I missili dividono Berlino. La Spd non ne vuole sapere
Merkel attenta a non irritare gli Usa, chiede una «discussione» nella Nato. Ma il presidente della Spd Beck porta il partito al conflitto in nome della pace. Sensibile anche ai moniti di Putin

Guido Ambrosino
Berlino
Kurt Beck, che da un anno guida il partito socialdemocratico senza grande fortuna, ha finalmente trovato un tema, la pace. «Non abbiamo bisogno di più missili», dice, e rifiuta seccamente il piano Usa di stazionare dieci batterie di missili-antimissile in Polonia e una gigantesca stazione radar nella Repubblica ceca. La Spd, frustrata dalla gabbia della "grande coalizione" con i democristiani, è entusiasta. La cancelliera Merkel, attenta a non criticare apertamente Washington sui piani di scudo spaziale, giudicati perfino «legittimi», e attestata sulla più modesta richiesta di «consultazioni» dentro la Nato, è irritata. Il ministro degli esteri Steinmeier, Spd, cerca a fatica una linea intermedia tra il partito e la cancelleria. I missili-antimissile sono ancora sulla carta, ma già rimescolano le carte della politica tedesca.
Kurt Beck è sceso in campo il 18 marzo sulla Bild Zeitung, appellandosi agli europei perché contrastino insieme i programmi di scudi missilistici: «La Spd non vuole una nuova rincorsa agli armamenti tra Usa e Russia sul suolo europeo. Nel mondo ci sono già abbastanza problemi da affrontare, la poverta, il cambiamento climatico, il terrorismo. Nuovi missili e nuovi sistemi d'arma non ci portano avanti di un passo».
Non era uno sfogo estemporaneo. Il 19 marzo il presidente Spd ha rincarato la dose in una conferenza alla fondazione Friedrich Ebert, a Berlino. «Dobbiamo far di tutto per evitare una nuova spirale di riarmo. E l'attuale discussione sul sistema antimissili mostra che proprio questo pericolo incombe». Quanto al rischio, paventato dagli Usa, che vecchi e nuovi stati-canaglia possano minacciare l'occidente con armi nucleari, Beck ricorda che il Trattato di non proliferazione impegna le potenze nucleari a ridurre i loro arsenali. Se non mantengono l'impegno, perdono ogni autorità nel predicare l'astinenza a altri.
Beck si richiama alle parole chiare di Vladimir Putin il 10 febbraio alla conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco: «La militarizzazione dello spazio potrebbe avere conseguenze imprevedibili per la comunità internazionale, e provocare una nuova era nucleare. I piani per stazionare elementi del sistema antimissilistico in Europa non possono non preoccuparci (...), inevitabilmente ciò produrrebbe una nuova competizione al riarmo».
Già due anni fa Putin aveva annunciato una «risposta asimmetrica» ai piani Usa. A Monaco ha ribadito che la Russia possiede armi in grado di aggirare gli scudi. Sono i missili Topol-M. Finora, in conformità al trattato Start-1, che però scade il 2009, vengono dotati di una sola testata nucleare. Ma potrebbero portare più testate, guidabili su traiettorie diverse, e in grado di passare da una traiettoria balistica a una "semibalistica". Intercettarli sarebbe assai arduo. Putin si è concentrato su un punto politico: la continua «provocazione» rappresentata dalla espansione a est della Nato. L'Unione sovietica aveva dato il suo assenso all'unità tedesca in cambio del solenne impegno a non spostare strutture strategiche oltre la linea dell'Elba, che aveva diviso per 40 anni le due Germanie. Il tedesco Wörner, allora segretario generale della Nato, aveva dichiarato nel 1990: «Il nostro impegno a non stazionare truppe Nato oltre il territorio della Repubblica federale tedesca, dà all'Unione sovietica solide garanzie di sicurezza». E Putin a Monaco ha chiesto: «Cosa ne è oggi di queste garanzie di sicurezza?».
Sono evidentemente carta straccia. La Russia si sta ritirando dalla Georgia e mantiene ancora solo 1500 soldati in Moldavia, gli Usa stanno stazionando 5000 soldati in Bulgaria e altrettanti in Romania. E oltre al radar nella Repubblica ceca, ne vorrebbero un'altra nel Caucaso, magari in Georgia. E il generale Henry Obering, capo della Missile Defence Agency, il 14 marzo è andato a Kiev per offrire all'Ucraina un coinvolgimento nello "scudo".
Gli Usa dichiarano che lo "scudo" non è rivolto contro la Russia, ma per fermare missili dall'Iran. Scenario quantomai ipotetico, visto che l'Iran non disporrà per anni di missili di gittata tale da impensierire l'Europa. Mentre assai concrete sono le ricadute politiche immediate. Salta agli occhi che Praga e Varsavia guidino la resistenza della "nuova Europa", cara a Donald Rumsfeld, contro i tentativi della presidenza tedesca di far ripartire il meccanismo inceppato dell'integrazione europea. Il governo ceco dice di non sentirsi impegnato dalla "dichiarazione" comune appena sottoscritta a Berlino. Quello polacco vuol ridiscutere il meccanismo della doppia maggioranza per le decisioni ue (55% degli stati membri e 65% della popolazione). Con questi chiari di luna, lo "scudo" già svolge egregiamente la sua funzione come cuneo per spaccare l'Europa.
il manifesto del 01 Aprile 2007 pagina 04

 
   
 

Germania, i nazisti ora fanno paura
Secondo l'Ufficio criminale federale, gli atti di violenza sono stati 18mila nel solo 2006. Mai così tanti dalla riunificazione

Matteo Alviti
Berlino
Sono state più di 18mila, solo nel 2006, le azioni criminali commesse dai neonazisti in Germania. Una simile ondata di violenza da parte dell'estrema destra non era mai stata registrata da quando, nel 2001, è stato introdotto il sistema di definizione che riconosce gli atti di criminalità motivati politicamente. Rispetto all'«annata record» del 2005, quando furono segnalati quasi 16mila delitti, c'è stato un aumento del 14%. Dal 2004 l'aumento è invece del 50%.
I dati provengono direttamente dall'Ufficio criminale federale, il Bundeskriminalamt (Bka), che periodicamente raccoglie le segnalazioni della polizia dei Länder. Le cifre sono state pubblicate qualche giono fa sulla prima pagina del Tagesspiegel. Il quotidiano è entrato in possesso delle informazioni che il Bka aveva redatto in un rapporto confidenziale per il ministero degli interni tre settimane fa. Secondo quanto riportato dal giornale berlinese, non si era mai verificata una esplosione di violenza neonazista di questa entità da quando la Germania è tornata a essere una sola, il 3 ottobre del 1990.
Col numero dei delitti è cresciuta anche la frequenza e l'intensità della violenza contro le persone. Delle 18mila azioni criminose, gli atti di violenza fisica sono saliti a più di 1100, con un aumento dell'8% rispetto al 2005 (nel 2004 erano stati segnalati 832 casi). Al contrario di quanto ci si potesse aspettare, lo svolgimento degli ultimi mondiali di calcio non ha giocato un ruolo rilevante.
I dati raccolti dal Bka dipingono una situazione addirittura peggiore di quella che il ministro degli interni, il cristianodemocratico Wolgang Schäuble, aveva riportato in parlamento in risposta all'interrogazione parlamentare del gruppo die Linke, l'opposizione da sinistra al governo di Angela Merkel.
Lo stesso sindacato di polizia ha avvertito allarmato che «l'estremismo di destra sta avanzando in tutto il paese». Secondo il presidente del sindacato, Konrad Freiberg, «la cosa più pericolosa è che la destra estrema ha penetrato il centro borghese della società tedesca». Non si può più parlare di un problema di gruppi sociali emarginati, ha continuato Freiberg.
La sfilza di dichiarazioni rituali del mondo politico, preoccupato per l'aumento dei delitti, non si è fatta attendere. Da parte socialdemocratica è rispuntata l'idea della convocazione di un vertice straordinario sulla democrazia per elaborare una strategia in grado di sconfiggere l'estremismo di destra. Mentre i Verdi chiedono un'«offensiva democratica» nelle scuole e die Linke il sostegno alle iniziative della società civile e dei centri per le vittime della violenza neonazista.
Il presidente del sindacato di polizia è però scettico: «L'unica strategia contro la destra è quella di rioccupare gli spazi sociali dai quali la politica e i sindacati sono arretrati».
Freiberg è a favore della messa fuori legge dei partiti di estrema destra, con tutti i problemi che comporterebbe: «È perverso che l'Npd si finanzi con i rimborsi elettorali previsti dal nostro sistema partitico», ha detto.
il manifesto del 12 Aprile 2007 pagina 10

 
   
 
«Mi chiamo Göring, diventerò ebreo»
Matthias indossa la kippà, mangia cibo kosher e celebra lo Shabbat: «C’è una colpa spirituale nella mia famiglia e nella nazione tedesca»
Il discendente del gerarca nazista sogna di vivere in Israele

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO - Indossa la kippà, mangia cibo kosher, celebra lo Shabbat, sta imparando l’ebraico, vorrebbe vivere in Israele e sta anche considerando di convertirsi. Una storia personale, importante ma simile a molte altre. Se non fosse per quel nome, il marchio d’infamia d’una colpa non sua che lo accompagna dalla nascita e gli ha rovinato la vita.
Matthias ha quasi cinquant’anni e un cognome pesante come un macigno: si chiama Göring, come Hermann Göring, l’efferato delfino di Hitler dal quale discende. Parentela lontana in verità, il suo bisnonno era fratello del nonno del gerarca nazista che fu fra i principali responsabili dell’Olocausto. Ma più che sufficiente a far ricadere anche su questo ramo della famiglia il disprezzo e l’emarginazione, seguite alla caduta del Terzo Reich. «Per me e i miei fratelli, soprattutto a scuola, il nome Göring ha sempre significato insulti e umiliazioni», ha raccontato a Der Spiegel , che è andato a trovarlo a Basilea, dove vive e lavora come fisioterapista.
Tanto più straordinaria appare la passione semita di Matthias, in quanto la sua scelta giunge dopo anni di, parole sue, «disprezzo verso gli ebrei» e in aperta sfida all’incomprensione della famiglia, che lo considera ormai fuori di testa: «Pensano che io sia impazzito, eppure ciò che mi è accaduto non è vaneggiamento. Io non mi sento colpevole, ma c’è una colpa spirituale nella mia famiglia e nella nazione tedesca. Nostra responsabilità è di ammetterlo apertamente. Io penso che Dio stia usando il mio nome per cambiare qualcosa nel cuore degli altri».
Il padre di Matthias, Ernst Wilhelm Göring, era medico della Wehrmacht e dopo la guerra venne fatto prigioniero dai russi. Tornato in Germania negli anni Cinquanta, si era stabilito ad Heidelberg con la famiglia e aveva ripreso la professione. Ma era finito di nuovo in carcere, quando un bambino affetto da bulimia che aveva in cura era morto. «La città cominciò una caccia alle streghe, ci accusarono di aver ucciso quel bambino come la nostra famiglia aveva ucciso gli ebrei». Furono anni di assoluta povertà, «i nostri genitori ci spiegavano che gli ebrei avevano preso tutti i nostri soldi e per noi diventarono l’origine di tutti i nostri guai, la causa di ciò che non potevamo permetterci».
Sono stati necessari più di quarant’anni, a Matthias Göring, nel frattempo stabilitosi in Svizzera, per liberarsi dalla maledizione e dai pregiudizi. Complici le sfortune economiche e personali, che nel 2000 avevano visto il fallimento del suo ambulatorio di fisioterapia e l’abbandono da parte della moglie. Depresso e vicino al suicidio, non aveva mai pregato. Ma racconta che quando lo fece, tutto cominciò a cambiare. Si vide offerto un buon lavoro. La fede divenne il suo principale riferimento. Il segnale decisivo giunse due anni dopo: «Ho avuto una visione, Dio mi ha detto che avrei dovuto difendere le porte di Gerusalemme. Lì ho capito che dovevo andare». Così, il discendente di Hermann Göring cominciò la sua lunga e personalissima marcia verso la Terra Promessa.
Ha molti amici israeliani, adesso, Matthias. E viaggia spesso in Israele, un Paese che adora e dove si trasferirebbe anche subito se potesse: «Laggiù ho scoperto persone meravigliose, quando hanno scoperto come mi chiamavo, mi hanno ringraziato per questa decisione. Ho vissuto il nome Göring come una maledizione, ora mi sento benedetto». È anche un forte sostenitore della causa dei coloni: indossa sempre il braccialetto arancione con la scritta «gli ebrei non scacciano gli ebrei», per protesta contro il ritiro dai Territori.
Matthias Göring non è il solo discendente di un capo nazista a sentirsi attratto da Israele. Katrin Himmler, pronipote di Heinrich, il famigerato capo delle SS che pensò e mise in pratica l’Olocausto, ha sposato un israeliano, spiegando che «è stato come se fossero predestinati a incontrarsi». I suoi conti con la figura del bisnonno, li ha fatti l’anno scorso con un libro, dove ha cercato di chiarire, a se stessa prima che agli altri, cosa significasse portare questo cognome.
E poi c’è anche Monika Göth, la figlia di Amon Göth, il comandante del lager di Plaszow, in Polonia, raccontato anche da Spielberg in Schindler’s List , che si divertiva a uccidere i prigionieri ebrei sparando a caso dal balcone della sua villa, posta ai bordi del campo. La signora Göth ha passato anni a cercare i sopravvissuti alla follia del padre per scusarsi con loro, proprio come Beate Niemann, la figlia di un altro criminale di guerra, il maggiore delle SS Bruno Sattler. «Sono completamente attirata dall’ebraismo - ha detto la Göth, in occasione dei 60 anni della liberazione di Auschwitz -. Gli ebrei furono i veri eroi e io sento solo disprezzo per coloro che ancora giustificano i nazisti».
Paolo Valentino
Corriere della sera, 15 maggio 2006

 
   
 

È scontro sulle dichiarazioni del responsabile della Difesa
Progetti di difesa, Berlino apre alla Russia.
Sulla stampa polacca la Merkel diventa Hitler

La Germania chiede di discutere con Mosca lo scudo missilistico Usa in Europa orientale

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO (Germania) —Sull’idillio apparente dei rapporti tra Germania e Stati Uniti, cala l’ombra dello scudo stellare. Ma il progetto del Pentagono, di un sistema anti-missile installato in Polonia e Repubblica Ceca, getta anche nuovi elementi di polemica nelle già tempestose relazioni di Berlino con Varsavia. Il ministro della Difesa tedesco, il cristiano-democratico Franz-Josef Jung, ha detto ieri che la costruzione di uno scudo anti-missilistico in Europa dell’Est dovrebbe essere discussa all’interno della Nato. Jung, che ha parlato a margine dell’incontro informale con i suoi colleghi dell’Ue a Wiesbaden, rispondeva indirettamente al capo della Missile Defence Agency, l’agenzia del Pentagono responsabile del progetto: Washington, così il generale Henry Obering, gradirebbe il consenso dei partner atlantici, ma non chiede né subordina al loro accordo la realizzazione del sistema antimissile in Europa orientale.
«Dovremmo discuterne lo sviluppo in una cornice Nato», ha detto Jung. E facendo esplicito riferimento alle preoccupazioni di Mosca, il ministro tedesco ha aggiunto che potrebbero essere prese in considerazione all’interno del Consiglio Nato-Russia, l’organismo creato per discutere i problemi di difesa e sicurezza tra i due ex nemici. L’uscita di Jung conferma che Berlino condivide almeno in parte le ragioni della Russia. Già il ministro degli Esteri tedesco, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, aveva sostenuto la necessità di discutere preventivamente con Mosca. E anche se, sul tema delle relazioni con il Cremlino di Putin, qualche differenza di tono esiste sicuramente anche all’interno della Grosse Koalition, la sostanza di questo fuoco di sbarramento è chiara: la Germania teme di veder danneggiati i propri buoni rapporti con la Russia, che fra l’altro è la sua maggior fornitrice di energia.
Mosca considera infatti come un atto ostile l’installazione di un sistema anti-missile ai propri confini, il tentativo di alterare gli equilibri emersi dopo la fine della Guerra Fredda. In questo senso, il mese scorso Putin è stato chiaro fino alla brutalità, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera. Ancora ieri, il generale Vladimir Michailov, comandante dell’aviazione russa, ha criticato il progetto, spiegando che in ogni caso la Russia è pronta alle contromisure: «Abbiamo tutto ciò che è necessario per rispondere in modo adeguato a queste installazioni », ha detto, secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa russe. Il progetto americano prevede l’installazione di un radar nella Repubblica Ceca e di una batteria missilistica in Polonia.
Un mini-scudo, secondo il Pentagono, prima parte di una più vasta rete anti-missile, che dovrebbe proteggere l’Europa da eventuali attacchi di cosiddetti «Stati canaglia», come Iran e Corea del Nord, o di gruppi di terroristi, nel malaugurato caso in cui venissero in possesso di tecnologie missilistiche. Berlino non contesta la necessità strategica dello scudo: «Il problema della minaccia di missili a lungo raggio esiste e deve essere affrontato con misure concrete», ha detto il portavoce di Jung. Il governo tedesco insiste però che ogni sistema del genere venga ricondotto nel quadro della Nato. Diversa è la posizione dei due Paesi interessati, Repubblica Ceca e Polonia, che hanno espresso la loro piena disponibilità all’installazione.
Il sì di Varsavia, soprattutto, è destinato a invelenire ulteriormente il clima dei rapporti con Berlino: negli ultimi mesi, i l governo nazional- conservatore dei gemelli Kaczinski non ha perso occasione per insultare il potente vicino, nonostante Angela Merkel abbia fatto di tutto per dimostrare amicizia e buona volontà. Più volte, sia la cancelliera che il ministro degli Esteri hanno assicurato che Berlino non appoggia in alcun modo le rivendicazioni degli ex profughi tedeschi, che furono cacciati dalla Polonia dopo la fine della guerra e ora si sono rivolti alla Corte di Giustizia europea, chiedendo di essere indennizzati. La retorica anti-tedesca è stata alimentata ai più alti livelli.
Perfino la questione dei confini è stata riaperta dal presidente Jaroslaw Kaczinski. Il risultato, probabilmente voluto, è stato quello di aizzare oltremodo l’opinione pubblica nazionalista polacca contro la Germania. Ieri, il periodico Czas, organo di un piccolo partito della destra radicale, l’anti-europeo UPR, è uscito con un fotomontaggio in copertina, dove Angela Merkel appare con i baffetti alla Hitler. Titolo: «Il fascismo della Ue all’offensiva». Opinioni volgari ed estreme, naturalmente. Ma che non promettono nulla di buono, in vista del 16 marzo, quando la signora Merkel andrà a Varsavia proprio in quanto presidente di turno dell’Unione, per parlare della Costituzione europea con il premier Lech Kaczinski. Pur graziata da una pioggia di finanziamenti da Bruxelles, anche grazie ai quali l’economia cresce a un ritmo del 6% l’anno, la Polonia dei «gemelli terribili» rimane una delle incognite più grosse sulle chance di successo della presidenza tedesca.
Paolo Valentino
Corriere della sera, 03 marzo 2007

 
   
 

Nel 1932 Bad Doberan in Germania aveva iscritto nel suo registro il futuro Führer. In Repubblica Ceca si ritrovano col dittatore sovietico
Hitler e Stalin cittadini onorari. I due fantasmi agitano l' Europa
La città del G8 revoca l' onorificenza, altre la lasciano

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO - C' è qualche cittadinanza onoraria di troppo, nell' Europa che ha appena festeggiato i suoi primi cinquant' anni? Bisogna esorcizzare i fantasmi della Storia, quando i loro nomi imbarazzanti incombono nella forma di antiche onorificenze sulla memoria di una città, minacciandone il decoro, il buon nome e l' immagine? È un test significativo della «Vergagenheitsbewältigung», il superamento del passato, quello affrontato in questi giorni da tre piccoli Comuni, uno tedesco, due della Repubblica Ceca, che si sono ritrovati ad avere tra i loro cittadini onorari Adolf Hitler e Josif Stalin. E la risposta affatto diversa data dalle rispettive autorità locali, mostra quanto rimanga controversa e difficile l' elaborazione della memoria, nei Paesi dove i totalitarismi del «secolo breve» sono stati, direttamente o indirettamente, tragici protagonisti. LA REVOCA - Lunedì scorso, il consiglio comunale di Bad Doberan, nel Land del Meclenburgo nel Nord-Est della Germania, ha revocato la cittadinanza onoraria, che la città aveva concesso a Hitler nel 1932, meno di un anno prima che conquistasse il potere. Bad Doberan non è un posto qualunque. Il suo territorio comprende infatti anche la frazione di Heiligendamm, sul Mar Baltico, che Angela Merkel ha voluto come sede del G8, il vertice dei Paesi industrializzati in programma a giugno. È stata una corsa contro il tempo. Sarebbe stato imbarazzante, per la Germania che ha la presidenza di turno del G8, lasciare che Bush, Blair e gli altri potenti della Terra firmassero com' è tradizione il libro d' onore cittadino, su un vecchio tomo del quale probabilmente anche il Führer del nazismo aveva apposto il suo autografo. Hitler trascorse molte vacanze estive ad Heiligendamm, famosa per essere stata ai tempi del Kaiser la prima stazione balneare d' Europa. LA STORIA - Furono centinaia, in verità, i Comuni tedeschi che conferirono la cittadinanza onoraria al capo del nazismo. Molti la revocarono dopo la guerra. E forse così fece anche Bad Doberan, nella Germania Est. Ma un anno di ricerche negli archivi non è servito al sindaco socialdemocratico, Hartmut Polzin, a ritrovare le carte. Né è valso a placare l' eccitazione dei media tedeschi e internazionali l' argomento dei padri latini, «mors omnia solvit». Così si è arrivati alla decisione del 2 aprile: «Anche se la cittadinanza onoraria è finita con la morte, abbiamo compiuto un passo formale prima del G8, perché la vicenda stava andando fuori controllo», ha detto Gerhard Kukla, capo dell' Amministrazione comunale. IN REPUBBLICA CECA - Fuori controllo o meno, nella Repubblica Ceca le cittadinanze onorarie passate non sembrano creare problemi particolari. Anche lì, dopo la guerra, non tutte le città le revocarono. Certo, a differenza che in Germania, non c' è l' ansia di evitare imbarazzi agli ospiti del G8. Ma tant' è. Adolf Hitler, l' uomo che occupò e smembrò la Cecoslovacchia, era e rimane cittadino onorario di Lanskroun, nei Sudeti. «C' è poco da fare - spiega il sindaco Martin Kostál -, revocando oggi la cittadinanza onoraria non lo cancelleremmo dalla Storia». È l' identico ragionamento di Juraj Toma, sindaco di Ceské Budejovice, nel Sud della Boemia, che nell' albo d' onore del Comune si è ritrovato addirittura il nome di Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin. Anche lui dice no a revocare la cittadinanza d' onore al sanguinario dittatore sovietico: «Non sarebbe giusto modificare la Storia e mostrarsi migliori di quanto fosse possibile all' epoca», dice Toma con parole molto sagge. LA POLEMICA - Il dibattito continua. Ad alimentarlo, un altro caso in Germania, questo meno concreto e più simbolico. È necessaria una revoca postuma della cittadinanza tedesca di Adolf Hitler? A proporlo, per la verità isolata, è una deputata socialdemocratica della Bassa Sassonia, Isolde Saalmann, argomentando che si tratta di riconoscere un errore vecchio di 75 anni. Hitler, nato in Austria, divenne cittadino tedesco solo nel 1932, una precondizione per assumere incarichi elettivi nella Repubblica di Weimar. A concedergli la cittadinanza fu l' amministrazione nazista di Braunschweig, allora Stato federale e oggi parte del Land di Hannover.
Valentino Paolo
Corriere della sera, 5 aprile 2007 pagina 15

 
   
 

L'ira del pittore Stäck: «Esaltata la barbarie»
La mostra-scandalo dello scultore di Hitler
Polemiche in Germania per il primo allestimento di 70 lavori di Arno Breker. Le sue opere erano finora considerate tabù

BERLINO (dal nostro corrispondente) - Beveva il tè con Joseph Goebbels, trascorreva le vacanze con Albert Speer, riceveva spesso Heinrich Himmler nel suo atelier. E intanto decorava la follia megalomane del dittatore, popolando con le sue statue gigantesche i luoghi della volontà di rappresentazione nazista: muscoli corazzati, volti vittoriosi, l'ideale ariano fatto scultura. Al culmine del suo successo, in cappotto e bustina delle SS, ebbe il privilegio di accompagnare Hitler nella sua celebre visita a Parigi occupata. Il suo canto del cigno. Caduto il nazismo, un po' troppo generosamente giudicato un semplice compagno di strada, Arno Breker se l'era cavata con una multa di 100 marchi. E fino alla sua morte, avvenuta nel 1991, il più celebre scultore tedesco del XX secolo era rimasto un «non artista». Almeno ufficialmente, visto che in privato il suo studio fu meta di industriali e collezionisti come gli Ötker, i Quandt e i Ludwig, e di politici come Adenauer ed Erhard, che gli commissionarono anche i propri ritratti. Ma nel dopoguerra la sua arte era diventata tabù, i musei non lo consideravano esponibile e chi voleva ammirare le sue sculture doveva avventurarsi all'Olympiastadion di Berlino, dove alla vigilia dei Mondiali qualche stolto aveva proposto di coprirle.
Sessantuno anni dopo la fine della guerra, una città tedesca dedica a Breker una mostra personale. Si apre stamane alla Schleswig- Holstein Haus di Schwerin, capitale del Meclenburgo, la più completa retrospettiva mai realizzata sull'opera dell'artista di corte di Hitler. Ma già prima di essere svelate agli occhi del pubblico, le 70 sculture (tra originali e copie in scala) dell'allestimento provocano polemiche di fuoco, spaccano trasversalmente il mondo della cultura e della politica tedesca, confermando tutta la carica ancora urticante del passato che non passa. A rendere più incandescente la diatriba è il finanziamento pubblico di 55 mila euro, assicurato alla mostra dal ministero della Cultura del Land, governato da una maggioranza di sinistra composta dai socialdemocratici della Spd e dai post comunisti della Linkspartei.
«È possibile esporre di nuovo l'artista preferito di Hitler?», si chiedeva ieri la Bild Zeitung. Le risposte e le prese di posizione disegnano due schieramenti piuttosto atipici. L'autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung, in genere piuttosto incline alle revisioni del passato, si esprime negativamente sull'iniziativa: occorrerebbe prima, spiega il giornale, un lavoro critico su Breker, che ancora non c'è stato anche per il rifiuto della famiglia, sostenitrice entusiasta della mostra, di aprire l'archivio privato dell'artista agli studiosi. Più duro il neo-direttore della berlinese Akademie der Künste, il pittore Klaus Stäck, che per protesta ha cancellato una sua mostra, programmata nello stesso museo il prossimo anno: «Breker diede un volto al razzismo nazista, fu il decoratore della barbarie. La mostra di Schwerin non ha un impianto critico ed è un modo per denazificarlo». No, reagisce a sorpresa il premio Nobel Günter Grass, secondo il quale «a condizione di essere documentata e informativa, la mostra può rispondere ad alcune domande».
E a favore dell'allestimento si dichiara anche Michel Friedman, ex vicepresidente del Consiglio centrale ebraico, secondo il quale le opere di Breker non vanno nascoste, ma presentate al pubblico accompagnate da adeguate spiegazioni sul ruolo avuto dallo scultore durante il nazismo: «Solo così i giovani possono apprendere come venne violentata l'arte e come gli artisti si misero al servizio della dittatura».
Paolo Valentino
Corriere della sera, 21 luglio 2006

 
   
 

Germania, la Merkel vara la tassa sui ricchi
Colpisce i redditi superiori ai 250 mila euro l'anno. La Spd: «Sacrifici per tutti»

BERLINO — Non farà sicuramente piacere a Silvio Berlusconi che in Germania la Grosse Koalition, da lui teorizzata per l'Italia subito dopo il controverso esito elettorale, stia per produrre una legge che il presidente del Consiglio bollerebbe subito come «comunista». Tant'è. Dal primo gennaio 2007 entrerà in vigore nella Repubblica Federale una «tassa sui ricchi». Ogni single che abbia un reddito superiore a 250 mila euro l'anno e ogni coppia sposata che ne guadagni più di 500 mila si vedranno aumentare di 3 punti l'aliquota fiscale massima, che per loro salirà dal 42 al 45 per cento. Dalla cosiddetta Reichensteuer saranno tuttavia temporaneamente esentati i redditi da attività produttive, quelli cioè realizzati dalle società di persone che costituiscono la maggioranza delle aziende tedesche.
L'esenzione varrà un anno, in attesa che il governo approvi la riforma complessiva della tassazione dei redditi d'impresa, la cui entrata in vigore è prevista nel 2008. Già contemplata dall'accordo di coalizione, messa a punto lunedì notte dopo cinque ore di trattative difficili in un vertice di maggioranza, la tassa sui ricchi è stata annunciata dai segretari della Cdu-Csu e della Spd. «Se sacrifici sono necessari, allora devono essere distribuiti in modo equo», ha detto il socialdemocratico Hubertus Heil. È stata la Spd a battersi per introdurre la misura, vincendo le riserve dei partner cristiano-democratici che avrebbero voluto rinviarla di un anno, preoccupati che la maggiorazione d'imposta diminuisca i consumi e rallenti la ripresa economica in corso. Nella versione approvata, si tratta comunque di una misura in gran parte simbolica, mirata in primo luogo a rassicurare la base socialdemocratica: secondo il quotidiano Handelsblatt, porterà infatti nelle casse pubbliche 300 milioni di euro in più, in luogo degli 1,3 miliardi che avrebbe fruttato l'inclusione dei redditi da attività produttive.
«Il mondo degli affari dovrebbe essere contento di questa soluzione», è stato il commento di Winfried Fuest, esperto fiscale dell'Istituto per l'economia tedesca. Ma anche in questa forma più blanda, la Reichensteuer viene criticata dall'opposizione. «È puro populismo — ha detto il segretario generale liberale, Dirk Niebel — Ogni aumento fiscale è un segnale sbagliato ai consumatori e alle imprese». Ricordando i previsti aumenti dell'Iva e l'introduzione di una tassa sulla salute, la presidente dei deputati Verdi, Renate Kunast, ha accusato il governo di «continuare ad affondare le mani nelle tasche delle persone». L'altra importante intesa raggiunta nel vertice di lunedì è stata sul cosiddetto Elterngeld, l'assegno straordinario che dal primo gennaio 2007 ogni madre o padre riceverà, in caso di congedo dal lavoro per la nascita di un figlio. Sarà pari al 67% dell'ultimo salario (con un tetto massimo di 1.800 euro mensili) e verrà corrisposto per un anno dopo il parto. Se però il padre sarà in congedo per almeno 2 mesi, allora l'assegno viene erogato per 14 mesi. La legge ha un finanziamento limitato a 4 miliardi di euro l'anno, di cui 3 verranno recuperati con l'abolizione dei benefici esistenti. In altre parole, se la misura si rivelasse efficace, facendo risalire il tasso di natalità, lo Stato rischierebbe di non potere onorare il suo impegno.
Paolo Valentino
Corriere della sera, 03 maggio 2006

 
   
 

L’ex cancelliere stipendiato dal consorzio Gazprom
L’oleodotto di Putin assume Schröder
Polemiche a Berlino: «Si è fatto comprare»

BERLINO —Drug poznaiotsya vbede, un amico si riconosce nella sventura, dice un vecchio proverbio russo. Non è esatto parlare di sventura nel caso di Gerhard Schröder, sconfitto d’un soffio e con onore nella battaglia per la cancelleria. Ma perso pur sempre il potere, l’ex cancelliere tedesco ha potuto riconoscere proprio in Vladimir Putin il vero amico di cui all’adagio. Quello che forse non aveva previsto era l’alto costo, in termini di critiche feroci anche da parte di amici, che la solidarietà russa gli avrebbe comportato. Sarà Gerhard Schröder infatti a guidare il consiglio di sorveglianza della neonata «Nordeuropäische Gas Pipeline Gesellschaft», il consorzio creato dal gigante russo del metano Gazprom insieme alle tedesche Basf e E.On, per la costruzione del gasdotto che dal 2010 collegherà la Russia direttamente con la Germania, fornendo da solo un terzo dell’intero fabbisogno di gas dei tedeschi. Un progetto da 4 miliardi di euro, importante e controverso, che taglierà fuori Polonia, Paesi Baltici e Ucraina e che rafforzerà la posizione di Mosca nell’approvvigionamento energetico della Repubblica Federale e in futuro del resto d’Europa. Giunta neanche un mese dopo le sue dimissioni da cancelliere, la nomina di Schröder provoca però un’ondata di giudizi negativi e irritazione non soltanto in Germania. Soprattutto perché egli è stato negli anni scorsi, insieme a Putin, l’autentico campione del progetto, incurante delle irritazioni e dei sospetti degli ex Paesi del Patto di Varsavia, che nell’adesione all’Ue vedono in primo luogo la polizza assicurativa dell’autonomia politica da Mosca.
«I russi si prendono Schröder», ha titolato sabato la Bild, specchio del Paese profondo, secondo la quale è stato proprio il presidente russo a proporre l’ex cancelliere per la guida dell’organismo di controllo del consorzio, dove sarà il rappresentante degli azionisti. Sempre stando al quotidiano della Springer, Schröder dovrebbe guadagnare nel nuovo incarico più di 1 milione di euro l’anno. La cifra non è stata confermata e appare un po’ esagerata, oscillando attualmente i compensi annuali per incarichi dello stesso tipo nelle grandi aziende in Germania tra 200 e 500 mila euro. «E’ sorprendente che un ex cancelliere socialdemocratico traduca subito in denari contanti il suo ex incarico», commenta acido il vice-presidente del Bundestag, il liberale Hermann Otto Solms. Durissimo il segretario generale della Fdp, Dirk Niebel, che parla di «odor di corruzione» e pone la domanda «se interessi generali tedeschi siano stati venduti per interessi privati ». Mentre il leader del suo partito, Guido Westerwelle, propone l’introduzione di un «codice d’onore» per i membri di un governo che lasciano l’incarico. «C’è una strana luce sulla vicenda», nota Volker Kauder, presidente dei deputati Cdu.
Non vanno per il sottile neppure gli ex alleati di Schröder: «La cosa puzza», dice lapidario il leader dei Verdi, Reinhard Bütikofer. Di più, disappunto e critiche covano anche nelle file socialdemocratiche: «Con questa decisione non si è fatto un favore», è il commento del leader regionale della Spd in Turingia, Christoph Matschie. Un altro membro della direzione socialdemocratica, Hermann Scheer, definisce «deplorevole che l’ex cancelliere si sia fatto coinvolgere in questa impresa». Paradossalmente, uno dei pochi a mostrare comprensione per Schröder è il neoministro dell’Economia, il cristiano-sociale Michael Glos, che «trova il cambio dalla politica all’economia giusto in linea di principio ». Cauto ma deciso nell’invitare l’ex cancelliere a far chiarezza è Hans Jörg Elshorst, l’uomo di Transparency International in Germania: «Dà il suo appoggio perché crede nella rilevanza politica dell’impresa? Ovvero viene ricompensato per aver appoggiato l’accordo quando era al potere? In questo secondo caso sarebbe inaccettabile, in ogni caso deve spiegare». A rendere ancor più imbarazzante la posizione di Schröder è la presenza, alla guida della joint-venture, di Matthias Warnig, fin qui rappresentante della Dresdner Bank a Mosca, ma soprattutto ex ufficiale della Stasi, il servizio segreto della Germania Est, intimo da anni di Vladimir Putin, conosciuto probabilmente ai tempi in cui quest’ultimo guidava la stazione del Kgb sovietico a Dresda. Quello del gasdotto è il secondo colpo professionale di Schröder da quando ha lasciato la cancelleria: alla fine di novembre l’editore svizzero Ringier aveva annunciato che l’ex cancelliere assumerà la carica di consigliere per le strategie internazionali. Anche qui, silenzio sui compensi, ma der Spiegel parla di una cifra a sette zeri.
Paolo Valentino
Corriere della sera, 12 dicembre 2005

 
   
 

ANGELA MERKEL
La figlia del pastore cresciuta oltre il Muro

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — Ora che se li è messi tutti nel sacco, i baroni della Cdu dicono di lei che «sottovalutarla, significa aver già perduto». Diventi o meno cancelliere della Repubblica Federale, Angela Merkel il suo posto nella Storia lo ha già conquistato. Con la sua biografia di donna venuta dall'Est comunista, protestante, divorziata e senza figli, la candidata alla cancelleria ha cambiato per sempre il partito cristiano-democratico e il paesaggio della politica tedesca. E se il carisma non è, o non è ancora fra i suoi talenti, ella ha al suo attivo volontà di ferro e una determinazione capace anche di calcolo e freddezza: «Non ci ho creduto per molto tempo — ammette — ma in definitiva per vincere non si devono rispettare le regole del gioco».
LE ORIGINI — Angela Dorothea Kasner nasce ad Amburgo nel 1954, lo stesso anno in cui suo padre, il pastore protestante Horst Kasner, mosso da ardore missionario, decide di trasferirsi con la sua nuova famiglia a Est, nella Ddr del socialismo reale. Una scelta che segnerà la sua vita: sin da piccola, Angela deve imparare che solo facendo meglio degli altri, sempre e in ogni campo, potrà avanzare in un Paese dove i preti e le loro famiglie vengono regolarmente discriminati. Il consiglio del genitore si rivela prezioso: sarà sempre la prima, a scuola come fra i pionieri socialisti. Potrà studiare fisica a Lipsia, prendere il dottorato a Berlino con una tesi sulle «Costanti di velocità nelle reazioni elementari dei carboidrati semplici» e trovare un lavoro da ricercatrice alla prestigiosa Accademia delle Scienze.
LA POLITICA — La sera del 9 novembre 1989, quando si diffondono le voci sulla caduta del Muro e Berlino è al colmo dell'eccitazione, Angela Merkel, come tutte le settimane, va alla sauna con un'amica. Soltanto a tarda notte farà un giro nel settore occidentale, tornando però subito indietro perché l'indomani deve «alzarsi presto».
Anche nei mesi precedenti, scanditi dalle dimostrazioni di piazza contro il regime comunista, il suo interesse per la politica è stato poco o punto. Il virus la contagia in dicembre, quando aderisce prima a Rivolta democratica, uno dei primi partiti d'opposizione. Passa poi a Rinascita democratica, la Cdu dell'Est guidata da un musicologo amico del padre, Lothar de Maizière, che vince le prime e ultime elezioni democratiche della Ddr: Angela diventa la voce del suo governo. Helmut Kohl nota «das Mädchen», la fanciulla durante i negoziati per la riunificazione. La vuole subito deputato e ministro per la Famiglia. Nel 1994 la promuove all'Ambiente. Non la fermerà più nessuno.
L'AMORE — A soli 23 anni, vestita di blu, Angela Kasner sposa nella chiesetta protestante di Templin il suo collega di studi Ulrich Merkel. E' il 1977. Il matrimonio dura appena quattro anni, il divorzio arriva nel 1982. Ma il cognome le rimarrà per la vita. Dopo la separazione, i sedicenti amici che in realtà la spiano riferiscono alla Stasi di aver visto diversi uomini lasciare al mattino l'appartamento di Angela, salutati sull'uscio da lei ancora in vestaglia. Il vero amore arriva alla metà degli Anni Ottanta: è il consigliere accademico del suo dottorato, il professore Joachim Sauer, chimico di fama mondiale. Vivono insieme, more uxorio, per oltre 17 anni. Si sposano solo nel 1998 per mettere fine ai mugugni crescenti nella Cdu e alle pubbliche lamentele di un cardinale conservatore per quell'unione sacrilega.
Sauer nella vita pubblica è un'ombra pettinata. Appare al fianco della moglie solo una volta l'anno, in luglio al festival wagneriano di Bayreuth. Per questo è stato ribattezzato «il fantasma dell'opera».
LE FRASI FAMOSE — Al Congresso di Dortmund, ha colpito positivamente la sua citazione da Saint Exupéry: «Se vuoi costruire navi, non metterti a raccogliere legna e tagliar tavole, ma cerca di risvegliare nelle persone la nostalgia del grande mare».
In campagna elettorale, il suo refrain più efficace è stato: «Non farò mai promesse che non sono in grado di mantenere, io vi dico prima del voto ciò che farò dopo».
Il suo passato nella Ddr, l'ombra della Stasi onnipresente hanno sicuramente contribuito a mettere Angela Merkel perennemente in guardia: «Io sono sempre stata diffidente e questo mi ha molto aiutato nella vita».
LA CURIOSITA' — Angela Merkel comprò il suo primo single dei Beatles, Yellow Submarine, a Mosca, nel 1970. Era in viaggio premio per aver vinto le Olimpiadi della lingua russa.
Paolo Valentino
Corriere della sera, 19 settembre 2005

 
   
 

Nuove relazioni di Karlsch, autore di un discusso libro sugli esperimenti
Hitler e l’atomica,un disegno riapre il giallo
Uno storico: trovato il diagramma di una bomba sporca. «Ci fu un doppio test». Gli studiosi: molti dubbi, ma i nostri scienziati non erano così innocenti

BERLINO — La «bomba» o l’ennesima patacca sul nazismo? Veramente Hitler ebbe un ordigno nucleare, sia pur rudimentale, riuscendo perfino a sperimentarlo? O sono solo le speculazioni, infondate, di uno storico in cerca di notorietà e di un editore in cerca di mercato? Si riapre in Germania una polemica, è il caso di dirlo, al calor bianco. Dilaga sui media tedeschi e internazionali. Lacera la comunità intellettuale e accademica, quella degli storici nonmeno di quella dei fisici. Etorna a sanguinare un’antica ferita, quella del ruolo giocato dalla scienza nella Germania nazista. Innescata in marzo da un libro, Hitlers Bombe, uscito per i tipi della DVA, la querelle è tornata d’attualità in questi giorni dopo che l’autore, Reiner Karlsch, ha reso noto un diagramma, ritrovato dopo la pubblicazione del saggio, che suonerebbe ulteriore conferma per la sua tesi, fin qui molto contestata. Basandosi su testimonianze, nuovi documenti dagli ex archivi sovietici e perfino analisi di laboratorio, Karlsch, apprezzato studioso dell’argomento, aveva sostenuto nel libro che i nazisti furono vicini al possesso dell’arma atomica, che un reattore venne costruito non lontano da Berlino e che almeno due ordigni tattici ibridi, due «bombe sporche» si direbbe oggi, molto più piccole di quelle che gli americani avrebbero sganciato su Hiroshima e Nagasaki, vennero fatte esplodere con successo, nell’ottobre 1944, sull’isola di Ruegen e, nel marzo 1945, in Turingia. Nonostante i buoni risultati, secondo l’autore, le armi non furono mai impiegate in battaglia, perché la scarsezza di materiale fissile ne impedì la produzione di massa e anche per altri problemi tecnici, mai risolti, nel lancio e nella detonazione.
«I nazisti—aveva spiegato Karlsch, presentando il libro — non lavoravano a una bomba classica, ma speravano di combinare un mini-ordigno con un razzo. Non ne abbiamo mai sentito parlare, perché venne coinvolto solo un piccolo gruppo di scienziati, legati alle SS e i documenti furono coperti dal segreto, dopo essere stati trovati dagli Alleati». E, in verità, tutti gli studi sul programma nucleare hitleriano si sono sempre concentrati sul gruppo diretto dal fisico Werner Heisenberg, basato a Lipsia e Berlino, che non seppe e forse non volle costruire la bomba atomica per il Fuhrer. Lanciato con grande fanfara dall’editore, Hitlers Bombe si è però subito scontrato con un muro di scetticismo e contestazioni. Al punto che lo stesso Karlsch ha fatto parziale marcia indietro, ammettendo di non aver prodotto prove inconfutabili, ma di «aver raccolto un’impressionante serie di indizi». E, smentendo parzialmente i sensazionali annunci della DVA, aveva fato notare che «lo stesso titolo del libro non parla di bomba atomica, ma soltanto di bomba: l’ho fatto deliberatamente, poiché il tipo di ordigno che venne sperimentato rimane aperto alla discussione». In effetti, il processo indiziario di Karlsch è piuttosto atipico per uno storico.
A sostegno della tesi della bomba nazista sono, per esempio, il rapporto di una spia russa nel quale «fonti affidabili» riferiscono di «due forti esplosioni» nella notte del 3marzo.Ola testimonianza di una donna tedesca, interrogata negli Anni ’60 dalle autorità della Ddr, che racconta di aver visto «una colonna di luce intensa alzarsi di notte verso il cielo e poi aprirsi a forma di albero ». Nel libro, c’è anche un testimone italiano, il giornalista fascista Luigi Romersa, uomo di fiducia di Mussolini e autore di reportages di guerra sul Corriere della Sera. Il suo racconto non è nuovo e, soprattutto, non è mai stato considerato attendibile. Nell’ottobre ’44, Romersa era stato incaricato dal Duce di recarsi in Germania per consegnare due lettere, una a Hitler, l’altra a Goebbels: Mussolini voleva avere rassicurazioni sulle nuove armi, che si raccontava fossero in possesso della Germania. Dopo gli incontri con il Fuhrer e il ministro della Propaganda, il giornalista racconta di essere stato trasportato, con un aereo, su un’isola del Mare del Nord, di cui non conosceva il nome. Lì, in un bunker sotterraneo, assistette all’esplosione, con tanto di bagliore accecante.
Uomini in tuta protettiva, quattro o cinque ore dopo, lo avrebbero guidato attraverso il terreno dello scoppio, parlandogli di una «bomba che distrugge tutto»: «Rimasi molto impressionato dal fatto che il paesaggio fosse completamente cambiato, le casupole che avevo visto prima erano sparite, gli alberi come smembrati». Romersa tornò in Italia entusiasta e riferì al Duce. Il primo novembre 1944, pubblicò un articolo sul Corriere della Sera, dove raccontava delle V1, delle V2, i missili di von Braun che già cadevano su Londra e «delle nuovissime armi», costruite secondo principi «contro i quali non esiste alcuna difesa conosciuta... saranno le armi del colpo finale». Nel libro, Karlsch ha usato anche i risultati di analisi di laboratorio, fatte a spese proprie, su campioni del terreno vicino a Ohrdurf, la città della Turingia non lontana dall’esplosione, che confermano la presenza di tracce di plutonio, uranio, cesio-137 e cobalto-60. A lasciare perplessi storici e scienziati è stato l’impianto generale dell’opera, l’uso di fonti quasi sempre di seconda mano e, non ultimo, un approccio piuttosto arruffone alla fisica.
«I testimoni o non sono affidabili, ovvero riferiscono di fatti ai quali hanno assistito. Quanto ai documenti, ognuno può essere interpretato in modo diverso» ha scritto Der Spiegel. «Non ci fu alcuna bomba atomica nazista, Karlsch e il suo editore vogliono solo far sensazione» ha detto Dieter Hoffmann, professore di Storia della scienza al Max Planck Institute di Berlino. La scoperta del diagramma, contenuto in un rapporto senza data e piuttosto schematico, potrebbe però convincerli che l’intuizione di Karlsch sia fondata. Tanto più che lo stesso Hoffmann gli riconosce un merito importante. Quello di aver dimostrato che la scienza tedesca non fosse così innocente, di fronte al nazismo, come invece venne fatto credere dopo il 1945. Grazie al rifiuto di Heisenberg, nel Dopoguerra gli studiosi tedeschi riguadagnarono, infatti, status internazionale e piena accettazione nella comunità scientifica. In realtà, Karlsch prova che altri fisici, protetti da Himmler e fin qui considerati di secondo piano, erano andati molto più avanti nella fissione. «Così—dice Hoffmann—la smettiamo con la leggenda dei pacifici scienziati tedeschi».
Paolo Valentino
Corriere della sera, 05 giugno 2005

 
   
 

Critiche dagli Usa. Il colonnello tedesco Rose: «Non è un caso isolato»
«Sparate ai neri, come nel Bronx»
Germania, video scandalo di un istruttore di reclute diffuso
su Internet. È bufera sull'esercito

BERLINO — Il videoclip è di cattiva qualità. Ma nonostante la cattiva definizione delle immagini, si vede e soprattutto si sente chiaramente l'istruttore della Bundeswehr spiegare l'esercitazione a un gruppo di reclute in tuta da combattimento. Nella prima parte del filmato, ha detto ai ragazzi che dovevano immaginare di essere alle prese con dei terroristi, i quali avevano appena dirottato un aereo. Quelli hanno seguito per filo e per segno le istruzioni e alla fine lui si è congratulato: «Molto bene, i terroristi sono morti». Ora c'è una nuova situazione d'emergenza ipotetica da affrontare: «Siete a New York, nel Bronx — dice testualmente l'istruttore —. Un furgoncino nero si ferma proprio di fronte a voi. Tre afroamericani scendono e insultano pesantemente vostra madre. Dovete reagire. Ogni volta che premete il grilletto voglio sentirvi gridare forte "motherfucker"». Il filmato si concentra quindi su un soldato, che esegue l'ordine con grande trasporto, incoraggiato dal superiore. È di nuovo nella bufera per le ragioni sbagliate, l'esercito federale tedesco. Scovato sulla rete dal settimanale Stern, il video incriminato, della durata di circa un minuto e mezzo, ha fatto già il giro del mondo e sollevato l'ennesima ondata di reazioni indignate e di proteste. Soprattutto negli Stati Uniti, dove il sindaco del popolare quartiere newyorkese, Adolfo Carrion, si è detto rattristato per l'incidente, chiedendo le scuse dei vertici militari. L'episodio, secondo Carrion, conferma la necessità che la Bundeswehr faccia molto di più per l'educazione dei propri soldati: «È chiaro come questa gente non sappia nulla degli afroamericani e del Bronx».
Anche il governatore dello Stato di New York, il democratico Eliot Spitzer, è intervenuto nella vicenda, auspicando che l'incidente non rifletta le pratiche abituali dell'esercito tedesco. ORDINI In un'immagine del video, l'istruttore che impartisce ordini razzisti. Accanto a lui, un soldato spara con trasporto Ma è proprio questo il punto al cuore dello scandalo. Intervistato dall'Associated Press, il tenente colonnello Juergen Rose, che guida la Darmstädter Signals, associazione di soldati critici verso l'attuale vertice militare, ha infatti dichiarato che «non si tratta affatto di un caso isolato». Secondo Rose, «da troppi anni nella Bundeswehr abbiamo una lunga lista di cosiddetti casi isolati». Il video scoperto da Stern è stato girato nel luglio 2006. Un portavoce dello Stato maggiore ha detto ieri che un'inchiesta interna è già in corso e che porterà probabilmente a misure disciplinari nei confronti di due istruttori. In ogni caso, l'ufficiale del video sarebbe già stato allontanato dalla caserma dove prestava servizio, senza tuttavia essere stato ancora sospeso. «La Bundeswehr prende la vicenda molto sul serio», ha spiegato il portavoce. L'incidente del video segue a ruota l'infortunio politico, sicuramente più grave, che vede coinvolto il premier cristiano-democratico del Baden Württemberg, Günther Oettinger, autore di una discussa commemorazione di un suo predecessore, Hans Filbinger, ex giudice nazista, autore di numerose condanne a morte per ragioni politiche, che nel Dopoguerra riuscì a nascondere il suo passato e a far carriera nella Cdu. Oettinger, che ieri si è scusato ufficialmente, ne aveva incautamente tessuto le lodi, addirittura definendolo un oppositore del nazismo, beccandosi per questo critiche da tutti i leader politici, inclusa quella molto dura della cancelliera Angela Merkel.
Paolo Valentino
Corriere della sera, 16 aprile 2007

 
   
 

il commento
George Bush alla ricerca della Germania perduta

Niels Kadritzke *
Un sondaggio ha confermato, giusto in tempo per il vertice del G8, che in Germania la popolarità di George W. Bush è ai minimi storici: assumendo come base una scala da 1 a 100, i consensi che riscuote arrivano appena a 20. Un dato quasi inverosimile per un presidente degli Usa, soprattutto a confronto con il punteggio (quasi il doppio) di un uomo certo non molto popolare come Vladimir Putin. Non c'è dunque da stupirsi se oggi a Berlino prendersela con Bush non è più un sacrilegio come lo era appena cinque anni fa. Nell'ottobre 2002, la ministra della giustizia della prima coalizione rosso-verde è stata estromessa dal secondo governo Schroeder per aver definito la guerra di Bush in Iraq una manovra diversiva, volta a distogliere l'attenzione dai problemi interni del paese: «Un metodo, ha poi aggiunto, praticato spesso e volentieri, fin da prima dei tempi di Hitler». Questa constatazione, obiettivamente corretta, le è costata la sua carica in un governo che oltre tutto nasceva da un esito elettorale inatteso, dovuto proprio alla netta opposizione di Schroeder alla guerra in Iraq. Oggi, al punto in cui siamo, un atteggiamento di dura critica contro il governo Bush è ormai quasi una necessaria premessa per una carriera politica. Tanto che Heide Wieczorek (ministra dello sviluppo in quota alla sinistra) ha potuto dar risalto al profilo della Spd all'interno della grande coalizione assestando il colpo di grazia al presidente della Banca mondiale, il neoconservatore Paul Wolfowitz, da lei dichiarato «persona non grata» alla Conferenza sull'Africa, convocata a Berlino dalla stessa Banca mondiale(!) In altri termini, prendere il più possibile le distanze da Bush è ormai fonte di vantaggi politici; e ciò vale non solo per l'Spd e per i partiti minori alla sua sinistra, ma per la stessa Cdu, e persino per Angela Merkel - che pure è vezzeggiata da Bush in maniera quasi sospetta a ogni sua visita a Washington. Come se dopo il ritiro di Blair il presidente Usa fosse alla ricerca di un nuovo partner privilegiato di Washington. Ma se nel 2001 la popolarissima cancelliera tedesca non sembrava minimamente turbata all'idea di inviare soldati tedeschi in Iraq, oggi il perdurante abbraccio del texano rischia di soffocarla politicamente.
Non è solo l'effetto dei film di Michael Moore, che pure hanno riscosso un enorme successo in Germania. L'ampia diffusione delle informazioni sulla débâcle irachena e sui meccanismi alla sua origine ha spento lo slancio di solidarietà della popolazione tedesca dopo gli attentati dell'11 settembre. Le mistificazioni con cui si è tentato di usare la tradizionale solidarietà con Washington per tramutarla in una sorta di cieca, nibelungica sudditanza, in nome del «predominio dell'Occidente», sono percepite in Germania come un tradimento dell'alleato americano. Ma nel momento in cui questa percezione minacciava di trasformarsi in una sorta di antiamericanismo fondamentalista, ci si è resi conto che ormai anche la maggioranza degli americani vede in Bush solo un bugiardo o un millantatore. La tesi oramai più diffusa nell'opinione pubblica si può riassumere in una domanda: «Perché dar credito a un presidente americano che non ha più la fiducia dei suoi concittadini?»
C'è però un aspetto della questione che rivela una buona dose di ipocrisia. Anche durante il governo Schroeder, la cooperazione con gli Usa è rimasta ben più stretta di quanto non si ammettesse pubblicamente. Dopo lo sdegno per le torture inflitte ai prigionieri di Guantanamo, in particolare in seguito al dettagliato, sconvolgente racconto del cittadino tedesco di origine turca Kurnaz, si scopre la vergognosa connivenza dei servizi segreti, del ministero degli esteri e di quello dell'interno della Rft - e in particolare dell'attuale ministro degli esteri Steinmeier - con le agenzie Usa, e non solo nel caso di Kurnaz. Le critiche aperte e sempre più irriguardose al governo Bush riflettono oltretutto un nuovo senso di sicurezza legato anche al buon andamento dell'economia. Con la grande coalizione Cdu/Spd, non c'è stato l'attacco generalizzato alle conquiste sociali che le organizzazioni datoriali si sarebbero aspettate da un governo Cdu/Fdp. D'altra parte, la robusta ripresa ha dimostrato che i tratti fondamentali del modello sociale della vecchia Europa non costituiscono affatto un ostacolo allo sviluppo economico, come proclamano da anni i guru neoliberisti del modello Usa.
Ma il motivo principale della presa di distanza dal governo Cheney-Bush e dal suo entourage va ravvisato nell'unilateralismo Usa in politica internazionale. Le critiche non riguardano più solo la nefasta avventura irachena, in aperta violazione dei diritti dei popoli, ma anche la presenza delle truppe tedesche in Afghanistan, dove gli Usa mettono in pratica la loro visione bellicista del nation building. Più grave ancora per l'opinione pubblica della Rft è l'unilateralismo americano nel campo dell'ambiente e del cambiamento climatico - un tema sul quale nessun tedesco è disposto a scherzare. Anche senza l'Iraq e l'orrore di Guantanamo, basterebbe il cinismo ignorante di Bush e del suo governo su problemi quali l'energia rinnovabile per renderlo «persona non grata» a Berlino. Non a caso è stato il ministro dell'ambiente Gabriel (Spd) a esprimersi in maniera particolarmente irriverente nei confronti di Bush e del suo governo, dichiarando che non ci si può aspettare un atteggiamento costruttivo degli Usa sulla questione del clima finché a Washington ci sarà un governo «che privilegia su tutto gli interessi dell'industria petrolifera». Cinque anni fa una frase del genere gli sarebbe costata la sua carica di governo. Ovviamente, questo dimostra anche che l'establishment politico a Berlino si strugge nel segreto desiderio di vedere a Washington una nuova amministrazione che possa essere presentata all'opinione pubblica come un partner affidabile. Sono dunque già confezionate e pronte per l'uso le nuove illusioni di «solidarietà atlantica» con una futura amministrazione democratica degli Stati uniti. Siamo ancora assai lontani, nella Berlino ufficiale, da una lucida analisi delle differenze politiche e economiche che ovviamente perduravano anche durante l'era dell'amministrazione Clinton.
* redattore
di Le Monde diplomatique tedesco
(traduzione Elisabetta Horvat)
il manifesto del 07 Giugno 2007 pagina 08

 
   
 

Bad Doberan
Hitler cittadino onorario Fino a due mesi dal summit

G.A.
Può capitare ovunque in Germania che, a scavare un po, salti fuori qualche scheletro nazista: anche a Heiligendamm. Del passato del complesso alberghiero che ospita il G8 si sta occupando la Jewish Claims Conference, l'organizzazione ebraica che si occupa di cause di risarcimento. L'albergo, le terme e le ville di Heiligendamm appartenevano prima della guerra al barone von Rosenberg che non è chiaro se perse o cedette le proprietà durante il regime nazionalsocialista. Se la vendita avvenne dopo l'avvento delle leggi razziali, si trattò quasi certamente di una cessione coatta. Ma se la vendita fosse avvenuta in modo almeno formalmente libero e a prezzi di mercato, nei primi tempi del regime, non ci sarebbero i presupposti per un indennizzo a vantaggio degli eventuali eredi o della Claims Conference. La rappresentanza della Claims Conference a Francoforte sta ora studiando una voluminosa documentazione che le è pervenuta a fine maggio, come scrive il giornale Welt am Sonntag.
Già nei mesi scorsi il consiglio comunale di Bad Doberan, capoluogo del distretto cui fa capo Heiligendamm, si vide alle prese con un imbarazzante primato. La cittadina fu la prima in Germania a concedere la cittadinanza onoraria a Adolf Hitler, nato in Austria, apolide dal 1925, cittadino tedesco solo da sei mesi. Ciò avvenne il 16 agosto del 1932, più di cinque mesi prima dell'ascesa di Hitler alla cancelleria. Bad Doberan era una roccaforte modello della Nsdap. L'esempio della cittadina venne poi seguito da molti altri comuni. La maggior parte revocò la cittadinanza onoraria per il Führer subito dopo la guerra. Bad Doberan se ne dimenticò. Così, 75 anni dopo, si è dovuta porre il problema. Si sarebbe potuto sostenere che la cittadinanza onoraria era comunque venuta meno con la morte del titolare. Il consiglio comunale ha preferito andare sul sicuro, e il 2 aprile ha revocato la delibera del 1932. Appena in tempo per il G8.
il manifesto del 08 Giugno 2007 pagina 02

 
   
 

La memoria smemorata

Guido Ambrosino
Ieri la Germania si è compiaciuta della sua generosità. Con una cerimonia nella sede del presidente della repubblica, ha dichiarato felicemente concluso il programma di indennizzo per i deportati costretti al lavoro coatto. Se ne rallegrano il presidente della repubblica Horst Köhler e la cancelliera Angela Merkel. Nessuno degli oratori ha osato accennare ai buchi neri dell'operazione, tanto meno all'assurda esclusione degli italiani, che fossero militari internati dopo l'8 settembre 1943, o civili deportati. Era la giornata dei bilanci positivi. Istituita da una legge dell'agosto 2000, la fondazione «Memoria, responsabilità e futuro», ha versato 4,37 miliardi di euro a 1,6 milioni di Zwangsarbeiter, i forzati lavoratori, o ai loro eredi. Importi variabili tra 2.500 e 7.000 euro, a seconda dell'asprezza della detenzione, sono andati soprattutto in Polonia, Repubblica ceca, Russia, Ucraina, Bielorussia.
Il programma di indennizzo non è nato per spontanea volontà di riconciliazione. I tedeschi vi sono stati costretti, tirati per i capelli dalla minaccia di cause di risarcimento per importi miliardari contro i loro Konzern, davanti a tribunali Usa. Si preferì venire a patti. E le aziende tedesche se la sono cavata a buon mercato, versando 5 miliardi di marchi alla Fondazione. Altri 5 miliardi sono venuti dal governo federale. L'Italia non era al tavolo che concordava i plafond per i diversi gruppi di vittime. Quando, nel dicembre 1999, ci si accordò su un preventivo di spesa, facemmo notare a Otto von Lambsdorff, il negoziatore tedesco, che nelle tabelle mancavano gli italiani. Ci rispose: «Dobbiamo andare noi a stuzzicare il cane che dorme? Gli italiani non si sono fatti vivi».
I cani che allora dormivano erano i due governi D'Alema (21.10.1998 - 18.12.1999, 22.10.1999 - 19.4.2000) e il governo Amato (3.5.2000 - 13.5.2001). Il cane non si è svegliato con Berlusconi. Continua a ronfare con Prodi. 
A stare alle legge gli italiani avrebbero dovuto essere presi in considerazione, militari e civili. Ammesso e non concesso che i nostri internati militari andassero considerati «prigionieri di guerra» (non godettero mai delle tutele previste dal diritto internazionale), avrebbero dovuto comunque essere indennizzati perché nell'estate del '44 furono riclassificati come «lavoratori civili», a disposizione dell'industria. Quanto ai civili - sebbene la legge non fosse pensata per tutti i lavoratori stranieri, ma solo per i più discriminati - non c'è dubbio che gli italiani, dopo il settembre '43, subirono un trattamento estremamente punitivo.
Dall'Italia arrivarono più di centomila richieste di risarcimento. Ma, nel silezio bipartisan dei nostri governi, sono stati risarciti soltanto 2300 italiani, quelli passati per i campi di concentramento delle Ss o per alcuni famigerati campi di punizione. Per escludere il grosso degli italiani sono bastate due paginette firmate da un dirigente del ministero delle finanze, ministero che esercita un potere d'indirizzo sulla Fondazione. Sui militari si diceva che il passaggio allo status «civile», non era da considerarsi «valido», perché contrario alle norme internazionali. Questa capziosa argomentazione è comunque contraddetta dagli indennizzi concessi agli ex prigionieri di guerra polacchi, «civilizzati» nel 1940. Il diverso trattamento si spiega solo con una circostanza politica: il governo polacco si è battuto per i suoi prigionieri.
Sui civili il ministero delle finanze ha decretato che andavano considerati «occidentali», quindi «relativamente privilegiati», ignorando che i nazisti non ragionavano con i criteri atlantici di «occidentalità». Per loro eravamo «sudeuropei», razzialmente sospetti, politicamente da punire dopo il '43.
Finora non si è trovato un ministro italiano che facesse notare agli amici tedeschi queste incongruenze. Prodi era a Berlino l'11 giugno, e non ha detto nulla. Chissà se in parlamento si troveranno un paio di deputati disposti a chiedere al governo cosa intenda fare. E in particolare al ministro Padoa Schioppa, se non intenda chiedere conto al suo collega Peer Steinbrück di quei due ignobili foglietti.
il manifesto del 13 Giugno 2007 prima pagina

 
   
 

E l'avvocatessa denuncia Cruise
«In Germania da colonialista»
Berlino, 13 comparse tedesche ferite durante le riprese Il legale: poca sicurezza,
negli Usa non l'avrebbero permesso

BERLINO — «Quanto guadagno? Meno di Tom Cruise». Esita a metà fra riservatezza e autoironia, Ariane Bluttner. Sa che da ora in poi avrà bisogno di entrambe per uscirne tranquilla come ci è entrata: la settimana scorsa si è messa in contatto con i suoi corrispondenti in California, ha preso le misure dell'avversario e ha affilato gli argomenti. Ha applicato il suo motto preferito, che in tedesco fa «l'uccello mattutino prende il verme» e in italiano (rovesciato) «chi dorme non piglia pesci». Verme o pesce, quello a cui mira lei porta appunto il nome di Cruise. Ora Ariane è pronta, tagliente, temibilmente aggressiva quando le si chiede di elencare le accuse e le «responsabilità morali».
Perché qui la partita ormai è a due. Lei contro di lui, l'avvocatessa in attività da 11 mesi contro le squadre legali di una delle più grandi star di Hollywood e della sua casa produttrice, la ragazza dai capelli rosso carota di Berlino-Lichterfelde, quartiere originario del mitico leader socialista Karl Liebknecht, contro l'incarnazione del sogno americano. Il mestiere di Ariane, ora e qui, è trascinare Cruise e soci in tribunale, farli condannare, estrarre loro il massimo numero possibile di milioni di dollari in danni a favore di 13 berlinesi. L'antefatto è una brutta curva presa senza freni funzionanti (accusa lei) da un autocarro della Wehrmacht fra la Wilhelmstrasse e la Leipzigerstrasse, nel cuore della vecchia Berlino. È successo qualche settimana fa: si stava girando Valkyrie (o Rubikon: titolo da decidere), il film sull'attentato fallito a Hitler del luglio del '44 che Cruise produce con la sua United Artists e nel quale impersona il ruolo del protagonista, il conte Claus Schenk von Stauffenberg che ordì l'attacco e poi venne condannato a morte dal Führer.
Quel camion con le insegne d'epoca ha sbandato, 11 comparse sono cadute. Una si è ferita gravemente. A complicare i lavori di questa revisione un po' hollywoodiana della storia tedesca, che irrita molti berlinesi, altre due comparse si sono ferite in un'altra scena. Ce n'era abbastanza perché prima o poi qualcuno si rivolgesse a un avvocato. E l'avvocato, stavolta, è lei. Ariane lavora per uno studio piuttosto grande, «Dr. Schmitz & Partner», ma altrettanto non si può dire della sua esperienza. Davanti al giudice per rappresentare un suo cliente è comparsa una quindicina di volte e sempre per casi su cui Tom Cruise non produrrebbe un film: problemi con l'assicurazione, dispute con il fisco, incidenti stradali. Per uno degli ultimi, la discussione verteva su cento euro. Per Cruise, spera lei, saranno milioni. Il suo piano è di portare la causa per danni morali e materiali negli Stati Uniti, probabilmente in California, dove i risarcimenti sono molto più elevati. Inutile farle notare che l'incidente è avvenuto a Mitte, ex Ddr.
«Quel che conta è la responsabilità dell'azienda verso le persone che mette sotto contratto e l'azienda è americana», replica. Si tratta in effetti di un marchio che ha fatto la storia del cinema. United Artists nacque nella prima parte del XX secolo come studio indipendente controllato da artisti come Charlie Chaplin o Douglas Fairbanks. Da circa un anno è diventato un partenariato a tre: da un lato Tom Cruise e la sua manager storica Paula Wagner, dall'altro la Metro Goldwin Meyer. Niente che metta paura a Ariane, la ragazza che come unico convivente vanta un vistoso cane da pastore. «Sono avvocato da poco, è vero, ma ho una lunga esperienza legale alle spalle», s'impunta. Il suo piano d'attacco è pronto e suona già vagamente politico: Cruise & Co., sostiene, si sono macchiati di una sorta di peccato di colonialismo nel loro approccio a Berlino. «I freni del camion non funzionavano, il guidatore si era già lamentato — osserva —. Negli Stati Uniti, c'è da scommetterci, non si sarebbero mai permessi di giocare così con la sicurezza della gente sul set».
Federico Fubini
Corriere della sera, 11 settembre 2007