono allora illudersi che la via del potere possa passare soltanto, e abbia da passare, per il putsch o la congiura di palazzo.
A maggior ragione, Spengler, Jünger, e i «socioaristocratici» avversano Hitler tra 1'altro proprio perché Hitler si e convinto che non c'è contraddizione, né rischio di «inquinamento», nel ricorso al partito ed all'azione di massa.
Nei quadro di opzioni di questo genere, il «discorso» d'un determinato movimento dà accentuazione diversa alle immagini conduttrici del «rnito», cioè ai mitemi, ai vari elementi-cardine che i1 mito fascista struttura. Un movimento mette in primo piano mitemi che un altro mette invece in secondo piano, o magari trascura o tace; senza contare poi che la diversità di accentuazione è sempre anche diversità di «interpretazione»; e basti qui pensare al mitema della «razza», talvolta assunto a mitema fondamentale, talaltra più o mono relegato in riserva, e poi sempre variamente «inteso» (questo anche all'interno dello stesso movimento nazionalsocialista, di cui non è punto vero che ne desse una sola interpretazione essenzialmente biologica come pretende Evola, che del resto fa sua proprio una delle versioni nazionalsocialiste della razza, e in particolare quella della corrente völkisch-spiritualista, per proporla come «via italiana al razzismo»!) (31).
Evidentemente, i «regimi» fascisti dovettero affrontare quei problemi materiali che si ponevano a qualsiasi regime in Paesi con strutture «materiali» analoghe. La famosa crisi del capitalismo degli anni venti e trenta fu in realtà essenzialmente crisi di mutazione industriale, tanto e vero che esistette anche per la Russia. Tutti dovettero affrontarla: e se ci fu il New Deal americano, ci fu la NEP russa, ci fu il Vierjahresplan di Goring, ci fu la ristrutturazione industriale e bancaria operata dal regime fascista. L'aspetto «tecnico» delle misure è talvolta analogo, e certi storici ne hanno fatto gran chiasso, al punto di confondere tutto in una universale «rivoluzione dei tecnici» (32), Ma il fatto che un liberale, un comunista o un fascista, gettati in acqua, si mettano a nuotare per non colare a fondo, non dice assolutamente nulla sulla loro appartenenza politica, e il solo credere il contrario e stato forae Mao Zedong (33).
Negli «studi» sul fenomeno fascista, una «definizione dell'oggetto» e stata spesso ricercata, soprattutto da parte «marxista» nel fatto che i regimi fascisti conservarono le strutture «capitalistiche» di produzione; e poi anche, da parte degli « studiosi» liberali, nella parentela apparente delle strutture «totalitarie» imposte allo Stato dai regimi fascisti e da quelli comunisti.
Ciò era ed è estremamente comodo ai fini dells mai esaurita polemica fra concorrenti partiti dello schieramento egualitaristico, ma proprio questa circostanza mette in evidenza perfetta 1'assurdità di simili «definizioni» del fascismo. Che certe forze economiche possano aver qui e là ritenuto conveniente per i loro propri fini il fatto di sostenere o favorire i movimenti fascisti, con calcolo che del resto doveva poi rivelarsi errato, è cosa che di per sé non significa nulla, ed ognuno può meglio rendersene conto oggi, quando organizzazioni padronali e singoli grandi industriali regolarmente finanziano anche partiti di sinistra, compresi quelli comunisti (34).
All'osservatore obbiettivo dovrebbe essere chiaro ehe per il «fascista» la scelta del sistema economico era «indifferente in se», unicamente dettata – al di la di interessi particolari di classe che egli non riconosceva, e di ideologie che non erano le sue – da quel che, dal suo punto di vista, considerava l'interesse nazionale o l'interesse «comune» (Gemeinnut); e dunque, rispetto a questo interesse, da mere preoccupazioni di efficienza.
Quel che soltanto premeva in definitiva al «fascista» era il fatto di sottrarre alle forze economiche, mosse da interessi esclusivamente economici, la possibilità di dettare al Paese una loro politica; e di piegare poi tutte queste forze al rispetto di quelli che erano considerati gli interessi nazionali in vista dei fini della «comunità», fini – sia detto tra parentesi – la cui natura era «metapolitica». Che, in questo intento, i regimi fascisti abbiano operato con maggior o minore sagacia, con maggiore o minor successo, è problema il cui dibattito potrebbe, in un caso o nell'altro, condurci magari a conclusioni negative. E' anche evidente d'altra parte che i regimi fascisti hanno avuto vita quanto mai effimera; e che ben presto la guerra (anzi, la ripetizione di guerre) ha loro impedito di procedere alla maturazione delle rivoluzioni politiche e sociali che si riproponevano (35).
La questione del «totalitarismo» riconduce invece ad un fondamentale problema della «filosofia della politica». Ogni società (o più esattamente: comunità), quando vuol essere «sana» , è totalitaria, nel senso che ammette un solo «discorso», quello retto dal principio che informa e conforma la comunità e, insieme, costituisce il «Iegame comunitario». Così, l'ecumene cattolica non ammise che il «discorso cristiano» del cattolicesimo; ed oggi i sistemi democratici, dopo il periodo di crisi e confusione d'idee del primo dopoguerra, non ammettono più – come è giusto – altro che il solo «discorso egualitaristico», interdicendo il «discorso fascista» (ate e quello d'un «principio» opposto).
Nei sistemi democratici «liberali», peraltro, il «discorso» sociale si traduce in «dibattito», contrapposizione di discorsi «.opposti» seppure ispirati dallo stesso principio. Di fatto, un «principio» – come già notato – entra nella storia come mito e, in questa sua fase mitica, non esplica, né nel suo discorso né nella sua azione, i «contrari» della sua stessa dialettica, ancora sentiti come «unità» ed armonia. II principio egualitaristico ebbe la sua fase mitica con I' «ecumene cattolica», che fu oggettivamente tale, anche sul piano politico, fino a quando i poteri sovrani ebbero forza sufficiente – innanzitutto spirituale – per assicurare la «unità dei contrari», per impedire cioè che una «dialettica» del Logos cristiano-egualitaristico si manifestasse e concretasse in opposte forme religiose, politiche e sociali. Allorquando il «mito» in quanto tale perdette la sua forza e decadde, s'inaugurò al contrario una «dialettica» che, ben presto, si cristallizzò sul piano ecclesiastico, politico, sociale.
«Contraddizioni»' furono sentite, avvertite, «razionalizzate.»: così, ad esempio, sul piano religioso, quella tra il mitema del dio onnipreveggente e onnipredeterminante e l'altro mitema della grazia e del libero arbitrio, con conseguente frattura dell'ecumene e contrapposizione di chiese; in questo senso, le teologie della Riforma o della Controriforma escono già dal mito e divengono sempre più «ideologiche». Nella visione sovrumanistica della storia, il «principio egualitaristico» passa così dalla sua fase mitica alla fase ideologica, quella della separazione e contrapposizione dei «contrari» dialettici, che progressivamente andò a concretarsi anche in obbiettive «realtà» politiche e sociali, tra cui infine i «partiti». In questa seconda fase la «coscienza egalitaristica» diviene più profonda: e vuole ormai tradurre la «uguaglianza delle anime dinanzi a Dio» anche in «uguaglianza dell'uomo in quanto essere politico (cittadino) dinanzi alle istituzioni umane».
Cio conduce alla «evoluzione democratica» (la cui manifestazione talvolta, ma non sempre, violenta fa parlare di «rivoluzione») e poi – già subito nel passaggio alla democrazia ideologica – alla aspirazione e volontà di «uguaglianza degli uomini dinanzi alla natura» stessa in tutti i suoi aspetti. Sempre da un punto di vista sovrumanista, in quest'ultima fase, che evidentemente è in corso, la «dialettica» oggettiva dei contrari è sempre più risentita come un ostacolo all'unità ed all'armonia effettiva dell'«ecumene universale»: donde 1'«internazionalismo », il «cosmopolitismo», il «mondialismo» e, parallelamente, lo sforzo «scientifico» inteso ad affermare nel «discorso» e nella realtà oggettiva una ultima sintesi, che non si risolva più a sua volta in nuova opposizione di contrari. II genio di Hegel e poi di Marx [alias] è consistito nell'aver perfettamente interpretato, ciascuno a suo modo (ed il secondo con visione filosoficamente meno profonda e più incerta, ma con visione politica quanto mai acuta e, nel suo discorso, «agitatrice»), questa volontà di sintesi dell'uomo e della società conformati dal principio egualitaristico (36).
Evidentemente lo storico constata che Marx, se ha fatto prendere coscienza agli egualitaristi della loro volontà di ultima sintesi (e perfino alle Chiese cristiane e, genericamente, monoteistiche, adesso impegnate anch'esse in uno sforzo di «astrazione e sintesi ecumenica»), non ha peraltro saputo indicare il mezzo per pervenirvi.
I regimi marxisti dell'oriente europeo. fondamentalmente estranei all'antica ecumene cattolica e poi alla «dialettica ideologica» dell'Occidente europeo (e, insomma, altra cultura e altra civiltà), hanno ritenuto che l'ultima sintesi potesse scaturire da un «processo» forzato, e che l'unità definitiva dei contrari potesse essere imposta dalla violenza continua; di qui il loro « totalitarismo dogmatico» . Tutto il travaglio attuale dei «demoeratici» occidentali, marxisti compresi, altro non è in fondo che questo sforzo di trovare infine il mezzo con cui pervenire ad un' ultima sintesi che davvero sia, spontaneamente, unità e armonia dei contrari.
Ma davvero quest'ultima sintesi è possibile, tenuto conto che di fatto cornporterebbe la fine stessa della storia, del divenire «storico» dell'uomo? Porre l'interrogativo è pretendere di dare risposta a una «questione ultima», e significa ritrovarsi dinanzi ad una classica «antinomia della ragione». Se la storia umana ha una sua predeterminazione che trascende I'uomo, per dare una risposta bisognerebbe conoscere la natura di questa predeterminazione; ciò che per definizione è «razionalmente» impossibile (perche tale predeterminazione per ipotesi trascenderebbe appunto 1'uomo). Se invece è 1'uomo a creare liberamente la propria storia, conviene ammettere che l'ultima sintesi sarebbe possibile laddove l'umanità intera la volesse con piena coscienza, e davvero ne avesse la «capacità». Ma proprio questa circostanza comanda al campo egualitaristico la repressione assoluta del «fascista» . II «fascista» non vuole questa «fine della scoria» proposta dall'egalitarismo, ed agisce per renderla impossible, e del resto quasi sempre crede, o più raramente si sforza di credere, che essa sia «materialmente impossibile».
Da quanto e stato detto sull'«egalitarismo» dovrebbe anche risultare chiaramente, per il lettore. quale sia stata la auto-comprensione del cosiddetto totalitarismo fascista, che forse converrebbe chiamare «dittatura» o «magistero», e che s'apparenta morfologicamente al tipo di «amministrazione del potere» dell'ecumene cattolica e di tutte le «forme comunitarie» in fase mitica. D'altra parte, la dittatura fascista rispecchiava oggettivamente la natura «mitica» del suo discorso e con ciò stesso soddisfaceva anche due esigenze fondamentali. La prima di queste esigenze scaturiva dalla situazione di crisi «totale» in cui il «fascismo» stesso, andando al potere, precipitava tutti gli istituti politici e sociali preesistenti (conformati dal principio egualitaristico) e le stesse «componenti umane» della società, cioè d'una comunità che aveva cessato. dal suo punto di vista «fascista», di essere «comunità organica». La seeonda esigenza, risvolto della prima, e non meno essenziale e immediata, era quella di in-formare e conformare il «materiale grezzo» (le «rovine» di Nietzsche) al «principio» sovrumanistico, di affermare ovunque, nel quadro di un «nuovo ordine», l'unità e I'armonia di tutti i contrari (37).
Da questo punto di vista «fascista», tanto per dirne una, il corporativismo del regime italiano appare come un «compromesso» imposto forse dalla situazione oggettiva, giacché almeno formalmente continuava a permettere che si esprimesse un certo «classismo» nella contrapposizione di organizzazioni di datori di lavoro e di lavoratori; mentre iI più coerente nazionalsocialismo organizza invece tutte le forte produttive in un Fronte del Lavoro Tedesco, il DAF. che si voleva «organico» per rispecchiare I'organicita della comunità intera del popolo, della Volksgemeinschaft (38).
In altre parole, poiché il «fascismo» opponeva comunità a società e intendeva rifondere Ia società «trovata» in comunità organica, i regimi fascisti vollero reprimere, con 1`apparato totalitario, le tenderize egualitaristiche diffuse ovunque e, per converso, intraprendere – con l'apparato «dittatoriale», imperniato intorno all'istituto del Capo (Duce. Führer, etc.) l'«educazione» di un nuovo «tipo umano», sforzandosi di consolidare o suscitare progressivamente in tutti il principio sovrumanista e fascista, e così creare e rafforzare sempre più il nuovo «legame comunitario». Di qui l'uso intensivoo delle tecniche della psicologia delle masse, di qui la «mistica», il «rituale», i «simboli» emotivi, la creazione di organizzazioni (soprattutto nel III Reich, ma anche in Italia) a carattere di «ordine», destinate a soddisfare, con le loro diverse «missioni», i vari «temperamenti» umani e in particolare i vari «temperamenti» fascisti.
Lo storico deve del resto qui domandarsi se, proprio accettando a titolo di ipotesi l'analisi nietzschana delle società e della cultura europee, i «movimenti» e «regimi» fascisti della prima meta del secolo non siano apparsi troppo presto, prematuramente; o se cioè, più esattamente, essi non debbano la loro emergenza e la loro affermazione a circostanze fortuite che – nell'apparenza e soltanto in essa – anticipavano il futuro previsto da Nietzsche. Nietzsche prevedeva infatti che il suo movimento (è il termine che egli davvero usa, Bewegung) potesse affermarsi soltanto suite rovine del sistema, sociale e culturale. esistente.
Ora, nel primo dopoguerra, sistema e cultura egualitaristici non erano punto in rovina, soltanto attraversarono una loro crisi spirituale (con la comparsa massiccia e «sovversiva» del comunismo), cui se ne accoppiò una materiale, la crisi economica. In Germania, paese vinto, « punito» e privato largamente della solidarietà del «sistema» internazionale, la crisi fu risentita come davvero apocalittica. Anche in Italia fu così, però limitatamente a certi strati, in cui era viva la frustrazione della «vittoria perduta». Oggi noi sappiamo che il sistema egualitaristico era in realtà ancora forte e che, cioè, dal punto di vista nietzschano, non aveva affatto esaurito le sue risorse spirituali e materiali (39).
Lo storico deve comunque riconoscere oggi che l'apparizione del fenomeno fascista ha costretto, sia pure negativamente, il campo egualitaristico a riconoscere la sua stessa natura, a prendere sempre più coscienza della «parentela» delle sue varie forze spirituali e politiche e ad ammettere (almeno nei fatti) che esse obbediscono tutte ad uno stesso principio, quello egualitaristico o giudeocristiano che dire si voglia. Per cristiani, liberali, democratici, socialisti, comunisti il «fascismo» è divenuto l'avversario assoluto, dinanzi al quale insorge per tutti un assoluto obbligo di «solidarietà», quello dell'«antifascismo» . Le manifestazioni dell' «antifascismo» possono anche apparire talvolta grottesche, a causa dell'evidente opportunismo degli uni o degli altri, ma rispondono in definitiva ad una stretta esigenza «morale» di chiunque appartenga al campo egualitaristico (40).
Con la vittoria sui regimi fascisti, l'«antifascismo» si è logicamente tradotto in «repressione» assoluta del fascismo e delle sue manifestazioni politiche. Ma questa logica repressione ha conseguenze paradossali, quanto meno agli occhi dello storico, e nella misura in cui e possibile considerate «storia» gli ultimi trentacinque anni, cioè una situazione che si prolunga nell'attualità.
Accade cioè che tanto più il «principio egualitaristico» s'afferma in ogni dettaglio quotidiano, della vita culturale e politica europea, tanto più anche s'afferma l'antifascismo: cosicché il «fascismo» ne ricava di per ciò stesso una «esistenza negativa» altrettanto forte dell'esistenza positiva del suo trionfante avversario (41). Ora, questa esistenza negativa è anch'essa una realtà (un po' come è realtà 1'«antimateria» dei microfisici), e diviene, oggettivamente, un vuoto sociopolitico che vuole essere in qualche modo colmato (42). II «fascismo» rinasce così continuamente, in quanto potenzialità, però subito repressa; e continuamente sono per così dire rigenerati i «fascisti», costretti perciò a vita catacombale. Ma quel vuoto che e 1'esistenza negativa del fascismo nell'Europa attuale, richiama anche una «azione fascista» che, interdetta ai «fascisti», finisce con 1'essere inconsciamente assunta da quelle estreme frange marginali del campo egualitaristico, che più soffrono della lentezza del «progresso», della discrepanza tra gli ideali proclamati e la realtà vissuta: ad occidente gruppi terroristici di estrema sinistra, ad oriente ala destra dell'organizzazione di Stato, con ricorso alla dissidenza, dopo vani tentativi di ricorso alla «riforma» interna del partito e del sistema. Certo, nei paesi d'Europa occidentale esistono partiti o gruppi politici sui quali pesa 1' accusa di «fascismo» e come tali più o meno completamente marginalizzati rispetto allo schieramento «democratico-antifascista» . Ma quand'anche si possa, e in molti casi si debba, ammettere che quanto meno gli aderenti di questi partiti o gruppi siano davvero «fascisti», resta il fatto che il partito o gruppo non èà in realtà oggettivamente «fascista», giacché – per ragione o per forza – è costretto a parlare ed agire entro i limiti d'una legalità che interdice il «discorso» e « 1'azione» fascisti. Dal punto di vista «fascista», questi partiti hanno una loro utilità, perche costituiscono un «rifugio » in cui i fascisti possano ricostituirsi in comunità; ma sono anche un pericolo, perche questi partiti – come già detto – necessariamente falsificano il «discorso» e 1'azione fascista.
Per di più, la contingenza storica, cioè il fatto di vivere in società liberali, ha quasi sempre indotto questi partiti (anche quando per avventura – ma come saperlo? –-- sono sorti con «riserve mentali» davvero fasciste) a schierarsi su posizioni liberali e esclusivamente «anticomuniste», con ricorso sempre più aperto ad un «discorso liberale» (43). E' accaduto dunque, e continua fatalmente ad accadere, che da una parte i fascisti «rifugiati» in questi partiti non cessano di provocarvi tensioni e scissioni; dall'altra, che sempre il partito finisce col conformare alla parola anche gli intenti e l'azione, cosicché ad un certo momento viene in tutto o in parte recuperato dal «sistema»; ed anzi anche quella parte che il «sistema» continua a rifiutare soltanto perche ha bisogno del «fantasma» fascista diviene in realtà sempre pià un partito che difende il «sistema» e vuole preservarlo.
L'esistenza del fascismo è oggi quasi esclusivamente negativa; questa e l'eredità che movimenti e regimi fascisti della prima metà del Novecento hanno lasciato agli uomini che aderiscono al «principio sovrumanistico». E un'eredità che li consegna alle «catacombe», ed è eredità – lo storico deve ammetterlo, con riferimento all'esperienza di lontani passati – il cui valore non e certo trascurabile (44).
Giorgio Locchi
(1) L'epoca dello scritto si situa in un periodo in cui erano ancora attive le furiose polemiche suscitate in particolare da Renzo De Felice, non tanto per la monumentale biografia di Mussolini [composta in particolare da Mussolini il rivoluzionario, Mussolini il fascista. La conquista del potere (1921-1925), Mussolini il fascista. L'organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Mussolini il duce. Lo Stato totalitario (1936-1940), Mussolini l'alleato. Vol. 1: L'italia in guerra (1940-1943): dalla guerra «breve» alla guerra lunga, Mussolini. L'alleato (1940-1945). Vol. 2: La guerra civile (1943-1945)] già da lungo tempo in corso di pubblicazione presso Einaudi e allora lungi dall'essere terminata, ma dalla volgarizzazione che delle sue posizioni era stata data dalla pubblicazione della sua celebre Intervista sul fascismo da parte di Laterza [a cura di Michael A Ledeen]. Altre opere che avevano ravvivato il dibattito nello stesso periodo erano I tre volti del fascismo [ed. originale Der Faschismus in seiner Epoche] di Ernst Nolte [alias], che prendeva in esame fascismo italiano, nazionalsocialismo ed Action Française, e La nazionalizzazione delle masse di George Mosse. Una sorta di risposta neofascista o "di destra" all'Intervista, o comunque un tentativo di partecipare al dibattito da essa suscitato, era stata la pubblicazione da parte di Volpe nel 1976 del libro Sei risposte a Renzo De Felice, con contributi tra gli altri di A. James Gregor ed Enzo Erra.
(2) Il presente testo, malgrado la sua sorprendente attualità, risale al 1980.
(3) Un fenomeno interessante nel senso di cui parla l'autore è l'ampia letteratura biografica, di livello per lo più anedottico e cronachistico, prosperata sino alla ventata di rigore antifascista sopraggiunta ad anni settanta inoltrati, su personaggi di primo piano dei regimi e dei movimenti fascisti, da parte di autori o case editrici assolutamente non sospette, in cui regolarmente il biografo "dimostra" che i "cattivi" erano tutti gli altri, e che l'oggetto della sua narrazione era "in realtà" magari non privo di difetti, ma tutto sommato non interamente coinvolto nelle "responsabilità" e negli "errori" (od orrori) che ritualmente non manca di addebitare a tutto il resto del suo ambiente.
(4) Trad. italiana: Einaudi, Torino 1948; versione originale: Metapolitics: From Wagner and che German Romantics to Hitler.
(5) Trad. italiana Einaudi, Torino 1959; versione originale Die Zerstörung der Vernunft. L'autore in Italia ha conosciuto un lungo periodo di oscuramento, così che le sue opere hanno smesso di essere ripubblicate, proprio per l'ostilità nei suoi confronti dei vari estimatori e "recuperatori" di Nietzsche nell'ambito della cultura dominante.
(6) Ciò che Locchi non era in grado di cogliere all'epoca era il processo già in corso per cui nel corso della storia del Novecento al decrescere dell'attualità della lotta e della mobilitazione contro il fascismo corrisponde un progressivo incremento della repressione legale e dell'intolleranza socio-politica ufficiale contro posizioni fasciste o percepite come tali. Se la Costituzione repubblicana del 1948 prevede tra le disposizioni "finali e transitorie" il divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista, veniva da tutti accettato come dato scontato, quasi neppure meritevole di "denuncia", che il MSI – per quanto ovviamente avversato, represso e discriminato – rappresentasse la continuità ed il contenitore dei resti della Repubblica Sociale Italiana (cfr. lo studio di Piero Sella pubblica sul n. 36 de L'Uomo libero, "Cinquant'anni dopo: Repubblica Sociale, fascismo, Germania nazionalsocialista", di perdurante attualità in riferimento alla vicenda AN, oltre che assolutamente in linea con le conclusioni di Locchi). Ugualmente, la polemica con regimi sopravvissuti già in qualche modo imparentati con il fascismo, come quelli spagnolo o portoghese, restava viva a livello politico, ma non impediva affattp il mantenimento di relazioni internazionali più o meno normali o il riconoscimento della sovranità dei relativi governi da parte della comunità internazionale.
Per giungere alla legge Scelba, con sanzioni per i delitti di ricostituzione ed apologia, ed alle convenzioni "contro il genocidio" bisognerà attendere una quindicina d'anni dalla caduta del fascismo e per giungere ai reati di pura opinione della legge Mancino-Modigliani [alias] (ed ai suoi numerosi omologhi europei) quasi mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ugualmente, le attuali esplicite restrizioni alla libertà di ricerca storica, l'automatica esclusione da parte dell'industria culturale, dei media e dell'università di qualsiasi voce eretica, la marginalizzazione, criminalizzazione e semi-clandestinità di qualsiasi movimento politico o di costume che riprenda anche solo folkloristicamente simboli o tematiche fasciste sono fenomeni contemporanei, impensabili nel mondo "dei blocchi", ivi compreso all'apice del potere politico e culturale dei movimenti comunisti occidentali e di massima estensione delle sfere di potere russa e cinese (che si situa in qualche punto della seconda metà degli anni settanta).
Tale fenomeno corrisponde al passaggio pratico della tendenza egualitarista alla fase post-ideologica della teoria sintetica, in cui diventa integralmente pervasiva, ed al tempo stesso unico collante socio-culturale e criterio di appartenenza, la political correctness della religione dei diritti dell'uomo e/o dell'antifascismo. Tutto ciò, quando erano ancora fortemente sentite le rivalità ideologiche all'interno della tendenza egualitarista, ed il fascismo storico era un nemico appena sconfitto ma al momento non più particolarmente temibile, era molto più relativo e confuso; al punto che "essere fascisti", malgrado la repressione tanto militante che poliziesca dei movimenti che al fascismo venivano in qualche modo apparentati, era socialmente una devianza, una "stranezza", di peso incerto, che in taluni ambienti poteva magari suscitare meno passioni delle tradizionali dicotomie politiche e filosofiche del campo avverso (liberisti e socialisti; cristiani ed atei; progressisti e conservatori; filo-occidentali e filo-sovietici...), e persino, a livello politico, consentire operazioni di tipo "tattico" con gli sconfitti.
(7) L'unica opera organica, se così si può dire, pubblicata da Julius Evola ("il nostro Marcuse", nell'opinione di Giorgio Almirante quando questo era segretario del MSI) è quella pressoché unanimente considerata una delle peggiori prove dell'autore, ovvero Il fascismo visto da destra (con note sul Terzo Reich) (nell'edizione indicata per i tipi delle Edizioni Settimo Sigillo, con il titolo della prima stampa a cura dell'Editore Volpe; e, con il titolo Fascismo e Terzo Reich ugualmente ripubblicato dalle Edizioni Mediterranee). Il revirement reazionario dell'autore dopo la fine della seconda guerra mondiale, comune del resto ad autori come Jünger, aggiunge qui, alla retorica esoterica e fantastorica che tanta presa ha avuto sui lettori più giovani ed ingenui del neofascismo europeo, poco nobili "rese dei conti" tutte interne alla sua peculiare posizione all'interno del fascismo italiano, nonché "strizzate d'occhio" a triviali contingenze politiche legate al tentativo di sdoganare il neofascismo in un blocco di "destra" comprendente conservatori, cattolici, monarchici, le componenti più retrive della borghesia meridionale italiana, gli ambienti atlantisti, etc.
(8) Assolutamente e sorprendentemente "locchiane", o se si vuole "ortodossamente sovrumaniste", sono la maggior parte delle (pochissime) opere di Adriano Romualdi giunte in un modo o nell'altro a pubblicazione, a cominciare da Correnti politiche e ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932 (Edizioni dell'Italiano, Anzio 1981, in origine la sua tesi di laurea, che rappresenta forse il maggior contributo alla conoscenza della Konservative Revolution nel nostro paese sino agli anni novanta), a Il fascismo come fenomeno europeo (rimasto incompiuto, ma pubblicato postumo a cura del padre, Pino Romualdi, con una prefazione di Giuseppe Tricoli, e successivamente ristampato dalle Edizioni Settimo Sigillo nel 1984) a Gli Indoeuropei, raccolta di articoli pubblicata invece dalle Edizioni di Ar, ed ancora in un testo su Nietzsche la cui ultima versione è intitolata Nietzsche e la mitologia egualitaria (pubblicata nel 1981 dalle Edizioni di Ar). Adriano Romualdi, prematuramente e tragicamente scomparso in un incidente d'auto, non a caso condivide con Giorgio Locchi la sorte di essere da molti (ad esempio Giorgio Galli o Furio Colombo) considerato il pensatore e lo storico più incisivo ed originale del mondo italiano sconfitto che sia emerso nel dopoguerra. Curioso come ciò che era perfettamente chiaro al figlio dimostrasse invece di essere diventato alquanto confuso per il padre (pure già vicesegretario nazionale del PFR di Pavolini!), e ciò non solo nella sua difficilmente interpretabile azione politica, ma nell'insignificante opera postuma sulla Repubblica Sociale che avrebbe forse nelle sue intenzioni dovuto consegnarlo alla memoria come storico.
(9) La traduzione italiana è uscita dieci anni dopo la prima pubblicazione del presente scritto, sotto il titolo La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida, per LedE-Akropolis, Firenze 1990. Tale opera viene considerata (in aggiunta all'influenza di Locchi stesso ed ancora dopo la sua cessazione alla fine degli anni settanta) all'origine dell'interesse della Nouvelle Droite francese e di Alain de Benoist per la Konservative Revolution e della divulgazione che essa ne ha fatto, in particolare attraverso l'operazione descritta anche nel testo di evidenziare gli elementi e le occasioni di frizione con il partito e con il regime nazionalsocialista.
(10) Un altro studio, più direttamente attinente al fascismo italiano, passato abbastanza inosservato tanto negli ambienti neofascisti (forse per l'autore, americano e non politicamente coinvolto) che fuori (forse perché egli non condanna affatto l'oggetto del suo studio), è L'ideologia del fascismo di A. James Gregor, pubblicata nel 1970 dalle Edizioni del Borghese, che pur restando alla "superficie" del discorso delinea con grande chiarezza le componenti dottrinali e l'elaborazione teorica relative al regime che il fascismo intendeva instaurare. In ogni modo, esaurita anche la spinta ambigua alla riscoperta/recupero dei "padri nobili" e dell'intellettualità fascista (da Nietzsche a D'Annunzio, Costamagna, Gentile, Heidegger, Schmitt, etc.), i tratti identificanti del "principio" fascista nelle varie contingenze storiche e varianti in cui si è espresso fanno parte ormai di un'acquisizione che si manifesta anche in opere divulgative degli anni novanta come Il fascismo di Stanley G. Payne, tradotta da Newton-Compton in italiano nel 1999. Vedi anche, in un'area più vicina al neofascismo, a cura di Alessandro Campi, Che cos'è il fascismo? Interpretazioni e prospettive di ricerca, Ideazione, Roma 2003.
(11) È stato talora rimproverato a Locchi di non curarsi di illustrare e documentare il rapporto di filiazione diretta tra il nuovo principio di cui egli rintraccia la prima espressione consapevole nell'opera di Wagner e Nietzsche e i movimenti politici che si sono definiti fascisti o vengono comunemente considerati tali, in particolare per ciò che riguarda l'Italia, e personaggi che di tale filiazione potevano avere poca o nulla coscienza essi stessi. Tale rimprovero nasce per altro da un'ignoranza di quanto è ampiamente reso evidente dalle fonti. Esse descrivono non solo le influenze indirette – attraverso le mediazioni dell'"irrazionalismo", del decadentismo, delle riviste come Lacerba, del sindacalismo, persino del socialismo (campo magmatico per nulla affatto unanimemente dominato dalle componenti democratiche e marxiste almeno sino al 1905), del futurismo, del nazionalismo corradiniano, etc. – ma la stessa precisa consapevolezza dei protagonisti politici della rivoluzione italiana, da Mussolini che si volge a Nietzsche ancora nell'esilio sul Gran Sasso, a Gabriele D'Annunzio. Quest'ultimo, già nel 1894 scriveva a Francesco Paolo Michetti, chiudendo la dedica del Trionfo della Morte: "Noi tendiamo l'orecchio al magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca; e prepariamo nell'arte con sicura fede l'avvento dell'Übermensch, del Superuomo". E sei anni dopo, al volgere del secolo ed al termine termine de Il Fuoco, nelle cinque righe che a detta del Vate sostituiscono quelle che avrebbero dovuto essere le ultime tre parti del libro, dopo che Stelio Effrena ed i suoi cinque compagni hanno sparso i lauri raccolti sul Gianicolo sul feretro di Wagner, è già contenuta una profezia che è anche una esplicita promessa: "E [i rami di lauro] viaggiarono verso la collina bavara ancora sopita nel gelo; mentre i tronchi insigni mettevano già i nuovi germogli nella luce di Roma, al romorio delle sorgenti nascoste". In neppure vent'anni i promessi "nuovi germogli", sbocciati appunto non nella Germania "sopita dal gelo" ma "nella luce di Roma, al romorio delle sorgenti nascoste", saliranno al potere, per la prima volta nella storia, a Fiume, con la Reggenza del Carnaro; e poco dopo diromperanno per tutta l'Italia.
Quanto alla scelta da parte di Locchi del termine "sovrumanismo", certo non scevra da inconvenienti ed ambiguità, giova ricordare che ancora all'epoca dell'ultima pubblicazione del presente saggio il progettato titolo della principale opera edita dell'autore, poi uscita come Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista [versione Web] era ancora Wagner, Nietzsche e il nuovo mito. L'autore decide poi, per riferirsi alla nuova tendenza storica emersa dall'anima europea a partire dalla sensibilità romantica e dallo spirito della musica verso metà dell'ottocento, e giunta a piena maturazione nel secolo successivo, di scegliere una indicazione più esplicita, già utilizzata in varia letteratura degli anni trenta, con propaggini sino agli anni cinquanta. La denominazione "sovrumanismo" rieccheggia non soltanto il termine con cui nel linguaggio nietzschano viene fatto riferimento ad un mitema centrale al discorso di tale nuova tendenza, ma l'elemento primario dell'etica appunto sovrumanista, che è quello che identifica nell'anelito tragico al "superamento-di-sé" ciò che dà (può dare) nobiltà all'uomo ed alla sua presenza nel mondo.
Nell'intervista che accompagnava la versione del presente saggio contenuta nel volume L'essenza del fascismo, Locchi rileva altresì come uno degli aggettivi più frequentemente usati per autoidentificarsi dalla tendenza avversaria, quella da quasi duemila anni dominante ed originatasi dall'affermazione in Europa del giudeocristianesimo, è proprio quello di umanista, mentre a partire da Nietzsche i suoi avversari l'hanno spesso indicata come tendenza egualitarista. E spiega altresì come mentre il termine "fascista" rinvii eccessivamente ad un ambito esclusivamente politico (o addirittura all'esperienza geograficamente e storicamente delimitata del fascismo italiano del PNF e del PFR) il termine "anti-egualitarista", intensamente utilizzato da molti esponenti della Nouvelle Droite ed anche da chi scrive specie negli anni settanta e ottanta, ha il fondamentale difetto di essere un termine puramente negativo, che come tale fa già parte in certo modo della "dialettica" di ciò che si vorrebbe combattere o superare.
(12) Il livello di penetrazione che il principio sovrumanista raggiunge in una cinquantina d'anni di diffusione, in particolare dopo il trauma epocale della seconda guerra mondiale (e con rinnovato slancio dopo la crisi quasi altrettanto epocale del 1929), è oggi difficilmente immaginabile. Non ci riferiamo qui solo al dilagare di movimenti ed atteggiamenti fascistoidi o fascisteggianti in tutti i più remoti angoli del globo (dove per altro, data la pregiudiziale "identitaria" delle applicazioni politiche del nuovo principio, i movimenti più vicini ad esso erano magari quelli che rifiutavano di essere apparentati all'esperienza italiana in corso, per rivendicare una propria irriducibile "originalità" nazionale o regionale). Altrettanto e più importante è infatti l'assoluta centralità del discorso sovrumanista in tutti gli aspetti della sensibilità e della cultura dell'epoca, non fosse che per le furiose reazioni che già esso suscitava da parte del sistema dominante, di cui nondimeno ogni componente si sentiva in qualche modo provocata e rimessa in discussione. Questo meccanismo di ripulsa, fascinazione, influenza, scimmiottamento, polarizzazione, si manifesta proprio in quella particolare temperie che trova la sua esemplare caratterizzazione a livello mondiale negli "anni trenta", anche in ambienti etnoculturali lontanissimi, o nelle stesse sfere sovietica ed americana. Valori sovrumanisti sono ad esempio indubbiamente latenti nell'objectivism della soggettista e romanziera Ayn Rand [alias] (The Fountainhead, Atlas Shrugged, We, the Living), che si vuole invece avvocato della "razionalità" e del "capitalismo"; così come senso comunitario, creazione di un uomo nuovo, volontà di potenza, spirito faustiano fanno ambiguamente capolino per la prima volta nella teorica ortodossia marxista-leninista della Rivoluzione d'Ottobre.
Gli strascichi di tale penetrazione saranno evidenti persino nel linguaggio delle "Resistenze" nate e sviluppatesi verso negli anni quaranta sulla crisi, soprattutto bellica, del fascismo europeo, che per "fare politica" non possono che richiamarsi in modo che sarebbe oggi più che equivoco al senso di appartenenza, alla difesa della comunità, alla libertà, all'identità nazionale e regionale, all'eroismo militante, al superamento delle convenienze individuali, alla fedeltà a simboli ed autorità sovraordinate, etc.
(13) Il tema della strategia wagneriana volta a "redimere il Redentore" e svuotare il cristianesimo dei suoi valori portanti è discusso più approfonditamente in Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista [versione Web] (vedi anche, sempre di Giorgio Locchi, il saggio L'anello del Nibelungo. Introduzione alla Tetralogia, pubblicato sul n. 49 dell'Uomo libero e le note ed appendice allo stesso). Tale visione è in un certo senso inversa a quella evoliana, secondo cui il cristianesimo, originariamente "sovversivo" e giudaico, si sarebbe poi europeizzato e paganizzato nel medioevo crociato; e rinvia ad una "religione del cuore" e ad una cristologia assolutamente mitica (anche se non necessariamente più arbitraria di quella delle chiese cristiane positive). In realtà probabilmente il momento di massima (com)penetrazione tra cristianesimo ed Europa si verifica subito subito prima della riforma, all'epoca dei Papi rinascimentali, guerrieri, mecenati e crapuloni, compenetrazione cui tanto la Riforma che la Controriforma rappresentano la reazione - ed al tempo stesso, nel linguaggio di Locchi, il primo momento macrostorico del trasformarsi del "mito" in "ideologie contrapposte".
Giova comunque notare che l'atteggiamento sovrumanista verso il cristianesimo appare strettamente legato con le varie posizioni assunte verso la "destra", ovvero verso gli ultimi residui del legittimismo e tradizionalismo ancien régime, così come verso quanto del mondo medievale, feudale e "crociato" poteva ancora sopravvivere nella Belle Epoque e nel periodo tra le due guerre. Ciò è dipeso non solo dalle rispettive influenze nietzschane e wagneriane (ma la pietas di Wagner per le tradizioni popolari concrete della Germania del tempo non si estende particolarmente alle strutture politiche dell'Europa di Metternich, vedi l'atteggiamento di iniziale favore per le rivoluzioni del 1948), ma anche dal segno concreto e dalla valenza di tali tradizioni nel contesto specifico con cui si era confrontati.
Così, il fascismo italiano, che scende poi a patti con la monarchia sabauda, è all'inizio fieramente repubblicano, mentre il nazionalsocialismo si oppone strenuamente ad ipotesi di restaurazione, pur mostrandosi molto più "tollerante", almeno sino all'attentato ad Hitler, con la destra guglielmina, aristocratica e "prussiana", in cui poteva ritrovare tradizioni molto più consone ai suoi valori... Interessanti sono anche le posizioni, pretesamente "reazionarie" quanto invece praticamente sovrumaniste e rivoluzionarie, espresse da D'Annunzio in Le Vergini delle Roccie. Ma del resto lo stesso nazionalismo italiano del Partito Nazionalista di Corradini era già molto più marcato da influenze sovrumaniste e rivoluzionarie di quanto non lo fosse la destra francese o inglese della Belle Epoque, semplicemente reazionaria e nostalgica di un ancien régime che nello Stato-nazione italiano non è in realtà mai esistito.
Tutto ciò naturalmente ha oggi un interesse puramente storico e metodologico, posto che mentre la "destra" in senso controrivoluzionario non esiste in sostanza più, attraverso il compimento della secolarizzazione il cristianesimo ha comunque cessato in tutt'Europa di svolgere un qualsiasi ruolo di mastice socio-religioso, o di proiezione ideale di un residuo mitico-comunitario dei frammenti dell'ecumene egualitarista. Infatti, per un verso ha riacquisito coscienza (ideologica) di sé, ricostituendosi in minoranza militante tra le altre (così che al cattolico-monarchico, al cattolico-liberale, al democristiano, al "cristiano per il socialismo" si è oggi sostituito il più plausibile... cattolico-cattolico); per un altro, come del resto il marxismo, è stato "riassorbito" nel nuovo ecumene umanista post-ideologico, che lo ha in cambio unanimemente riconosciuto ed accreditato come propria matrice, ed al tempo stesso legittima componente.
(14) La cosa coinvolge del resto anche l'atteggiamento fascista verso le sopravvivenze o riemersioni "pagane", certo marginali ma talora esplicite o persino organizzate, che i fascisti pure trovano già all'interno delle rispettive società, atteggiamento che non può che essere ben diverso. D'altronde, sembrano frutto di confusione ad esempio sia le argomentazioni di Alain de Benoist volte a dimostrare che "in realtà" il nazionalsocialismo non sarebbe stato davvero "pagano" (cfr. la sua intervista in Les nouveaux païens, Dualpha, Parigi 2005), che quelle di Luca Rimbotti (cfr. Il mito al potere, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1992) secondo cui il nazionalsocialismo non sarebbe stato che un'espressione politicizzata e recento del paganesimo europeo eterno. Il fatto è che in un certo senso sono vere entrambe le cose; ma ciò che Rimbotti non pare cogliere per l'ovvia ipoteca culturale evoliana della sua ricerca, e ciò che de Benoist pare dimenticare malgrado la sua lunga frequentazione del pensiero di Locchi e di Mohler, è che il nazionalsocialismo è pagano solo ed esattamente nel senso che è "neo-pagano", ovvero appunto sovrumanista. Con la "morte di Dio" sono definitivamente morti anche i vecchi dèi, che il cristianesimo – sin che è durato – ha indirettamente tenuto in vita come nostalgia e promessa di un mondo diverso, e si sono trasformati nel richiamo mitico ed esemplare utile a rendere possibile un nuovo inizio. Così non può esserci alcuna sorpresa nel fatto che se l'"essenza" del fascismo non è cristiana, parimenti non può essere neppure considerata pre-cristiana, essendo invece appunto post-cristiana.
(15) Anche dimenticando per un attimo gli scritti giovanili su Nietzsche, come La filosofia della forza, ancora nel 1932, nella pienezza della sua posizione di duce del fascismo e presidente del consiglio dei ministri del Regno d'Italia, nel corso della massiccia intervista destinata ad essere pubblicata in volume due anni dopo per Mondadori con il titolo Colloqui con Mussolini, alla domanda di Emil Ludwig, famoso giornalista svizzero nato da una famiglia di ebrei polacchi: "Può un discepolo di Machiavelli e di Nietzsche aver fede?" risponde: "In se stesso. Ciò sarebbe già qualcosa". Le innumerevoli citazioni simili rendono patetiche le operette a tesi di vari pii sacerdoti e laici come Armando Carlini (cfr. il libro Filosofia e Religione nel Pensiero di Mussolini, pure recentemente riedito dalle Edizioni Il Settimo Sigillo), così come la leggenda della sua supposta "conversione" a Dongo poco prima della fucilazione. In realtà, tra il dittatore italiano e quello tedesco, ad avere le posizioni personali più radicali sul cristianesimo è sempre stato il primo...
(16) I ricordati Deutsche Christen, "cristiani tedeschi", che paiono oggi un movimento puramente folkloristico ed opportunista, ebbero in effetti un successo notevole e del tutto spontaneo all'inizio del Terzo Reich riunendo decine di migliaia di entusiasti in stadi in cui veniva proclamato che "il Vangelo è superato, perché tutto ciò che in esso c'è di essenziale è già contenuto in Mein Kampf". In realtà fu il partito, ed in particolare Goebbels, a farli smettere, perché creavano ovvii problemi con le gerarchie cattoliche ed ancor più protestanti. I Leithefte delle SS, quaderni di indirizzo politico inviati a tutti i membri del corpo, erano per altro del tutto realisti quanto alle reali posizioni del clero cristiano, in particolare cattolico, che cercava di "conciliare" o "recuperare" il discorso nazionalsocialista, invitando per farsi un'idea della posizione cattolica a guardare non quello che dicevano del partito i vescovi tedeschi, ma i vescovi stranieri e il Papa.
Hitler per tutto il corso della sua attività politica restò costantemente fedele al proposito formulato già ai tempi di Vienna, e ricordato in Mein Kampf, [versione originale scaricabile, versione originale Web, versione inglese Web] secondo cui il partito nazionalsocialista in quanto tale non avrebbe mai dovuto avere una politica in materia di religione; ed in effetti il partito non prese mai alcuna posizione nei confronti della religione cristiana, nelle varianti in cui veniva praticato in Germania, ed a ben vedere neppure nei confronti di quella israelitica. Il che non significa ovviamente che una politica in materia, se non l'aveva il partito, non dovessero averla i nazionalsocialisti; come dimostra il Kulturkampf da essi posto in essere, in cui anche le forme religiose dell'egualitarismo vennero inevitabilmente fatte bersaglio. Vedi ad esempio, sul piano religioso l'aperto porsi in concorrenza con le chiese cristiane della Deutsche Glaubensbewegung, per cui simpatizzarono o militarono tra gli altri Hans F.K. Günther, Alfred Rosenberg, Baldur von Schirach, etc.
Ricco di dati e riferimenti bibliografici relativamente alla questione religiosa del III Reich è il già citato libro di Luca Rimbotti, Il mito al potere. Sulle convinzioni personali di Hitler sull'atteggiamento e la strategia da tenere verso il culto luterano e cattolico, vedi oltre al più prudente Mein Kampf, [versione originale scaricabile, versione originale Web, versione inglese Web], le Conversazioni a tavola, e i pur certamente deformanti Colloqui con Hitler di Rauschning. Per altri commenti sulle convenzioni religiose di Hitler, e sulle supposte influenze di queste sulla politica nazionalsocialista, vedi anche "Il Dio di Hitler" del cattolico Franco Cardini.
(17) Una teoria che Locchi riprende da Pierre Faye è che nel campo sovrumanista e fascista, tendenza nuova e "circondata", al contrario che nel campo avversario, gli estremisti sono... di centro, perché la "destra" fascista è inevitabilmente indulgente con la destra tradizionale, mentre la "sinistra" è parimenti influenzata dalla sinistra democratica ed egualitaria, tanto che proprio negli "estremi" dei due campi hanno pullulato numerose forme spurie, scambi, contatti, conversioni, apostasie, etc.
La tesi della "centralità" del fascismo in senso stretto viene in particolare applicata al caso tedesco, per confutare la tesi secondo cui la Konservative Revolution ed il nazionalsocialismo sarebbero stati due movimenti diversi e tra loro opposti. Certo, innanzitutto il nazionalsocialismo è stato un partito, mentre la Konservative Revolution, se non si conta il primo, è un'etichetta attribuita a posteriori ad una realtà complessa di correnti filosofiche, scuole artistiche e letterarie, sette mistico-religiose, clubs di pressione politica, circoli militari, organizzazioni giovanili con solo vaghi agganci alla politica, ed infine anche ad una congerie di partiti e partitini (contraddistinti per lo più da vita grama ed effimera). Ma Pierre Faye ha perfettamente ragione nel porre il nazionalsocialismo al centro del mondo "rivoluzionario conservatore", in veste, come lui dice di "ospite muto". Nel campo della Konservative Revolution, ricorda Locchi, tutti parlano, progettano, sognano; quando davvero dall'astrazione si avventurano nel concreto, cioè tentano di "fare politica" in senso proprio, sanno soltanto intrigare, fare le talpe nei partiti tradizionali, o ancora cospirare, o tutt'al più tentare (e fallire) il "colpo di Stato"; se Hitler finisce per essere il beneficiario dell'universale discorso di tutti questi conati, è perché, solo al "centro" del campo, sa "tacitamente", "fattivamente" tradurre quel discorso in fatto politico. È Hitler che traduce in realtà politica trionfante discorsi, sogni, aspettative della Konservative Revolution, e per questo il partito nazionalsocialista ne diventa rapidamente egemone. Ognuno è libero di pensare che altri personaggi, altre organizzazioni e partiti avrebbero tradotto altrimenti e "meglio" quel discorso e quelle aspirazioni in fatto politico; resta nondimeno il fatto che storicamente Hitler ha saputo tradurre quel discorso più efficacemente in rapporto alla situazione data e più conformemente alle aspirazioni degli uomini che vi si riconoscevano, affermando l'"essenziale" della tendenza storica che lo animava, mentre altri si perdevano nel "particolare", nell'accentuazione di questa o quella "specificità".
Ugualmente si può certo affermare, strumentalmente o per convinzione, che Hitler ha "tradito" la Konservative Revolution, o che ne ha "rubato" e pervertito le idee. Per Niekisch, il teorico del nazionalbolscevismo, Hitler era troppo "austriaco" e "cattolico" per capire il "vero" spirito del "socialismo prussiano"; per Syberberg, regista della Neue Welle tedesca degli anni ottanta Hitler sarebbe stato "frutto del connubio mostruoso tra Wagner e la democrazia", concetto certo provocatorio, e citato nello stesso periodo in toni compiaciuti da Michel Marmin e Alain de Benoist per dimostrare come si possa criticare Hitler da posizioni diverse da quelle dell'antifascismo convenzionale.
Resta il fatto che una Konservative Revolution ricavata attraverso una meccanica sottrazione del nazionalsocialismo dall'equazione è una pura astrazione, dato che un Niekisch o uno Spengler, uno jung-Konservative, un völkisch o un Moeller van der Bruck pensavano, e in astratto progettavano, cose assai diverse tra di loro, e per cui non si sarebbe comunque potuto "accontentare" l'uno senza scontentare l'altro. Non solo infatti la prassi rivoluzionaria e di governo devono fare i conti con la realtà a differenza delle teorizzazioni a tavolino di intellettuali o movimenti metapolitici; ma la diversificazione delle altre correnti tra di loro è altrettanto grande, se non superiore, a quella che le distingueva dal nazionalsocialismo – che nel suo intenso dibattito interno finisce del resto per diventarne il contenitore, pur vedendosi costretto a marginalizzarne e ad espellerne con decisione le varianti politiche più pericolose e centrifughe, a sinistra "e" a destra.
Del resto, come nota Mohler, "E' tipico che molte preclusioni della Rivoluzione Conservatrice non siano strettamente ideologiche. Spesso si viene respinti unicamente dallo 'stile': i metodi del nazionalsocialismo, con la loro demagogia, incutono diffidenza. Così pure spaventa l'abbandono talora di un'idea per ragioni di realismo politico (come per la questione alto-atesina). Ancora più spesso sembra siano determinanti antipatie, rivalità o una sfiducia di carattere personale nei confronti di Hitler o di questo o quel suo collaboratore" (La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida, op. cit.).
In Italia, la brevissima incubazione del fascismo prima dell'arrivo al governo e il contesto differente rendono lo scenario parzialmente diverso, e situazioni analoghe si traducono per lo più in atteggiamenti frondisti all'interno del partito, o addirittura del regime. Pochissimi sono gli esponenti di una qualche rilevanza della "rivoluzione nazionale" che come Alceste De Ambris finiscono per assumere posizioni di netta opposizione al potere mussoliniano.
(18) Sul "terzo uomo" (che è poi l'"uomo nuovo" fascista, o il "superuomo" nietzschano), chiamato a farsi integralmente carico del mondo e del proprio destino e a dar loro significato – il primo uomo essendo da identificarsi con quello della prima ominazione e delle società "magiche" di caccia e raccolta, e il secondo con le civiltà post-neolitiche e "pagane" divenute storicamente "coscienti" – cfr. lo scritto di Locchi La lettura del mito, comparso su l'Uomo libero n. 18; ed altresi, sulla stessa rivista, La tecnica, l'uomo e il futuro (n. 20), e La rivoluzione biopolitica. Sfide e opportunità per il terzo millennio, entrambi di chi scrive.
(19) La citazione, anche se è utile a Locchi per spiegare il punto, è probabilmente apocrifa, almeno con riguardo a Goebbels. Secondo una tesi, tale provocazione in questione, innumerevoli volte riferita in toni scandalizzati nel dopoguerra, ed attribuita ora all'uno, ora all'altro gerarca nazista (Goebbels, Goering – cui viene ad esempio attribuita nel film Mephisto –, lo stesso Hitler, etc.), sarebbe in effetti stata pronunciata da Franck.
(20) Locchi usa nel corso del testo alcuni termini in un senso che sarà poi definito rigorosamente in Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista [versione Web] e in altri scritti dell'autore.
In particolare, "discorso" è per l'autore termine neutro, generico, applicato a qualsiasi espressione di pensiero, a prescindere dalla forma e dalla sostanza o contenuto di tale pensiero, così che parla indifferentemente di "discorso fascista", "discorso democratico-liberale", "discorso cristiano", "discorso comunista", etc. Ugualmente generico è il termine concezione-del-mondo con cui traduce Weltanschauung, non senza fare presente come schauen significa "guardare, rivolgere lo sguardo", ed anschauen sottolinea che la visione è un atto soggettivo, che il guardare contiene la spontanea intenzionalità di un soggetto preciso il cui sguardo scaturisce, come per chiunque, dal suo "essere nel mondo" o esser-là (Dasein). In altri termini, Weltanschauung è concezione o visione anche nel senso di inevitabile e particolare "prospettiva soggettiva", che per Locchi costituisce il "principio" (storicamente e psicologicamente) originario di ogni pensiero e di ogni discorso, ovvero il logos - dal senso primitivo della parola greca, da legein, raccogliere, legare insieme -, ciò che sorregge dà coerenza e struttura il discorso stesso.
Un "discorso" può ben essere limitato per il suo "oggetto" (ad esempio, la politica), ma sempre implica una concezione-del-mondo in quanto suo logos.
Ora, per Locchi, il discorso fascista (come lo è stato alle origini, a suo tempo, il discorso giudeocristiano ed egualitario) è sempre mitico. Si presenta cioè sempre nella "forma" del mito, e non in quella delle altre due "forme" definite dall'autore, ovvero le ideologie e la teoria sintetica. Quando parla di "discorso fascista" intende semplicemente sottolineare che esso investe contingentemente un oggetto particolare (in questo caso la politica) e non la totalità dell'"umano" nel suo "rapporto con il mondo".
Nota l'autore: "Che un discorso si presenti nella forma del "mito" dipende dal grado di dispiegamento, penetrazione e sviluppo storico della concezione-del-mondo di cui è espressione. Dipende in altri termini dal rapporto del discorso con la realtà umana oggettiva, e in primo luogo con il linguaggio. Un linguaggio, di per sé stesso, è già sempre - in quanto "ricevuto" - informato e conformato da un logos determinato, che è quello di una determinata, fondamentale Weltanschauung. Un discorso è necessariamente mito quando la Weltanschauung che gli è implicita e lo ispira non è quella dalla quale il linguaggio in cui viene formulato è conformato. [...] Nella mia definizione, qualsiasi discorso sovrumanista (e dunque anche il discorso politico del fascismo) è "mito" proprio perché la fondamentale concezione-del-mondo del sovrumanismo (e perciò della sua espressione politica rappresentata dal fascismo) non è quella che informa e conforma la cosiddetta civiltà e cultura occidentale, a cominciare dal suo linguaggio [di cui è obbligato a servirsi, non esistendone (ancora) altri, e comunque se vuole farsi capire]. "Mitico" è per l'appunto in questo senso il discorso tenuto (per forza di cose) in un linguaggio "ricevuto" informato e conformato dal logos di un'altra, opposta, tendenza storica, da un'altra fondamentale concezione-del-mondo.
In questo senso, come accenna Locchi, il mito si presenta tipicamente come "illogico", in particolare come conciliazione ed unità dei contrari, o di ciò che sino a quel momento era percepito come tale, mentre le sue eventuali varianti si incarnano in quelle che il filosofo chiama "sette".
La fase successiva è quella in cui la tendenza ha ormai creato il suo linguaggio e permeato di sé la realtà sociale, e finisce, a seguito di una riflessione su se stessa, per spezzarsi in ideologie sorelle, (relativamente) contrapposte, che danno vita a loro volte a "chiese" e "partiti" (evoluzione le cui fasi possono essere agevolmente rintracciate nella contrapposizione tra Riforma e Controriforma prima, poi nel mondo della rivoluzione e della restaurazione, con la sua opposizione tra partiti legittimisti, orleanisti, bonapartisti, repubblicani, giacobini, liberali, etc.). È interessante notare che se le ideologie esprimono l'assolutizzazione di antinomie che non erano percepiti come tali nel mito, e se tradiscono una preoccupazione di autenticità, di ritorno alle origini, rispetto alla "perdita di purezza" che l'acquisita egemonia e la banalizzazione del principio cui partecipano comportano (con gli inevitabili compromessi ed eterotelie), al tempo stesso anche tradiscono un primo disagio rispetto al principio stesso. In questo senso, come percepirà benissimo il movimento romantico, la riforma luterana è ad esempio al tempo stesso recupero di un carattere individualista, biblico e millenarista del cristianesimo contro le degenerazioni "pagane" della Chiesa rinascimentale, ma al tempo stesso reazione all'universalismo romano e rivendicazione di un'identità tedesca repressa sino dalla "restaurazione" carolingia e dal massacro dei Sassoni.
Tale disagio non manca del resto di essere "strumentalizzato" dalla tendenza concorrente: cfr. la pretesa propagandistica dei movimenti fascisti di essere il "vero" liberalismo, il "vero" socialismo, la "vera" difesa e riaffermazione dei "valori tradizionali", il "vero" sindacalismo, persino il "vero" comunismo.
La terza fase, infine, è quella della teoria, che mira a riconciliare "razionalisticamente" ed "ecumenicamente" le ideologie scaturite dal mito in una sintesi superiore. Tale fase (che può mutatis mutandis essere riconosciuta in numerosi tratti della fase terminale e sincretista della civiltà classica, del paganesimo e dell'impero romano) è quella che Locchi con riferimento alla tendenza egualitaria crede di poter identificare a livello puramente embrionale e teoretico nell'hegelismo, e poi come prima concreta manifestazione politico-filosofica nel marxismo (che da un punto di vista pratico si ritrasforma però a sua volta immediatamente in un'ennesima ideologia in lotta con le ideologie-sorelle).
La vera forma di tale "unità recuperata" la conosciamo invece, nella vulgata umanista ed unanimista cui rendono ormai indiscriminatamente omaggio il cento per cento delle forze politiche e delle tendenze culturali "ufficiali", nonché delle organizzazioni internazionali, e che chi scrive ha identificato e discusso come dottrina dei diritti dell'uomo (con riferimento anche qui ad un elemento centrale del discorso), sia nell'articolo pubblicato in tema su l'Uomo libero n. 12 che nel saggie Indagine sui diritti dell'uomo pubblicato da LEdE nel 1985, e che si potrebbe anche definire genericamente "democratica", se tale termine non rimandasse troppo esclusivamente al dominio della politica e di un mero sistema di governo – del resto perfettamente "sospendibile" quando il Sistema e i "diritti dell'uomo" lo richiedano! (sul ruolo in tal senso rappresentato dalla dottrina dei diritti dell'uomo, vedi più recentemente, esattamente nello stesso senso, Adriano Scianca, "Diritti dell'uomo?" e Eric Delcroix, "I diritti dell'uomo in azione").
Locchi ha comunque cura di segnalare che i termini di mito, ideologia, teoria sintetica, fanno riferimento a concetti-limite, o concetti operativi, notando come ad esempio proprio il marxismo o il cristianesimo o il liberalismo storici sono stati (e hanno funzionato come) "mito", "ideologia" e "teoria sintetica" al tempo stesso; il che non fa venir meno l'utilità di tale categorie per descrivere l'evoluzione macrostorica della tendenza storica di cui sono stati espressione e la "coloritura epocale" che gli stessi hanno inevitabilmente preso a seconda della fase evolutiva in cui quest'ultima si trovava.
(21) Tutto il campo sovrumanista è intriso di questo elemento di "superamento dei contrari" e negazione della dialettica egualitarista, nelle sue manifestazioni artistiche, filosofiche e politiche. Sotto quest'ultimo profilo, ad esempio, è comune nei movimenti fascisti il riconoscimento del "popolo", inteso in senso antidemocratico e come comunità organica, quale fonte esclusiva ed assoluta della sovranità, contemporaneamente all'affermazione di valori aristocratici, ed ancora al culto del capo. Ancora, l'individualismo eroico e l'anticonformismo sono ammirati insieme con il culto per la comunità e le sue tradizioni; l'autorità e la libertà non sono più considerati come poli di una alternativa al cui interno trovare compromessi in cui ciascuno dei termini limiti l'altro, ma valori da perseguire nella loro massima intensità contemporaneamente, e la cui opposizione viene considerata come puramente astratta e dialettica.
Altri mitemi (ad esempio, la inspiegabilmente felice formula missina degli anni cinquanta della "nostalgia dell'avvenire") sono correlati alla visione antilinearista e "sferica" del divenire storico. Ad esempio, dopo aver ripetutamente trattato il tema della caratterizzazione in senso "post-moderno" della nostra epoca, ancora alla fine degli anni novanta Guillaume Faye lancia lo slogan dell'Archeofuturismo (cfr. l'opera omonima pubblicata dalle Edizioni Barbarossa); ma già il futurismo stesso, intendendo la modernità e la tecnica come la possibilità di un "nuovo inizio", non poteva immaginarla se non appunto con tratti "arcaici".
La Nouvelle Droite, rispetto alle fortissime tentazioni di molti ambienti europei, italiani in primis, a "partecipare al dibattito" ed a "schierarsi" nell'ambito della dialettica egualitarista (parte per l'oblio della propria identità profonda, parte per ovvie speranze di vedersi "sdoganare" e "rilegittimare" come compagni di una o più "cordate"), svolge un ruolo salutare nel richiamo costante che essa fa alla "logica del terzo incluso", che può essere ridotta alla seguente formula: ogniqualvolta il mondo contemporaneo, ufficiale, è diviso tra due posizioni, che appaiono le uniche due possibili su un dato problema, la risposta sovrumanista è... un'altra posizione, o più probabilmente entrambe le posizioni, ma date contemporaneamente, e per ragioni completamente diverse da quelle rese evidenti dalla "logica" del discorso egualitario.
Un esempio tipico che viene citato è l'aborto, che vede da decenni opporsi con grande carica emotiva le ragioni dei fautori del rispetto dei beni primari della "salute psicofisica" (edonisticamente intesa) o della "libertà di scelta" della madre a quelle di chi si preoccupa dei "diritti inalienabili" del feto o dell'ovulo fecondato nei confronti della società e della famiglia (di cui pure ancora il primo non fa parte), o semplicemente rigetta in generale come empia qualsiasi forma di "potere dell'uomo sull'uomo". Ora, è facile notare che dal punto di vista fascista gli aspetti politicamente rilevanti saranno invece quelli demografici o viceversa quelli eugenetici, mentre poco senso hanno i termini dell'alternativa attuale tra i "pro" e i "contro".
(22) Il libro Der Mythus des 20 Jahrhunderts ebbe un considerevole successo in Germania negli anni trenta, benché Hitler dichiarasse di "non essere mai riuscito a finirlo"; e molti gli attribuiscono un peso vicino addirittura a quello di Mein Kampf nella definizione delle idee-forza della nuova Germania. In italiano pare ne sia stata abbastanza recentemente pubblicata una versione parziale dalle Edizioni Il Basilisco (Genova, 1981), che risulta per altro introvabile; almeno una parte è però accessibile sul Web.
(23) La natura di "mito" della nuova tendenza storica incarnata politicamente dai movimenti fascisti, e la relativa tensione tra il "contenuto" del discorso e il linguaggio che questo si trova a dover utilizzare contribuisce a spiegare l'importanza della questione della "dottrina" del fascismo e poi delle sue "interpretazioni".
Ora, è ovvio che per lo più i fascisti credevano di sapere abbastanza bene cosa fossero e cosa volessero, e di essere abbastanza facilmente in grado di riconoscere chi e cosa fosse effettivamente "fascista" piuttosto che no; nello stesso modo gli avversari del fascismo – al di là dell'uso strumentale del termine o di categorie che dovrebbero ricomprenderlo per squalificare i propri rivali/concorrenti ("socialfascismo", "totalitarismo", "clericofascismo", etc.) – non avevano particolari problemi ad identificare il vero "nemico", in cui erano tranquillamente e senza esitazioni ricompresi anche gli appartenenti alla tendenza fascista che per qualche motivo si trovavassero ad avere qualche grana con i regimi.
Ciononostante, la questione di esprimere cosa sia il fascismo, di spiegarlo, è un problema che appassiona od ossessiona costantemente tanto il campo fascista (soprattutto in Italia) che quello antifascista, sin dagli inizi, e non ha alcun equivalente ad esempio per realtà pur tanto variegate come il liberalismo, il comunismo, la socialdemocrazia, l'ideologia democristiana o quella anarchica; spiegazione che per il campo antifascista consiste essenzialmente nel tentativo di "addomesticare", ricondurre alle proprie categorie culturali (dall'"idolatria" alla reazione della borghesia minacciata, dalla nevrosi collettiva all'indebolimento della moralità laica e civile alla "calata degli Hyksos") quello che ad esse è essenzialmente irriducibile.
Un tema largamente tralasciato dalla riflessione di Locchi, che si è trovato a vivere prima ed indagare poi soprattutto l'esperienza tedesca, è quello di come in Italia il discorso del "nuovo mito", quando non si è espresso a livello artistico o politico, ma teoretico, lo ha fatto principalmente nel linguaggio dell'idealismo filosofico, un idealismo per la verità sin dall'inizio molto più fichtiano che hegeliano, molto meno vicino a Platone che non ad Eraclito (di cui Gentile ha a lungo lavorato ad una traduzione, poi rimasta disgraziatamente inedita). Tale circostanza è confermata del resto non tanto dalla piena e consapevole adesione al fascismo del massimo esponente dell'idealismo italiano, Giovanni Gentile, sino al sacrificio della vita, così come di altri esponenti dell'attualismo quali Ugo Spirito, ma dalla "metafisica" espressa in opere come la "difficile" Teoria dello spirito come atto puro (pubblicata nelle opere complete edite nel dopoguerra una prima volta da Sansoni, e poi da Le Lettere) e con ancora maggiore consapevolezza in Genesi e struttura della società (di cui esiste anche una recente pregevole edizione del 1997 pubblicata da Galloni Editore, in una collana diretta da Emanuele Severino, che non a caso pone in varie sue opere la questione dei valori nietzschani espressi dall'idealismo gentiliano). D'altronde, "idealista", anche se un un'accezione molto particolare del termine (quella dell'"idealismo magico"), è lo stesso Julius Evola, che poi sarà considerato l'anti-Gentile per antonomasia dalla base missina degli anni sessanta e settanta, della Teoria e della Fenomenologia dell'individuo assoluto.
La ricca messe dell'idealismo "attualista", per usare il termine scelto dallo stesso Gentile, tende a sua volta ad inaridirsi nel dopoguerra con il ripiego "problematicista" di Spirito, dopo un tardivo flirt con un marxismo abbastanza immaginario, e trova tra i suoi pochi epigoni un filosofo ex-marxista finito a fare politica nel MSI almirantiano: Armando Plebe. È singolare che una delle rare volgarizzazioni del pensiero di Gentile uscite nel dopoguerra sia un opuscolo che riprendeva una conferenza di Plebe, fatto pubblicare direttamente da Almirante e circolato nelle federazioni quasi si trattasse di un volantino, dal titolo "Marcuse e Gentile", in cui l'essenziale dell'attualismo veniva spiegato in modo abbastanza rigoroso in interessante contrappunto con un'altrettanta semplificata illustrazione del pensiero di Marcuse ed in generale della scuola di Francoforte, in piena auge sessantottina, per dimostrare, non a torto, come il "vero" teorico della rivoluzione permanente fosse Gentile (che in effetti la teorizza esplicitamente) e non Marcuse.
Dal punto di vista teoretico, Locchi si è viceversa interessato molto di più a Heidegger (la cui filosofia è l'oggetto di un testo cui ha lavorato negli ultimi anni prima della morte, disgraziatamente rimasto sino ad oggi inedito), a Alfred Baumler e all'antropologia filosofica di Gehlen - che attraverso il figlio Pierluigi Locchi e la tesi di laurea di quest'ultimo è stato poi riscoperto anche dalla Nouvelle Droite.
(24) Reazioni eloquenti rispetto all'"arcaicità" del fascismo – nel senso etimologico, da arché, in questo caso "(nuovo) inizio" –, ed all'irruzione sulla scena dello "straniero", dell'"alieno", dell'"incomprensibile" che il fascismo rappresenta, sono, oltre alla retorica americana fondamentalista sull'Abisso che si è aperto (e va ovviamente... richiuso), l'Uovo del Serpente [DVD], la Bestia che ne è uscita, etc. le parole di Benedetto Croce che rispetto all'avvento del fascismo parla di "calata degli Hyksos", Gli Hyksos in effetti erano i famosi "popoli del mare", per la maggiore costernazione degli scribi egiziani che ce ne tramandano le gesta usciti non si sa da dove con le loro armi di ferro per sfidare il regno dei Faraoni e la "civiltà". Tali invasori erano le avanguardie delle popolazioni indoeuropee giunte sino al Sinai che nel 1296 a.c. impegneranno l'Egitto nel più grande scontro sino ad allora registrato dalla storia, la battaglia di Qadesh, cosicché tale metafora non viene probabilmente considerata particolarmente insultante dalla maggiorparte dei fascisti.
(25) Il tema della "visione del tempo della storia" che connota il sovrumanismo e ne rappresenta l'essenza stessa viene da Locchi sviluppato in Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista [versione Web], e ripreso ripetutamente negli scritti dell'autore, soprattutto in quello intitolato "Il senso della storia" (pubblicato in italiano in l'Uomo libero n. 11) , così come di coloro che ne sono stati influenzati (cfr. "L'idea nominalista - Fondamenti di un atteggiamento verso la vita"di Alain de Benoist, in l'Uomo libero n. 7). Come la stessa visione sia stata per la prima volta (rap-)presentata artisticamente nella Tetralogia wagneriana è ben illustrato dall'autore nell'articolo L'Anello del Nibelungo - Introduzione alla Tetralogia di Wagner apparso sul n. 49 de l'Uomo libero.
Questa visione è nuova e specifica del sovrumanismo, perché ancora nel romanticismo che pure lo prefigura gli ideali rivoluzionari e "progressisti" e la nostalgia reazionaria per il passato che in esso paradossalmente convivono vengono ancora percepiti come contraddizione non risolta.
Così come non risolti sino a Nietzsche sono i rapporti tra il senso del destino, l'Eterno Ritorno, che vuole che siamo ciò che siamo e che non ci permette di essere altrimenti, e la libertà del divenire che riscopre l'uomo come unico artifex historiae e faber fortunae suae. La riconciliazione non può avvenire infatti infatti che nel momento in cui la visione "linearista" e determinista del tempo storico viene cortocircuitata, non per un impossibile ritorno al ritmo del "ciclo" ancestrale e pagano, ma in una visione dove al destino non si può sfuggire perché il destino è il nostro intero passato, ma il nostro passato stesso non esiste che nella prospettiva, nello sguardo che su di esso gettiamo in funzione del progetto che siamo chiamati a ri-definire in ogni istante, in quello che in tale prospettiva è l'atto creativo per eccellenza. Il che non impedirà di considerare il fascismo come "romanticismo politico", per quanto in nuce il movimento romantico possa precorrere il sovrumanismo stesso.
(26) La natura assolutamente strumentale dal punto di vista fascista della questione della proprietà dei mezzi di produzione, che rappresenta "il" problema politico per antonomasia del comunismo e del liberalcapitalismo, giustifica la grande varietà di posizioni assunte in tale ambito, e l'accentuato "sperimentalismo" teorico (e in parte anche pratico) dei regimi e dei movimenti fascisti al riguardo, che hanno condotto molti osservatori a considerare di riflesso la dottrina politica del fascismo "inesistente", "contraddittoria", "cinica", "puramente demagogica", "irrilevante" (rispetto alla concreta azione di governo dei regimi). Vero è invece che questa si dimostra scevra da pregiudizi e flessibilmente attenta all'esperienza storica ed alle realtà sociali concrete. Lo stesso fascismo italiano del ventennio, oltre a dibattere intensamente il problema sociale, segue ad esempio con interesse gli esperimenti della politica economica sovietica o del New Deal roosveltiano, senza con questo minimamente sentirsi "compromesso" con le ideologie liberal-keynesiane o comuniste alla base di essi, né rinunciare allo sviluppo di elaborazioni autonome ed originali.
(27) Lo Zeitumbruch originario è per Locchi quello delle popolazioni che, uscite dieci o dodici mila anni fa dalle brune dell'ultima glaciazione hanno dato luogo alla rivoluzione neolitica, con l'entrata per la prima volta dell'uomo nella storia e la creazione delle culture (le civiltà millenarie di Osvald Spengler), finendo per coinvolgere direttamente o indirettamente tutto il mondo abitato, e ponendo termine allo scenario ed ai ritmi di vita che avevano accompagnato l'Homo Sapiens per almeno tre o quattrocentomila anni, sino a trovare nell'ideologia indoeuropea la sua espressione più conseguente. In questo il sovrumanismo è "moderno", nel senso che condivide la sensazione emergente nell'ottocento e confermatasi nella Belle Epoque di vivere la fine di un'epoca e sul ciglio di un'epoca a venire; con la differenza ovviamente che per il sovrumanista quest'ultima non è certo quella del Ballo Excelsior, o dell'Eden democratico o socialista che asserviranno l'appropriazione tecnica del mondo al progetto di uscita dell'umanità dalla storia.
(28) Enormi confusioni, legate anche al tabù bruciante oggi ricollegato all'argomento, sono tuttora fatte con riguardo alle politiche e posizioni "razziali" dei fascismi, o dello stesso nazionalsocialismo – tra l'altro non omogenee neppure al suo interno. Questioni completamente diverse si pongono ad esempio con riguardo all'antisemitismo; al razzismo "europeo", "ariano", rispetto alle altre macrorazze umane (ad esempio mongolica – ben rappresentata dagli alleati giapponesi –, negroide, etc.); ed alla preferenza "nordica" fatta propria dalla NSDP e dalle SS (in cui militavano ovviamente numerosissimi tedeschi con tratti razziali a dominanza invece alpina, dinarica, mediterranea, baltica, etc., cosa che viene curiosamemente additata dalla propaganda democratica come una sorta di "incoerenza", come se un pittore dovesse fare dipingere solo autoritratti, o un genitore desiderare per figli solo propri cloni).
Ciò che si può dire comunque caratteristicamente fascista è il fatto di avere una politica ed una posizione relativamente alla composizione e caratteristiche antropologiche della comunità di appartenenza, posizioni che si articolavano poi in modo molto diverso da paese a paese ed anche all'interno dello stesso paese; cosa che non si arrestava del resto certo al... genotipo, come prova la politica sanitaria ed educativa del fascismo italiano. Anche qui, l'"uomo nuovo" e la proiezione mitica del passato cui si sceglie di riferirsi si mescolano inestricabilmente, perché il fascista parla del "suo" passato-radice (la Gewesenheit heideggeriana, contrapposta a ciò che è semplicemente successo in un tempo anteriore, Vergangenheit) per esprimere il suo futuro-progetto; e viceversa. Così descrive D'Annunzio nel 1900 gli artieri che recano a Stelio Effrena il lauro latino da depositare sul feretro di Wagner, nel passo citato de Il Fuoco: "Membruti e possenti, eletti tra i più forti e tra i più belli, parevano foggiati nell'antica impronta della stirpe romana. Erano gravi e tranquilli, con la libertà selvaggia dell'Agro nei loro occhi venati di sangue. I loro lineamenti risentiti, la fronte, la chioma corta e crespa, le mascelle salde, il collo taurino, ricordavano i profili consolari".
Vedi anche sull'argomento delle politiche razziali dei movimenti e dei regimi fascisti l'articolo già citato "La rivoluzione biopolitica. Sfide e opportunità per il terzo millennio".
(29) La famosa collocazione "a destra" del fascismo, rimessa in discussione per il fascismo italiano ad esempio dal De Felice – che lo distingue in questo dal nazionalsocialismo (per poi mettere paradossalmente "a destra" con quest'ultimo il fascismo comunemente reputato "di sinistra" di Salò) – non corrisponde solo ad una significativa vittoria della sinistra nella "guerra delle parole" contro i suoi rivali nel campo egualitario, ma alla oggettiva capacità di "risucchio" da parte del "vuoto pneumatico" che nell'ala destra dello schieramento egualitario si era creata a partire dal 1848, ed ancor più con la Belle Epoque e la prima guerra mondiale. Tale vuoto, occupato solo dagli interessi personali e di ceto che la destra continuava a rappresentare, corrispondeva del resto ad una logica delle cose, rappresentando la destra tipicamente solo un "residuo conservatore" che resisteva alle correnti via via più conseguenti e radicali della tendenza egualitarista; così che risulta in certo modo (più) plausibile apparentare tale campo e le sue contraddizioni con chi della tendenza egualitarista rappresenta la radicale negazione.
La situazione si complica però con l'"eresia" marxista-leninista (già del resto in nuce nelle sue premesse rousseaiane e giacobine) e con i tratti "provvisoriamente" fascistoidi ("totalitari", politici, militanti) che questa assume per un'ottantina d'anni. Queste ambiguità non esistono invece nella "sinistra" americana ("liberal"), che si situa su una linea continua che parte dal cristianesimo religioso per giungere al liberalismo, al radicalismo democratico, al sistema della fine della storia e della globalizzazione mondialista.
Resta il fatto che mentre molti movimenti fascisti raccolgono significative conversioni anche "da sinistra", nelle destre europee (già del resto abbondantemente infiltrate da suggestioni sovrumaniste, non avendo più ideologemi credibili propri cui fare riferimento) il fascismo per lo più penetra come nel burro, salvo poi a venirne infiltrato e condizionato, nonché molto più prontamente "tradito" (con il golpe franchista contro la Falange, la repressione del movimento legionario rumeno, l'8 Settembre, l'attentato a Hitler, etc.). Cosa che conferma la debolezza ideale, il fondamentale cinismo ed il disfacimento anche "morale" in cui già versava tale ambiente.
(30) Lo studio ufficiale del fascismo italiano, passando dalle tesi più "complottiste" che ne accreditavano la nascita e il successo all'alta finanza o addirittura al ceto dei... proprietari terrieri, a quelle più "sociologiche", tende ormai ad identificarlo come una sorta di reazione di autodifesa quasi "sindacale" da parte di una "classe media" o piccola borghesia, declassata o timorosa di esserlo, basando l'analisi sulla pretesa composizione sociale del movimento. Interessante in questo senso i dati riportati invece dal Gregor nel già citato L'ideologia del fascismo, che dimostrano come la composizione del PNF nel 1921 rappresentasse in sostanza uno spaccato fedele e proporzionato della società italiana dell'epoca. E ciò ancora senza fare la tara al fatto che, come ben mostrano Mosca e Pareto, dalle "classi medie" esce inevitabilmente il personale politico di qualsiasi movimento rivoluzionario. È ovvio infatti che da un lato una mobilitazione politica implica un qualche grado di consapevolezza storica e soddisfazione dei bisogni primari, dall'altro le rivoluzioni tendono appunto a rovesciare e sostituire le classi precedentemente al potere, il cui contributo alla nuova élite dominante resta perciò marginale, anche quando in parte finisca per sopravvivere a se stessa anche sotto il nuovo regime.
(31) Quando il fascismo italiano finisce alla fine degli anni trenta per occuparsi ex professo di razza, non solo per ragioni di "identità" tende a dare spazio alla peculiare visione evoliana percepita come distinta ed originale rispetto alle posizioni dominanti nel nazionalsocialismo, ma si preoccupa per lo stesso motivo di dimostrare come le preoccupazioni razziali fossero sempre state parte del pensiero e delle preoccupazioni fasciste. Anche se è stato osservato che le citazioni mussoliniane, etc., citate dal partito al riguardo, di cui molte anche precedenti alla Marcia su Roma, non farebbero riferimento alla razza nel più stretto senso bio-antropologico, ma utilizzino il termine come sinonimo di "stirpe", "popolo", o addirittura "tipo umano" (es. "la razza italica", "la razza dei guerrieri contro quella dei mercanti"), resta il fatto che ciò resta assolutamente vero anche per buona parte della dottrina razziale nazionalsocialista. L'interpretazione più strettamente "biometrica" della razza, del resto inevitabilmente basata sullo stato dell'antropologia dell'epoca ed affetta dai limiti di questa, resta rappresentata soprattutto da Ludwig Ferdinand Clauss e Hans Friedrich Karl Günther.
(32) Locchi fa qui probabilmente riferimento a James Burnham, La rivoluzione manageriale, Boringhieri, Bologna 1992, già pubblicato da Mondadori, il titolo La rivoluzione dei tecnici, ed altrie riflessioni dell'epoca sulla stessa linea.
(33) È vero che la visione criticata da Locchi è profondamente riduzionista e superficiale nel non cogliere che alle differenze apparenti e formali tra i diversi sistemi facevano riscontro non solo soluzioni talora "tecnicamente" simili, ma anche differenze profonde che ne cambiavano profondamente il significato ultimo. È d'altronde Locchi a sottovalutare invece qui quanto in tali somiglianze fosse in realtà dovuto ad un ésprit du temps profondamente condizionato ed intriso dai valori, dagli atteggiamenti, dalle sensibilità, persino dall'estetica, che si esprimevano nel fascismo, ivi compreso in coloro che del fascismo erano avversari, o cui persino erano culturalmente estranei (cfr. l'estremo oriente cinese e giapponese). Cfr. anche sul punto la nota 9.
(34) L'osservazione di Locchi risulta particolarmente attuale nella misura in cui, finita l'epoca dei blocchi, ed addirittura richiusa la parentesi dell'"eresia"comunista ormai riassorbita nell'alveo principale della tendenza egualitarista e della teoria sintetica che essa oggi esprime, buona parte della "sinistra" europea è tornata a anche ufficialmente rimpiazzare la "destra" nel suo ruolo di garante dei "poteri forti", così come del capitalismo internazionale e del sistema burocratico-finanziario che li amministrano, mentre la "destra" è ritornata almeno talora rappresentare componenti localiste, "rampanti" o nazionali, che devono costantemente riaffermare e dimostrare la propria fedeltà al sistema stesso perché sia loro consentito di governare (sia pure "sotto tutela"). La tesi di un fascismo "mercenario politico del grande capitale" corrisponde perciò da parte della sinistra, oggi preoccupata soprattutto di difendere il Sistema che c'è e renderlo sempre più coerente con se stesso, ad una paradossale rivendicazione di... continuità con il regime fascista.
(35) Raramente si considera come il nazionalsocialismo sia stato al potere in tempo di pace (si fa per dire, tenuto conto delle incessanti priorità internazionali, a partire dalla questione del controllo della Ruhr, alla guerra di Spagna, all'Anschluss, alla crisi dei Sudeti) per neanche sei anni, che pure sono bastati per rovesciare la Germania come un guanto e per lasciare una traccia indelebile nell'immaginario collettivo mondiale, indistintamente fascista ed antifascista. Il fascismo italiano, che è arrivato al potere molto prima, ha avuto in realtà un indisturbato monopolio del governo, almeno formalmente, per circa quindici anni (dalle leggi "fascistissime" del 1925 sino al 1940), durante i quali nondimeno altre forze, come la Corona, la grande finanza, la Chiesa, etc. continuavano a perseguire alla luce del sole le proprie politiche. Altri movimenti hanno avuto occasione di essere messi alla prova del governo soltanto durante la seconda guerra mondiale, durante l'occupazione tedesca; o addirittura (come le Croci Frecciate in Ungheria) addirittura soltanto durante gli ultimi giorni della guerra...
(36) Il marxismo-leninismo come già discusso rappresenta una "deviazione" dal tronco principale dell'evoluzione della tendenza egualitarista (le cui fortune sono state ampliate geograficamente e storicamente proprio dalla seconda guerra mondiale) nella misura in cui "anticipa" o "forza" rispetto alla evoluzione naturale della tendenza egualitaria verso la teoria sintetica, la restituzione "scientifica" dell'unità originaria, e questo pur trasformandosi immediatamente in "ideologia" e in parte anche in "mito" (attraverso appunto i suoi caratteri "fascistoidi", "politici" e "totalitari"). La vera teoria sintetica è quella che viviamo oggi, quella del sistema in cui i partiti, ad imitazione del partito repubblicano (ovviamente democratico) e del partito democratico (ovviamente repubblicano) negli Stati Uniti, cessano di rappresentare ideologie contrapposte, ma si riducono a strumenti di selezione di una classe dirigente e di programmi pratici connotato dall'adesione indiscussa non solo agli stessi valori di fondo (cosa che era vera anche tra liberali, democristiani e comunisti), ma addirittura alle stesse scelte politiche - i meccanismi istituzionale e di rappresentanza, la strutturazione dell'economia, lo schieramento internazionale, etc.
(37) Il "totalitarismo" fascista è in realtà qualcosa di più dell'ovvio organicismo di qualsiasi comunità mitica, cui si richiama qui in generale Locchi, e come ben mostra il Gregor nel citato L'ideologia del fascismo, rappresenta una caratteristica precipua della riflessione politica del fascismo italiano (che è del resto l'unico regime ad aver rivendicato "in positivo" tale termine), che – al contrario del luogo comune – nel nazionalsocialismo è minoritaria ed implicita, e nei regimi comunisti risulta solo (parzialmente) scimmiottata. L'idea totalitaria – cfr. la voce "Fascismo" pubblicata sotto la personale supervisione di Mussolini sulla Enciclopedia Italiana della Treccani, ed nella cui redazione è stato decisivo il contributo di Gentile – parte infatti dal punto di vista che nel nuovo sistema che il fascismo vuole costruire lo Stato sia l'unico ordinamento originario, e che ogni aspetto della vita sociale sia (debba essere) in esso ricompreso, al punto che la stessa esistenza del PNF, pure accolto e trasformato in un'articolazione di tale ordinamento, ne viene da taluni in prospettiva rimessa in discussione.
Il nuovo Stato, concepito come "atto puro" in politica, si contrappone in tal senso dialetticamente anche al "popolo", alla "nazione", alla "razza", che per il fascista, a differenza che per il nazionalsocialismo (o per il nazionalismo italiano prefascista) sono in certo modo solo dati naturali, mera "potenza" che è solo lo volontà collettiva, ovvero in ultima analisi la rivoluzione, ad inverare. Quest'ordine di idee ha le sue origini in una tradizione politico-giuridica (di matrice essenzialmente romanistica, vedi Costamagna) e filosofica (di matrice attualista, vedi Gentile e Spirito) che nel "policentrico", "germanico" Terzo Reich ha molti meno riscontri, o non ne ha affatto, tanto che le furiosi reazioni della rivista delle SS alle posizioni coerentemente... totalitarie di Carl Schmitt serviranno paradossalmente a quest'ultimo per difendersi nel corso dell'epurazione successiva alla sconfitta della Germania.
Tutto ciò si situa ovviamente a livello di elaborazione teorica. Come non è affatto detto che la libertà di opinione esista concretamente nel più "liberale" degli ordinamenti, così non è detto che la teorizzazione di una ristrutturazione totalitaria della società abbia immediato successo...
L'uso propagandistico del termine, che pure prescinde del tutto dall'opinione di chi con esso viene definito (abbiamo visto che lo stesso è stato rivendicato esclusivamente dal fascismo italiano e da correnti del nazionalsocialismo rimaste però minoritarie), non è comunque avulso completamente dal suo significato proprio. In effetti, lo stesso è utile ai liberali (cfr. Hannah Arendt) per identificare i tratti "fascistoidi", e perciò egualitaristicamente "incoerenti" dei regimi marxisti-leninisti – pure del tutto "provvisori" e strumentali nella teorizzazione politica di questi ultimi –, che derivano dalla forzatura paradossalmente politica e pseudo-mitica della ricomposizione "scientifica" e "sintetica" della frammentazione egualitarista post-secolarizzazione che il comunismo cerca per la prima volta di superare. In questo senso le analogie non sono completamente arbitrarie.
In modo ancora più interessante, la Nouvelle Droite (ma non Locchi), tenta negli anni ottanta anch'essa di giocare la guerra delle parole sul termine "totalitarismo", insistendo sugli aspetti comuni che invece hanno appunto la ricomposizione abortita del comunismo e quella riuscita del sistema liberal-occidentale nella sua forma finale post-ideologica: unanimismo, conformismo di massa, repressione capillare delle devianze, etc., tutte cose che tendono del resto a restituire meccanicisticamente l'unità vivente perduta della comunità mitica, cui però la Nouvelle Droite si richiama in positivo.
(38) L'affermazione di Locchi pare a chi scrive frutto di una semplificazione eccessiva, se non semplicemente affetta da superficialità. Il fatto è che l'autore – pur essendosi, come lui stesso diceva, "per caso" laureato in giurisprudenza – si interessa ben poco al diritto costituzionale (sia esso fascista o democratico), preferendo concentrarsi su altri aspetti. Sotto tale profilo, pare invece difficile contestare che la riflessione del fascismo italiano sotto questo aspetto si contraddistingua per una creatività, un'originalità e persino una radicalità sconosciute all'esperienza tedesca, a partire dalla Carta fiumana della Reggenza del Carnaro –laboratorio, sia pur effimero, in cui per la primissima volta nella storia la nuova tendenza si fa ordinamento giuridico e costituzionale – per giungere alle "leggi fascistissime" del 1925, alla Carta del Lavoro, alla riforma corporativa, al Manifesto di Verona. Le ragioni di questa differenza sono legate, oltre che al tempo maggiore che il fascismo italiano ebbe a sua disposizione, proprio all'esigenza del fascismo italiano di fare i conti con una "materia prima" di diversa natura, ed il minor controllo che lo stesso era in grado di esercitare in via puramente "politica" sulla società del nostro paese, anche per la maggiore indipendenza conservata da forze indifferenti od ostili. ll problema ad esempio della proprietà dei mezzi di produzione o della programmazione economica o della composizione del conflitto di classe viene affrontato molto meno in Germania a livello teorico ed istituzionale, in parte per la formazione politica profondamente diversa di Hitler e della maggior parte della classe dirigente nazionalsocialista (rispetto a quella di Mussolini e della componente sindacalista ed ex-socialista del fascismo); in parte proprio perché gli ostruzionismi e l'egoismo confindustriale, indifferenze rurali, riottosità operaie, o resistenze burocratiche dei tecnici, avevano molte meno chances pratiche di pesare costantemente sulla direzione della vita sociale del paese, così che la riorganizzazione sociale e soprattutto istituzionale del paese secondo le nuove idee poteva sembrare meno urgente - al punto che il regime lascia in vigore la maggiorparte della costituzione weimariana, che viene più "sospesa" ed ignorata che rivoluzionata.
(39) Secondo Locchi, d'altronde, la catastrofe del fascismo è "miticamente" leggibile anche secondo una chiave di necessità tragica, se si vuole di una "metafora cristologica", che vede il nuovo "principio" nascere disarmato, attorno ad un pugno di uomini, compiere "miracoli" incendiando immediatamente il mondo intorno a sé sino ad un apogeo esemplare ed irripetibile (la "Domenica delle Palme"), per precipitare subito nel caos di una Passione che è destinata a restare nell'anima e nei ricordi come patrimonio di coloro che allo stesso principio si riferiscono per tutto il tempo in cui questi ne resteranno consegnati alle catacombe, e che sola può consentirne la "reale" affermazione ("in nome della memoria di ciò che è stato e che ancora potrebbe essere", come dice a Ginevra Artù, rex quondam rex futurus, nel film Excalibur di John Boorman; vedi esattamente in questo senso il famoso incipit dei Cantos Pisani di Ezra Pound:[alias] "a bang, not a whimper...").
(40) La profetica lucidità dell'autore è resa manifesta dalla circostanza già notata di quanto l'antifascismo a quasi sessant'anni dalla scomparsa del suo avversario –ed a fronte dell'imminente scomparsa altresì degli ultimi tra coloro che l'hanno vissuto nell'età della piena consapevolezza – sia divenuto sempre più centrale nella percezione-di-sé e nella formula di legittimazione (in senso paretiano) del sistema dominante. Ha anzi ragione Locchi nel notare come l'antifascismo venga sempre più percepito come un'esigenza morale, che non può che superare – con il crescere della consapevolezza e del bisogno di coerenza – le stesse esigenze e convenienze politiche che nel dopoguerra e nella "collaborazione competitiva" del mondo dei blocchi poteva talora indurre questo o quel partito o potenza straniera a scendere a compromessi tattici e strumentali con i "fascisti", per poco che questi potessero contare.
(41) Un parallelo storico ovvio, e suggestivo, è quella dell'onnipresenza, a livello di percezione di massa, della stregoneria e dell'eresia e di Satana stesso proprio al culmine dell'affermazione del cristianesimo religioso, tanto cattolico quanto protestante; o quella della "reazione in agguato" nel momento del trionfo rivoluzionario.
(42) Dopo oltre mezzo secolo dalla scomparsa dei regimi fascisti, e ormai scomparsi o quasi anche gli ultimissimi esponenti della generazione che avuto il tempo di partecipare alla relativa esperienza, è una constatazione sociologica facile per chiunque che in tutta Europa, anzi, in tutto il mondo abitato da genti europee, il neofascismo (intendendo per questo chiunque tragga dichiaratamente o privatamente ispirazione da qualche aspetto dalle rivoluzioni italiana e tedesca tra le due guerre, o dagli omologhi movimenti degli altri paesi europei) resta una presenza costante a livello di individui, circoli, movimenti, per lo più assolutamente marginali, costantemente repressi o recuperati, talora puramente folkloristici, talora denotati da un'incomprensione ed un'ignoranza assoluta dei fenomeni storici cui si rifanno, talora infine senza alcuna idea che la sensibilità di cui sono animati ha trovato espressione nel fascismo. La ragione di tale fenomeno sta evidentemente nell'effetto "pneumatico" descritto da Locchi, che vede ad esempio un disoccupato tedesco della ex-Germania Est dichiarare negli anni novanta in un'intervista che in fondo per lui sfilare con la svastica è semplicemente il modo più sicuro per andare in televisione.
Questa "onnipresenza" orwelliana del fascismo, quale oscura fascinazione e trasgressione finale, si traduce del resto in tutta l'immensa produzione e fruizione culturale direttamente riguardante i movimenti ed i regimi fascisti ed i loro protagonisti, le cui origini non si esauriscono certo nelle esigenze pur presenti di strumentalizzazione politica dell'immaginario olocaustico, e che si manifesta a livello storico, divulgativo, cinematografico, televisivo, letterario, di critica politica, etc., la cui strabordante abbondanza trascende di gran lunga qualsiasi attenzione possa essere riservata al periodo napoleonico, alla prima guerra mondiale, alla rivoluzione d'ottobre, alla Roma imperiale o alla guerra del Vietnam.
(43) Questo in certa misura non è più vero, a partire dalla fine dell'Europa dei blocchi, che vede indiscutibilmente nei paesi ex-comunisti una meno accentuata uniformizzazione del dibattito politico, e una maggiore "agibilità" per discorsi scorretti; il che tradisce una volta di più come il comunismo si sia rivelato alla fine una un tentativo di sintesi più arretrato e meno conseguente del sistema occidentale; così che, esattamente nello stesso modo in cui all'inizio del novecento suggestioni sovrumaniste facevano più immediatamente presa nella "meno avanzata" componente "di destra" del mondo egualitario, alla fine dello stesso secolo ed ancora oggi fanno molto più facilmente presa, piuttosto che che nei settori liberali, filo-occidentali e mondialisti, nei resti dell'ancien régime comunista jugoslavo, sovietico, rumeno, etc., (tanto che c'è che considera e ribattezza oggi tali ambienti come "destra" dei rispettivi paesi; mentre d'altro canto l'intellighenzia conservatrice e democristiana – cfr. Baget Bozzo [alias] – non ha mancato di rilanciare il refrain del "totalitarismo" e della "peste rosso-bruna").
Ciò che Locchi non poteva sapere, quando ha scritto il presente articolo, è che l'Unione sovietica sarebbe crollata ad opera del "centro" minoritario e traditore dei riformisti moderati gorbacioviani, nella loro in fondo egualitaristicamente coerente opposizione filo-occidentale tanto alle tentazioni nazionaliste e "fascistoide" che a quanto restava alla fine degli anni ottanta dell'ortodossia marxista-leninista.
Per la realtà italiana, d'altronde, la trasformazione del MSI, partito che del resto già si definiva da una trentina d'anni "Destra Nazionale", in Alleanza nazionale, è eloquente quando alla chiaroveggenza dell'autore.
(44) Anche se il presente testo vuole essere soprattutto uno studio di natura storica, sono evidenti i riflessi politici, per chi aderisca al "principio" sovrumanista, delle conclusioni di Locchi; conclusioni pessimiste ("il sovrumanismo è destinato alle catacombe"), ma conclusioni che sono tipicamente rovesciabili in positivo, posto che proprio le catacombe sono state... la stazione di partenza, e non certo di arrivo, della tendenza storica che pare oggi celebrare il suo successo finale
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