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DISPUTE
Dopo le dure polemiche in Israele, l'autore del saggio sui sacrifici rituali anticristiani fa l'autocritica
L'annuncio di Ariel Toaff: «Ritiro il libro»
Lo storico ebreo si scusa e spiega: non voglio che venga usato per la propaganda antisemita
dal nostro corrispondente
DAVIDE FRATTINI
GERUSALEMME - «Ho deciso di fermare la distribuzione del libro». Dopo tre giorni di silenzio in Israele, Ariel Toaff ha diffuso una lettera per annunciare di aver chiesto alla casa editrice il Mulino di congelare il suo saggio Pasque di sangue. «Voglio rivedere e chiarire al più presto quei passaggi che hanno rappresentato la base per le distorsioni e le falsità che sono state pubblicate. Sono rimasto sbalordito dalla forza sviante di queste presentazioni errate, che hanno trasformato quello che è un libro di ricerca in un veicolo utilizzato per colpire l'ebraismo, il popolo ebraico e, Dio non voglia, in una giustificazione per l'”accusa del sangue". Voglio impedire qualunque ulteriore uso distorto del saggio come propaganda antisemita».
Il professore ha incontrato a Tel Aviv i colleghi dell'università Bar-Ilan. Che volevano ascoltarlo per avere spiegazioni sulla tesi del volume: ristretti gruppi di ebrei ashkenaziti, tra il 1100 e il 1500, potrebbero aver compiuto infanticidi per utilizzare il sangue di bambini cristiani nei riti pasquali. Nella lettera, Toaff, docente di Storia del Medioevo e del Rinascimento, si scusa con «tutti quelli che sono stati offesi dagli articoli e dai fatti distorti che sono stati attribuiti al mio libro e a me. Mi sento profondamente responsabile». In Italia, Pasque di sangue è stato condannato dall'Assemblea dei rabbini e al giudizio si è associato Elio Toaff, padre del professore e rabbino emerito di Roma.
Il docente aveva risposto sul Corriere, in un'intervista ad Aldo Cazzullo: «I rabbini hanno lanciato un interdetto non contro il mio libro, che non possono aver letto, ma contro la recensione di Sergio Luzzatto (pubblicata dal Corriere il 6 febbraio, ndr). Che peraltro era fedele. Contro di me usano argomenti falsi. So anch'io che non bastano le confessioni estorte sotto tortura per confermare un fatto».
Il saggio è stato criticato anche da Abraham Foxman, direttore dell'Anti-Defamation League, che è intervenuto con l'università Bar-Ilan: «E' incredibile che chiunque, ma in particolare uno storico israeliano, offra legittimità ad accuse senza fondamento, che sono state la causa di tante sofferenze e attacchi contro gli ebrei. In questo periodo le teorie della cospirazione stanno rifiorendo. Estremisti, antisemiti e terroristi islamici useranno queste tesi per sostenere i loro assalti». Toaff annuncia di voler devolvere tutti i guadagni dalla vendita del libro proprio all'organizzazione americana che combatte il razzismo e l'antisemitismo: «Non permetterò mai — scrive il professore — che chi odia gli ebrei sfrutti me o la mia ricerca come uno strumento per attizzare le fiamme, ancora una volta, dell'ostilità che ha portato all'uccisione di milioni di persone».
La Bar-Ilan avrebbe ricevuto pressioni da sponsor e donatori, soprattutto ebrei ortodossi americani, perché cacciasse Toaff. I dirigenti dell'ateneo ripetono che l'ipotesi del licenziamento non c'è mai stata. L'università è oscillata tra le posizioni concilianti («non verrà sacrificato, come qualcuno vorrebbe») e la decisione di diffondere ieri un comunicato per criticare la pubblicazione del saggio: «Esprimiamo grande collera ed estrema irritazione nei confronti del professor Toaff per la sua mancanza di sensibilità. La scelta di una casa editrice privata in Italia, il titolo provocatorio e le interpretazioni date dai media ai suoi contenuti hanno offeso la coscienza degli ebrei in tutto il mondo e danneggiato il delicato intreccio delle relazioni con i cristiani. L'ateneo condanna e ripudia quello che sembra essere implicato dal libro e da articoli riguardanti i suoi contenuti: che ci possano essere basi per l”'accusa del sangue"».
Il sostenitore della linea più dura all'interno della Bar-Ilan sarebbe stato il presidente Moshe Kaveh. Toaff era stato difeso dai colleghi che considerano il suo caso un test per la libertà accademica. «Non può essere limitata in alcun modo — aveva commentato Rimon Kasher, docente di Studi biblici, ad Haaretz —. Il nostro lavoro è porre domande ed esporre quello che abbiamo scoperto». In discussione, fanno capire dall'ateneo, non è l'autonomia di ricerca. «Il professore avrebbe dovuto mostrare maggiore attenzione nella pubblicazione — spiega l'università nel comunicato — in modo da prevenire le oltraggiose e distorte interpretazioni. Ci aspettiamo che Toaff prenda su di sé la responsabilità per lo sbaglio e agisca per riparare al danno causato».
Prima di tornare in Israele, Toaff aveva detto di essere sicuro di poter essere meglio compreso che in Italia: «Non rinuncerò alla mia devozione alla verità — aveva dichiarato al quotidiano Haaretz — anche se il mondo mi crocifigge».
Corriere della sera, 15 febbraio 2007, pag.45 |
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IL CASO
Lo studioso ebreo si difende e parla di una sua «provocazione accademica»
Toaff: infrango un tabù ma non accuso nessuno
«Mi condannano senza leggermi. Non credo agli omicidi rituali»
dal nostro corrispondente
DAVIDE TRATTINI
GERUSALEMME — «Non rinuncerò mai alla dedizione verso la verità e la libertà accademica, anche se il mondo mi crocifigge». Ariel Toaff ha preparato il ritorno a Tel Aviv, e all'Università Bar Ilan, con una serie di interviste. Al quotidiano liberal Haaretz dice di essere stato paragonato a Yigal Amir (l'assassino del premier Yitzhak Rabin) e ripete di «non aver paura di raccontare la verità». È dispiaciuto per «non aver spiegato alcuni punti più chiaramente»: «Ma dopo trentacinque anni di ricerche, non sono diventato uno stupido antisemita. Non ho pubblicato un libro per guadagnare soldi».
Il libro è Pasque di sangue (edito dal Mulino) e il professore di Storia del Medioevo e del Rinascimento dovrà spiegare le polemiche che ha provocato anche a Moshe Kaveh, presidente dell'ateneo dove insegna. L'università vuole ascoltare Toaff per avere spiegazioni sulla tesi del saggio: l'accusa contro gli ebrei di avere praticato, tra il 1100 e il 1500, l'omicidio di bambini cristiani a scopo rituale potrebbe non essere stata del tutto falsa. Pasque di sangue è stato condannato dall'Assemblea dei rabbini d'Italia («è assolutamente improprio usare delle dichiarazioni estorte sotto tortura secoli fa per costruire tesi storiche tanto originali quanto aberranti») e al giudizio si è associato Elio Toaff, padre del professore e rabbino emerito di Roma. Al giornale Maariv, il docente racconta le settimane passate in Italia, che «negli ultimi giorni si sono trasformate in un incubo». Menachem Gantz, corrispondente del quotidiano da Roma, incontra Toaff mentre è seduto davanti allo schermo del computer portatile. Legge le centinaia di email arrivate, dopo la recensione di Sergio Luzzatto, pubblicata dal Corriere della Sera il 6 febbraio. «Ho ricevuto minacce come questa: "Se nei secoli è stato versato tanto sangue ebreo, ora ne verrà versato ancora, il tuo". E tutti i messaggi cominciano: "Non ho ancora letto il suo libro, ma...". E’ più semplice scrivere a me che sono una disgrazia per l'ebraismo piuttosto che affrontare un saggio di 400 pagine», intimidazioni confermate ieri sera in tv, a Matrix, la trasmissione di Enrico Mentana.
Toaff spiega a Maariv di aver fermato la seconda edizione del libro («voglio chiarire alcuni passaggi) e racconta di sperare che in Israele venga capito il «dibattito accademico»: «Preferisco essere attaccato in Israele, piuttosto che in Italia. Almeno in Israele posso spiegarmi». E, ha aggiunto ieri sera Toaff a Matrix, anche «nella mia università si dice che il libro fomenta l'odio antisemita, ma fare storia ebraica solo sui temi permessi non è fare storia».
Anche al Jerusalem Post dice di poter essere meglio compreso a Tel Aviv. «Ho condotto queste ricerche per sei anni con i miei studenti senza alcun problema. Forse il libro avrebbe dovuto essere indirizzato a un pubblico israeliano, dove c'è meno rischio di incomprensioni e di uso improprio delle mie scoperte». Toaff sostiene che a scatenare «la polemica è stata la controversa recensione di Sergio Luzzatto, sollecitata dal Mulino».
Così il quotidiano gli chiede: «Crede che le comunità ebraiche possano aver commesso omicidi rituali?». Il professore risponde con un «no», definito «risoluto» dalla giornalista. Il Jerusalem Post gli ricorda un commento che avrebbe rilasciato nel primo giorno passato a Roma («alcuni omicidi rituali potrebbero esserci stati») e Toaff replica: «La mia dichiarazione è stata una provocazione accademica ironica, una premessa per infrangere il tabù delle ricerche attorno all'atmosfera anticristiana in alcune comunità ashkenazite europee, nel Medioevo».
Corriere della sera, 13 febbraio 2007, pag.49 |
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LA SVOLTA
Escluse azioni disciplinari contro l'autore di «Pasque di sangue»
Tel Aviv, l'università difende Ariel Toaff
«Libertà accademica: speriamo che si legga e discuta il saggio»
dal nostro corrispondente
DAVIDE FRATTINI
GERUSALEMME — «Niente sacrifici al Moloch, come qualcuno avrebbe voluto». Ovvero, nessuna azione disciplinare. I colleghi dell'università israeliana Bar-Ilan hanno ascoltato le ragioni del professor Ariel Toaff. «Siamo soddisfatti — spiega il portavoce Shmuel Algarbali all'Associated Press —. Ci ha raccontato le ricerche che hanno portato al libro Pasque dì sangue e ha chiarito che lo studio è dedicato solo al sentimento anti-cristiano di un piccolo gruppo di ebrei ashkenaziti nel nord d'Italia. Il professore ha preso piena responsabilità per i contenuti. Speriamo che la gente legga e discuta il saggio».
Moshe Kaveh, presidente dell'ateneo, aveva deciso di convocare il docente di Storia del Medioevo e del Rinascimento, ancora quand'era in Italia. Kaveh e gli altri accademici lo hanno voluto incontrare per avere spiegazioni sulla tesi del volume, edito dal Mulino: l'accusa contro gli ebrei di avere praticato, tra il 1100 e il 1500, l'omicidio di bambini cristiani a scopo rituale potrebbe non essere stata del tutto falsa. Da subito, l'università aveva difeso la libertà di ricerca e di espressione scientifica. Allo stesso tempo, aveva condannato «qualunque tentativo di giustificare l'”accusa del sangue"».
La Bar-llan avrebbe subito pressioni — rivela il quotidiano Haaretz — perché licenziasse Toaff e il presidente Kaveh avrebbe respinto le dimissioni del docente, offerte per fermare le polemiche che potrebbero danneggiare l'ateneo. Toaff dovrebbe comunque andare in pensione alla fine dell'anno. «Persone che non sono accademici e ricercatori di altri istituti — aveva anticipato Yerah Tal, un altro portavoce, prima della decisione di ieri — sono venuti da noi a chiedere di mandar via il professore. Ma non stiamo prendendo in considerazione questo passo».
L'università riceve aiuti soprattutto dagli ebrei ortodossi americani, sponsor e donatori hanno minacciato di tagliare i fondi. Abraham Foxman, direttore dell'Anti-Defamation League, ha chiamato i dirigenti a Tel Aviv e ha criticato il libro: «E' incredibile che chiunque, ma in particolare uno storico israeliano, offra legittimità ad accuse senza fondamento, che sono state la causa di tante sofferenze e attacchi contro gli ebrei. In questo periodo le teorie della cospirazione stanno rifiorendo. Estremisti, antisemiti e terroristi islamici useranno queste tesi per sostenere i loro assalti». In Italia, Pasque di sangue è stato condannato dall'Assemblea dei rabbini («è assolutamente improprio usare delle dichiarazioni estorte sotto tortura secoli fa per costruire tesi storiche tanto originali quanto aberranti») e al giudizio si è associato Elio Toaff, padre del professore e rabbino emerito di Roma.
I colleghi ricercatori avevano intimato all'amministrazione di evitare qualunque condizionamento alla libertà accademica di Toaff. «Non può essere limitata — aveva commentato Rimon Kasher, docente di Studi biblici, ad Haaretz —. Il nostro lavoro è porre domande ed esporre quello che abbiamo scoperto. Il caso di Toaff mette alla prova le garanzie di autonomia per gli studiosi». Altri professori — racconta sempre il quotidiano — descrivono Toaff come un docente stimato, che ha un buon rapporto con gli studenti. Un collega racconta il soprannome che gli è stato dato nelle aule: «il rabbino rosso», per essere stato ordinato e per le sue posizioni di sinistra.
Prima di tornare a Tel Aviv, Toaff aveva detto al giornale Jerusalem Post: «Sono sicuro di poter essere meglio compreso in Israele. Ho condotto queste ricerche per sei anni con i miei studenti senza alcun problema. Forse il libro avrebbe dovuto essere indirizzato a un pubblico israeliano, dove c'è meno rischio di incomprensioni e di uso improprio delle mie scoperte».
Corriere della sera, 14 febbraio 2007, pag.49 |
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POLEMICHE Le «Pasque di sangue» continuano a provocare reazioni non solo nella comunità ebraica
Caso Toaff, nuove polemiche dopo il ritiro del saggio
Non sembra destinato a chiudersi con il ritiro del libro da parte dell'autore, Elio Toaff, il caso sollevato dall'uscita di Pasque di sangue. A molti il gesto dello storico ebreo non basta, perché a loro avviso, come ha osservato ieri il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, «il danno resta». Anche se la casa editrice il Mulino ha subito provveduto a bloccare la diffusione del volume.
Di Segni ritiene che Toaff «abbia fatto bene a fermare la distribuzione del libro e a chiedere scusa» e che le dichiarazioni autocritiche dello storico siano «un primo passo, importante per ridimensionare quello che è successo». Secondo Di Segni, però, l'incidente causato da Pasque di sangue non si può facilmente archiviare: «È un libro comunque che avrà lo stesso un effetto, perché continuerà a circolare e sarà un punto di riferimento».
Lo stesso applauso polemico con cui è stato salutato ieri sera alla sinagoga di Roma, a una cerimonia per i soldati israeliani rapiti mesi fa, il rabbino emerito Elio Toaff, padre dell'autore del libro che non ha esitato a criticare il figlio, dimostra che la vicenda ha lasciato il segno.
Nel saggio di Ariel Toaff trova credito l'ipotesi che in alcuni ristretti ambienti dell'ebraismo ashkenazita, tra il XII e il XV secolo, si siano verificati omicidi di bambini cristiani, compiuti allo scopo di utilizzare il sangue delle vittime nei riti pasquali. Ora l'autore, docente alla Bar-Ilan University in Israele, ha deciso di riprendere in mano il libro, in modo da chiarire meglio il suo pensiero su una questione assai delicata. Infatti la cosiddetta «accusa del sangue» è stata a lungo una bandiera dell'antisemitismo più feroce: molti ebrei innocenti sono stati uccisi sulla base di tale diceria. L'idea che essa possa avere avuto un fondamento, per quanto limitato, ha provocato da parte della comunità ebraica italiana un'autentica levata di scudi, alla quale hanno fatto seguito giudizi molto critici espressi da diversi studiosi sul lavoro di Toaff.
Resta da capire quali saranno gli sviluppi editoriali della vicenda: «Nei giorni prossimi — ha dichiarato ieri Ugo Berti Arnoaldi, editor di storia del Mulino — avremo modo, spero con maggiore calma e serenità, di definire i termini e i tempi di una riedizione. Non posso che riconfermare ad Ariel Toaff la mia amicizia, la mia piena stima e la mia solidarietà in un momento per lui così difficile, e così triste per chi ha a cuore la libertà della ricerca».
Non c'è dubbio in effetti che l'asprezza degli attacchi rivolti a Toaff, con velate minacce di ritiro dei finanziamenti e delle sponsorizzazioni all'ateneo dove lo storico lavora, ha in qualche modo fatto vacillare l'autonomia delle istituzioni culturali. C'è però chi individua altre priorità: il sociologo delle religioni Massimo Introvigne, cattolico, giudica insufficienti le scuse di Toaff in quanto il problema principale, a suo parere, non concerne la libertà accademica e neppure il rischio di fare il gioco dell'antisemitismo, bensì la metodologia «non solo discutibile, ma sbagliata» del libro.
Diversi fronti restano aperti, insomma, come forse è inevitabile quando si evocano fantasmi così radicati nell'immaginario collettivo della civiltà europea.
Antonio Carioti
Corriere della sera, 16 febbraio 2007, pag.57
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Toaff, caccia al libro maledetto
MARIO BAUDINO
Alla libreria Pregliasco di Torino, per dire uno dei santuari della bibliofila, sono già arrivate almeno due richieste, dall'estero. Uno degli aspiranti è disposto a pagare «qualsiasi cifra». Magari non milioni, ma insomma pur di avere Pasque di sangue non bada al prezzo. Il libro di Ariel Toaff è introvabile, le prime tremila copie sono andate via nel giro di pochi giorni sull'onda delle furiose polemiche scatenate dalle anticipazioni di stampa, e non ce ne saranno altre. Lo studioso, com'è noto, ha chiesto all'editore, dall'università israeliana dove insegna, la Bar-Ilan di Tel Aviv, di sospendere la distribuzione del volume, e il Mulino non ha potuto far altro che adeguarsi.
«L'autore ha ogni buon diritto di chiedere il ritiro della sua opera, salvo, secondo le norme sul diritto d'autore, pagarne i danni» dice Ugo Berti, responsabile editoriale della saggistica storica. E così la comparsa di Pasque di sangue nelle classifiche dei più venduti resterà un episodio irripetibile. Ormai la tiratura è esaurita, e la ristampa che si stava preparando è bloccata. Il libro non riuscirà neppure ad arrivare nelle biblioteche pubbliche; resterà un fantasma, ricercatissimo, un libro clandestino da leggere in fotocopia. «Siamo sommersi dalle richieste - continua Berti - ma non possiamo far altro che dire di no. Persino alle comunità ebraiche, che al di là delle polemiche lo vorrebbero per motivi di studio e documentazione».
Qualche libraio, qui e là, avrebbe venduto le copie rimaste a prezzi maggiorati. Difficile trovare conferma. «Quel che so - aggiunge Berti con ironica amarezza - è che un amico libraio ha cominciato a prendermi in giro: "Per una volta che hai un libro che si vende, te lo fermano"». Il Mulino è una casa editrice particolare, che pubblica saggistica di taglio non esclusivamente accademico ma comunque «alto», che appartiene a un vasto gruppo di intellettuali (l'associazione del Mulino, appunto) e che insomma ha logiche un po' diverse dagli editori commerciali. Le sue tirature non sono da bestseller. Questa volta, complice lo scandalo, lo sarebbero certamente diventate, nell'ordine almeno - valutazione di Berti - di qualche decina di migliaia di copie.
Su Pasque di sangue cala invece il sipario, forse per sempre. La reazione del mondo ebraico contro lo studio sui processi medievali per infanticidi rituali (la conclusiene di Toaff è che in pochissimi casi potrebbe esserci del vero nelle accuse rivolte agli ebrei imputati), la condanna dei rabbini e di moltissimi storici non solo italiani, ma soprattutto la situazione di estrema difficoltà in cui è venuta a trovarsi l'università - che avrebbe perso milioni di dollari in finanziamenti da enti americani - rendono improbabile una riscrittura anche parziale del libro, e una nuova pubblicazione. Se a questo aggiungiamo, come filtra da Israele, che lo storico avrebbe ricevuto minacce di morte, pare davvero improbabile che se ne possa riparlare in un prossimo futuro. Una rarità assoluta prende così congedo dai lettori, e lo fa dall'alto della classifica dei più venduti. In un mondo dove, al contrario, tutte le peggiori farneticazioni antisemite sono ampiamente disponibili in libreria, è un risultato piuttosto sconcertante.
La stampa, 20 febbraio 2007, pag.39
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EUROPA. IL PE FINANZIA LIBRO DI UN DEPUTATO POLACCO DI ESTREMA DESTRA
Antisemitismo pagato dai contribuenti Ue
Giertych, esponente del partito xenofobo Lega delle famiglie illustra deliranti «differenze biologiche»
di Luca Sebastiani
Parigi. Un pamphlet antisemita finanziato dal Parlamento europeo? Da non crederci. Eppure, per quanto incredibile possa apparire, è esattamente quello che una platea sconcertata ha appreso direttamente dall'autore dell'opuscolo in questione, l'eurodeputato polacco Maciej Giertych che lo ha presentato al pubblico nelle accoglienti sale dell'istituzione di Strasburgo.
In Civilisations at War in Europe, sulla copertina del quale figura il logo del Parlamento - come sempre ogni volta che la pubblicazione di un volume si giova dei fondi europei - l'esponente di punta della Lega delle famiglie polacche (Lpr) spiega in maniera argomentata agli ignari lettori che mai si trovassero tra le mani il libello che cosa sia la "civilizzazione ebrea", quali le "differenze biologiche" tra ebrei e "gentili" e perché, in fin dei conti, la coabitazione tra Europa ed ebrei sia praticamente impossibile.
Gli ebrei, che non hanno caratteri esteriori riconoscibili, scrive l'autore, passano da un paese all'altro apprendendone la lingua ma rifiutandosi di mischiarsi con la popolazione locale perché «preferiscono vivere volontariamente separati dalle comunità che li circondano. Formano loro stessi dei ghetti», c'illumina l'autore prima di aggiungere, come corollario storico, che «solo Hitler ha creato il concetto di separazione forzata e di ghetto chiuso».
Il più bello viene quando Giertych, professore universitario, entra nel suo campo scientifico di predilezione, la biologia. Infatti, spiega, pur non essendo quella ebrea una razza distinta, «il fatto che restino tra loro, che vivano separati, ha avuto come conseguenza lo sviluppo di differenze biologiche». Ma il professore è anche un attento osservatore delle dinamiche storiche e, ad esempio, si è accorto che, stando gli ebrei durante un conflitto in tutti i paesi belligeranti, alla fine delle ostilità quelli che si trovano negli stati vincenti si prodigano affinché quelli che vivono in quelli perdenti siano, comunque, ben trattati. «È un modo di sopravvivenza che hanno sviluppato stando tra i gentili». Gli ebrei si aiutano tra loro, mentre «noi cristiani», scrive l'autore, lottiamo per i nostri valori e questo, conclude perentorio, «dimostra che non c'è intesa possibile tra queste civilizzazioni». Esponente tra i più importanti del Lpr, Giertych è la vetrina europea delle idee del suo partito ultracattolico, antieuropeista e xenofobo che in patria viene sapientemente presieduto dal figlio Roman, attualmente ministro dell'Educazione e vice premier nel governo dei gemelli Kaczynski. Da quando hanno vinto rispettivamente le elezioni politiche e quelle presidenziali e sono riusciti ad interrompere il ciclo dei governi socialdemocratici che si susseguiva dalla caduta del comunismo, i due fratelli Kaczynski governano il paese con una coalizione inquietante, che vede la partecipazione, oltre che del loro partito conservatore (Pis) e del Lpr della famiglia Giertych, anche di Autodifesa (Samoobrona), partito populista. L'aria nazionalista e ultracattolica che si respira a Cracovia è arrivata anche a Strasburgo.
Nel 2004 nel pieno del processo di ratifica del Trattato costituzionale europeo, da poco entrati nel Parlamento europeo i membri dell'Lpr avevano subito fatto parlare di sé quando, guidati da Giertych padre se ne andavano in giro tra i banchi brandendo poster di Marx e Lenin e gridando: «Ieri Mosca oggi Bruxelles». In quell'occasione il loro leader, scandalizzato dall'assenza del riferimento alle radici cristiane nel preambolo della Carta, aveva commentato che la Polonia aveva la sua, di Costituzione, e aveva auspicato che i polacchi rigettassero «questo documento senza Dio».
Anche la caccia alle streghe che il governo polacco sta conducendo contro i comunisti - spesso avversari politici - è arrivata a Strasburgo per mezzo di Giertych che il luglio scorso, ad esempio, presa la parola e reso omaggio a Francisco Franco, accusò le sinistre repubblicane che combatterono la guerra civile contro il dittatore fascista di essere solo «collaboratrici dei bolscevichi di Mosca». Gli europarlamentari spagnoli strabuzzarono gli occhi e protestarono, ma gli exploit dell'ultracattolico polacco sono ormai consueti al Parlamento europeo. Qualche mese fa gli venne ingiunto di smontare l'esposizione antiabortista che aveva allestito nelle stanze del Parlamento e ancor prima, sotto la pressione della stampa, Giertych aveva dovuto licenziare il proprio assistente ripreso dalle telecamere in una manifestazione neonazista mentre invocava il Fuehrer col braccio alzato. Come se non bastasse, il biologo ha più volte sostenuto, in Europa e in Polonia, l'abolizione dell'insegnamento della teoria dell'evoluzione di Darwin in quanto «non sostenuta da prove».
Quella dei Giertych è una famiglia di lunga tradizione politica. Il padre di Maciej è stato uno dei fondatori dell'estrema destra xenofoba polacca prima della Seconda guerra, periodo a cui il figlio ha appunto dedicato l'analisi antisemita pubblicata col contributo finanziario di Strasburgo. Sulle pubblicazioni dei deputati europei non c'è un controllo preventivo, ma la socialista francese Martine Roure ha già fatto sapere di voler consultare dei giuristi per vedere se ci siano gli estremi per perseguire l'opera del professor Giertych.
il Riformista, 17 febbraio 2007, pag.7
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Levi, l'ombra di Prodi che fa collezione di flop
GIANCARLO PERNA
Quando, a proposito di Ricardo «Ricky» Levi, si chiede a Prodi: «Ma perché te lo porti sempre dietro?», Romano china la testa e non risponde. Non lo sa, non l'ha mai saputo, non se lo è chiesto. Alcuni stravedono per il gatto. Altri impazziscono per una ballerina. A Prodi piace Ricky.
Levi è inesorabilmente tra i piedi. Non lo schioda nemmeno l'influenza e impedisce a chiunque di incontrare Prodi da solo. I margheritini suoi compagni lo considerano un rompiscatole e lo detestano. Pierlù Castagnetti ripete costernato: «Non sa nulla di politica. Ma è l'unico che Prodi ascolti». Talvolta capita che Ricky manchi. Succede quando non ci sono le telecamere e non può pavoneggiarsi. Levi è infatti l'ingrigito giovanotto, che in tv appare in sottofondo mentre Prodi parla. Si distingue per l'estasi con cui ne ascolta i borborigmi e per l'aria da paggio di classe. Fungendo da cornice, ci è diventato familiare.
Lo zelo di Levi nel tampinare Prodi ha la stessa funzione che gli zoologi attribuiscono al chihuahua che «segna il territorio»: tenere lontani i concorrenti. Ricky ha il terrore di essere spodestato da Silvio Sircana, il portavoce di Palazzo Chigi. Anche Sircana è eternamente alle costole di Prodi. Il rischio che gli entri più di lui nel cuore è concreto. Tra i due la rivalità è grande. Levi gioisce per ogni gaffe dell'altro, l'altro per ogni errore di Levi. Poiché entrambi ne fanno a iosa, è un continuo di gioie e dolori. L'altalena, durata anni, si è però affievolita da quando Levi è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il nuovo impegno ha lenito le sue turbe psicologiche.
Ricky, giornalista di lungo corso, ha avuto un incarico su misura: responsabile della Stampa. All'istante, ha messo a frutto le esperienze di 30 anni e ha annunciato l'accorpamento delle Agenzie di informazione. Non più la pluralità che dura dal dopoguerra, con l'Ansa, l'Agi, la Adn-Kronos, ecc., ma un ritorno all'ordine mussoliniano. Un solo fidato centro informativo come la «Stefani» d'anteguerra. Il progetto è ancora in fieri perché Ricky è uomo che non ha fretta. I suoi ritmi di lavoro sono tropicali, nonostante l'aria anglosassone. Ma, se si è ben capito, il ragionamento è questo: poiché la politica finanzia le Agenzie, è giusto che le controlli. Per farlo meglio le unifica e, per li rami, nomina direttore, capiredattori, capi-servizio. Logicamente, gli interessati hanno un diavolo per capello e sono col fucile al piede. Il bailamme ha rinsaldato Ricardo nelle intenzioni. È nella sua natura estasiarsi per i suoi pastrocchi. Ha collezionato vistosi fallimenti, pensando invariabilmente di avere ragione. Ci torneremo sopra.
L'altra cosa che ha fatto in otto mesi è la migliore che potesse fare: niente. In particolare, ha confermato i contributi pubblici ai giornali. Glielo hanno rimproverato anche i suoi. Il senatore Franco De Benedetti, grillo parlante dell'Unione, ha detto: «Poteva trovare il coraggio di cancellare almeno i finanziamenti ai grandi quotidiani e, quindi, ridurre almeno una parte dei 160 dipendenti statali che li amministrano». Ricky ha reagito da pierino come Padoa-Schioppa criticato per avere messo tasse invece di tagliare spese: «Non faccio interventi simbolici. Farò grandi riforme». Levi ci ha aggiunto uno strato di panna e ha usato il plurale maiestatico: «Abbiamo mantenuto i finanziamenti pervasi da una grande ambizione. Cambiare tutto in futuro. L'organizzazione del mercato, la legislazione sulla concorrenza, la pubblicità, l'innovazione tecnologica, i servizi postali, l'occupazione...». Poteva aggiungere: le abitudini alimentari, la taglia dei pigiami, l'erre moscia di Bertinotti, il sapore dei salami. La sua innata sobrietà glielo ha impedito. Dunque, è certo: travolto dall'immensità dei suoi progetti, non farà niente. Per noi, è una fortuna. Quando ha fatto qualcosa, Levi ha superato Attila.
Di nababbico ceppo modenese, Ricky è nato casualmente a Montevideo (Uruguay), 57 anni fa. La famiglia si era rifugiata in Argentina per sfuggire alle leggi razziali fasciste. Il padre, un petroliere, aveva convertito i suoi beni in ampie «fazende» nella Pampa. Giunti tempi più miti, il giovanotto italo-argentino rientrò in Italia per frequentare a Milano l'università e laurearsi in Scienze politiche. Fu subito notato per la nobiltà del tratto, l'incuria nel vestire abiti di gran taglio (suo sarto era Tincati, il primo della città), la voce educata, l'inglese perfetto. Ma nessuno seppe cosa farsene di queste qualità e Ricky rimase a lungo a spasso. Investì allora, attraverso il padre, diversi soldi nel Mulino, l'editore bolognese. Qui, conobbe Prodi che era della cerchia. Ma allora non scoccò nessuna scintilla e la cosa finì lì. Sull'abbrivio fondò, sempre a Bologna, una sua casa editrice. Fallì all'istante.
Si consolò, invaghendosi di Paola la sua attuale moglie. Ma sposò un'altra e ne ebbe tre figli. Poi, incontrò di nuovo la prima fiamma, la impalmò e fece altri due bimbi. Al quinto, profittando della sua impossibilità a difendersi, impose il nome di Quintino. Questa alacrità contrasta col suo fisico minuto, ma l'uomo ha sempre riservato sorprese.
A 30 anni non aveva ancora un lavoro. Il padre preoccupato si rivolse a uno dei fondatori del Mulino, Fabio Luca Cavazza, che dirigeva il Sole 24 ore. «Prendimelo tu», lo pregò. Così, Ricky entrò nel mondo che adesso governa. Va notata, per inciso, la tortuosità di questo ingresso. Ricardo è infatti nipote di Arrigo Levi, fratello del padre, direttore di giornali e mammasantissima della carta stampata. Avrebbe potuto aiutarlo lui con facilità.
Al Sole fu subito chiaro che Ricardo e il giornalismo potevano fare a meno l'uno dell'altro. Era un cronista prudente, spontaneamente allineato al potere. «Ricky sta al giornalismo come Jovanotti all'opera lirica», dice un collega che lo conosce bene. Il tono misurato piacque comunque a Piero Ostellino che dirigeva allora il Corriere della Sera. Lo assunse come capo del servizio economico.
Ricky arrivava la mattina già vestito per la sera. Traccheggiava fino alle 19 e quando il lavoro si faceva duro, si dava una spolverata all'abito, prendeva bastone e redingote e salutava circolarmente: «Se avete bisogno di me sono alla Scala». Averlo al timone della redazione era per gli altri un tormento. Le notizie scomode erano accantonate per lasciare il posto ai comunicati ufficiali di Eni, Montedison e altri inserzionisti.
Tra i più esasperati per l'andazzo, Ferruccio de Bortoli, che diresse poi il Corsera e oggi guida il Sole. Un giorno, forzando la sua mitezza, De Bortoli si ribellò. Sparse sul tavolo i comunicati, ci salì sopra e cominciò a danzare sulle carte cantando come impazzito: «Noi siamo sempre sulla notizia, sulla notizia...». Quando a Ostellino subentrò Ugo Stille, il suo vice, Giulio Anselmi (che oggi dirige La Stampa), defenestrò Ricky all'istante, sostituendolo con De Bortoli. La ruggine tra Levi e Anselmi durò anni. Sentendosi incompreso, Ricardo lasciò il Corriere e, nel '91, fondò L'Indipendente. Doveva essere un quotidiano anglosassone, i fatti separati dalle opinioni. Ricky riuscì a separare le opinioni dalle opinioni. Quando, in piena Tangentopoli, fu arrestato l'ing. Carlo De Benedetti, scrisse un editoriale con due titoli. Uno in testa: «Perché l'Ingegnere ha torto», l'altro al centro: «Perché l'Ingegnere ha ragione». Mentre poi le procure eccitate arrestavano a destra e a manca, il giornale se la cavava con due colonne e non prendeva partito. Un surgelato. «Un morticino vestito bene», disse meglio Eugenio Scalfari. Dalle 120mila copie del primo numero, L'Indipendente precipitò a 20mila. Sei mesi dopo, Ricky fu cacciato. Rimise di tasca propria cinque miliardi di lire. Ma tuttora, gonfio com'è, continua a dire: «Ah, se mi avessero lasciato fare...». A estrarlo dalla prostrazione fu Prodi, che ne aveva seguito le gesta a distanza. Dio acceca colui che vuole perdere e Romano meritava l'ira divina dopo i pasticci fatti all'Iri. Ricardo, infatti, gli combinò solo disastri.
Nel '96, fu suo portavoce a Palazzo Chigi. Gli guastò subito i rapporti con la stampa blindando il premier che nessuno poteva avvicinare. Ricky perse la faccia. Seguì poi Prodi a Bruxelles nel '98, quando divenne presidente della Ue. Fu di nuovo portavoce, con saccenza moltiplicata dalla vastità della tribuna. Quando i giornalisti di mezzo mondo chiedevano di Prodi, li indirizzava al piano di sotto mentre Prodi era di sopra. Scatenò una rivolta e Romano dovette sottrarlo all'ira popolare, confinandolo in un altro servizio. Ricky rimase in braghe di tela.
Ora, dopo avere fallito come editore, giornalista e portavoce, Levi ha in mano noi della stampa. Coraggio ragazzi, è la fine.
il Giornale, 19 febbraio 2007, pag.8
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POLEMICHE Mentre il quotidiano «Haaretz» solleva «la questione della libertà di espressione in Israele»
Caso Toaff, il Mulino contro «censura» e «linciaggio morale»
«Censura» e «linciaggio morale». Parole pesanti e scelte con attenzione, non da uno dei tanti professori che partecipano alla discussione sul libro di Ariel Toaff Pasque di sangue, ritirato dal commercio per volontà dello stesso autore, ma dall'Associazione il Mulino, cui fa capo la casa editrice del volume.
Un paio di settimane fa viene pubblicato il saggio in cui l'autore ebreo ipotizza con cautela che tra il XII e il XV secolo alcune minoranze ebraiche ashkenazite potrebbero aver compiuto omicidi rituali, confermando così «l'accusa del sangue» usata dalla peggiore propaganda antisemita. La recensione di Sergio Luzzatto sul «Corriere della Sera» innesca reazioni scandalizzate da parte delle autorità religiose. Poi arrivano altre recensioni, per lo più negative, che criticano il metodo di ricerca usato dallo studioso.
Il 15 febbraio Ariel Toaff (figlio dell'ex rabbino capo di Roma Elio, che ha condannato le tesi del libro) decide di ritirare il volume dal commercio. L'editore esegue la volontà dell'autore. Ieri, a sorpresa, arriva il comunicato, che vale la pena di leggere per intero: «L'Associazione pur contribuendo attraverso i suoi organi alla definizione delle linee di politica e cultura delle istituzioni da essa controllate, e dunque anche della Società editrice il Mulino, non interferisce con le singole scelte editoriali. Ciononostante, al di là del giudizio di merito che solo la comunità scientifica ha il compito di formulare, essa non può esimersi dal manifestare il più netto rifiuto degli appelli alla censura e delle espressioni di linciaggio morale che sono state indirizzate all'autore, gravemente lesive del principio di libertà scientifica e della manifestazione del pensiero su cui si regge, sin dall'Illuminismo, la nostra civiltà». Parole come macigni, che esprimono, forse un po' in ritardo, sostanzialmente un concetto: verso l'autore c'è stata una violenta pressione censoria. Fra i membri dell'Associazione il Mulino figurano alcuni tra i migliori nomi dell'accademia italiana: economisti, storici, studiosi di letteratura, psicologi, politologi. Qui citiamo solo i componenti del Comitato direttivo: Alessandro Cavalli, Carlo Galli, Paolo Bosi, Edmondo Berselli, Raimondo Catanzaro, Renzo Costi, Giovanni Evangelisti, Giancarlo Gasperoni, Paolo Legrenzi, Giuseppe Lovato, Paolo Onofri, Paolo Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Ezio Raimondi, Giacomo Vaciago.
Come si sa, «l'affaire Toaff» non è italiano, ma internazionale. Di Pasque di sangue si è discusso soprattutto in Israele, dove Toaff da anni insegna all'Università Bar-Ilan. In particolare il quotidiano
di sinistra «Haaretz» ha sottolineato che «la vicenda solleva la questione della libertà di espressione in Israele». Mentre «certi docenti ritengono che finché uno studio rispetta i criteri accademici nessun soggetto dovrebbe essere censurato, altri sostengono che i ricercatori dovrebbero autocensurarsi e considerare se il loro lavoro sia o meno "buono per gli ebrei"». Tra le tante opinioni il quotidiano cita quella dello storico Moshe Zimmermann, il quale ricorda che alcuni colleghi chiesero il suo licenziamento dall'Università di Gerusalemme quando paragonò l'educazione dei figli dei coloni ultra di Hebron alla pedagogia nazista. Di parere opposto Ron Breiman, secondo cui lo studio di Toaff toglie valore alla messa al bando delle tesi negazioniste.
Intanto Pasque di sangue è diventato anche un feticcio commerciale. Sul sito E-Bay le rare copie del volume sono valutate da cento a trecento euro.
Dino Messina
Corriere della sera, 21 febbraio 2007, pag.43 |
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II responsabile del Centro Wiesenthal di Gerusalemme commenta lo scandalo croato delle bustine di zucchero con Hitler
«Ue aperta solo a chi rispetta la memoria della Shoah»
di Umberto De Giovannangeli
«Semplicemente disgustoso. E inquietante. Tanto più che un simile articolo è stato prodotto in un Paese in cui non solo l'Olocausto ha avuto luogo, ma è stato perpetrato da collaboratori nazisti locali». La sua voce è incrinata dall'indignazione. Le sue parole sono un pesante j'accuse contro il «negazionismo da bustina» che ha portato nuovamente la Croazia al centro dell'attenzione internazionale. Bustine di zucchero con l'immagine di Adolf Hitler; battute volgari contro gli ebrei che riesumano i peggiori stereotipi che furono branditi dalla propaganda nazi-fascista. Una vergogna denunciata da Efraim Zuroff, presidente del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. «I giovani croati - riflette Zuroff - forse non sanno chi sia stato Ante Pavelic e di quali orrori contro ebrei, zingari e serbi si sia macchiato con i suoi ustascia. Forse difetta questa memoria storica, o forse c'è qualcuno che ha inteso cancellarla. Tremo al solo pensiero che Pavelic possa essere visto dalla gioventù croata come un eroe nazionale». Zuroff guarda con preoccupazione alle nuove forme di antisemitismo che prendono piede in Europa, al cui unità politica, dice, «dovrebbe fondarsi sul rigetto di ogni forma di antisemitismo e di razzismo. Rispettare la Memoria dei milioni di ebrei, ma non solo di ebrei, trucidati dai nazifascisti credo debba essere uno dei pilastri, assieme al rispetto dei diritti umani, uno dei pilastri su cui fondare l'Europa allargata». «Questo rigurgito antisemita - aggiunge - s'intreccia con l'odio contro Israele, istillato da regimi fondamentalisti come quello al potere in Iran. L'antisemitismo di Ahmadinejad si maschera dietro un antisionismo aggressivo che ha come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato degli Ebrei».
Cosa c'è dietro la messa in commercio in Croazia delle bustine di zucchero con l'immagine di Hitler?
«C'è molto di più di una squallida, disgustosa operazione commerciale. Chi ha ideato quelle bustine della vergogna sapeva di incontrare il favore di un certo pubblico, di toccare corde "sensibili". Di questo passo si finirà per mettere in vendita del sapone con l'immagine del lager di Auschwitz. Sia chiaro: l'Europa democratica, civile, dovrebbe alzare forte la sua voce per condannare un fatto che non oltraggia solo il passato ma che suona come un inquietante campanello d'allarme per il presente e il futuro. Perché una cosa è certa: senza memoria non c'è futuro».
La sua protesta non è solo in difesa della memoria dei milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti.
«Questa difesa è tanto più essenziale quanto più s'intreccia con la messa in guardia contro la diffusione di nuove forme di antisemitismo. Forme nuove ma che dietro celano l'ideologia assassina che fu alla base della Shoah».
Vorrei tornare alle «bustine della vergogna.....
«E al Paese che ha permesso la loro produzione. Pensiamo solo se una cosa del genere fosse accaduta in Germania… Ora qualcuno parlerà di un episodio circoscritto, probabilmente quelle bustine saranno tolte dalla circolazione. Ma la gravità dell'episodio resta inalterata. Evidentemente la Croazia non ha fatto i conti fino in fondo con la sua storia...».
A cosa si riferisce?
«Al fatto che centinaia di migliaia di ebrei, zingari, serbi furono massacrati nei lager dagli ustascia di Ante Pavelic che imperversavano nello Stato fantoccio nazista. Questa pagina orribile di storia non può essere rimossa o cancellata dall'oblio del tempo. Ed è ancor più grave che una vergogna di questo genere sia potuta accadere in un Paese che aspira a far parte dell'Unione Europea».
Sono necessarie nuove leggi in proposito?
«Basterebbe applicare quelle esistenti contro l'intolleranza etnica, religiosa e contro ogni forma di odio razziale. Le leggi ci sono, ma c'è da vedere se esistente, come mi auguro, la volontà politica di farle rispettare. In questi mesi si è molto discusso sull'ingresso della Turchia in Europa. Si è detto e scritto che la Turchia deve rispettare gli standard minimi condivisi in materia di rispetto dei diritti umani e civili. Sono pienamente d'accordo. Ma credo anche che tra gli standard minimi che dovrebbero guidare l'allargamento politico dell'Europa andrebbe inserito anche il rispetto della Memoria della Shoah. Per l'Europa sarebbe un investimento sul futuro. Un futuro non violentato dall'odio antisemita e dal razzismo».
l’Unità, 21 febbraio 2007, pag.11 |
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Croazia, Hitler sullo zucchero
Protesta il centro Wiesenthal
MILANO — Il volto di Hitler su una bustina di zucchero riporta la Croazia sotto imbarazzati riflettori dopo le (ricomposte) polemiche sulle foibe con l'Italia. L'ultimo scandalo che coinvolge Zagabria è partito questa volta da una denuncia del Centro Simon Wiesenthal di Gerusalemme che ha scoperto la presenza, in alcuni bar croati, di bustine monodose di zucchero con l'effigie del Fuhrer e — come ha dichiarato Efraim Zuroff, direttore dell'istituto nella capitale israeliana — battute «di dubbio gusto sugli ebrei internati nei campi di concentramento nazisti».
Zuroff ha chiesto l'apertura di un'inchiesta e l'applicazione della «legge in vigore contro l'incitamento all'odio religioso, etnico e razziale» con lo scopo di costringere la «ditta e il suo proprietario a ritirare immediatamente dal mercato i suoi prodotti offensivi». La società responsabile è la «Pinki», nella città orientale di Pozega. Mentre alcuni lavoratori della ditta, intervistati dal quotidiano Novi List, hanno confermato la produzione delle «bustine antisemite», la proprietaria, Anita Ivanecic ha spiegato ai media locali di non voler rilasciare commenti sulla controversia. «Potete scrivere quello che vi pare, ma non rilascerò alcun commento», ha detto. Zuroff ha invece sottolineato la sua «repulsione e il disgusto nel constatare che tale prodotto può essere fabbricato al giorno d'oggi in un Paese dove non solo ha avuto luogo l'Olocausto, ma dove è stato perpetrato da collaboratori nazisti locali». Secondo il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, ancora, «si tratta dell'espressione disgustosa di una nostalgia per il Terzo Reich e per il periodo in cui numerosi ebrei, serbi e zingari vennero massacrati in una Croazia indipendente». Il riferimento è al regime degli Ustascia di Ante Pavelic (1941-1945), alleato dei nazifascisti e responsabile del massacro di migliaia di ebrei, di zingari e di serbi, considerati in quanto tali «nemici della nazione».
Oltre che l'Europa, il nuovo incidente è destinato a irritare anche Israele, Paese con il quale la Croazia ha ristabilito solo da poco le relazioni diplomatiche (2001) dopo gli anni dei difficili rapporti con il presidente nazionalista Franjo Tudjman. Inevitabile l'imbarazzo del governo di Zagabria.
P. Sal.
Corriere della sera, 20 febbraio 2007, pag.13
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Il Centro Wiesenthal, che ha denunciato il caso,
chiede al governo di intervenire per eliminare il prodotto dal mercato. La procura apre un'inchiesta
Croazia, Hitler al bar in bustine di zucchero
Alcuni locali offrono dolcificanti con l'immagine del Führer e barzellette sull'Olocausto.
E gli ebrei si ribellano: «Disgustoso»
Fausto Biloslavo
In Croazia circolano bustine di zucchero con il volto inconfondibile di Adolf Hitler accompagnato da battute sconclusionate e di pessimo gusto sugli ebrei e l'Olocausto. Una settimana dopo che il presidente croato Stipe Mesic bacchettava con durezza il capo dello stato Giorgio Napolitano, sul discorso delle foibe, dandogli lezioni di antifascismo, si scopre che lo zucchero dal sapore neonazista viene distribuito nei bar della vicina repubblica dell'ex Jugoslavia.
La denuncia arriva dal Centro Simon Wiesenthal di Gerusalemme diretto da Efraim Zuroff, che negli ultimi anni si è dedicato alla caccia dei criminali croati, responsabili dello sterminio degli ebrei al fianco del Terzo Reich. In Croazia sono in vendita delle bianche bustine da zucchero, per il caffè, con i lineamenti di Hitler stampati in blu. Baffetti e frangetta sono quelli del dittatore nazista. A fianco del Führer si leggono alcune frasi sconclusionate, che dovrebbero rappresentare una sorta di battuta o barzelletta sugli ebrei e la tragedia dell'Olocausto. Tradurle in italiano, soprattutto cercando di carpirne il senso è difficile, ma quella raffigurata nella fotografia che pubblichiamo suonerebbe circa così: «Hitler agli ebrei: Vi lascerò la lapide! Gli ebrei: Quale? Hitler: Di cemento armato!».
Le prime bustine sono circolate a Gospic, nell'entroterra dalmata dove si è combattuto duramente fra serbi e croati durante la guerra degli anni Novanta. II Centro Wiesenthal, impegnato nella lotta contro l'antisemitismo, ha chiesto al governo croato di intervenire. Con un comunicato Zuroff ha espresso la «repulsione e il suo disgusto nel constatare che tale prodotto può essere fabbricato al giorno d'oggi in un Paese, dove non solo ha avuto luogo l'Olocausto, ma è stato perpetrato da collaboratori nazisti locali». Il riferimento è al regime ustascia di Ante Pavélic, alleato dei tedeschi e degli italiani, durante la Seconda guerra mondiale. Gli ustascia si accanirono soprattutto contro gli odiati cetnici, partigiani e civili serbi, che massacrarono a centinaia di migliaia in famigerati campi di concentramento come Jasenovac. Dei 40mila ebrei che vivevano in Croazia, almeno il 75% e stato sterminato.
Secondo Zuroff la vicenda delle bustine naziste è «l'espressione disgustosa di una nostalgia per il III Reich e per il periodo in cui numerosi ebrei, serbi e zingari vennero massacrati in una Croazia indipendente». Il centro Wiesenthal chiede che si applichi la legge in vigore contro l'incitamento all'odio religioso, etnico e razziale per far ritirare le bustine di zucchero dal mercato. La polizia croata su mandato della procura intanto ha aperto un'inchiesta.
La ditta «scriminata» è la Pinki di Pozeg, una cittadina nella parte orientale della Croazia. Il proprietario, Aiuta Ivanevic, ha deciso di non commentare. La contea di Pozega non è nuova a queste provocazioni. L'anno scorso la Croazia ha dovuto presentare le scuse a Israele per un pamphlet antisemita apparso sul portale ufficiale della contea. Inoltre il cimitero ebraico di Pozeg è stato devastato un anno fa. Nella cittadina erano apparsi manifesti dal seguente tenore: «Serbi ed ebrei fuori da Pozeg». Le associazioni dei veterani della Seconda guerra mondiale sono molto forti nella zona ed il Centro Wiesenthal sta dando la caccia a Milivoj Ašner, oggi cittadino austriaco ma di origine croata, accusato di crimini di guerra a Pozeg fra il 1941 e il '42.
Croazia e Israele hanno allacciato piene relazioni diplomatiche solo sei anni fa. dopo le scuse per lo sterminio degli ebrei. Franjo Tudjman, il predecessore di Mesic, aveva sempre minimizzato, anche nei libri scritti di suo pugno, il ruolo dei croati nell'Olocausto. Le bustine di Hitler rischiano di riaprire ferite non del tutto rimarginate e dimostrano che la Croazia ha ancora un po' di cammino da intraprendere se aspira ad entrare nell'Unione europea. In Dalmazia a ogni angolo di strada si trova una bancarella con magliette e sciarpe che ritraggono il generale Ante Gotovina, dietro le sbarre all'Aia con l'accusa di crimini di guerra compiuti contro i serbi durante il conflitto dei primi anni Novanta. Dopo una lunga latitanza è stato catturato nelle isole Canarie, ma in molti negozi dalmati campeggia la sua foto accanto ai simboli che ricordano gli ustascia.
il Giornale, 20 febbraio 2007, pag.13 |
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Toaff, quante pressioni per le sanzioni
L'ATENEO israeliano Bar Ilan di Tel Aviv non ha fatto nuove dichiarazioni, dopo la decisione annunciata da Ariel Toaff di sospendere la pubblicazione del libro Pasque di sangue. Il quotidiano Haaretz ha scritto nei giorni scorsi che pressioni sono esercitate sui dirigenti dell'università da finanziatori privati soprattutto americani per sanzioni contro lo storico. In Italia e negli Usa ci sono state reazioni forti in seno alle comunità ebraiche e una fitta copertura di stampa. «Persone che non fanno parte del mondo accademico e docenti di altre università ci hanno chiesto di licenziare il professor Toaff, ma noi non prendiamo in considerazione questa ipotesi» ha detto a Haaretz Yerah Tal, il consigliere per la comunicazione del presidente della Bar Ilan Moshe Kaveh.
Fonti dell'ateneo hanno rilevato che i finanziamenti privati in particolare dalla comunità ebraica Usa sono cruciali per la Bar Ilan. Sanzioni contro Toaff - che è rettore del dipartimento di storia della Bar Ilan ed è a tre anni dalla pensione - andrebbero però contro il principio della autonomia accademica. Per ora all'università nessuno ha letto il libro di Toaff, pubblicato solo in italiano. Una discussione più approfondita dell'opera dovrebbe intervenire possibilmente "a freddo" nel Senato accademico nelle prossime settimane, dopo di che la direzione dell'università dovrebbe prendere una decisione definitiva sul "caso". Haaretz ha sottolineato nei giorni scorsi come Toaff sia considerato dai colleghi del dipartimento un professore di grande valore, con buoni rapporti con gli studenti, e che alla Bar Ilan «c'è chi lo chiama il "rabbino rosso", perché ha opinioni di sinistra e ha ricevuto una educazione rabbinica».
«La pubblicazione del libro di Toaff è ormai ferma. Il pentimento è per la religione ebraica uno dei valori più importanti e per questo riteniamo chiusa la questione», ha dichiarato Riccardo Pacifici, portavoce della Comunità ebraica di Roma, in merito alla polemica scaturita dalla pubblicazione del libro di Ariel Toaff.
Il Mulino ha confermato la sospensione della diffusione del libro voluta da Toaff «in modo da poter rielaborare - come aveva detto lo storico - quei passaggi che sono stati alla base di distorsioni e false interpretazioni nei media».
Toaff ha fatto, comunque, un gesto importante verso la comunità ebraica Usa annunciando che devolverà tutti i proventi del libro alla Anti Defamation League di New York.
T.P.
Il Messaggero, 16 febbraio 2007, pag.25
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Ariel Toaff umiliato come Hannah Arendt
RITENGO davvero preoccupante il clima da caccia alle streghe che si è dispiegato nei confronti di Ariel Toaff autore del libro "Pasque di sangue". I ricatti e le accuse giunti all'autore da parte di gruppi e associazioni ma anche dal padre, lo hanno indotto a ritirarne la pubblicazione. Eppure, gli episodi descritti dalla sua ricerca su omicidi rituali avvenuti tra il XII il XVI secolo non venivano ascritti agli ebrei in generale ma solo a quasi inesistenti gruppi di ebrei askenaziti.
Non c'è niente di peggiore di questo fondamentalismo che non permette nessuna critica o persino verità storica.
Anche Hannah Arendt quando osò, nel suo scritto tradotto in Italia con "La banalità del male", mettere in discussione il processo e la sentenza sul criminale nazista Eichmann, venne letteralmente assalita di insulti e accusata "di difendere la Gestapo e di calunniare le vittime ebraiche". Gli amici la abbandonarono, l'ostracismo arrivò da tutte le parti e lei restò ammutolita senza il coraggio di rispondere ma non ritirò il suo libro.
Del resto le stesse intimidazioni e ostracismi vengono fatti anche a chi, pur sostenendo lo Stato d'Israele, critica il mancato rispetto della legalità internazionale da parte dei diversi governi Israeliani con l'occupazione militare dei territori palestinesi che dura ormai dal '67, la continua annessione territoriale con l'espansione delle colonie e la costruzione del muro. Ne sanno qualcosa persino quegli israeliani come Ilan Pappe o Nurit Peled che osano scrivere delle politiche coloniali e razziste praticate quotidianamente nei territori occupati.
Mi dispiace molto per Ariel Toaff che ha dovuto subire tanta umiliazione, mi auguro che tutti possano leggere la sua ricerca e gli storici saperne anche criticare i contenuti senza essere messi alla berlina da nessuno.
Luisa Morgantini
V. Pres. Parlamento Europeo
la Repubblica, 22 febbraio 2007, pag.24 |
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"Il film di Lizzani offende gli ebrei"
«Hotel Meina» contestato da una sopravvissuta
CARLO BOLOGNA e VALERIA PERA
VERBANIA
Becky Behar aveva 13 anni nel settembre 1943. Quello che ha vissuto continua a raccontarlo agli studenti. Perché non dimentichino. È sopravvissuta al primo eccidio di ebrei in Italia, avvenuto a ridosso dell'armistizio: i nazisti uccisero 54 persone, 16 soltanto a Meina, nell'omonimo albergo. Lei si salvò grazie al passaporto della Turchia, Paese neutrale. Quei fatti, ricostruiti nel saggio storico «Hotel Meina» di Marco Nozza, sono diventati un film di Carlo Lizzani. Domani è previsto il primo ciak a Baveno, dove 64 anni fa s'insediò il comando tedesco. Becky Behar ha letto la sceneggiatura. Ed è trasalita. Chiede che quel film rispetti la verità e i morti, piuttosto si dica che è una fiction. Altrimenti è pronta ad andare in tribunale.
«Liberi di fuggire»
Lizzani ha allargato le maglie della storia. Ha inserito momenti d'amore che nella realtà non sono appartenuti a quei giorni drammatici. Ha descritto ebrei che, anziché rinchiusi in una stanza d'albergo con soldati a ogni porta, potevano muoversi per il paese. Liberi di fuggire. Gli ebrei che si erano rifugiati a ridosso del confine svizzero avevano scelto proprio le località del lago Maggiore e delle valli dell'Ossola per essere pronti, al primo segnale, a raggiungere la salvezza oltrefrontiera.
La storia di questo film contestato è lunga e travagliata. Il primo a proporre l'idea era stato Pasquale Squitieri, regista che aveva diretto «Garetta», dedicato alla Petacci e alla relazione con Mussolini, e lo spettacolo teatrale «Piazzale Loreto». Nelle vicende di «Hotel Meina» il nome dell'ex senatore di Alleanza nazionale, ed ex componente della commissione Mitrokhin, salta fuori per la prima volta il 30 novembre 2004, scorrendo l'elenco dei film finanziati dal ministero dei Beni e delle Attività culturali. Gli vengono attribuiti 4.305.000 euro.
Qualcosa però si dev'essere mosso. Appena due mesi dopo, nell'elenco del ministero del 28 febbraio 2005, l'opera viene spostata nella sezione «rinviati per approfondimenti istruttori». C'erano state pressioni anche dall'Unione comunità ebraiche italiane, visto che un paio d'anni prima Squitieri aveva espresso pareri revisionisti sull'esistenza delle leggi razziali in Italia nell'epoca fascista: «Tutti ne parlano, nessuno le ha mai lette. Se un ebreo era di nazionalità italiana non poteva essere perseguitato».
Il film riappare tra i finanziamenti ministeriali il 26 settembre 2005, con regista Carlo Lizzani, sceneggiatore Squitieri (al quale si affiancano Dino e Filippo Gentili) e un «sostegno economico» più che dimezzato.
Tedeschi buoni
«Questa sceneggiatura non racconta i fatti accaduti all'Hotel Meina, non racconta la mia storia né quella dei miei amici che ho visto morire. Mai come ora le immagini influenzano e hanno più presa di quanta non ne abbia la parola scritta o una testimonianza. Che credibilità posso avere con i giovani dopo un film del genere? Un film in cui si racconta che gli ebrei potevano girare liberamente per Meina, invece di essere prigionieri in albergo; dove una tedesca, sospettata di essere una spia nazista, diventa un'eroina che vuole salvare tutti; dove non si parla di fascisti né di partigiani e si infila una storia d'amore che non c'entra nulla».
E, amareggiata, aggiunge: «Da quando ho letto quella sceneggiatura non dormo, mi si rivolta lo stomaco. E' una cosa inaccettabile e vergognosa».
Carlo Lizzani si difende: «La vicenda dell'Hotel Meina deve acquistare un senso metaforico al di là e al di sopra della cronaca degli avvenimenti, anche a costo di tradirne qualche aspetto».
Quell'albergo, secondo il regista, rappresenta un microcosmo dell'Europa di ieri e di oggi. Ma perché ha voluto inserire una «nazista buona»? «Può darsi che a Meina non ci siano stati, non m'interessa. A parte la noia di vedere il solito ufficiale Ss urlante, sento il dovere di far irradiare da quella vicenda significati più ampi e universali».
Il regista - che nel '47 era assistente di Rossellini a Berlino per «Germania anno zero» - ricorda i tedeschi che si sono ribellati a Hitler, pagando con la vita. Ma Becky non li ha proprio visti, a Meina, 64 anni fa. E vuole continuare a gridarlo.
La stampa, 25 febbraio 2007, pag.19 |
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«Io sono stato bloccato perché sono di destra»
3 domande a Pasquale Squitieri
A girare il film sulla strage di Meina, quello che oggi sta facendo Carlo Lizzani, avrebbe dovuto essere Pasquale Squitieri. Aveva letto il libro di Marco Nozza. Lo aveva proposto a Ida Di Benedetto, amica e produttrice, più di un anno fa. Aveva ottenuto dal ministero il finanziamento come «opera di interesse culturale». Si era messo a cercare gli interpreti tra Roma e Parigi. Tutto era pronto per l'inizio delle riprese quando Ida Di Benedetto lo bloccò dicendogli che con lui alla regia il film non si sarebbe mai fatto. E non volle dargli spiegazioni ulteriori.
Che cos'era successo?
«Ida non ha mai voluto dirmelo. L'imbarazzava. Me lo ha rivelato un direttore di produzione, molto dopo. Era arrivata alla Titania, la casa di produzione della Di Benedetto, una lettera in cui, a nome degli ebrei superstiti della strage di Meina, una ebrea, Becky Behar, protestava perché la regia del film era stata affidata a me, notoriamente uomo di destra, incapace di equità storica. Naturalmente non si faceva cenno alla sceneggiatura del film che lei non conosceva».
In base a quali elementi veniva accusato, Squitieri?
«Si citava quel che avevo detto, tempo prima, durante un convegno sulla shoa con il rabbino Di Segni. In quella occasione, citando "La banalità del male" della Arendt, avevo ricordato come, nonostante le leggi razziali del 1938, fino alla caduta di Mussolini e all'arrivo del governo Badoglio, gli ebrei, che pure erano stati oggetto di numerose e orribili privazioni, non avevavo subito la deportazione. E' con l'arrivo di Eichman in Italia che comincia la caccia all'ebreo. Oltre questo veniva accluso una sorta di dossier contro di me raccolto da ebrei americani mai visti e conosciuti».
E Lizzani com'è venuto fuori?
«Ci conosciamo da tanto tempo. Un giorno, a pranzo, Carlo mi ha confessato assai dispiaciuto che il film l'avrebbe girato lui, forse perché attore di sinistra. Lizzani è un'ottima persona. Però, da giovanissimo, quando scriveva di cinema su un giornale fascista, aveva lodato "Süss l'ebreo", un film che è un manifesto di antisemitismo. E allora? Cose che capitano. I paradossi della vita».
La stampa, 25 febbraio 2007, pag.19 |
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Rivelazione di Gilbert, biografo di Churchill: credeva potessero portare la modernità in Medio Oriente
“Lawrence d'Arabia sognava una nazione per gli ebrei”
DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO CADALANU
GERUSALEMME — Lawrence d'Arabia, l'ufficiale inglese che guidò gli arabi nella rivolta contro l'impero ottomano, in realtà avrebbe pensato a uno stato ebraico che andasse «dal fiume Giordano fino al mare». La figura rimasta nella leggenda come campione della indipendenza araba, per gli arabi avrebbe invece avuto «un certo disprezzo». La tesi è dello storico britannico Martin Gilbert, che ha anticipato al Jerusalem Post alcuni contenuti di «Churchill e gli ebrei», un suo libro di prossima pubblicazione. Lawrence, dice Gilbert, credeva che solo uno Stato ebraico avrebbe aiutato gli arabi a «far qualcosa di sé stessi».
Insomma, il paladino degli arabi, l'ufficiale dei servizi di Sua Maestà sempre vestito con la djella-biah, così come fu reso immortale da Peter O'Toole nel film di David Lean, sarebbe stato sostanzialmente «un convinto sionista. Credeva che lo Stato israelita fosse l'unica speranza per gli arabi della Palestina. Se ci fosse stata una nazione ebraica, avrebbe portato agli arabi la modernità, il «lievito», così lo chiamava, che avrebbe consentito agli arabi di entrare nel Ventesimo secolo». Secondo Gilbert, Lawrence intendeva proprio «uno Stato ebraico dalle rive del Mediterraneo al fiume Giordano», cioè nella forma che, sostiene in prima persona lo storico britannico, «non scomparirà mai».
Le «rivelazioni» di Gilbert sono state accolte con un certo distacco in Israele. Gli stessi lettori del Post si sono divisi. C'è chi — sul sito del giornale—ha voluto ricordare che le teorie dello scrittore britannico cozzano con quelle di studiosi come Michael Oren, Mitchell Bard, David Fromkin, Margaret McMillan, Tom Segev, «pesi massimi» della Storia mediorientale. Qualcuno sostiene che Lawrence ipotizzava un'alleanza fra ebrei e arabi. Altri sottolineano che in fondo il «disprezzo» di Lawrence per gli arabi non solo non è una novità, ma sarebbe condiviso anche da personaggi non sospetti di sionismo, come Nelson Mandela o Gandhi. E c'è persino chi trova irritante che gli ebrei vadano cercando il sostegno di «omosessuali come Lawrence» per il sionismo, quando dovrebbe bastare la Torah.
Resta comunque un fondo di ambiguità nelle espressioni usate da Gilbert con il quotidiano di Gerusalemme. La visione di Lawrence, secondo altri studiosi, era quella diffusa nella Gran Bretagna del tempo, critica verso la cultura araba, che considerava inadatta alla diplomazia e incline a reazioni istintive. Ma è opinione diffusa che Lawrence fosse un ammiratore sconfinato del coraggio e della dedizione osservati fra i suoi guerriglieri. Altri viaggiatori dell'epoca, come Wilfried Thiesiger o, prima ancora, William Gifford Paigrave, avevano studiato la cultura araba e ne avevano diffuso l'ammirazione nel Regno Unito. L'unico letterato a non subirne il fascino era stato Charles Doughty, autore di «Arabia Deserta», a cui Lawrence scrisse la prefazione cercando paradossalmente di far credere invece che l'autore amasse l'Arabia. Poco preciso appare anche il termine «statehood», cioè «statualità», e non Stato, che Gilbert usa per indicare l'entità ebraica che avrebbe dovuto «tutelare» gli arabi. In realtà, dicono gli studiosi, nell'Inghilterra detentrice del mandato della Lega delle Nazioni nessuno pensava a uno Stato come Israele.
la Repubblica, 23 febbraio 2007, pag.29 |
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COMPLOTTISMO.
LA SOLITA «LOBBY EBRAICA» NE AVREBBE INTERDETTO LA DIFFUSIONE
Fa più danno il ritiro che l'uscita del libro di Toaff
di David Bidussa
Nella discussione sul libro di Ariel Toaff Pasque di sangue (edito dal Mulino), stampato, urlato con un lancio mediatico discutibile e poi ritirato dal suo autore, la prima vittima è la storiografia; la seconda vittima la libertà di critica, la terza la libertà di stampa. A vincere alla fine è solo l'esoterismo di chi crede che su tutto domini la lobby ebraica.
Siccome le democrazie non possono permettersi il lusso di concedere la libertà di stampa a giorni alterni, sarebbe stato meglio se il libro fosse rimasto in libreria - anziché trovarsi in vendita a 350 euro nei bookstores on line. Perché non c'è peggiore soluzione per la verità e per consentire una discussione limpida sulle cose e non sui principi, di un testo molto discutibile che si aggira come l'ombra di Banco in nome della libertà di parola.
Ho allora una richiesta esplicita a Ariel Toaff. Rovesciando le righe finali del suo testo, io non mi aspetto che Ariel Toaff si redima di fronte alla figura del Beato Simonino e si penta, ma rifletta sulle conseguenze della sua decisione di ritiro e consenta che un testo molto discutibile, che comunque porta la storiografia, totalmente fuori strada, ritorni in circolo, almeno per rispondere a chi nutrendosi di spiegazioni esoteriche sulla realtà quotidiana invoca la libertà di parola, che forse è venuto il momento senza tanti giri di parole di concentrarsi su una lettura che non hanno fatto. Per poter finalmente, se vogliono, discutere delle "cose".
Perché in democrazia la discussione non è obbligatoria, ma l'informazione sì.
Pasque di sangue tiene banco sui giornali italiani da almeno due settimane. All'inizio la discussione è stata sui contenuti. Ma dopo il ritiro del libro su richiesta del suo autore il clima è cambiato. Ora sono gli ebrei sotto accusa, nella convinzione che la «lobby ebraica» abbia espresso un interdetto nei confronti di Ariel Toaff e una minaccia sulla libertà di discussione pubblica. Torna dunque a girare in senso dispregiativo la parola «lobby ebraica». Dal dibattito che si sta sviluppando si origina una nuova situazione che possiamo così riassumere: gran parte delle tesi proposte da Ariel Toaff ha dato l'opportunità a molti di rimettere in circuito un pregiudizio anti-giudaico; si usa il libro di Ariel Toaff proprio a questo scopo; in nome della libertà della ricerca, si accredita sia la veridicità degli omicidi rituali, sia l'interdetto a parlarne dalla potenza occulta della lobby ebraica.
Cominciamo dalla fine. Venerdì scorso Ariel Toaff decide di ritirare il suo libro dalle librerie. Molti sostengono che ciò deriva dalle pressioni che Ariel Toaff ha subito dalla sua università, e dalle posizioni pubbliche assunte al mondo ebraico in Italia. L'effetto è che la questione diviene se sia lecito o meno in Italia discutere di storia ebraica. Come è avvenuto questo passaggio? Vediamolo nei dettagli. Ariel Toaff nel suo libro sostiene che in alcuni casi, in circostanze circoscritte, si siano verificati casi di omicidi rituali da parte di ebrei. L'accusa di omicidio rituale rivolta agli ebrei consiste nel ritenere che gli ebrei nei giorni immediatamente precedenti la loro pasqua uccidano un bambino cristiano e ne estraggano il sangue, alcuni dicono per impastarlo e produrre il pane azzimo, altri per poi utilizzarlo a scopi terapeutici. È un'accusa che ha dato luogo a stermini nei confronti degli accusati e alla costruzione, nel contempo, di un sistema devozionale nei confronti delle presunte vittime, trasformate in santi o beati. Intorno al libro per più di una settimana si è scatenata una vera e propria «guerra fra storici» sul corretto uso delle fonti da parte di Ariel Toaff, sulla plausibilità o meno della sua proposta interpretativa, comunque sulla sostenibilità del contenuto del libro.
Una guerra iniziata prima ancora che il libro giungesse in libreria attraverso una recensione e una titolazione alquanto discutibili del Corriere della sera (6 febbraio 2007). Una guerra su cui sono intervenuti molti storici (la maggior parte dichiarando di non aver letto il libro) e solo alcuni (la maggior parte su Repubblica, ma anche sul Corriere) analizzando puntualmente e minuziosamente il contenuto del libro. Fra questi ultimi non uno - eccetto il recensore iniziale del Corriere - ha salvato o giudicato sostenibile il contenuto del libro. Sulla stessa questione negli stessi giorni è intervenuta la Consulta rabbinica italiana che ha dichiarato una radicale condanna del libro, sostenendo che non ci sono nell'ebraismo pratiche legate all'uso del sangue.
Rientrato in Israele e convocato dal suo rettore per difendere il suo libro, Ariel Toaff ha deciso di ritirarlo ripromettendosi di stenderne una seconda versione, rinnovata ed emendata degli errori, omissioni o imprecisioni.
La vicenda tuttavia non si chiude qui. Perché una volta appianata la questione di metodo e di contenuto si è radicata la convinzione che sia avvenuta l'intrusione di un potere «non autorizzato» rappresentato sia dall'intervento della Consulta rabbinica, sia da interventi di figure pubbliche del mondo ebraico. È a questo punto che la parola lobby è tornata a circolare, nel momento in cui il contenuto del libro era stato dissolto non dalle critiche degli ebrei, ma da quelle degli storici.
Perché torna a circolare? Perché quello che contiene non documenta ciò che è accaduto, ma fa emergere un giudizio e un retro-pensiero morboso nei confronti degli ebrei, un'immagine alla fine solo sopita, ma non dissolta, che dalla discussione degli storici esce delusa e che teme di non aver una nuova chance «a breve» per ripresentarsi. Non potendo utilizzare storiograficamente - ovvero documentariamente - le ipotesi che Ariel Toaff propone, ciò che resta dunque è la convinzione non che quella ipotesi non stia in piedi (se il libro fosse stato serio, del resto, i rabbini avrebbero potuto strillare, all'infinito, ma le recensioni uscite avrebbero convalidato la sua fondatezza), bensì che ci sia una nuova fortezza assediata che occorre salvaguardare. Non quella della verità, bensì quella della libertà di parola. Così qualcuno, non sapendo più che fare né a che santo votarsi, rimette in circolo la parola «lobby ebraica».
Proviamo per un attimo a considerare seriamente questa ipotesi. Dunque se il problema fosse il fatto che la «lobby ebraica» non consente la lettura e la libera discussione, sarebbe sufficiente rimettere in circuito il volume suddetto. Ma non basterebbe. Perché se anche questo avvenisse, io credo che questo sarebbe vissuto come una sconfitta della lobby, non come una sua inesistenza. Per vari motivi.
Perché la lobby è una spiegazione autosufficiente. Non bisogna dimostrarla, è sufficiente nominarla. Perché l'idea di un potere occulto che governa e decide delle libertà altrui è parte di un meccanismo che non viene smentito dalla riconquistata libertà se non appunto come convinzione che questa riconquista sia il risultato di una strenua battaglia di «semplici» contro «potenti». E perché, da ultimo, quella convinzione consente di dare legittimità a una idea radicata e che è appunto quella che gli ebrei sono potenti.
Tuttavia, se appunto il meccanismo della convinzione e quello dell'accusa sono circolari, ovvero se si sostengono uno con l'altro, la logica del complotto ha già vinto e non ha bisogno di essere spiegata. Come sempre del resto, perché coloro che hanno una visione complottista della storia sono già convinti a priori della verità del complotto. Sono esentati dal dimostrarlo, devono solo ossessivamente ripetere che c'è. Per abbandonare questa logica, per davvero, non è sufficiente dichiararsi disposti al confronto, occorre praticarlo. Un confronto che chiami in causa prima di tutto gli storici in merito alle fonti e al loro uso, deontologicamente corretto. Che discuta delle retoriche giornalistiche, e che, soprattutto, metta in questione l'analisi dei luoghi comuni, la loro produzione, la loro diffusione e l'inconsistenza del loro contenuto.
In sintesi. Il libro di Ariel Toaff ha fatto emergere il sentimento anti-giudaico profondo della società in cui siamo immersi. Di come sia stata costruita negli anni una leggera patina sovrastrutturale - del tutto inconsistente - capace di tenere a bada con molta difficoltà - e in questo caso senza nessuna capacità - il formarsi di nuove credenze e di leggende metropolitane da cui molti dichiaravano di essere usciti. È un tema delicato che sarebbe ancor più pericoloso affrontare urlando o gridando, ma che va posto come patologia culturale, prima ancora che come ideologia. C'è troppa morbosità intorno alla questione del sangue, perché tutto sia solo un interesse per sapere «come sono andate effettivamente le cose». In ogni modo - e per chiudere - dirò con Pascal: «Non dite che non ho detto niente di nuovo. L'ordine è diverso».
il Riformista, 24 febbraio 2007, pag.4 |
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L'Associazione "Il Mulino"
«Caso Toaff, basta censure»
LA casa editrice Il Mulino, che ha sospeso la diffusione del libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue, lo scorso 15 febbraio, in seguito alle polemiche che si sono abbattute sul volume e sul suo autore, aveva stampato il saggio in tremila copie e stava per produrne la seconda edizione.
Motivo del ritiro dell'opera, come si sa, il fatto che al suo interno si parla dell'uso di sangue cristiano quale ingrediente del pane azzimo nella pesach ebraica, e non come una invenzione antisemita bensì come un fatto storicamente probabile. L'affermazione ha provocato la violenta reazione della comunità ebraica e della stessa università Bar Ilan di Tel Aviv, dove Toaff insegna, fino a spingere lo studioso a ritirare il libro e, addirittura, a chiedere scusa.
Ma ora, un no secco a censure e linciaggi giunge, tramite una nota, dall'Associazione di cultura e politica Il Mulino «di fronte al caso che si è creato intorno alla pubblicazione del libro di Ariel Toaff».
«L'Associazione - è questo il contenuto della lunga e articolata precisazione - pur contribuendo attraverso i suoi organi alla definizione delle linee di politica culturale delle istituzioni da essa controllate, e dunque anche della Società editrice Il Mulino, non interferisce con le singole scelte editoriali. Ciononostante, al di là del giudizio di merito che solo la comunità scientifica ha il compito di formulare, essa non può esimersi dal manifestare il più netto rifiuto degli appelli alla censura e delle espressioni di linciaggio morale che sono state indirizzate all'autore, gravemente lesive del principio di libertà dell'indagine scientifica e della manifestazione del pensiero su cui si regge, sin dall'Illuminismo, la nostra civiltà».
Le argomentazioni sono fondamentalmente le stesse addotte dal professor Toaff ogni volta che è stato chiamato a "giustificare" la pubblicazione dei lunghi studi effettuati sullo scottante argomento al centro del libro incriminato.
T.P.
Il Messaggero, 21 febbraio 2007, pag.21
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Gli storici modernisti condannano il ritiro del libro «Pasque di sangue»
«Caso Toaff, a rischio la libertà di stampa»
Ritirato dal commercio per volontà dello stesso autore il libro sulle Pasque di sangue, l'affaire Ariel Toaff sembra essere soltanto agli inizi. Perché dal merito della questione, l'ipotesi sostenuta dallo storico dell'università israeliana Bar-Ilan che tra il XII e il XVI secolo piccolissimi gruppi di ebrei ashkenaziti abbiano commesso omicidi rituali, si è passati non solo a discutere del metodo di ricerca, ma del principio della libertà di stampa. Ecco dunque che durante lo scorso weekend nella lista di discussione della Società di storia moderna, la Sisem, si è avviato un animato dibattito: un po' in ritardo rispetto a quanto avvenuto nell'analogo sito della Sissco (la società dei contemporaneisti), ma molto più allarmato nei toni.
A scrivere per primo al presidente della società, Maria Antonietta Visceglia, è stato Aurelio Musi, dell'Università di Salerno, il quale ha esordito sottolineando che la sua «non è una lettera "politicamente corretta"», ma un grido d'allarme necessario perché «vedo allontanarsi da molti nostri colleghi quello spirito dei Lumi a cui troppi dicono di ispirarsi... Il libro di Ariel Toaff, Pasque di sangue, è stato oggetto di un vero e proprio ostracismo, o, se volete — ma è peggio —, di lapidazione simbolica. Non ci si è limitati a contestare il metodo, l'uso delle fonti, ma si è scatenata una vera e propria condanna che ha coinvolto strutture, associazioni, istituzioni in una corsa invereconda alla caccia alla strega».
Caccia alle streghe. Il giudizio non potrebbe essere più netto. Invece Musi va ancora più in là: «Tutto l'affaire mi sembra una pericolosa spia di quel fondamentalismo uguale e contrario che sta investendo come un ciclone anche chi esercita un lavoro intellettuale: battersi per la verità storica non significa istigare alla lapidazione e indurre a ritirare dalla circolazione opere, sia pure considerate con tutta la severità critica necessaria». Sulla definizione «caccia alle streghe» concorda Eugenio Di Rienzo, dell'Università La Sapienza di Roma, che ha appoggiato così il collega Musi: «Purtroppo la caccia alle streghe e la pratica leninista del fare vuoto intorno al dissidente è un male che non si è riusciti ancora a sradicare... Costringere un autore a ritirare i suoi libri dal circuito commerciale è una variante postmoderna del rogo dei libri».
A Musi e Di Rienzo ha replicato la modernista Anna Foa, autrice sulla «Repubblica» di una stroncatura del libro di Toaff. La studiosa contesta innanzitutto il tipo di «lancio» voluto dall'autore: «Toaff aveva tutto il diritto di scrivere quello che voleva, lasciando poi agli altri storici di valutare il suo scritto, ma non di farne un lancio di quel tipo (allusione alla lunga recensione di Sergio Luzzatto sul «Corriere della Sera», ndr.) e poi di lamentare le critiche come se fossero state fatte senza leggere il libro». La Foa in conclusione, pur attribuendo il ritiro del libro «non a censure politiche ma alle critiche sul terreno scientifico, soprattutto a quelle degli studiosi israeliani e americani», dice di esserne dispiaciuta («a me personalmente lascia la bocca amara quanto la sua pubblicazione»).
L'argomentazione non convince Di Rienzo, che contrattacca: ma davvero pensiamo che «un collega universalmente stimato avrebbe lavorato per anni ad un volume per accorgersi improvvisamente di aver sbagliato tutto dopo aver letto qualche articolo di giornale?». Non aggiungiamo, esorta Di Rienzo, «a questo penoso caso anche l'ipocrisia. Qui non si tratta di dire se Toaff ha torto o ragione. Si tratta solo di affermare che nessuno storico può essere sottomesso ad una fatwa cattolica, islamica, marxista, liberale, eccetera... Sono stanco di parlare di libri che non ho potuto e non potrò mai leggere, almeno nella loro versione originale».
Dino Messina
Corriere della sera, 19 febbraio 2007, pag.31 |
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Pasque di sangue
Don Curzio Nitoglia è uno straordinario esempio di prete-coraggio che non ha paura di contestare i dogmi della correttezza politica. La casa editrice effepi ha pubblicato un suo saggio sul controverso tema dell’omicidio rituale ebraico: un argomento che è ancora capace di suscitare furibonde polemiche nel mondo della cultura d’apparato. Don Nitoglia compie una ricognizione delle fonti che riguardano l’argomento a partire da un fondamentale dossier pubblicato alla fine del XIX° secolo: nel 1893 la prestigiosa rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica pubblicò una serie di articoli sulla morale giudaica a cura di Padre Oreglia. Alcuni articoli della rivista erano dedicati al tema dell’omicidio rituale: dal 1071 al 1891 si ha notizia di 60 processi celebrati contro gli ebrei per questo crimine. Dall’analisi dei processi emergono alcuni tratti comuni: l’assassinio di un cristiano non solo è reputato lecito, ma è comandato ai giudei dalla legge talmudica-rabbinica; le azzimelle per celebrare la Pasqua ebraica vengono imbevute col sangue dei bambini cristiani; il bambino deve morire fra i tormenti perché il suo sangue sia proficuo alla salute dell’anima giudaica. Queste accuse erano confermate da alcuni rabbini convertiti al cristianesimo, e in particolare il rabbino moldavo Teofilo, dopo la conversione, affermò: «gli ebrei sono più contenti quando possono ammazzare i bambini perché sono innocenti e vergini, e quindi perfetta figura di Gesù Cristo; li ammazzano a Pasqua, acciocché possano meglio rappresentare la passione di Gesù Cristo». La Civiltà Cattolica riteneva degna di fede la testimonianza di Teofilo per tre ragioni: in primo luogo perché Teofilo stesso era stato rabbino e fin dall’età di tredici anni aveva celebrato i riti giudaici, in secondo luogo perché deponeva contro se stesso, avendo confessato di aver fatto uso di sangue cristiano, in terzo luogo perché correva il rischio di essere ucciso dai suoi ex correligionari a causa delle sue rivelazioni, e tuttavia aveva parlato ugualmente per debito di coscienza e per carità verso i cristiani.
Don Nitoglia si sofferma su un importante caso verificatosi in Italia: quello di San Simonino di Trento, ucciso nel 1475 e beatificato dalla Chiesa (giova ricordare che la lobby ebraica ha imposto la soppressione del culto di San Simonino). Gli atti del processo ricostruiscono la vicenda del martirio del piccolo Simone: il fanciullo, portato all’interno della sinagoga, venne tenuto su uno scanno con le braccia tese in forma crucifixi, venne torturato con una tenaglia, e il suo sangue venne raccolto in una scodella, mentre i giudei pronunciavano maledizioni contro i cristiani. Il bambino morì dopo circa mezz’ora. Ovviamente sono stati versati oceani d’inchiostro per propagandare tesi negazioniste volte a smentire la realtà storica dell’omicidio rituale ebraico. La cultura ufficiale, riguardo il caso di San Simonino, accusa i Francescani di aver montato una campagna d’odio nei confronti degli ebrei. Nel XV° secolo i Francescani erano impegnati nell’istituzione dei Monti di Pietà, con i quali riuscirono a sottrarre i cristiani alle condizioni di prestito usuraie praticate dagli ebrei. Tuttavia i fraticelli che si sono impegnati in questa meritoria opera di civiltà, per la cultura organica al sistema hanno fomentato l’odio antisemita. Come si è detto in precedenza, dopo il Concilio Vaticano II° il culto di San Simonino è stato abolito. Don Nitoglia fa notare come questa decisione abbia ripercussioni gravissime nella definizione delle procedure di canonizzazione. La Chiesa postconciliare, ormai sprofondata in una condizione di totale sudditanza psicologica nei confronti degli ebrei, ha affermato temerariamente di aver sbagliato nel giudizio di beatificazione su San Simonino, e in questo modo ha aperto il varco alla penetrazione della Cabala giudaica fino al vertice delle gerarchie ecclesiastiche.
L’obiezione fondamentale dei negazionisti è che la passione religiosa avrebbe accecato gli storici cattolici. In base a questa obiezione occorre allora dubitare di tutto ciò che gli storici scrivono, poiché ogni uomo è mosso da una qualche passione: si pensi solo alla straripante letteratura storica ispirata all’ideologia sionista. Don Nitoglia, inoltre, affronta l’argomento anche sul piano della fede, infatti dal punto di vista cattolico occorre tener presente che l’omicidio rituale si presentò sotto la copertura e la garanzia di poteri politici fra i quali figurano anche dei santi: San Luigi IX° in Francia, San Enrico in Germania, e San Ferdinando in Spagna. I cattolici sono tenuti a credere ai santi in quanto modelli di perfezione che i fedeli devono sforzarsi di imitare. Non è dunque ammissibile, per i credenti, che questi personaggi siano macchiati dal peccato e che siano stati dei calunniatori: per la dottrina cattolica la Chiesa è infallibile nel canonizzare. Tanto più che le vittime degli omicidi rituali sono state beatificate e quindi proposte al culto dei cattolici assieme agli atti del loro martirio (San Simonino è posto nel Martirologio Romano al 24 marzo). Non è mancato chi ha tentato di affermare che il martirio deve essere un atto cosciente e volontario, e che quindi un bambino non può essere considerato né martire né santo: questa è la tesi sostenuta dal commissario pontificio padre Battista de’ Giudici, per scagionare gli ebrei dall’accusa. Don Nitoglia ricorda che, come tutti sanno, la Chiesa ha canonizzato i Santi Martiri Innocenti fatti uccidere da Erode: la tesi del de’ Giudici può essere sbugiardata dai ragazzini del catechismo!
Don Nitoglia accenna anche alle fonti antiche che riguardano i sacrifici umani in relazione all’Ebraismo: la religione ebraica condannava i sacrifici umani, che erano praticati dai Cananei, ma non si può escludere che questi culti barbari abbiano influenzato alcune frange del mondo ebraico. Nella letteratura talmudica si fa menzione di un culto del Moloch praticato in ambiente ebraico. Don Nitoglia, poi, fa alcune considerazioni sulle autorità scientifiche che hanno esaminato le testimonianze: i Papi e i Padri Bollandisti. Com’è noto i Papi esaminano sempre con grande ponderazione e con proverbiale prudenza i documenti che riguardano la storia religiosa, e i Padri Bollandisti sono universalmente noti per l’accuratezza e il rigore delle loro ricerche.
In passato il dibattito sugli omicidi rituali ha interessato nientemeno che i signori dell’alta finanza: nei primi anni del XX° secolo, i Rothshild fanno pressione sui cattolici inglesi affinchè convincano la Santa Sede a scagionare ufficialmente e definitivamente gli ebrei dall’accusa del sangue. Tuttavia gli sforzi della ricchissima famiglia ebraica furono vani: la Santa Sede all’epoca non era affatto incline ai cedimenti ecumenici che caratterizzano la Chiesa postconciliare. Don Nitoglia conclude il libro affermando la fondatezza dell’intenzione sterminazionista propugnata dall’Ebraismo talmudico verso i cristiani, e dichiara: «mi sembra perciò, che si possa affermare, senza paura di sbagliarsi, la veridicità storica della tesi dell’Omicidio Rituale ebraico, senza cadere in eccessi di fanatismo, che lo vedono ove non c’è, ma senza neanche cadere nell’errore di scetticismo che si ostina a negarlo, dopo prove storiche e magisteriali così probanti».
Michele Fabbri
Don Curzio Nitoglia, L’omicidio rituale ebraico. La secolare accusa del sangue: tesi e documenti a confronto, effepi, Genova 2004, pp.56, euro 6,00. |
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Berlino: sanzioni comuni contro ogni negazionismo
di Mariella Palazzolo
La Germania torna a proporre sanzioni penali comuni a tutta la Ue per chi incita all'odio razziale e nega il genocidio e al Consiglio scoppia la bagarre quando alcuni stati membri richiedono che tutti i regimi totalitari siano messi sullo stesso piano e che l'esecrazione dei loro crimini faccia parte integrante del testo della legge. Estonia, Polonia e Slovenia, che ancora sentono il peso del loro passato comunista, hanno richiesto che venga inserto nel testo, a chiare lettere, che il negazionismo dei crimini dei regimi totalitari, con la menzione esplicita del comunismo, sia punito penalmente. La loro posizione è sostenuta dall'affermazione di alcuni diplomatici della Ue i quali dichiarano che «lo scopo della proposta è quella di raggiungere un uguale trattamento morale dei crimini sia nazisti che comunisti». Ma non tutti i paesi ex comunisti stanno dalla stessa parte. Il ministro della Giustizia slovacco Stefan Harabin, ad esempio, sostiene che «non si possono mettere fascismo e comunismo sullo stesso piano». Il ministro della Giustizia tedesco Brigitte Zypries, dopo l'ultimo Consiglio, non ha voluto concedere nessuna dichiarazione sull'argomento, limitandosi a dire che non sono stati fatti passi significativi. Eppure fonti attendibili dicono che alcuni paesi hanno richiesto che la proposta sui crimini politici sia separata da quella sull'odio razziale (razza, colore, nazionalità o etnia), mentre la proposta tedesca li include entrambi.
In maniera molto diplomatica la Zypries ribadisce che «tutti gli Stati Membri vogliono dare un segnale forte nella lotta al razzismo e alla xenofobia» aggiungendo che c'è un sostegno unanime affinché si adotti uno «strumento legale». Il testo della Presidenza tedesca delinea due tipologie di reato che dovrebbero essere punite da uno a tre anni di reclusione in tutto il territorio della Ue. Il primo punisce chi «incita pubblicamente alla violenza o all'odio, anche attraverso la diffusione o la distribuzione di testi, immagini o materiale di altro genere»; il secondo proibisce «il negare o svilire in pubblico i crimini di genocidio, contro l'umanità, di guerra e quelli indicati dal Tribunale di Norimberga», è referenza indiretta all'Olocausto. «Certo - continua la Zypries - è importante che la libertà di espressione continui ad essere rispettata». L'iniziativa tedesca ha registrato il tentativo della Polonia di aggiungere una clausola che vieti l'uso del termine «campi di sterminio polacchi» nei media, che confonde le acque su chi sia il vero responsabile del genocidio degli ebrei. E la questione sta tanto a cuore al governo polacco da avere, lo scorso 13 febbraio, fatto un reclamo ufficiale alla Casa Bianca per l'uso continuo di questa espressione da parte della Cnn e della Associated Press. Nel passato le proposte della Ue di armonizzare le pene per questo tipo di crimini sono state respinte per ben due volte (2003 e 2005) a causa delle impossibilità di raggiungere un compromesso sul principio di libertà di espressione e di percezione storica. Allora proprio l'Italia aveva richiesto che non ci dovesse essere alcun riferimento specifico all'Olocausto, sostenuta dalla Gran Bretagna che sosteneva che nel proprio sistema legislativo la negazione dell'Olocausto ricade nella libertà di espressione a meno che non inciti all'odio razziale. Mentre il Consiglio dibatteva su queste delicate questioni uno scandalo esplode al Pe. L'europarlamentare polacco Maciej Giertych pubblica un pamphlet, con il logo del Pe in copertina, dal titolo La guerra delle civiltà in Europa. Nelle trenta pagine del testo si leggono frasi del tipo «gli ebrei sono ricchi» e «creano i loro ghetti», oppure che esiste una «differenza biologica» degli ebrei che porta a una fisionomica specifica. D'altronde il settantunenne, botanico, Giertych è noto per avere, lo scorso anno, lodato le azioni del Generale Franco. Il libercolo arriva in un momento particolare anche per il Pe, che il mese scorso ha visto la creazione di un nuovo gruppo politico di estrema destra, presieduto dal francese Bruno Gollnisch, recentemente condannato a pagare una ammenda di 55 mila euro in Francia per avere negato l'Olocausto. L'imbarazzo per il libro di Giertych arriva fino in Polonia, dove, il figlio è ministro del governo di Jaroslaw Kaczynski, imbarazzo che aumenta nel leggere di quale dicastero: quello dell'istruzione. Piccola nota conclusiva: la prima versione della proposta tedesca conteneva un comma che bandiva l'uso della svastica, simbolo che nel sentire comune è l'emblema del nazismo, divieto già presente in Germania. Proteste sono arrivate da tutti gli induisti che risiedono nella Ue, preoccupati di non poter usare il simbolo che fa parte della loro religione da più di 5 mila anni. Al Consiglio e al Pe sono arrivate molte lettere nelle quali si leggeva che «le cerimonie Hindu non possono concludersi senza la svastica; è un atto discriminatorio contro la nostra religione, un abuso dei diritti umani». Il comma è stato cancellato dalla proposta attuale. Piccolo esempio di lobbying virtuoso?
il Riformista, 22 febbraio 2007, pag.7 |
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Chi imbavaglia gli storici
di Piero Ignazi
Ariel Toaff, storico israeliano, stimato studioso degli ebrei italiani del periodo medievale e rinascimentale, è stato sottoposto nella scorsa settimana a un linciaggio mediatico che non ha riscontri nella storia culturale italiana. Un suo documentatissimo libro — più di un terzo dell'intero volume è riservato alle note, all’appendice documentaria e alla bibliografìa — su credenze e riti di ebrei askhenaziti tedeschi presenti anche nell'Italia nord-orientale, Pasque di sangue, è stato bollato d'infamia prima ancora di essere stato letto. Alla recensione in anteprima di Sergio Luzzatto che rendeva onore all’«inaudito coraggio intellettuale» dell'autore nell'affrontare senza pregiudizi l'ignominiosa accusa con cui sono stati martirizzati per secoli gli ebrei, e cioè l'uccisione di bambini cristiani per utilizzarne il sangue a scopi rituali, sono seguiti condanne e ingiurie di impressionante violenza. Oltre a minacce personali. Non ci interessa qui, perché non abbiamo la competenza, discutere il valore scientifico di questo libro; molti, anche su questo giornale, lo hanno criticato. Ma questo fa parte del gioco, benché da molti storici (diversamente dal nostro equilibratissimo Giulio Busi) ci si sarebbe aspettato un linguaggio meno livoroso e accaldato. Quello che è inaccettabile è che autorità religiose, gruppi di pressione, e accademici senza pudore né rigore (valga per tutti l'incredibile rassegna di giudizi demolitori di storici americani e israeliani sul «Corriere della sera» del 13 febbraio nonostante, per mere ragioni temporali, non potessero aver letto il libro, tanto che qualcuno come Kenneth Stow dell'Università di Haifa lo ha pure candidamente confessato) si siano precipitati a lanciare una fatwa contro il libro e la persona di Toaff. La condanna preventiva, «a prescindere» (dalla lettura e dal contenuto), e l'intromissione di organizzazioni, associazioni e personalità extra-accademiche tingono dei colori più foschi questa vicenda. La comunità accademica italiana in nome di principi universali di libertà intellettuale e di ricerca, sanciti solennemente dalla "Magna Charta Universitatum" di Bologna firmata da circa 1.000 università del mondo, deve respingere le invasioni di campo, le pressioni (avanzate anche con il ricatto dei finanziamenti), le condanne con richieste di abiura. Da Galileo in poi sappiamo quanto possa essere rischiosa la ricerca senza pregiudizi e preconcetti, indirizzata anche contro les idées reçues. Dopo i casi eclatanti di Salman Rushdie e Orhan Pamuk la lista degli scrittori vittime dell'intolleranza e del fanatismo rischia di estendersi, includendovi anche gli storici. Ripetiamolo: non ci interessa sapere se Taoff abbia o no ragione nel suo lavoro; questo lo decide la comunità accademica, l'unica intitolata a dare giudizi. Gli altri, per cortesia, si astengano. Non vorremmo proprio vedere, in un Paese intellettualmente tra i più liberi e spregiudicati del mondo come Israele, il rogo di un libro proibito e la maledizione del suo autore. Sarebbe tragico che facessero breccia anche nelle nostre democrazie i depositari della verità assoluta, i fondamentalisti di ogni colore, i custodi delle ortodossie, i timorosi del nuovo. Non abbiamo proprio bisogno di un orwelliano ministro della Storia.
il Sole – 24 ore, 18 febbraio 2007, pag.35
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