SADDAM EROE IN FILM LIBICO

Due film biografici su Saddam Hussein sono in preparazione in Libia e in Usa. Saddam Kamel, genero del presidente iracheno, aveva già portato sullo schermo il leader Baath nell'agiografia dell'egiziano Tawfiq Salah, negli anni '70. Gheddafi, secondo il quotidiano egiziano di Londra «Ashaq al-Awsat», farà anche erigere una statua a Saddam Hussein da collocare a fianco di quella di Omar al Moqtar, eroe della resistenza libica, impiccato dai fascisti italiani. Il patriota fu immortalato sullo schermo da Antonhy Quinn nel film «Il leone del deserto» diretto dall'americano di origine siriana Moustapha Akkad. Il kolossal fu censurato in Italia dall'allora ministro Andreotti. E chissà cosa avrà pensato il «neo killer» quando Akkad fu assassinato con la figlia Rima dai suoi amici di Al Qaeda, nel novembre 2005, dopo un attacco suicida a Amman, durante una festa di matrimonio palestinese...
il manifesto del 22 Febbraio 2007 pagina 17

 
   
 

Baghdad
Kamikaze e assalto, base Usa sotto tiro
I militanti cercano di penetrare all'interno di un'installazione militare americana. Bomba al mercato della capitale: 60 morti. E Bush si paragona a Washington: «Stiamo combattendo per la libertà»

F.D.P.
Il presidente George W. Bush, rendendo omaggio «all'altro George W.», cioè George Washington, ha paragonato la sua guerra al terrorismo alla battaglia per la libertà del primo presidente degli Stati uniti. «Oggi stiamo combattendo un'altra guerra per difendere la nostra libertà e il nostro popolo e il nostro modo di vivere - ha detto Bush in un discorso a Mount Vernon, l'antica residenza di George Washington - mentre lavoriamo per portare avanti la causa della libertà nel mondo non dobbiamo mai dimenticare che il padre della nostra nazione era convinto che le libertà conquistate con la nostra rivoluzione non fosse destinate solo agli americani».
Ma proprio ieri a Baghdad, le forze della resistenza hanno lanciato un sanguinoso attacco contro i sodlati statunitensi. Un attentatore suicida si è fatto epslodere fuori da una base a Nord di Baghdad. A quanto raccontato alla Reuters da residenti dell'area in cui è avvenuto lo scoppio, pare che le forze Usa siano state costrette a combattere contro forze ribelli. Subito dopo lo scontro, questi ultimi hanno cercato di penetrare all'interno dell'installazione militare, con una tale pervicacia che gli Usa hanno dovuto bombardarli con gli elicotteri.
Sempre ieri l'esercito americano ha annunciato che quattro soldati sono stati uccisi nelle ultime quarantotto ore nella provincia di al Anbar, nucleo della guerriglia sunnite nell'ovest dell'Iraq. «Un marine della forza multinazionale (...) è stato ucciso sabato nel corso di combattimenti nella provincia di al Anbar», ha annunciato l'esercito senza ulteriori precisazioni. È così salito a 3.135 il numero dei soldati e del personale americano ucciso in Iraq dall'intervento armato anglo-americano del marzo 2003.
Ieri l'esplosione in rapida successione di due autobomba, avvenuta nel quartiere a maggioranza sciita di Nuova Baghdad, ha rappresentato il primo smacco al piano di pacificazione della capitale, dove le autorità irachene hanno prematuramente cantato vittoria e millantato la fuga dei militanti. In quell'attacco, secondo il bilancio della polizia, sono morte sessantadue persone. Poche ore prima, il tenente generale Abboud Qanbar aveva guidato i giornalisti in un tour del quartiere vicino alla piazza del mercato e aveva promesso di «cacciare i terroristi dall'Iraq». Tre giorni fa il portavoce iracheno del piano, il generale Qassim Moussawi, aveva dichiarato che le violenze erano scese dell'ottanta per cento nella capitale. Parole di incoraggiamento erano arrivate anche da Condoleezza Rice, il segretario di stato Usa, giunta a Baghdad per una visita a sorpresa.
Il primo ministro iracheno Nouri al Maliki ha definito l'attacco un'azione disperata di «terroristi e criminali» che sentono che stanno per essere schiacciati. Ma c'è chi teme che quando il piano sicurezza per la capitale toccherà le zone più instabili, ad esempio Sadr City, i problemi aumenteranno.
il manifesto del 20 Febbraio 2007 pagina 03

 
   
 

scalation e contro-guerriglia, ma il vero obiettivo sono petrolio e appalti
La nuova strategia di Bush: la colpa ora è degli iracheni
Il 27 gennaio a Washington è necessaria una grande mobilitazione popolare, per far capire ai deputati democratici che sono stati eletti non per «una nuova direzione» in Iraq, ma per uscirne

Phyllis Bennis*
L'amministrazione Bush sta disperatamente cercando una nuova strategia che le valga una cosa che si possa chiamare «vittoria», o che le consenta almeno di prendere tempo a sufficienza affinché la colpa del fallimento ricada sul successore di Bush. L'attuale strategia d'occupazione militare e di appoggio politico a un governo artificiale e impotente è fallita così clamorosamente, che persino alcuni alti generali si sono rifiutati di appoggiare l'ultimo invito di Bush all'escalation. Il dibattito sulla «nuova direzione» arriva proprio mentre il parlamento iracheno sta preparando una legge che consentirebbe alle compagnie petrolifere straniere (e specialmente americane) di controllare circa il 70% del profitto nelle future esplorazioni di greggio.
I Democratici hanno vinto le elezioni di novembre con un mandato per cercare una nuova via d'uscita dall'Iraq, non per mandare più truppe in Iraq; ma resta incerto se loro useranno l'unico potere effettivo che hanno - quello sui cordoni della borsa - per fermare effettivamente la guerra. Vi sono dei segnali di speranza tra cui la lettera di Pelosi e Reid in cui si chiede di iniziare il ritiro delle truppe, e l'attribuzione alle audizioni sull'Iraq di una priorità e di una visibilità molto più alte; ma vi sono anche motivi di pessimismo, tra cui la mancanza di un minimo di incisività nella lettera di Pelosi e Reid, e il successivo impegno di Pelosi a non tagliare i fondi.
C'è urgente bisogno di aumentare la pressione sul Congresso, particolarmente per richiamare i Democratici alla forte contrarietà alla guerra che lo scorso novembre li ha portati alla vittoria; le mobilitazioni del 27-29 gennaio a Washington rappresenteranno un elemento molto importante di questa pressione. Anche se si cercherà si sostenere che i nuovi invii di truppe sono legati direttamente a una specifica «nuova strategia per la vittoria», la realtà è che esse saranno inviate per «stabilizzare» Baghdad, un compito che si è già dimostrato impossibile finché l'occupazione Usa continua. L'aumento di truppe dell'estate 2006, con cui sono stati trasferiti a Baghdad circa 15.000 soldati, spesso provenienti da altre postazioni in Iraq, ha prodotto un'immediata escalation della violenza in città.
Per quanto riguarda i nuovi finanziamenti Usa all'Iraq, è improbabile che saranno legati a un qualunque cambiamento dell'attuale sistema affaristico degli appalti, grazie al quale la stragrande maggioranza dei miliardi stanziati per la «ricostruzione» in Iraq è andata ad appaltatori americani. Bisogna riconoscere che gli Usa hanno un enorme debito finanziario nei confronti dell'Iraq - i risarcimenti per dodici anni di sanzioni soffocanti, una vera ricostruzione delle infrastrutture distrutte dall'invasione, un indennizzo per aver fatto a pezzi il tessuto sociale e la vita nazionale dell'Iraq - ma non possono cominciare a fare fronte a questi obblighi finché è in corso l'occupazione militare.
Il discorso di Bush propone una questione che è diventata un luogo comune in tutto il fronte politico «mainstream» di Washington da parecchi mesi a questa parte: gli iracheni sono i responsabili della loro crisi, e il governo iracheno farebbe bene a «smettere di fare affidamento» sulle forze Usa per avere assistenza. La realtà, naturalmente, è che il parlamento, che si trova nella Zona verde, è di fatto dipendente dalle forze di occupazione Usa per ricevere protezione e per il poco potere che ha: molti parlamentari eletti con una forte piattaforma anti-occupazione hanno fatto marcia indietro quando si sono resi conto che la loro posizione dipendeva dagli americani.
È intollerabile che Bush ed altri rappresentanti del governo americano continuino ad asserire che, nonostante l'invasione e l'occupazione, la decisione di distruggere l'esercito iracheno e licenziare l'intero apparato statale, il crollo dell'economia irachena, e la stessa guerra causata dall'occupazione, è solo la mancanza di volontà da parte degli iracheni ad essere responsabile per la difficile situazione in cui si trovano. La nuova strategia di Bush, «resisti ma aggiungi un po' più di soldati per farla sembrare meglio», sta già fallendo. È in questo contesto che devono essere viste le dimissioni dei generali Casey e Abizaid. Entrambi si sono opposti energicamente e pubblicamente alle proposte di escalation di Bush.
L'attenzione ora dedicata alla contro-insurrezione potrebbe rivelarsi collegata a un altro recente cambiamento, quello del direttore della intelligence nazionale John Negroponte, diventato il vice di Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato. Come ambasciatore nell'Iraq occupato, Negroponte ha auspicato il ricorso alla «Opzione Salvador» in Iraq, un riferimento agli squadroni della morte appoggiati dagli Usa che caratterizzarono il suo mandato come ambasciatore americano in Honduras durante gli anni delle guerre dei Contras in America centrale. Il cambiamento collegato è quello dell'attuale ambasciatore in Iraq, Zalmay Khalilzad, il quale prende il posto di John Bolton come ambasciatore all'Onu. Khalilzad, un protégé di Cheney, è un noto neo-con fortemente legato alle amministrazioni Reagan e Bush senior, nonché all'industria petrolifera Usa.
L'allontanamento da Baghdad di Khalilzad, un afghano sunnita, potrebbe rappresentare un'ammissione implicita che la strategia da lui caldeggiata di coinvolgimento della comunità sunnita non stava funzionando.
Mantenere il controllo del petrolio resta in cima all'agenda Usa in Iraq. Nonostante l'escalation bellica, e nonostante i problemi che il parlamento iracheno si trova a dover affrontare - tra cui il boicottaggio, durato settimane, dei trenta legislatori leali a Muqtada al-Sadr - il 7 gennaio il giornale britannico Independent on Sunday ha riferito che l'Iraq sta per approvare una legge che «concederebbe alle compagnie petrolifere occidentali una grossa fetta delle terze maggiori riserve al mondo. Ai vincitori, il petrolio? È così che alcuni esperti vedono questo accordo senza precedenti con un importante produttore petrolifero del Medio Oriente che garantisce agli investitori enormi profitti per i prossimi trent'anni».
Qui negli Usa, non è chiaro se i Democratici che hanno vinto le elezioni prenderanno sul serio il mandato di novembre del popolo americano: fermate la guerra. Il Congresso ha solo un mezzo per impedire una guerra illegale: smettere di finanziarla. Finora solo pochi Democratici si sono mostrati intenzionati a compiere questo passo. Dopo la lettera di Pelosi e Reid a Bush, in cui si chiede un diverso spiegamento delle truppe invece che una escalation, Pelosi ha pensato bene di ripetere che non sosterrà il taglio dei fondi «alle truppe».
Finora nessuno al Congresso ha menzionato il fatto che, secondo il nuovo disegno di legge per lo stanziamento supplementare di 100 miliardi di dollari per finanziare la guerra in Iraq e Afghanistan, solo un decimo del denaro è destinato a giubbotti antiproiettile ed altri mezzi utili a proteggere i soldati. Chi al Congresso non ha il coraggio di votare contro tutti gli stanziamenti per la guerra potrebbe almeno chiedere che si voti in sezioni separate, in modo da poter votare a favore del denaro destinato ai giubbotti antiproiettile, e votare contro tutto il resto.
La mobilitazione del 27 gennaio porterà decine di migliaia di persone a Washington per chiedere che il Congresso rispetti il mandato elettorale: questi parlamentari sono stati eletti affinché pongano fine alla guerra. Non per una «nuova direzione in Iraq», ma per uscire dall'Iraq.
Traduzione Marina Impallomeni
il manifesto del 13 Gennaio 2007 pagina 10

 
   
 

comunicato stampa da pubblicare e rilanciare
Assisterò alle esecuzioni a morte nel caso il governo iracheno giustiziasse il giudice Al Bandar e Al Tikriti

L’avvocato Giovanni Di Stefano esige rispetto verso i suoi clienti: 
Mai più scene atroci viste per Saddam Hussein

Baghdad (Iraq) – 05.01.2007 - “Se i miei due clienti venissero giustiziati in Baghdad” sottolinea l’avvocato difensore Giovanni Di Stefano “in conformità alle richieste in corso alla Corte degli Stati Uniti e al IAHRC (Commissione Inter-Americana dei Diritti Umani), eserciterò senza esitare insieme al mio collega Issam Ghazzawi, il nostro diritto di procura concessa il 3 gennaio 2007 dal giudice, su Awad Al Bandar e Barzan Al Tikriti per assistere alla loro esecuzione a morte e assicurarci che la loro sia una morte dignitosa e nel rispetto dei condannati. Se si ripetessero scene atroci come quelle alle quali abbiamo assistito durante l’esecuzione di Saddam Hussein, sia io che il mio collega, protesteremo unanimamente in nome dei nostri clienti” conclude Di Stefano, “tuttavia, spero che prevalgano il buon senso e la giustizia e che non ci sia nessuna esecuzione”.

 
   
 

Al Maki, il sunnita: l' ex raìs più dignitoso dei suoi boia

Alaa al Maki è un parlamentare, membro del Partito islamico iracheno. Di solito è considerato un sunnita moderato, di quelli disposti al dialogo e lieti della presenza nel parlamento della corrente sunnita. Ma l'esecuzione di Saddam e i modi nei quali è avvenuta lo rende furioso.

Che ne sarà ora delle trattative per la riconciliazione dopo l'esecuzione di Saddam?
«Si fermerà tutto di nuovo. Adesso siamo stanchi di fare un passo avanti e tré indietro. Ne stiamo discutendo. Ci siamo riuniti più volte in questi giorni, dopo questa miserabile e frettolosa esecuzione, e credo che presto annunceremo il nostro ritiro da ogni trattativa, almeno fino a che non vedremo un segno da parte de) governo che ci dimostri buona volontà».

Cosa dovrebbe accadere?
«Un buon inizio potrebbe essere mostrarci seriamente l'intenzione di smantellare le milizie sciite. Ormai Saddam non c'è più, ne c'è alcuna possibilità che i baathisti ritornino in suo nome al potere. Non c'è alcuna ragione per le milizie sciite di esistere, erano nate per proteggere i loro partiti e i loro leader da Saddam, adesso continuano a proteggerli, ma da chi? Dagli iracheni? Se è cosi c'è qualcosa che non va. E' ora di fare un po' di pulizia e Al Maliki ha l'occasione di mettere le cose a posto, se vuoìe che ci sediamo allo stesso tavolo».

I sunniti parlano di pulizia etnica nella capitale, per questo non riuscite a parlarvi?
«Posso fare un piccolo esempio che mi riguarda, una delle mie guardie del corpo è stata rapita insieme a due fratelli da uomini in divisa della polizia, notoriamente infestata dalle milizie sciite. Alla famiglia è stato detto che dovevano essere interrogati. Il giorno dopo i loro corpi sono stati ritrovati in strada. Otto giorni dopo, un mio amico che stava venendo a trovarmi è stato rapito e malmenato da poliziotti. Parleremo con i politici sciiti quando smetteranno di ordinare alle loro milizie di ammazzarci».

Quale è stata la prima reazione al video della mone di Saddam?
«Come tutti ho visto le immagini ufficiali mandate in onda dalla televisione Al Iraqiya. Non è stato facile, per noi che abbiamo lavorato con luì, che sapevamo quanto conoscesse il suo paese e quanto avesse fatto per non consegnarlo nelle mani degli iraniani. Di Saddam si può dire tutto ma non che ha diviso il paese, lui l'ha tenuto insieme e unito fino alla fine. Poi ho visto le immagini del telefonino e sono rimasto inorridito per gli insulti, per il rumore. Ma poi ho guardato Saddam e lui quasi non li notava, è morto senzaneanche degnarli di uno sguardo. Si è dimostrato più dignitoso di quelli che lo uccidevano».
B.Schi
Il Messaggiero, 04 gennaio 2007 pagina 05

 
   
 

il Figlio di Tarek Aziz
«Temo per la vita di mio padre: conosce troppi segreti sugli Usa»

DAL NOSTRO INVIATO AMMAN - «Ora temo per mio padre. Dopo quella di Saddam, gli americani sono interessati anche alla sua morte. Non vogliono che il mondo sappia della loro passata collaborazione con l' esercito iracheno, specie durante i massacri di curdi nell' Iraq settentrionale». Il primogenito di Tarek Aziz non nasconde la sua preoccupazione qui, nel suo esilio nella capitale giordana, dove fuggì in fretta e furia poco più che trentenne con la madre Violet, il fratello e le sorelle, nei giorni successivi all' arrivo dei marines e alla cattura del padre a Bagdad, il 24 aprile 2003. Ziad Aziz parla a fatica. Ancora sotto shock: «Ho appena visto le immagini dell' impiccagione del presidente Saddam. Ho pianto, sono offeso e umiliato. Questa è la democrazia e la garanzia per i diritti umani che ci promettevano da Washington? E oltretutto non è uno scempio, uno scandalo, non è un' ingiustizia mostrare in televisione Saddam mentre viene ucciso?». Ha con sé una pila di libri da inviare in cella a Tarek Aziz tramite gli avvocati. «Ci siamo sentititi per telefono il 25 dicembre. Se ho ben capito sta scrivendo un libro di memorie. Ma in carcere ha anche tanto tempo libero, lo inganna leggendo», spiega mostrando alcuni titoli. Spiccano Il Codice Da Vinci e la testimonianza autobiografica di Paul Bremer, l' ambasciatore americano che governò l' Iraq per un anno dal maggio 2003. E il polemico libro del giornalista americano Bob Woodward, Piano di attacco, che spara a zero contro il progetto di invasione voluto dall' amministrazione Bush.

Perché teme per la vita di suo padre?
«Lui oggi ha 71 anni, è stato a lungo ministro degli Esteri e uomo centrale del governo iracheno. Ha informazioni importanti, che possono imbarazzare gli americani e tanti altri Paesi occidentali. Ovvio che lo vogliano eliminare».
Pensa che la sua richiesta di poter rilasciare alcune dichiarazioni pubbliche prima dell' esecuzione di Saddam abbia aggravato la sua posizione?
«Assolutamente sì. Tarek Aziz, poche ore dopo la conferma della condanna di Saddam, il 26 dicembre, aveva fatto sapere tramite i suoi avvocati che aveva alcune cose da dire, specialmente rispetto alla campagna cosiddetta Anfal, quando tra il 1987 e 1988 le nostre truppe intervennero contro i curdi usando le armi chimiche. Tutto lascia credere che intenda rivelare alcune informazioni top secret sulla passata collaborazione tra Washington e Bagdad e non solo quello».
Gli ha parlato dopo la morte di Saddam?
«No, l' ultima volta è stata il giorno di Natale. Ci siamo sentiti per telefono. Noi qui ad Amman e lui nella sua cella situata nella stessa zona di Camp Crooper dove era rinchiuso Saddam, nei pressi dell' aeroporto internazionale».
Le ha mai accennato a cosa intendesse rivelare?
«No, non sono cose che si dicono per telefono e in queste condizioni».
Quali sono stati i suoi pensieri nel vedere la fine di Saddam?
«Dopo la sofferenza, la rabbia e l' orrore, ho ammirato il suo coraggio, il sangue freddo. Saddam si rivela quello che è sempre stato: un leader coraggioso, un uomo tutto d' un pezzo. E' morto con dignità, non si è lasciato piegare, passa alla storia come l' eroe della causa araba. Sono fiero di lui. Ma vergogna ai suoi aguzzini, servi degli americani. Sono gli sciiti del premier Al Maliki, gli estremisti di Moqtada Al Sadr, gente che si vuole vendicare. Non a caso è stato ucciso nella base di Khadamiya, dove per decenni i servizi segreti militari hanno detenuto e impiccato gli sciiti».
Sua madre in passato ha cercato di ottenere il visto per venire in Italia e andare dal Papa in Vaticano. Spera ancora nell' intercessione della Chiesa per la liberazione di Tarek Aziz in nome del fatto che è cristiano?
«Ci abbiamo provato. Ma le autorità italiane non hanno mai concesso il visto di entrata. E questa è un' altra vergogna nella vergogna. Noi cristiani in Iraq siamo stati abbandonati dal cristianesimo mondiale. Tante belle parole di solidarietà e aiuto. Ma nessun fatto concreto. Quanto all' Italia, noi abbiamo sempre criticato il sostegno del governo Berlusconi alla politica americana. Ora con Prodi è meglio, lo so. Avete anche ritirato le vostre truppe da Nassiriya. Ma per mio padre non è cambiato nulla».
Proverete di nuovo a chiedere il visto per andare in Vaticano?
«Non credo. È tutto inutile».
Cosa accadrà in Iraq nei prossimi giorni?
«La diffusione delle immagini dell' impiccagione di Saddam è destinata ad accrescere le violenze. Vedrete, sarà peggio, molto peggio di prima».
Cremonesi Lorenzo
Corriere della sera, 03 gennaio 2007 pagina 05

 
   
 

IRAQ/COSTITUZIONE
La farsa referendaria e la realtà dell'occupazione
SABAH ALI*

Baghdad, Il referendum sulla bozza di costituzione è stato presentato a livello internazionale come un grande esercizio di democrazia. Ogni iracheno avrebbe potuto votare liberamente per il si, per il no o piuttosto astenersi. Nessuna pressione, nessun ordine, nessuna interferenza, nessuna intimidazione di sorta. Come se il nostro paese non fosse sotto una brutale occupazione militare. La realtà è ben diversa. Tanto per cominciare la stragrande maggioranza degli iracheni non sapeva (e non sa ancora) di quale bozza di costituzione era stata chiamato ad approvare. Sono stati spesi 5 milioni di dollari per stampare milioni di copie della bozza ma queste in alcune regioni sono arrivate a poche ore dal voto, in altre non sono mai arrivate o non sono state distribuite. Nel quartiere di Baghdad dove vivo con la mia famiglia nessuno ne ha vista neanche una copia. In alcuni casi sono circolate delle versioni diverse tra loro. Per quanto riguarda i contenuti gli interrogativi e gli argomenti di dibattito non mancavano certo: innazitutto quelli sulla sua legalità in quanto si tratta di una legge fondamentale approvata sotto occupazione militare, e poi la assai sospetta fretta con la quale ci è stata imposta, i contenuti del preambolo con una interpretazione tutta etnico-confessionale della storia del paese, l'introduzione di un federalismo estremo, l'identità dell'Iraq, la legge islamica, le lingue ufficiali del paese, il processo di debaathizzazione, i riferimenti religiosi e il ruolo delle tradizioni, i diritti delle donne (soprattutto), il confessionalismo... etc. Il cittadino medio, impegnato ogni giorno, letteralmente, tra raid, bombe e sparatorie, a sopravvivere, non è stato però per nulla né coinvolto, né informato, e tutti nel paese si sono posti la domanda: Perché mai bisognava cambiare oggi la costituzione in questa situazione drammatica e a guerra in corso? L'unica risposta è stata una professione di fede secondo la quale la nuova costituzione avrebbe potuto pacificare l'Iraq. Stando ai fatti non sembra proprio che si vada in quella direzione. Nelle settimane che hanno preceduto il voto gli americani sono stati molto occupati. Basta ricordare i massacri di Tal Afar, Al Qaim e Haditha ridotte a città fantasma totalmente ignorati dai media così occupati a coprire il finto dibattito sulla costituzione da non poter prestare attenzione alle vere tragedie umane in corso in quelle province. O forse quei massacri di cittadini innocenti fanno parte del processo di democratizzazione dell'Iraq?

Votare in un paese in guerra è pura follia. Il quindici ottobre è stato imposto su tutto il paese un rigido coprifuoco. La vita si è fermata. La gente poteva recarsi al voto solamente a piedi e nelle zone rurali si trattava di fare anche 30 chilometri. Nella provincia di Anbar 70 seggi non sono stati neppure aperti. In un quartiere di Baghdad, qui vicino, due signore che non erano in grado di arrivare al seggio a piedi hanno chiesto ad un vicino di accompagnarle. La Guardia Nazionale Irachena ha sparato alla macchina e i tre elettori sono morti sul colpo. In un altro quartiere di Baghdad gli elettori sono andati molte volte al seggio più vicino per chiedere di votare ma gli è stato risposto che le urne non erano arrivate e che sarebbe stato meglio tornare alle 14. Così hanno fatto, ma solo per verificare che il seggio era stato chiuso e la porta sprangata.

In secondo luogo le operazioni di voto erano prive di qualsiasi trasparenza dal momento che l'intero processo, almeno nei quartieri dove mi sono recato - ma lo stesso è successo nelle zone del sud e in quelle del nord - era sotto il controllo di uno dei partiti al governo. Questi, nel tentativo di strappare un'approvazione della Carta, hanno più volte annunciato, e scritto su grandi striscioni e cartelli appesi davanti ai seggi, che l'ayatollah sciita al Sistani avrebbe dichiarato di votare si alla costituzione ma non era vero. Nessuna forma di propaganda a favore del no è stata permessa per le strade dove cartelli e striscioni erano tutti per il si. Un testimone oculare ha inoltre sostenuto che alla fine della giornata di voto nel suo seggio di Baghdad c'erano 100 «No» e 200 «Si» ma il risultato non sarebbe piaciuto ad uno degli ispettori, e quest'ultimo avrebbe dato disposizione agli scrutatori di aggiungere altri 100 «Si». E lo stesso sarebbe successo ovunque. Un altro ha testimoniato come ogni potenziale voto per il no venisse accolto con ingiurie e minacce da parte degli scrutatori. Tragedia e farsa anche per quanto riguarda i risultati del voto: Tre province avrebbero respinto la costituzione con oltre i due terzi dei voti - Salah Addiin e Anbar (94-95%), and Mosul (80%-100%) - e questo avrebbe dovuto significare una bocciatura della Carta. Invece la Commissione ha annunciato che a Mosul i «no» non erano arrivati alla necessaria soglia del 75%. Bush e Rice subito dopo il voto avevano predetto che il «si» avrebbe vinto. E il «si» ha vinto.
*giornalista iracheno
il manifesto, 30 ottobre 2005, pag.5

 
     
 

 

 
   
 

Le menzogne che diventano storia: la statua caduta

Chi non ha visto nei telegiornali e sui quotidiani di tutto il mondo le immagini della statua del presidente Saddam Hussein abbattuta dalla "folla festante" in piazza a Baghdad?

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"Un veicolo corazzato M88 dei Marine abbatte una statua del Presidente Saddam Hussein, 9 Aprile 2003. Iracheni giubilanti legano una corda attorno un'enorme statua di Saddam Hussein nel cuore di Baghdad, nel momento che il regime del presidente iracheno, durato 24 anni,sta collassando nel caos. In una scena che ricorda la caduta del muro di Berlino nel 1989, la folla ha applaudito quando alcuni uomini si sono arrampicati sulla statua di Saddam Hussein nel centro di Baghdad e hanno piazzato un cappio attorno al collo per tirarlo giù" (Reuters)

ecco la stessa scena, ma  in una inquadratura più ampia, dove si può distinguere chiaramente l'entità delle "masse festanti" di Baghdad durante l'abbattimento della statua: pochi passanti curiosi, che tutto mostrano fuorché gioia o partecipazione. Si notano invece oi carri armati  la colonna di "Humvee" pronti ad intervenire per evitare sorprese nelle riprese TV. In mezzo ai numerosi fotogiornalisti e cameramen si possono facilmente notare le "comparse"  a ridosso della statua, sul solo lato delle telecamere "embedded" per offrire una immagine di "folla", in realtà 30 persone in una città di milioni di abitanti. 
Ma chi sono queste comparse?

ecco la risposta: sono i mercenari del bancarottiere Ahmed Chalabi, le sue "Free Iraqui Forces", 700 uomini aviotrasportati dagli USA con 4 aerei militari C17 del Pentagono a Nasiriyah tre giorni prima, con grande clamore pubblicitario (foto grande a sinistra). Qualche somiglianza tra l'uomo alle spalle di Chalabi e il "cittadino festante di Baghdad" che si esibisce sotto la statua (foto a destra)?     

le due facce dell'evento: quella televisiva...............................e quella privata.

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Aprile 2003 http://www.uruknet.org/

 
   
 
Cassese: «Conseguenze pericolose se lo condannassero a morte»

di MARCO BERTI
ROMA «A Norimberga i vincitori processarono i vinti con un procedimento equo, nel caso di Saddam è stato calpestato ogni principio di equità». Antonio Cassese non ha dubbi. Professore di Diritto internazionale all’Università di Firenze, ex presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, si dice convinto che il processo all’ex dittatore iracheno, per il quale il pubblico ministero ha chiesto la condanna a morte, non abbia garantito i diritti della difesa e i più elementari principi di indipendenza e di imparzialità.
Un processo non equo, quindi iniquo. Perché?
«Intanto, non equo perché il tribunale è stato creato dagli americani, anche se poi è stato avallato dall’assemblea nazionale irachena. È un peccato che non sia stato costituito bene perché ci sarebbe stata l’occasione di far giustizia in modo imparziale e indipendente. Si sarebbe dovuto costituire un tribunale misto, interno e internazionale, così come è stato fatto per la Sierra Leone e per la Cambogia. Io avevo proposto eminenti giuristi arabi che assicurassero indipendenza e imparzialità. Invece è fatto da iracheni e gestito dal potere politico».
Anche i criteri di scelta dei giudici non hanno certo rispettato il crisma d ella legalità.
«Come dicevo, sono stati i politici a scegliere i giudici, quegli stessi politici che di recente hanno rimosso il primo presidente perché giudicato troppo debole e l’hanno sostituito attraverso l'organo politico che nomina i giudici, cioè il consiglio di presidenza del governo. Cosa quindi poco coerente con il principio della divisione dei poteri: i giudici non possono essere creati o rimossi dal potere politico».
I legali di Saddam sono infuriati, sostengono che il diritto alla difesa sia stato calpestato.
«Certo. E’ successa una cosa gravissima. Le accuse specifiche sono state formulate solo a metà processo. La difesa le ha conosciute molto tardi. Altra cosa grave: il tribunale non ha consentito alla difesa di interrogare un certo numero di testimoni e questo significa veramente violare in modo grave i diritti della difesa».
Cos’altro?
«Questo processo si basa in larga misura su documenti scritti, non testimonianze orali, come gli ordini diramati da Saddam di far uccidere cittadini di Dujail e di promuovere le forze di sicurezza che avevano arrestato e torturato questi poveri civili. La difesa di Saddam ha contestato l'autenticità di questi documenti e la corte ha convocato degli esperti per accertarnla. Ebbene, a far questo sono stati chiamati esperti legati al ministro dell'Interno iracheno. Di solito gli esperti sono internazionali, sono indipendenti. E poi c’è un fatto, questo processo è finanziato dagli Stati Uniti, di quale indipendenza vogliamo parlare? Potevano creare un tribunale imparziale, ma non l’hanno fatto».
Non ritiene che la condanna a morte di Saddam rischi di scatenare un’ondata di violenza tale da far impallidire quella attuale?
«Sono d'accordo. La condanna a morte innanzitutto sarebbe illegittima perché ormai la pena capitale è bandita da quasi tutta la comunità internazionale, poi assurda perché porterebbe a conseguenze pericolosissime, si figuri cosa potrà succedere».
il Messaggero, 5 novembre 2006

 
   
 

«Tribunale non credibile: il processo Saddam è da rifare»

BAGDAD - Saddam non s'ha da impiccare. E il processo è da rifare. In sostanza è questo il giudizio dell'organizzazione Human Rights Watch in un rapporto di 90 pagine che sarà pubblicato oggi. Per Hrw, che ha seguito dal vivo le 40 udienze del «caso Dujail», la credibilità del tribunale è stata «minata in modo sostanziale» secondo gli standard del diritto internazionale e iracheno. Il dossier denuncia gravi violazioni e la mancanza di prove tali da suffragare l'accusa di «crimini contro l'umanità». Eccone i punti salienti. Tre avvocati uccisi: il governo ha fornito (in ritardo) ai difensori tre guardie del corpo (senza pagarle). I dettagliati capi d'accusa sono stati letti in aula 8 mesi dopo l'inizio del processo. Diversi documenti a carico (i cd con le conversazioni di Saddam) sono stati ammessi a dibattimento avanzato. La difesa non ha avuto uguali opportunità. Non c'è trascrizione letterale (70 testimoni) ma solo un video. Ciò ha limitato «severamente» la difesa. Le dichiarazioni degli imputati al giudice istruttore sono sta.te da.te alla difesa un'ora prima del loro interrogatorio. I periti per verificare i documenti con la firma di Saddam provenivano tutti dal ministero dell'Interno. La difesa aveva chiesto un esperto internazionale. Il processo ha avuto tre presidenti, più altri cambi: si è avvicendato 1'80% della corte (5 giudici). Le pressioni politiche sono cosi riassunte da un giudice dell'Alto Tribunale: «Il potere politico ci ha trattato come un consumatore che paga un prodotto: ci danno i soldi e si aspettano certi risultati». Anche il presidente della corte Rahman è bocciato: ha impedito alla difesa di presentare tutti i testimoni e non ha dato prova di imparzialità. Per Hrw l'accusa non ha fornito le prove della collaborazione tra gli imputati nella repressione dei cittadini di Dujail. Un magistrato racconta che - per questo motivo - il tribunale deliberò un rinvio del processo, ma che la Corte d'Appello (pressioni politiche) ribaltò la decisione.
Michele Farina
Corriere della sera, 20 novembre 2006 pagina 06

 
   
 

Giovanni Di Stefano chiede incontro privato con Saddam
L’avvocato Di Stefano, difensore di Hussein, presenta “istanza” al giudice Emmet G. Sullivan

Roma - Washington DC - Baghdad – L’avvocato Giovanni Di Stefano, difensore di Saddam Hussein, prevede di partire tra pochi giorni per Baghdad per parlare in privato con Saddam e attende che i ministri Arturo Parisi della Difesa e Massimo D’Alema degli Esteri predispongano una scorta militare che lo accompagni attivando le procedure di sicurezza previste dal caso. In uno stralcio della traduzione italiana di istanza presentata il 28.11.2006 da Di Stefano al giudice Emmet G. Sullivan della United District Court di Washington DC si legge: “Conseguentemente chiediamo che la Corte ci presenti un ORDINE con la seguente formulazione: che sia concesso al Convenuto Saddam Hussein, soltanto per questa procedura, di poter consultare il Sig. Di Stefano privatamente, in vista ma fuori dell’ascolto di terzi, e che l’accesso al Convenuto Saddam Hussein non sia ostacolato purchè la data di qualsiasi incontro con lo stesso Convenuto Saddam Hussein sia notificato alle autorità pertinenti in un tempo ragionevole e che tale incontro non costituisca un intralcio, o non sia in conflitto con il processo penale in corso contro l’imputato Saddam Hussein”.

Nella foto l’avvocato Giovanni Di Stefano

Nella stessa istanza si legge anche: “Chiediamo (…) che il governo degli Stati Uniti di America (che ha la custodia fisica del convenuto) e il governo dell’Iraq (che ha la custodia legale del convenuto) mettano a disposizione di Saddam Hussein i giornali International Herald Tribune e i giornali iracheni Azzaman e Al-Sabah per dodici settimane consecutive e che al termine di queste dodici settimane consecutive un rappresentante del governo degli Stati Uniti d’America e un rappresentante del governo dell’Iraq presentino una dichiarazione assicurando sotto giuramento che i giornali sopracitati sono stati messi a disposizione di Saddam Hussein affinche possa leggerli e che lo stesso Saddam Hussein ha avuto questi giornali per il periodo stabilito di dodici settimane consecutive e che per 12 settimane USA non consegni Saddam Hussein a chiunque per essere giustiziato”.

 
   
 

Saddam Hussein sarà giustiziato?
La Casa Bianca nomina Di Stefano “avvocato difensore di fiducia” 

Washington DC - Sulla scrivania londinese dell’avvocato Giovanni Di Stefano dello Studio Legale Internazionale, del collegio di difesa di Saddam Hussein, è arrivato un documento con il quale la Corte Circondariale degli Stati Uniti d’America nomina Di Stefano “Avvocato difensore di fiducia”. Con questa nomina in pratica George W. Bush si avvale dell’attività professionale del difensore di Saddam Hussein. La nomina a Di Stefano potrebbe essere letta in chiave di politica estera della Casa Bianca. Se Saddam Hussein fosse giustiziato per impiccagione, come ha già stabilito la sentenza del tribunale di Baghdad, si potrebbe generare un probabile conflitto militare di durata ventennale tra Stati Uniti, Iraq e il mondo arabo in generale. Il sospetto di questa interpretazione della nomina viene dal fatto che, tra i milioni di avvocati esistenti, la nomina sia stata data proprio all’avvocato difensore di Saddam, Di Stefano. Egli infatti è l’unico che potrebbe “fermare” legalmente la condanna prevista per l’ex Rais. Di Stefano farà ora istanza al giudice per avere un colloquio privato con Saddam e richiederà anche di bloccare l’esecuzione.

 
   
 

1,5 BILIONI DI DOLLARI DATI DA USA A SADDAM HUSSEIN
L’avvocato Giovanni Di Stefano, difensore dell’ex rais, denuncia:
coinvolte aziende italiane, inglesi, tedesche e francesi

Amman (Giordania) – Baghdad (Iraq) - 16-12-2006 – “Gli Stati Uniti d’America diedero 1,5 bilioni di dollari in forma di garanzia bancaria a Saddam Hussein il giorno 20 dicembre 1983, dell’operazione si occupò personalmente Donald Rumsfeld” dichiara l’avvocato Giovanni Di Stefano difensore dell’ex rais. “Ci sono documenti che lo provano. Con quei soldi degli Stati Uniti, Saddam avrebbe dovuto usarli per acquistare sostanze chimiche e biologiche. Cosa che Saddam non fece. Ecco perché Usa e Gran Bretagna erano certi che Saddam possedesse armi chimiche perché le avevano finanziate loro stessi. Saddam invece si mise d’accordo con alcune aziende di Italia, Gran Bretagna, Germania e Francia per fare apparire come se avesse acquistato le sostanze chimiche, con l’intento di tenersi una parte di 1,5 bilioni di dollari e un’altra parte dei soldi pagata alle aziende che emisero fatture false prestandosi a questo tipo di operazione”. I governi italiani, inglesi, tedeschi e francesi, che ruolo hanno avuto nella vicenda? E’ ora caccia aperta per conoscere i nomi di queste aziende.

Ascolta l'intervista:
in italiano - in inglese

 
   
 

I LEGALI DI SADDAM FANNO APPELLO PER NOMINARE UN ‘AMICUS’ E CHIEDONO COOPERAZIONE GIUDIZIARIA COL QATAR,  ITALIA, GERMANIA, FRANCIA, PAESI BASSI E REGNO UNITO
Giovanni Di Stefano che fa parte dei legali coinvolti nella difesa di Saddam Hussein presenta richiesta formale all’Onorevole Giudice Emmet H. Sullivan e  due richieste all’Alta Corte dell’Iraq

Roma – Washington D C – Baghdad – 21.12.2006 Giovanni Di Stefano,  è uno degli avvocati che difendono Saddam Hussein. Al suo ritorno dalla Giordania, egli ha annunciato in una riunione che per potere difendere Saddam Hussein nel processo ‘Anfal’ in corso intende chiedere alla Corte e agli Stati Uniti d’America di consentire alla nomina di un ‘amicus’, amico della Corte, da una lista di avvocati presentata dalla ‘International Bar Association’ (Associazione Internazionale degli Avvocati) e da Amnesty International. “Durante il processo Milosevic, per assicurarsi che il Presidente  Milosevic era effettivamente protetto, la Corte nominò due ‘amicus’ avvocati che si rivelarono efficaci e utili”, ha detto Di Stefano. “Il Presidente Hussein non ha potuto scegliere i suoi legali e quelli nominati attualmente dalla Corte non sembrano efficienti” dichiara Di Stefano. “Sia il Regno Unito che l’Italia e gli Stati Uniti, hanno tutti la possibilità, in merito a delle leggi recenti, di nominare in Corte, un legale speciale per proteggere i diritti degli accusati, e questo caso ne ha una necessità disperata. Non vedo la ragione per la quale la nostra richiesta verrebbe respinta dagli Ex-Occupanti quando le loro leggi prevedono un tale servizio che sarebbe più che equo”.

Un’altra richiesta presentata dal team che difende Saddam Hussein concerne una collaborazione giudiziaria da parte di certi paesi per esaminare dei documenti in loro possesso relativi a relazioni commerciali con l’Iraq tra 1983 e 1999 e che sono probativi per il processo ‘Anfal’ in corso. “La collaborazione giudiziaria non può essere limitata all’Accusa”, dice Di Stefano. “Siamo particolarmente interessati a esaminare i documenti che la FBI ha custodito in un locale affittato nel Qatar. Ci sono tutti i documenti confiscati nei Ministeri dopo l’attacco diretto dagli USA. Secondo una informazione pervenuta a me, ce ne sarebbero quasi 200 milioni. L’Accusa nel Processo Anfal ci ha fornito circa 10,000 documenti. Non è nemmeno quello a cui ci si aspetterebbe in un processo per rapina a mano armata, senza parlare di genocidio. In un solo processo,  Milosevic si trovò davanti a 4 milioni di documenti. E il nostro parere che nel deposito centrale della FBI a Qatar, ci sono dei documenti assolutori. Presenteremo una richiesta di collaborazione giudiziaria al Governo del Qatar, come lo faremo all’Italia, alla Germania, al Regno Unito e ai Paesi Bassi, tutti paesi che beneficiarono degli affari con l’Iraq negli anni dove gli Stati Uniti finanziavano Saddam. Dobbiamo potere esaminare questi documenti e sapere inoltre perché la FBI noleggiò un deposito in Qatar nel 2002? E una domanda interessante” dice Di Stefano.

Intanto, il 18/12/2006, l’Onorevole Giudice Emmet Sullivan ha ricevuto nella Corte Circondaria di Columbia una mozione formale chiedendo il rinvio dell’esecuzione di Saddam Hussein per almeno ‘dodici settimane o fino a un ordine ulteriore’. Aspettiamo una decisione imminente.

 
   
 

Con una lettera l'ex raìs reagisce alla sentenza capitale: iracheni attaccate Stati uniti e Iran
Saddam: «Morirò da martire»
Aziz: voglio testimoniare L'ex ministro degli esteri annuncia: verità storiche imbarazzanti per l'Occidente sulla campagna anti-curdi. Il partito Baath: colpiremo gli Usa ovunque

Fausto Della Porta
«Morirò da martire». «Sono pronto a sacrificarmi per il popolo iracheno». La risposta di Saddam Hussein alla sua condanna all'impiccagione resa definitiva dalla sentenza di martedì di una corte d'appello di Baghdad è arrivata ieri, nella forma di una lettera scritta in carcere e resa pubblica da uno dei suoi avvocati. Sembra quasi una lettera d'addio agli iracheni quella in cui l'ex raìs annuncia: «Mi sacrifico, se Dio vorrà mi collocherà tra gli uomini veri e i martiri». In quello che potrebbe essere il suo ultimo messaggio, Saddam ha puntato l'indice contro Stati Uniti e Iran, che da gran parte dei sunniti iracheni sono considerate potenze occupanti, dal momento che gli Usa hanno 140.000 soldati in Mesopotamia, mentre Tehran ha legami strettissimi con i partiti sciiti che controllano il governo di Baghdad. «I nemici della vostra nazione, gli invasori e i persiani - continua Saddam - hanno trovato nella vostra unità una barriera tra voi e quanti ora vi governano. Per questo hanno seminato discordia e odio tra voi».
La missiva dell'ex presidente era stata scritta il 5 novembre scorso, il giorno della sentenza di condanna di primo grado sul massacro di Dujail (148 sciiti uccisi nel 1982 dopo un fallito tentativo d'assassinio del raìs nella cittadina a maggioranza sciita) per «crimini contro l'umanità». I legali l'hanno resa pubblica dopo che, l'altroieri, con la sentenza d'appello quel verdetto è diventato definitivo ed è iniziato il conto alla rovescia per Saddam, che dovrà essere giustiziato mediante impiccagione nei prossimi 30 giorni.
Gli esponenti del disciolto partito Baath hanno minacciato gli Stati Uniti di colpire i loro interessi in tutto il mondo se Saddam Hussein sarà giustiziato. In una nota pubblicata su un sito internet i baathisti - considerati la spina dorsale della resistenza in Iraq - hanno detto di «essere determinati alla rappresaglia con ogni mezzo, ovunque nel mondo, se l'Amministrazione Usa commetterà questo crimine».
Ma il governo di Baghdad è determinato a portare a termine la sua vendetta e sta intanto stringendo i tempi per eseguire la condanna a morte. Difficilmente però l'esecuzione potrà avvenire prima del 4 gennaio. Il ministro della Giustizia, Hashem al-Shibli, ha spiegato ieri che la sentenza sarà trasmessa al presidente Jalal Talabani per il decreto di approvazione. «Non ci saranno provvedimenti di clemenza in questo caso - ha avvertito - appena riceveremo il decreto ci prepareremo ad agire». Tuttavia un allungamento dei tempi è possibile a causa della festività musulmana dell'Eid al-Adha, la festa del Sacrificio successiva al pellegrinaggio alla Mecca che dovrebbe cominciare sabato e che si protrae per quattro giorni: «C'è l'Eid - ha spiegato il ministro - e questo potrebbe richiedere un po' più di tempo». Il presidente iracheno Talabani è contrario alla pena di morte ma ha già fatto sapere che non intende interferire e permetterà a un suo vice di firmare il decreto che darà il via alla forca.
E ieri un altro prigioniero eccellente, l'ex capo della diplomazia irachena Tareq Aziz, ha fatto sapere di voler testimoniare nel processo al quale, con ogni probabilità, Saddam, pur essendo imputato, non potrà partecipare, per sopravvenuta esecuzione. Si tratta del procedimento, anche questo per «crimini contro l'umanità» relativo alla campagna Al Anfal, il tentato genocidio a danno dei curdi, con armi occidentali e nel disinteresse statunitense, perché allora l'Iraq era un prezioso alleato, in guerra contro l'Iran khomeinista. Tareq Aziz ha chiesto di poter testimoniare prima dell'esecuzione: lo ha reso noto il suo avvocato, il giordano Badih Aref Ezzat. «Mi ha detto di avere informazioni importantissime che desidera esporre al mondo, vuole testimoniare nel processo su Anfal prima che la condanna a morte di Saddam Hussein abbia luogo, e questa è anche la volontà dello stesso Saddam», ha spiegato il legale. «Le informazioni in possesso di Aziz - ha avvertito - provocheranno parecchio imbarazzo, in Iraq così come all'estero». Il legale ha precisato che la richiesta di Aziz è stata già comunicata all'Alto Tribunale Speciale, davanti al quale è in corso il procedimento per le stragi a danno dei curdi, ma i giudici non hanno ancora risposto in un senso o nell'altro. Il governo iracheno ha da tempo messo in chiaro che Saddam sarà giustiziato a prescindere dagli sviluppi nel giudizio ancora in corso.
il manifesto del 28 Dicembre 2006 pagina 05

 
   
 

L' infermìere
«II despota che amava gli uccellini»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE :
NEW YORK — Saddam Hussein ha trascorso la sua prigionia leggendo, facendo giardinaggio e dando da mangiare agli uccelli. Nei momenti di debolezza si lasciava andare in rievocazioni nostalgiche del bei tempi perduti. Di quando i suoi figli erano piccoli e per farli addormentare raccontava loro la favola della buonanotte. O per alleviare il mal di pancia della figlia le massaggiava il ventre. Il ritratto inedito e molto umano del raìs iracheno giustiziato sabato a Bagdad viene dal sergente Robert Ellis, 56 anni, l'infermiere militare americano che si è preso cura di lui tra il gennaio 2004 e l'agosto 2005, «II mio compito era far sì che vivesse e stesse bene, in modo che potessero ucciderlo più tardi», spiega Ellis in un'intervista al St. Louis Post-DSspatch. «Un colonnello mi aveva detto che non potevamo permetterci che morisse in mani americane e che per questo dovevo fare tutto il possibile per tenerlo in vita».

Ellis controllava Saddam due volte al giorno e scriveva un diario sulle sue condizioni fisiche e psicologiche. Stando al racconto dell'infermiere, nei momenti d'aria l'ex presidente iracheno innaffiava un piccolo terreno polveroso e pieno di erbacce, dando da mangiare agli uccellini briciole di pane avanzate dal suo pasto di carcerato. «Diceva che da giovane era stato contadino e questo non l'ha mai dimenticato», spiega Ellis.

Dietro le sbarre Saddam faceva grande uso di sigarette e caffè. «Sosteneva che il tabacco e la caffeina lo aiutavano a tenere sotto controllo la pressione. Ogni tanto mi invitava a fumare una sigaretta insieme a lui». Quando Ellis gli annunciò che era costretto a lasciare Bagdad per tornare negli Stati Uniti, dove il fratello stava morendo, l'ex rais lo ha abbracciato. «Mi disse che avrebbe voluto essere mio fratello», rievoca il militare. «Ero là per aiutarlo e mi rispettava per questo».

Ellis sostiene che Saddam si lamentava raramente e, quando lo faceva, di solito ne aveva ragione: «Aveva ottime capacità di adattamento». Non parlò mai con l'infermiere della sua morte ne espresse rammarico per le sue azioni al potere. «Disse che fece tutto per il bene dell'Iraq». A un certo punto Saddam iniziò uno sciopero della fame, rifiutandosi di mangiare quando il pasto veniva fatto scivolare per terra sotto la porta della sua cella. «Ricominciò a mangiare quando pranzo e cena gli furono serviti di nuovo direttamente, aprendo la porta. Non voleva essere nutrito come un leone nella gabbia».
Alessandra Farkas
Corriere della sera, 02 gennaio 2007 pagina 09

 
   
 

Sunniti in pellegrinaggio sulla tomba del raìs
A Tikrit migliaia di persone per le strade. La figlia del dittatore in piazza ad Amman

DAL NOSTRO INVIATO AMMAN - Non sono serviti il coprifuoco, i blocchi militari e le voci diffuse a bella posta per confondere le folle sunnite sul luogo della sepoltura di Saddam Hussein. Da domenica prima dell' alba la regione di Tikrit, casa natale dell' ex dittatore a circa 130 chilometri a nord di Bagdad, è diventata il centro di cerimonie, lutto e celebrazioni. E la sua tomba temporanea, vicino a quelle dei due figli Uday e Qusay deceduti in uno scontro a fuoco con gli americani nel luglio 2003, appare ora coperta di fiori. Mentre in larga parte dei centri urbani della regione sono sorte le tradizionali tende del lutto musulmane addobbate con bandiere e le fotografie del «padre di tutti i martiri». Da Tikrit i funzionari della municipalità raccontano che sin dalle ore seguenti l' impiccagione dell' ex «raìs» la gente ha iniziato a scendere nelle strade. Ne sono seguiti sporadici scontri con la polizia irachena e i militari Usa. Il premier sciita Nouri Al Maliki aveva ordinato quattro giorni di coprifuoco nelle zone sunnite. E intanto faceva circolare informazioni contraddittorie: il corpo di Saddam avrebbe potuto essere portato dalle figlie in esilio ad Amman, oppure sepolto a Ramadi, un' altra delle roccaforti della guerriglia. Ma alle tre di mattina di domenica è stato chiaro che le insistenze sunnite, in qualche modo sostenute dagli americani nel tentativo di non ostracizzare ulteriormente una parte importante della popolazione irachena, avevano fatto breccia. E un elicottero americano ha condotto il cadavere, 20 ore dopo il decesso, a Tikrit. «Da qui lo abbiamo prelevato e portato nella moschea di Awja, il villaggio di origine di Saddam. Lo abbiamo lavato, controllato le ferite al viso e al collo causate dal cappio, quindi lo abbiamo sepolto presso i figli alla presenza di almeno 500 dignitari e capi delle famiglie più importanti», spiegano alla municipalità. Ieri le centinaia di manifestanti sono diventate migliaia. Inutile l' intervento massiccio delle unità speciali del «Quarto Battaglione», una delle unità anti-sommossa del nuovo esercito iracheno. Il coprifuoco si è ridotto a nulla e la gente ha sfilato per le strade e presso la tomba. Il sindaco ha promesso che verrà presto costruito un mausoleo che conterrà Saddam e i due figli. Gli uomini più giovani erano armati di Kalashnikov e coltelli. La raffiche hanno echeggiato a lungo, a rimarcare la rabbia e il desiderio di vendetta. Non sono mancati i vecchi slogan della dittatura, i cori inneggianti al vecchio partito Baath e le promesse di «fedeltà assoluta» al leader scomparso. Più che contro gli americani, la rabbia era indirizzata verso gli iraniani e i «traditori» del governo di Al Maliki. I fedelissimi del vecchio regime hanno sfilato anche nel centro di Amman. La figlia maggiore di Saddam, Raghad, in esilio nella capitale giordana sin dall' aprile 2003, è apparsa brevemente di fronte a circa 500 persone. «Dio vi benedica per l' onore che tributate a Saddam Hussein», ha esclamato prima di sparire tra le guardie del corpo. Nel frattempo i massimi dirigenti del Baath hanno già trovato un successore di Saddam alla guida del partito. Si tratta del 65enne Ezzat Ibrahim Al Douri, ex vicepresidente del Consiglio del Comando della Rivoluzione e braccio destro del defunto dittatore. Malato da tempo di leucemia (alcuni lo danno per morto) è l' unico alto dirigente del partito che non si trovava in Iraq al momento dell' invasione anglo-americana. Era a Vienna per cure. Poi venne additato come uno dei massimi organizzatori della guerriglia. (Ha collaborato Walid al Iraqi).
Cremonesi Lorenzo
Corriere della sera, 02 gennaio 2007 pagina 09

 
   
 

Usa/Iraq
Si agli omicidi dei leader radicali

La «nuova» politica americana in Iraq comprenderà anche «omicidi mirati» di esponenti politici «estremisti» iracheni. Lo avrebbe confermato alla stampa «un responsabile militare di alto rango» secondo il quale «un modo per intaccare le capacità militari» delle varie organizzazioni della resistenza sarebbe quello di «attaccare i loro leader». L'ufficiale ha poi aggiunto che l'esercito Usa avrebbe deciso di non rispettare più alcuna restrizione alla propria presenza nel ghetto di Sadr City roccaforte del leader sciita radicale Moqtada al Sadr.
il manifesto del 13 Gennaio 2007 pagina 10

 
   
 

Aziz chiede asilo in Italia
«Aiutatemi», scrive al Papa e al governo

L'ex vice premier e ministro degli esteri iracheno Tarek Aziz ha scritto due lettere, una al governo italiano e l'altra a Benedetto Sedicesimo chiedendo aiuto per poter «vivere in pace in Italia». Le missive sono state recapitate per via elettronica dall'avvocato che lo rappresenta, Giovanni Di Stefano, che è stato anche uno degli avvocati di Saddam Hussein e di Awad Al Bandar e Barzan Al Tikriti, questi ultimi impiccati ieri in Iraq. Secondo quanto sostiene la famiglia la vita di Tarek Aziz sarebbe tuttora in pericolo dal momento che l'anziano statista iracheno sarebbe gravemente malato e necessiterebbe di urgenti cure mediche che non sta ricevendo a Camp Cropper, vicino Baghdad, dove è rinchiuso da 44 mesi «senza che gli sia stata ancora formalizzata alcuna accusa precisa». Secondo il suo avvocato sarebbe accusato essenzialmente di aver fatto parte della leadership irachena. Non è la prima volta che Aziz si rivolge al Vaticano. Già due volte aveva chiesto alla Santa Sede di intercedere a sua favore ma è la prima volta che l'ex esponente del governo di Baghdad e della comunità cristiana irachena chiede al Papa e al governo italiano di avere asilo e di potersi trasferirsi stabilmente in Italia.
il manifesto del 17 Gennaio 2007 pagina 10

 
   
 

Le conclusioni dei rapporti Feith «inappropriate ma non illegali»
Pentagono: non c'era legame Saddam-Osama
«Informazioni di qualità e credibilità molto dubbia» sulle connessioni tra i terroristi e il regime iracheno

WASHINGTON - Dopo la commissione sull'11 settembre, ora anche il Pentagono conferma che erano «inconsistenti» le prove del legame tra Saddam Hussein e i terroristi di Al Qaeda, uno dei motivi (insieme alla presunta esistenza di armi irachene di distruzione di massa) con i quali il presidente americano George W. Bush ha giustificato la guerra in Iraq.

INAPPROPRIATO - Il rapporto di Thomas Gimble, direttore generale del dipartimento della Difesa, dice però che i rapporti dell'ex consigliere del Pentagono Douglas Feith, uno dei falchi dell'ex segretario della Difesa Donald Rumsfeld e del suo vice Paul Wolfowitz (ora direttore della Banca mondiale, quello beccato nei giorni scorsi in moschea con le calze bucate), secondo i quali la Cia sottostimava la probabilità di un legame tra Saddam e Al Qaeda, erano «inappropriati, ma non illegali». Ma proprio in basi a questi rapporti, Rumsfeld, da sempre convinto della necessità dell'invasione dell'Iraq, vinse la resistenza delle «colombe» dell'amministrazione Bush e ottenne l'approvazione del presidente per dare il via alla guerra. Senza dimenticare che furono gli stessi rapporti a convincere il Congresso ad approvare la missione in Iraq. Il gruppo di Feith nel luglio 2002 rese noto il rapporto «Iraq e Al Qaeda: ecco le prove».

«INFORMAZIONI DUBBIE» - Feith era in aperta competizione e antagonismo con le altre agenzie di intelligence americane ritenute non sufficientemente aggressive nella raccolta di elementi a carico del regime iracheno. I rapporti di Feith (che lasciò il Pentagono nel 2005) contenevano «informazioni di qualità e credibilità molto dubbia», si legge nel rapporto del Pentagono.

INCHIESTA - Il senatore democratico John Rockefeller, che presiede la commissione Intelligence, ha già annunciato che avvierà un'inchiesta su eventuali violazioni da parte del gruppo di Feith del National Security Act del 1947 per aver mancato di tenere informato il Congresso della propria attività. L'ex maggioranza repubblicana al Congresso aveva sempre bloccato l'inchiesta sull'uso dei servizi segreti da parte dell'amministrazione Bush nei mesi precedenti l'attacco in Iraq dopo i risultati della commissione sull'11 settembre sostenendo di voler aspettare i risultati dell'inchiesta interna del Pentagono.
Corriere della sera, 09 febbraio 2007

 
   
 

A morte vice di Saddam Baghdad, ancora stragi

Mi. Co.
Il mercato di Shorja, a due passi dal fiume Tigri, è una delle tante aree di Baghdad dove un tempo sciiti e sunniti vivevano fianco a fianco. Quando intorno a mezzogiorno di ieri una serie d'esplosioni ha ucciso 71 persone e ne ha ferite 164, ridotto in macerie un palazzo e raso al suolo diversi negozi, nella zona si trovavano però in prevalenza sciiti, perché da tempo la pulizia etnica ha colpito anche Shorja, allontanando la minoranza sunnita dall'abitato. Un'espulsione sistematica cominciata all'incirca un anno fa quando, il 22 febbraio, con l'attentato alla Moschea dalla cupola d'oro di Samarra si era materializzato lo spettro della guerra civile.
E allo scoppio delle bombe ieri gli sciiti avevano appena finito di celebrare il quarto d'ora di raccoglimento che il premier Nouri al-Maliki ha indetto per ricordare quell'attentato contro uno dei luoghi più santi della propria religione. Il generale dell'esercito iracheno Abdel Karim Khalaf ha dichiarato alla Bbc che ad esplodere sarebbero stati non i «soliti» attentatori suicidi, ma almeno tre ordigni, nascosti tra le bancarelle. Un altro ordigno è scoppiato quasi in contemporanea nel vicino mercato di Bab al-Sharqi, uccidendo nove persone. Le truppe statunitensi (21.500 di cui 17.000 per la sola capitale) si preparano ad iniziare quella che i comandi americani descrivono come la pacificazione della capitale in una situazione sfuggita completamente al controllo delle truppe occupanti e del governo iracheno. E, come benzina sul fuoco, è arrivata anche la condanna a morte di Taha Yassin Ramadan, vice presidente dell'Iraq dal 1991 fino alla deposizione del regime nell'aprile di quattro anni fa. Il Tribunale speciale iracheno ha rivisto ieri la condanna all'ergastolo precedentemente comminata a Ramadan per il massacro di Dujail, dove nel 1982 furono uccisi - dopo un tentativo di assassinare Saddam - 148 sciiti.
Il 5 novembre scorso, il Tribunale lo aveva condannato all'ergastolo, ma tre giorni dopo Adel az-Zubaydi, uno degli avvocati difensori di Ramadan, era stato ucciso in un agguato a Baghdad, mentre la pubblica accusa, non soddisfatta della condanna a ergastolo, aveva fatto ricorso alla Corte d'Appello, chiedendo per l'imputato la condanna a morte. Quando anche Ramadan (dopo che la stessa sorte è toccata a Saddam, Barzan al-Tikriti e Awwad al-Bandar) sarà impiccato, sarà quasi completamente eliminata la leadership del partito Ba'ath. Resta ancora libero Izzat Ibrahim al-Douri che diverse fonti d'intelligence indicano come la guida di quella parte della guerriglia che si rifà appunto all'ex partito unico al potere. «Tutto il procedimento (contro Ramadan) si è rivelato una farsa, che ha allontanato il momento in cui verrà ristabilito lo stato di diritto in un paese che esce da decenni di tirannia», ha commentato Amnesty international.
il manifesto del 13 Febbraio 2007 pagina 10

 
   
 

L'Iraq delle insorte Campagna internazionale contro la loro messa a morte
Tre donne ribelli saranno impiccate
Imminenti le esecuzioni di quattro detenute (una per crimini comuni). Le processate senza difesa. 2000 in carcere per «motivi di sicurezza»

Giuliana Sgrena
Wassan Talil, 31 anni, e Zayneb Fadhil, 25 anni, sono state condannate a morte dalla Corte centrale criminale (Ccci) di Baghdad il 31 agosto del 2006 per l'uccisione di diversi membri delle forze di sicurezza nel distretto della capitale di Hay al Furat. Entrambe negano di essere state coinvolte in questi fatti e Zayneb Fadhil, accusata insieme al marito e a un cugino di aver attaccato una pattuglia congiunta della guardia nazionale irachena e delle forze statunitensi, afferma che ai tempi degli assassini si trovava all'estero. Ora si trova in carcere con una bambina di tre anni. Per Liqa Qamar,una donna di 25 anni con una bambina di un anno nata in carcere, è stata fissata anche la data dell'esecuzione per impiccagione, il 3 marzo. Liqa è stata condannata il 6 febbraio del 2006 dal Ccci per aver partecipato, insieme al marito e al fratello, al rapimento e successivo assassinio di un alto funzionario della «zona verde», l'area di massima sicurezza di Baghdad.
Insieme alle tre donne condannate per atti di resistenza armata si trova anche Samar Sa'ad Abdullah, 25 anni, che rischia di essere impiccata nei prossimi giorni visto che il suo appello è stato respinto. Il suo caso non riguarda un'azione di resistenza ma la condanna è la stessa. Samar è stata condannata il 15 agosto del 2005 per l'uccisione dello zio, della moglie e di tre dei suoi figli nel distretto al Khudra di Baghdad. La donna rigetta tutta la colpa che attribuisce invece al suo fidanzato che avrebbe tentato di rapinare lo zio. Anche il fidanzato è stato arrestato ma non ci sono notizie se gli sono stati contestati questi assassinii. le quattro donne a rischio di imminente impiccagione sono tutte rinchiuse nel carcere di Khadimiya a Baghdad.
Per la prima volte giungono notizie dettagliate su donne condannate per aver partecipato ad atti di resistenza. Le notizie sono state diffuse anche grazie alla denuncia di Walid Hayali del Sindacato degli avvocati iracheni. L'avvocato ha denuciato il fatto che le tre donne condannate non hanno nemmeno avuto diritto ad un avvocato perché si trattava di reati relativi alla sicurezza. Nulla da invidiare ai processi dei tempi di Saddam!
Il governo iracheno ha ripristinato la pena di morte nell'agosto 2004 (poco più di un anno dopo l'abbattimento del regime sanguinario di Saddam Hussein). Le prime esecuzioni, secondo Amnesty international, risalgono al 1 settembre 2005 e almeno 65 iracheni, tra uomini e donne, sono stati giustiziati nel 2006, tra i quali l'ex rais. Ma è la prima volta che notizie così dettagliate superano quella cortina di omertà che copre il sistema giudiziario o, meglio, il sistema di illegalità che vige in Iraq sotto occupazione.
La reazione è stata immediata a livello internazionale con appelli di vari organismi per i diritti umani, tra i quali Amnesty international (vedi intervista sotto)e, in Italia, per ora, dell'Associazione italiana dei giuristi democratici. Alcuni iracheni in esilio (tra cui Hana e Abdul Ilah Albayati) hanno firmato un appello in cui affermano che il processo cui sono state sottoposte le tre donne condannate a morte per attentato alla sicurezza è illegale in base alla Terza convenzione di Ginevra. Per i firmatari dell'appello infatti si tratta di «prigioniere di guerra». La condanna - si legge nell'appello - è avvenuta in base all'articolo 156 del Codice penale iracheno che recita: «qualsiasi persona che commetta volontariamente un atto con l'intento di violare 'l'indipendenza del paese o la sua unità o la sicurezza del suo territorio...' è punibile con la pena di morte». Il paradosso è fin troppo evidente: le tre donne sono state condannate proprio da coloro che stanno commettendo i reati previsti dall'articolo 156 del Codice penale!
All'inizio dell'occupazione le donne venivano arrestate e portate dagli americani nell'infame carcere di Abu Ghraib - e torturate - per cercare di ottenere la consegna del marito o dei figli ritenuti impegnati nella resistenza. Ora evidentemente le donne hanno ottenuto dal governo iracheno (al servizio degli Usa) il riconoscimento della loro partecipazione diretta alla resistenza e per questo vengono impiccate. Poco importa se con prove o senza prove. Con avvocati o senza. Del resto la caduta di Saddam ha portato di tutto tranne che un processo di democratizzazione.
Non si conosce il numero delle donne che si trovano attualmente in carcere e di cui spesso è stata chiesta la liberazione come condizione il rilascio di ostaggi occidentali, soprattutto donne. Secondo un rapporto delle Nazioni unite sui diritti umani in Iraq il totale dei detenuti - sia dalle forze di occupazione che dalle autorità irachene - sarebbero 31.000. E, il 6 aprile del 2006, Mohamad Jorshid, rappresentante di una ong per i diritti umani in Iraq, aveva dichiarato al giornale Asharq al Awasat che erano 2.000 le donne rinchiuse in varie prigioni e centri di detenzione per «motivi di sicurezza». Quale fine faranno? Speriamo che la reazione provocata dalla condanna di Wassin, Zayneb e Liqa, oltre che Samar, serva a fermare la mano del boia per ora e per sempre.
il manifesto del 20 Febbraio 2007 pagina 03

 
   
 

Intervista Parla Massimo Persotti di Amnesty International: «Pena di morte e assenza di diritti legali»
«E pensare che lo chiamano nuovo Iraq»
Sappiamo che nel 2006 nelle carceri irachene ci sono state almeno 65 esecuzioni tra uomini e donne, però non abbiamo suddivisioni di genere

G. S.
Tra le prime organizzazioni per i diritti umani che si sono mobilitate per fermare l'esecuzione, prevista come imminente, per quattro donne irachene vi è Amnesty international. Abbiamo sentito Massimo Persotti del Coordinamento contro la pena di morte di Amnesty.

Per la prima volta arrivano dettagli su condanne a morte di donne in Iraq, voi siete a conoscenza di altri casi?
Non sappiamo molto di più. Amnesty sa che nel 2006 ci sono state almeno 65 esecuzioni tra uomini e donne, però non abbiamo suddivisioni. Anche perché spesso le notizie arrivano centellinate e si viene a conoscenza di casi in modo sporadico. Quindi è difficile avere una statistica precisa.

Invece la notizia delle quattro donne è arrivata prima dell'impiccagione...
Fortunatamente. Si tratta di casi diversi tra loro che hanno però lo stesso minimo comun denominatore: l'imminente pericolo di esecuzione. Per questo Amnesty si è attivata immediatamente a livello internazionale.

Per le tre donne condannate per azioni di resistenza non è stato nemmeno concessa la presenza di un avvocato. Dal punto di vista del diritto internazionale non dovrebbero essere considerate prigioniere di guerra?
Per quanto riguarda l'aspetto della difesa purtroppo è un fatto ricorrente, il caso di Saddam Hussein l'ha dimostrato. In questo momento in Iraq il livello di garanzia e di rispetto degli standard internazionali per quanto riguarda la difesa legale è poco garantito. Immagino poi che nel caso di imputate donne la situzione possa essere ancora aggravata. Quello che percepiamo estendo il discorso anche alle aree confinanti dove è più facile avere informazione di donne processate o condannate per atti che prevedono la pena di morte, questa si basa più sulla interpretazione della sharia che per la donna è ancora più penalizzante. Di contro notiamo, che negli stessi paesi, vi è un grosso fermento tra le donne per dare un segnale di ribellione. Questo è un segnale importante.

Il paradosso è che prima l'Iraq era uno stato laico e le donne non avevano limitazioni imposti dalla sharia. Caduto Saddam non solo non c'è un miglioramento delle condizioni di vita ma un peggioramento.
Noi, che combattiamo la pena di morte, ci auguravamo che con la caduta di Saddam il nuovo stato iracheno potesse mettere uno stop alla pena di morte e invece è stata subito reintrodotta e oggi ha un tasso di applicazione molto elevato.

Quindi non si può parlare di un processo di democratizzazione...
Le cifre dei tempi di Saddam Hussein tra morti, sparizioni, esecuzione extragiudiziarie erano spaventose. Amnesty si è sempre battuta, anche se inascoltata. Certo è che dal passaggio da regime dispotico alla prospettiva di un paese libero ci si aspettava che almeno sulla pena di morte si potesse registrare un passo positivo. La speranza è durata poco, il nuovo Iraq ha rispristinato la pena di morte e gli standard di difesa non sono garantiti. Il caso di Saddam Hussein è stato il più lampante, ma ci sono molti altri Saddam Hussein sconosciuti.

Cosa si può fare per fermare il boia?
Quello che si può fare immediatamente aderire all'appello di Amnesty (sul sito) che è l'arma che in molti casi si è mostrata efficace e speriamo lo sia anche nel caso delle quattro donne irachene.

Sa quante firme sono già state raccolte?
In genere si sa solo alla fine, ma trattandosi di donne c'è sempre una grande sensibilità. E poi il caso di quattro donne in un paese già devastato qual è l'Iraq suscita particolare attenzione.

A chi è rivolto l'appello?
Alle autorità irachene perché formalmente è nelle mani della giustizia irachen la sorte di queste quattro donne, anche se ciascuno può avere perplessità sui poteri in vigore in Iraq.
il manifesto del 20 Febbraio 2007 pagina 03

 
   
 

Iraq
Marine stupratore e assassino condannato a cento anni

Un sottufficiale americano, sergente Paul Cortez, è stato condannato dalla corte marziale di Fort Campbell, nel Kentucky, a cento anni di carcere per aver violentato e contribuito a uccidere una ragazzina irachena di 14 anni insieme a quattro commilitoni nel marzo 2006 a Mahmoudiyah, una trentina di chilometri a sud di Baghdad. Dopo il delitto fu sterminata l'intera famiglia, madre, padre e una sorellina minore di 6 anni, della giovane vittima: il cadavere di quest'ultima, Abeer Qassim al-Janabi, fu quindi cosparso di cherosene e dato alle fiamme, nel tentativo di occultare che cosa fosse realmente accaduto. Cortez, 24 anni, californiano, appartenente alla 101ma Divisione Avio-Trasportata, è stato anche radiato con disonore dalle Forze Armate; è tuttavia riuscito a evitare la pena di morte riconoscendosi colpevole di tutti i capi d'imputazione. L'eccidio scatenò la rabbia della popolazione della zona in cui fu perpetrato, il famigerato «Triangolo sunnita», facendo salire alle stelle la tensione, screditando l'operato delle truppe Usa e mettendo seriamente a repentaglio l'esito della loro missione e la stessa incolumità dei soldati.
il manifesto del 24 Febbraio 2007 pagina 07

 
   
 

Strage di bambini a Ramadi
Dilaniati in 18, fra i 10 e i 15 anni, mentre giocavano a football: al Qaeda o «tragico errore» Usa?

S.D.Q.
Baghdad
Un altro «tragico errore» degli americani o un'altra barbarità di al Qaeda? Nel caos in cui è sprofondato l'Iraq forse la verità non si conoscerà mai. Le versioni sono contraddittorie ma un fatto sembra certo: 18 ragazzini - fra i 10 e 1 15 anni - sono morti (e un'altra ventina feriti), dilaniati da un'esplosione, mentre giocavano a calcio su un campetto di Ramadi, a un centinaio di km da Baghdad, nella provincia ribelle di Anbar dove s'intrecciano ferocemente i diversi livelli della guerre senza quartiere che si combattono in Iraq: quella fra la resistenza irachena e gli occupanti americani, quella fra sunniti (dominanti nella provincia) e sciiti, quella inter-sunnita fra al Qaeda e i capi tribali che vi si oppongono.
La strage dei ragazzini è stata confermata dalla televisione statale al Iraqiya, dalla polizia irachena, dallo sceicco Hamid al-Hais, vicecapo del locale consiglio dei leader tribali sunniti e, in serata, anche dal premier Nouri al-Maliki. Gli unici a «non saperne niente» - forse perché temono di essere loro gli autori e se ne vergognano? - sono gli americani.
Le versioni sulla dinamica della strage, avvenuta lunedì ma emersa solo ieri, differiscono. La polizia dice che a esplodere è stata una bomba collocata sul ciglio della strada e che il campetto da football sorgeva vicino a una base militare americana. Al-Iraqiya dice che è stata un'auto-bomba. Lo sceicco Al-Hais assicura che è stata «al-Qaeda». Il maggiore Jeff Pool, portavoce militare americano, dice che a lui non risulta nessuna strage di bambini e che loro, gli americani, tutto quello che hanno fatto è stato provocare «un'esplosione controllata» di un ordigno vicino al campo da calcio di Ramadi e che ha provocato «solo» il ferimento «leggero» di una trentina di persone, «fra cui 9 bambini». Ma roba da poco: niente più di «tagli ed escoriazioni».
Nell'inferno iracheno provocato dalla «guerra di liberazione» americana non ci sono più limiti alla violenza e alla barbarie (come era previsto e prevedibile). E non sarà certo la pur sacrosanta «dura condanna» dell'Unicef, l'agenzia dell'Onu per l'infanzia sempre più spesso violata, a far cambiare le cose.
Da due settimane gli americani hanno lanciato l'operazione «Imporre la legge» (quale? di chi?) in cui sono impegnati non meno di 90 mila uomini fra soldati Usa (Bush ne ha mandati appositamente altri 21.500 freschi dall'America) e forze di sicurezza irachene. Lunedì fonti militari Usa hanno detto che «è ancora troppo presto» per tirare un bilancio ma già fin d'ora possono affermare che «gli assassinii di carattere inter-confessionale sono al livello più basso da un anno a questa parte».
Sarà. Anbar, roccaforte sunnita e saddamista, può essere che non sia stata ancora raggiunta dagli effetti dell'operazione «Imporre la legge» che ha per epicentro la capitale. Ma a Baghdad ieri scorrendo la lista dei morti si potevano contare: 25 corpi trovati in strade e discariche; 2 morti per una bomba di strada; 2 morti per un'auto-bomba; 5 morti per un'auto-bomba; 4 cadaveri recuperati; 3 morti per un colpo di mortaio; 3 soldati Usa morti per una bomba di strada... E nel resto del paese: un altro marine morto a Diwaniya; 7 poliziotti morti per un camion-bomba a Mosul; 4 o 5 morti per un kamikaze a Al-Baaj, vicino a Mosul; 15 morti il bilancio finale de camion-bomba suicida di lunedì a Ramadi. E i 18 bambini uccisi, sempre a Ramadi, da una bomba o da «un'esplosione controllata» mentre giocavano al pallone.
il manifesto del 28 Febbraio 2007 pagina 8

 
   
 

«La guerra è illegale, non torno più in quell'inferno»
Parla il soldato Mark Wilkinson, sotto processo negli Stati uniti per essersi rifiutato di tornare a combattere in Iraq

Patricia Lombroso
New York
«Dopo il caso del sergente Camillo Mejia e quello dell'ufficiale Watada, ora spetta a me affrontare in questi giorni il processo davanti alla corte marziale come "disertore". Siamo colpevoli di un crimine inesistente. La guerra in Iraq è illegale ed è nostro diritto rifiutare di partecipare a questa aggressione americana. I comandi militari non vogliono sentirsi dire apertamente in questo momento che questa guerra ingiusta e illegale è sempre più impopolare proprio tra i soldati. Non è molto difficile dimostrarlo anche davanti ad una giuria militare. Comunque sono pronto a pagare. Io non tornerò mai più nell'inferno dell'Iraq». A raccontare la sua esperienza di resistente alle pressioni del Pentagono, è Mark Wilkinson di 22 anni, di stanza in Iraq dal marzo 2003 al maggio 2004, già intervistato allora in clandestinità come disertore (il manifesto del 21 giugno 2005), ora in attesa del processo davanti alla corte marziale della base militare di Forthood in Texas. La base militare di Forthood è una delle basi militari da dove partiranno i nuovi 21.000 soldati che Bush ha deciso di inviare in Iraq per l'escalation militare in Iraq.

A Washington i politici discutono ma a lei risulta che alcune truppe siano già partite?
La prima unità militare di cavalleria e già partita da qui per Baghdad. Il mio plotone, per la terza volta, dovrà tornare in Iraq, a maggio. Così ha deciso Bush.

Cosa pensano i soldati a Forthood per questa decisione del presidente?
La stragrande maggioranza dei soldati qui alla base militare è contraria alla continuazione della guerra. Dicono che la decisione di Bush non ha alcun senso né motivazione. I soldati della mia unita militare sostengono che non c'è per loro «nessuna missione» in quel fronte. Pensano soltanto di cercar di restar vivi e svolgere il lavoro assegnato. Hanno paura di rendere pubblica la loro opposizione a questa avventura militare, sanno che ora la guerra è diventata più impopolare, e sono consapevoli che i processi delle corti marziali che prima Watada e ora io stesso stiamo subendo, vengono seguiti attentamente. Apertamente i soldati ci dimostrano tutto il loro appoggio per il coraggio che dimostriamo e che loro ancora non riescono ad esprimere. Il Pentagono, due anni fa, ha ufficialmente reso pubblico il dato che dall'inizio della guerra sono 8000 i disertori che non tornano al fronte. A me risulta che siano 40.000 i soldati che in gergo militare sono definiti «absents of war», non tutti certo motivati politicamente. L'indice dei suicidi fra i soldati nel 2005 è salito al 19.9% dal 10% dell'anno precedente. Un dato che non comprende i suicidi di marines, nell'aviazione e nella Guardia nazionale. Nel 2005 sono stati 22 i soldati che si sono suicidati al fronte. Il Pentagono occulta tutti questi dati e questi problemi. Qui a Forthood sono tanti i casi di soldati devastati da alcoolismo e droga per quello che chiamano «post traumatic stress». Il Pentagono, alla disperata ricerca di «uomini» da inviare al fronte, non ha il benché minimo interesse rendere pubblico il fenomeno che si sta estendendo nelle basi militari tra i soldati che tornano dall'Iraq.

Qual è stata la sua esperienza di soldato in Iraq dal 2003 al 2004, se poi è finito davanti ad una corte marziale come disertore?
Sono andato in missione in Iraq dall'inizio dell'invasione nel 2003 fino al 2004. Sono stato a A Tikrit, Samarra e in tutto il resto del paese come poliziotto militare. Quando son tornato negli Stati uniti nel 2004 quella esperienza sul campo mi aveva convinto a non andare mai più in quell'inferno. Inoltrai la richiesta come obiettore di coscienza. Come fece il sergente Mejia. Mi venne rifiutata dai militari, perché era «fondata su motivi politici», mi risposero. Allora i superiori mi ordinarono di tornare in Iraq per il secondo turno di servizio militare. Rifiutai di partire con la mia unità, nel gennaio del 2005. Entrai «in clandestinità» e fui classificato dal Pentagono come «absent of war», cioè come disertore. Ad agosto dello stesso anno decisi di costituirmi alla mia base militare a Forthood, consapevole di incorrere in punizioni disciplinari. Così i comandi hanno deciso di processarmi come disertore.

La sua esperienza di soldato in Iraq ha radicalmente cambiato le sue idee sulla guerra americana in Iraq?
La missione di polizia militare al fronte è stata la mia prima esperienza al di fuori della piccola comunità in Colorado dove sono cresciuto fino a quando, a 17 anni, venni spedito a Tikrit, dopo un addestramento militare di una sola settimana. Le regole d'ingaggio militare impartiteme alla partenza si sono poi rivelate inesistenti nel teatro di guerra. Venivo da una cittadina di tradizioni militari, dove non ci sono altre minoranza etniche né principi ed idee diverse da quelle grette dei cristiani evangelici. In Iraq mi sono confrontato con valori culturali e religiosi che ho trovato validissimi. Mi sono subito reso conto che la nostra missione era quella di distruggere tutto quello che incontravamo sulla rotta dei nostri convogli di humvee. Stavamo saccheggiando quel paese. Tra i soldati,esisteva quasi una gara di sadismo verso la popolazione. Contrariamente alla retorica dei «liberatori», mi resi conto che la popolazione irachena era ostile alla nostra presenza di occupanti. Gi ordini impartiti dai comandanti di irruzione nelle case di civili iracheni, costituivano spesso un passatempo sul tragitto per andare allo spaccio a comprare patatine fritte. Gli ordini di arresto ed irruzione non avevano alcun senso né giustificazione, se non quello di terrorizzare la popolazione irachena.

Il Pentagono, consapevole che scarseggiano i soldati da inviare per continuare l'occupazione, potrebbe risparmiarle il carcere purché lei torni in Iraq?
È possibile. Anche se non sono il soldato che a loro conviene mandare al fronte. Comunque non accetterò mai di tornare in Iraq. Sono pronto ad assumere le mie responsabilità e pagare per la mia opposizione a partecipare a qualsiasi guerra. Questa in Iraq è ingiusta e illegale.
il manifesto del 01 Marzo 2007 pagina 09

 
   
 

L'ANALISI
La sindrome di Golia
Allettante il ritorno alla guerra asimmetrica: l'Iran è una minaccia strategica

Due inquadrature la dicono lunga su come gli americani fanno la guerra. Nella prima, due piloti riservisti col dito sul grilletto lanciano un attacco letale contro un convoglio corazzato britannico nella fase iniziale dell'operazione «Iraqi Freedom», nonostante sia ben chiaro che i bersagli sono i loro stessi alleati.

Nella seconda, si vedono gli agenti dell'Autorità provvisoria della coalizione che scaricano dai camion pacchi di biglietti da cento dollari, avvolti nel cellofan, poco prima del passaggio dei poteri al governo iracheno di transizione, malgrado il rischio evidente e reale che i soldi possano finire nelle mani dei ribelli.

Fuoco amico e soldi buttati via: si è davvero tentati di dire che questo binomio riassume tutto quello che è andato storto in Iraq sin dal 2003. Se l'efficienza militare si misura dal rapporto tra gli obiettivi strategici raggiunti e il denaro speso allo scopo, allora questa campagna militare sembra la meno efficiente di tutta la storia moderna.

Eppure solo la settimana scorsa il governo Bush non si è fatto scrupolo di chiedere maggiori risorse per finanziare la sua sempre più disastrata «Guerra al Terrore». Per essere precisi, è stato chiesto al Congresso di approvare una richiesta aggiuntiva di 98 miliardi di dollari, che vanno a sommarsi alle proposte di bilancio per il 2008 che già sfiorano un totale di 145 miliardi di dollari. 243 miliardi di dollari è una cifra seria, sotto ogni punto di vista. Supera il prodotto interno lordo di un Paese come il Sud Africa. Ma teniamo presente la cifra totale spesa dagli Stati Uniti per la Guerra al Terrore dal settembre 2001, che secondo l'ufficio del bilancio del Congresso è di 503 miliardi di dollari. Aggiungiamo questa all'ammontare appena richiesto e si arriva a un totale di 746 miliardi di dollari, di poco inferiore a tre quarti di un trilione di dollari.

E potrebbe andar peggio, se gli uomini con le mostrine e le medaglie sul petto otterranno quello che pretendono. L'anno scorso il generale Peter J. Schoomaker, capo di stato maggiore uscente, è riuscito a far approvare un aumento dei finanziamenti all'esercito per il 2008. Oggi i massimi vertici della Marina e dell'Aeronautica si sono messi a ripetere il ritornello che la spesa militare americana è in realtà troppo esigua in rapporto al prodotto interno lordo. A onor del vero, i generali non hanno tutti i torti.

In confronto alla Guerra fredda, la Guerra al Terrore è una bazzecola in quanto a costi. Tra gli anni 1959 e 1989, gli Stati Uniti hanno speso per la difesa una media del 6,9 per cento del Pil. Da quando Bush è entrato alla Casa Bianca, la percentuale è salita dal 3 ad appena il 4 per cento. Tuttavia, i nemici dell'America dal 2001 in poi sono stati semplici moscerini, se paragonati al possente orso sovietico, mentre l'economia americana conosce una crescita molto rapida dagli anni Novanta. Allora sembra ragionevole chiedersi perché, con un bilancio annuale pari all'intero Pil dell'Olanda, l'esercito statunitense non riesce a riportare la pace in Iraq.

Si tratta semplicemente di gravissima inefficienza del Pentagono? O forse è cambiato qualcosa di fondamentale nel carattere della guerra, come sostiene il generale inglese in pensione Rupert Smith? Nel suo libro,
The Utility of Force, Smith afferma che «non esiste più la guerra... concepita come uno scontro sul campo tra uomini e macchine». L'avvento di quella che egli definisce «la guerra tra la gente» ha trasformato il Colosso americano in un grande, ma vulnerabile, Golia. L'ipotesi di Smith è che il Pentagono si ostina ad armare le forze americane per l'ultima guerra, non tanto la Guerra fredda, quanto piuttosto le guerre altamente asimmetriche combattute negli anni Novanta in Kuwait, in Bosnia e Kosovo, dove l'aeronautica ha svolto un ruolo decisivo. Solo con estrema lentezza l'apparato militare si sta adattando alle nuove esigenze operative, in Iraq come in Afghanistan, che abbinano elementi di ricostruzione economica, il mantenimento dell'ordine pubblico di stampo neo-coloniale e le azioni di contrasto ai ribelli. «La guerra tra la gente» si rivela davvero simmetrica, poiché conduce allo scontro tra pattuglie americane dotate di armi leggere e milizie locali irregolari. Gli americani avranno anche gli armamenti migliori e un addestramento ineccepibile, ma i ribelli hanno dalla loro una conoscenza superiore del territorio.

Esiste un'alternativa a questo duro impegno, ed è evidentemente un'opzione che Bush trova molto allettante. Perché non torniamo a combattere quel genere di guerra asimmetrica per la quale gli Stati Uniti sono già equipaggiati e non lanciamo un attacco aereo contro l'Iran?
Si capisce perché il presidente potrebbe contemplare questo genere di iniziativa. Sotto il profilo strategico, l'Iran rappresenta una minaccia. Sotto il profilo politico, Bush non ha più nulla da perdere. E sotto quello militare, Bush può star certo che l'Aeronautica sarà in grado di colpire almeno un certo numero di impianti nucleari iraniani in modo spettacolare.

Eppure i rischi che tali attacchi comportano sono gravissimi: le ritorsioni sul terreno in Iraq — e altrove — sarebbero feroci. Non esistono inoltre garanzie che il programma nucleare iraniano possa essere davvero fermato. E il contraccolpo politico in Iran (per non parlare di tutto il Medio Oriente) non farebbe che rafforzare l'ala radicale attorno al presidente Mahmoud Ahmadinejad proprio nel momento in cui sembra perdere parte del suo sostegno popolare. In breve, esiste il pericolo reale che un'azione preventiva contro l'Iran rischi di trasformare Golia in Sansone, e di travolgere nel crollo del tempio tutto il Medio Oriente, Sansone compreso.
Niall Ferguson
© Niall Ferguson, 2007 ( Traduzione di Rita Baldassarre)
Corriere della sera, 05 marzo 2007

 
   
 

Una guerra per nasconderne altre
Beirut, Baghdad, Gaza:terrorismi sinergici

Il capitolo iracheno del Nuovo Medio Oriente di Bush

Mondocane fuorilinea
5/2/07
di
Fulvio Grimaldi

Un Iraq per la ruota della morte dell’Occidente
Difficile per me scacciare l’Iraq e il suo popolo dalla linea del fronte dei pensieri e sentimenti. C’ero arrivato nel 1977, tempi del vino e delle rose, e avevo seguito quelle genti attraverso tre guerre, tre devastazioni, tre rinascite, fino all’esecuzione sommaria da parte di boia a stelle e striscie, con la stella di Davide e con il concorso di manutengoli interni ed esterni, nel nome della “Civiltà Occidentale” e delle tanto tossiche quanto presunte “radici cristiane”. E tutti noi, iracheni e coloro che li conoscevano e perciò stimavano, rispettavano, amavano, navigavamo sull’esile barchetta della verità. I nocchieri erano eroi dell’informazione come Stefano Chiarini o Seymour Hersh, sbattuti, tempestati dalle feroci procelle della diffamazione di sistema, tanto omologa da destra e sinistra, dall’alto al basso, quanto lo era prima di Copernico la convinzione che la Terra fosse piatta e che il sole le girasse attorno. E chi lo metteva in dubbio, come Ippazia di Alessandra o Galileo, ne subiva le conseguenze. Ci volle poco, per Stefano e me, per capire che l’assalto israeliano al Libano, sancito dalla “comunità internazionale” con la risoluzione Onu 1701 (“colpa degli Hezbollah: disarmiamoli!”), non solo era elemento portante del piano israelo-statunitense per il Nuovo Medio Oriente, come apertamente ammesso da Condoleezza Rice (“Il Libano? Doglie di parto del Nuovo Medio Oriente”), ma che la concentrazione dell’attenzione mondiale su quella guerra aveva anche il compito di distogliere dalle simultanee e sinergiche strategie di soluzione finale in Iraq e Palestina.

Mi è capitato di riflettere su queste note mentre mi trovavo in una delle terre più vivaci, antiche-giovani, amabili e integre del nostro paese, la Puglia, là dove vicoli intorcinati e balconati e abbaglianti candori di facciate, animati da odori e sorrisi di altri tempi, mi richiamano quegli angoli di Baghdad o di Basra nei quali ancora si respirava l’aria degli abassidi e, sconosciuti, per quanto distanti, ci si incontrava spontaneamente da amici sotto le volte, cupole, ai tavolacci di stamberghe antiche tanto da sembrare quelle del grande padre Harun El Rashid. Ci rendiamo conto di quale riconoscenza abbiamo offerto a coloro che a noi, sordi e ciechi sotto la ferula di una Chiesa disumanamente repressiva, riportarono i perduti Aristotele, Platone, Euclide, Archiloco e ci agevolarono verso il riscatto del Rinascimento, quelle, sì, radici sane dei nostri migliori tempi moderni?  La riconoscenza di Goffredo da Buglione o di Riccardo Cuor di Leone e delle loro carneficine nel nome di Cristo ad Acri e Gerusalemme, quella dell’agente Lawrence d’Arabia che sottrasse gli arabi ai turchi solo per portarli in ceppi al suo re, quella di Golda Meir che negava l’esistenza dei titolari della casa predata, quella dei serial-killer Badoglio e Graziani in Libia, quella del generale Schwarzkopf che mandava i suoi carri a seppellire 100.000 soldati iracheni in ritirata e con le sue bombe all’uranio faceva iniziare l’estinzione dei genitori e figli della prima scrittura, arte, musica, legge, ruota dell’umanità, quella di Ratzinger che, nel pieno della riconquista barbarica del Levante, non si perita di lanciare contro l’Islam gli ottusi e strumentali anatemi di un bizantino  che annaspava nella decomposizione del suo “impero cristiano”?

Lì, tra muretti a secco e ulivi che ancora ricordano l’incontro con i “mori”, ulivi che danzano, si contorcono, si abbracciano, si sbracciano verso il cielo come implorando e si ripiegano verso terra, tanto da ricadervi frantumati, ma solo per  rigermogliare nei secoli. Straziante metafora arborea della disperazione di un popolo, antico come il primo degli ulivi, e della sua incorruttibile determinazione a resistere, a rivivere, alla faccia di Alessandro Magno, dei mongoli devastatori, dei bizantini, dei turchi, dei britannici, più spietati di tutti. Come non riandare, alla vista di tanto turbinio di vicende, sofferenze, ostinazioni, a quell’Iraq di prima dell’arrivo della nostra “democrazia” e dei nostri “diritti umani”,  che nella  democrazia viveva, la sua – se democrazia è rappresentanza degli interessi e concretizzazione dei sogni dei popoli e delle persone – e nei suoi diritti umani, se per diritti umani si intendono quelli della buona e giusta vita, in cui sia garantita la salute, la conoscenza, la casa, il lavoro, la vecchiaia, la donna, il bambino, l’ambiente, il futuro. A tutti. C’era, è vero, un padre severo, ma un padre che, anche a inevitabile scapito del singolo, sapeva condurre la sua comunità alla sicurezza, all’equità e alla dignità, contro tutti i venti di tempesta che mugghiavano ai suoi confini. Quell’equità e dignità e sicurezza che mille anni di imperi lontani e spietati avevano negato alla collettività, tollerandole soltanto nei ristretti ambiti di autogoverno della tribù, dove ne era garante il più saggio, il più coraggioso, il riconosciuto migliore. L’Iraq da questa vicenda millenaria uscì con la rivoluzione anticoloniale del 1958. Di quale modello poteva dotarsi? Di quello degli oppressori che ne avevano decimato il popolo, tenendone i sopravissuti nell’ignoranza e nella negazione di ogni diritto?
Dall’Iraq, a destra e a sinistra, eurocentricamente e arrogantemente si pretendeva che si desse, di colpo, un’organizzazione istituzionale come quella che da noi ci aveva messo tre secoli e altrettante rivoluzioni a maturare e oggi già appartiene alle manifestazioni peggiori della decadenza, della corruzione e dell’iniquità. Se ne pretendeva la scopiazzatura di questo modello, purchè in posizione subordinata, a nostra disposizione, per il nostro soddisfacimento etico di padroni-maestri e, di più, per i nostri eccessi di benessere. Insomma un cavallino ammaestrato, danzante e rampante, nell’arena del Gran Circo Occidente. Messo a girare nella Ruota della Morte. E la pretesa era accompagnata dalla più massiccia e violenta campagna di diffamazione e di menzogne che popolo o classe dirigente abbia mai subito, per giustificarne il morso incastrato tra i denti, la cavezza imposto al collo, la frusta abbattuta sul groppone e, nel caso si rifiutasse alla doma, l’abbattimento come suole a Siena.

Chi volle la guerra Iraq-Iran?
Per sottrarsi allo tsunami di falsità, occultamenti, distorsioni che, dai tempi della rivoluzione del 1958 e, peggio, da quella del 1968, che allontanò definitivamente l’Iraq dal campo filo-occidentale, offuscano e stravolgono il ruolo dell’Iraq e del suo gruppo dirigente, occorre prenderla un po’ alla lontana. Per esempio dal cruciale rapporto tra Iraq e Iran, con Usa e Israele che tifano dalla balconata, allora come oggi interpretato e trasmesso all’opinione pubblica in versione opposta alla realtà, con il solito scopo di demonizzare coloro che per tutta la seconda metà del secolo XX furono il massimo ostacolo alla riconquista coloniale della regione del petrolio.

Sotto le bombe iraniane in Kurdistan
Maggio 1980. Era una di quelle giornate che nel Kurdistan iracheno raggiungono il diapason dell’azzurro, tra infinità desertiche in basso vibranti di sole e azzurri nitori alpini in alto. Amici iracheni ci avevano fatto visitare Irbil, capitale storica di questi curdi, con in mezzo il cocuzzolo formato da un terrapieno coronato dalla formidabile fortezza prima moresca e poi ottomana. Sotto, un brulichio di vicoli, colori, lavori. Erano le opere del governo per dare lustro alla città rinominata capitale del Kurdistan. Già, perché fin dal 1972, il presidente Hassan al Bakr e il suo vice, Saddam, avevano concesso alla regione autonomia e autogoverno, parlamento ed esecutivo a Irbil, università curda a Sulemanieh, il curdo promosso a seconda lingua ufficiale del paese, che tutti i ragazzini dovevano imparare a scuola. Quello che percepivamo, attraversando il Kurdistan dall’araba Kirkuk, ancora non curdizzata dalle milizie del fiduciario israeliano Massud Barzani, a Mosul, era la soddisfazione di un popolo che si era visto riconoscere quanto nessuno dei paesi in cui era sparso, Siria, Iran, Turchia, aveva mai avuto: una forte autonomia, purchè non mettesse in discussione il modello economico-sociale, di stampo socialista, la difesa nazionale, la politica estera antimperialista e antisionista e la partecipazione al formidabile sviluppo di una grande nazione, al cui governo centrale partecipava con il suo Partito Democratico Curdo, insieme al partito Baath e a quello comunista. Un milione di curdi (su sei) erano scesi dalle loro montagne e da un’arretratezza millenaria per trasferirsi a Baghdad, confusi al milione di lavoratori sfuggiti alla miseria dell’Egitto dell’amerikano Sadat, per lavorare in un paese che aveva sconfitto disoccupazione, ignoranza, analfabetismo, subalternità della donna, abbandono sanitario, povertà,  e in cui il divario tra salario più basso e salario più alto era da 1 a 18 (da noi, oggi, da 1 a 280)

Il nostro viaggio ci portava verso il confine iraniano, lungo una strada che ancora si stava scolpendo nella roccia, sotto svettanti agglomerati di abeti. Dormimmo in un villaggio turistico costruito alla finlandese da finlandesi, le nevi si stavano sciogliendo in rivoli che infangavano i sentieri. Non chiudemmo un occhio per due notti, causa l’ininterrotto scoppio di granate. Non ci avevano avvertito, speravano che l’esperienza ci sarebbe stata risparmiata. Da diverse settimane gli iraniani provocavano sparando oltre frontiera con obici di lunga gittata. Anche quella volta. Poi, nel barbaglio di quelle nevi, ci portarono a vedere i crateri. Alcuni si aprivano dove prima c’erano case e botteghe. Solo a settembre di quell’anno Baghdad si risolse a rispondere, dopo aver offerto al chierico nuovo sovrano d’Iran, succeduto allo Shah, mille occasioni di negoziato. Offerte di pace reiterate quando, un anno dopo, l’esercito iracheno era penetrato in profondità, ma che Khomeini respinse per ben 8 anni. Lo attestano i documenti di tutte le cancellerie.

Iran islamista contro Fronte del Rifiuto
Ma noi eravamo venuti in Iraq per assistere a un convegno internazionale di sindacati operai e movimenti e partiti comunisti, socialisti e progressisti, associazioni di solidarietà araba, di quelli che tra l’Avana e Baghdad mantenevano vivo un tessuto di resistenti al capitalismo e all’imperialismo nuovamente affamato dopo il trauma del Vietnam. Tema della conferenza era una mobilitazione mondiale contro la resa di Camp David, quando l’egiziano Sadat e l’israeliano Begin si accordarono sulla pelle del popolo palestinese e dei suoi diritti. Si trattava di rafforzare il Fronte del Rifiuto, creato da Saddam in risposta al tradimento del Cairo e che era riuscita a strappare al concerto israelo-egiziano-statunitense ben 17 paesi arabi su 22. Era questo Fronte del Rifiuto, cui partecipavano anche le organizzazioni di sinistra palestinesi che mai sarebbero scese per la china disfattista poi percorsa dal gruppo dirigente, a costituire la spina nel fianco del  già maturo e articolato progetto espansionistico di Israele e della liquidazione di ogni residua resistenza nazionale e laica araba dal Marocco all’Iraq. Era il Fronte del Rifiuto, ultimo anello di una catena virtuosa che aveva visto succedere alla nazionalizzazione del petrolio nel 1972, il trattato di amicizia e mutua difesa con l’URSS, l’autonomia curda, un modello sociale in controtendenza all’offensiva del capitalismo predatore eufemisticamente chiamato “liberismo”, ad aver determinato le potenze occidentali a farla finita con questo Iraq laico, socialmente equo, nazionalista nel senso migliore del termine. E lo strumento prescelto era l’Iran. Decenni di menzogne politiche e mediatiche hanno da allora cercato di ribaltare questo dato, invertendo i ruoli di aggredito e aggressore. Non si fa così anche in Palestina, tra carnefice e vittima? In Jugoslavia? A Cuba? In Irlanda?  Nella Genova del G8?

Strozzare l’Iraq, gassare i curdi iracheni, dare la colpa a Saddam
L’ayatollah Khomeini era ritornato l’anno prima da Parigi, con un aereo statunitense, sull’onda dell’insurrezione di tutto un popolo contro la dittatura del fantoccio Usa, il raccogliticcio imperatore Reza Shah. Eliminate in un oceano di sangue tutte le componenti non “ortodosse”, nel senso del fondamentalismo scita, della rivoluzione, le vere avanguardie, i comunisti, fedayin marxisti, mujaheddin Al Khalk, islamici laici e, a finire, i curdi, speranzosi di un’autonomia ispirata a quella dei fratelli in Iraq, Khomeini si diede a predicare la scitizzazione universale e, nell’immediato, del mondo arabo, preda millenaria. L’adiacente Iraq ne era l’articolazione politica, culturale e militare più forte e rappresentativa. Faceva leva, Khomeini, sulla gerarchia scita, influente tra le masse del Sud Iraq e che, già ai tempi del suo collaborazionismo con gli inglesi, aveva dato prova di anteppore la comunanza confessionale al fascino del patriottismo e della coesione nazionale. Mentre ininterrottamente, da radio e tv iraniane, Khomeini e altri esponenti del regime  sollecitavano le masse irachene “ a rivoltarsi contro l’apostata Saddam e a rovesciare il regime iconoclasta”, sul piano delle provocazioni diplomatiche ci fu la pretesa di Tehran di annullare gli accordi sui confini conclusi ad Algeri con Baghdad nel 1975. I persiani rivendicavano la sponda occidentale dello Shatt el Arab, contro il trattato che aveva posto la linea di confine in mezzo al fiume, le isole nell’estuario che avrebbero bloccato l’apertura dell’Iraq sul Golfo, e addirittura territori nel Kurdistan iracheno. Nel frattempo, infiltravano loro attivisti tra le popolazioni del Sud, a Basra, Najaf, Kerbala, con il compito di attivare un’insurrezione. Il punto di non ritorno fu la minaccia di Khomeini di chiudere all’Iraq lo Stretto di Hormuz, sbocco del Golfo Arabo-Persico e unica via per l’export iracheno. Dunque, sua vena giugulare. Contemporaneamente il regime degli ayatollah rendeva un altro grosso favore al settore più bellicoso e reazionario delle èlite statunitensi, tenendo occupata l’ambasciata Usa a discredito di un presidente moderato, Jimmy Carter (colui che più tardi si sarebbe attirato le ire del sionismo denunciando l’apartheid dello Stato israeliano) e favorendo così la vittoria di Ronald Reagan, iniziatore della fase più rozzamente aggressiva e autocratica dell’imperialismo, al quale fu regalata la liberazione dei diplomatici in ostaggio. 

Nel settembre 1980 il governo di Baghdad aveva denunciato all’Onu, alla Conferenza Islamica e al Movimento dei Non Allineati ben 941 violazioni armate del proprio territorio. Il ministro degli esteri iracheno chiedeva l’ennesimo incontro con l’omologo iraniano. Per tutta risposta il concistoro di Tehran chiudeva all’Iraq il traffico sullo Shatt El Arab, una condanna a morte, e scatenava pesanti bombardamenti su quattro città di confine. Fu l’inizio di una guerra alla quale Kissinger augurò di dissanguare i due popoli e che costò un milione di morti (www.uruknet.de/?s1=1&p=30714&s2=17). Alla fine, nel 1988, l’esercito iraniano utilizzò ripetutamente l’arma chimica contro quello iracheno. Lo documentarono tutti i media, poi lo dimenticarono. Accadde anche a Halabja, spunto per una delle accuse più infamanti a Saddam: aver gassato la propria gente. Come risulta da testimoni e relazioni di tutti i servizi segreti interessati, su Halabja finirono, involontariamente, sospinti da un vento maligno, gas sparati dai persiani contro gli iracheni. Non furono certo 8000 le vittime (8000 è una cifra di repertorio, suona bene, funziona anche per la truffa di Sebrenica, in Bosnia), ma alcune decine. Però fu accertato, anche dai patologi, che furono uccisi da gas al cianuro, nervino, che si sa per certo non era nelle disponibilità irachene. Divenne una delle maxiballe che dovevano incidere nelle nostre coscienze, capitalisticamente governate dalla paura, la minaccia di una specie di Gozilla arabo. Alibi per quella che invece sarebbe diventata la più spaventosa mattanza umana dei tempi moderni (New York Times, Stephen Pellettier, 31/1/2004).

Uno strumento per farla finita con il mondo arabo laico e antimperialista. A sinistra si straparla di “uomo degli americani”
I rottweiler da combattimento, a cui l’Iraq aveva sottratto l’osso coloniale, erano riusciti a trovare chi si sarebbe incaricato della vendetta. Da allora, attraverso Afghanistan, Algeria, Cecenia,  Bosnia, l’utilizzo dello strumento del fanatismo islamico, sollecitato ad arte da varie agenzie statunitensi, divenne una costante nell’armamentario della  destabilizzazione e della guerra globale e permanente imperialista. E a Osama Bin Laden, vecchio strumento occidentale della guerra all’Afghanistan laico e progressista e all’Armata Rossa venuta in suo soccorso, fu dato il nuovo incarico di contribuire alla distruzione della Jugoslavia in Bosnia e in Kosovo. Islam cosiddetto politico, poi tornato utile nella guerra contro l’Iraq, al punto che Israele, mentre disintegrava con un’incursione pirata (mai sanzionata dall’Onu) la centrale nucleare irachena, Osirak, forniva piloti istruttori e ricchi armamenti a Khomeini. Si ricorderà, a dispetto dell’oblio forzoso imposto da tutta la stampa, lo scandalo Iran-Contras quando, con il ricavato della vendita di armi israeliane ai persiani, la ciurmaglia di Reagan, John Negroponte, Elliott Abrams, Oliver North (tutti neo-sion-con attivi, poi, nella mattanza irachena di oggi), istruiva, finanziava e armava i tagliagole Contras contro i patrioti in Salvador e i sandinisti del Nicaragua. Non si fa torto a nessuno quando si dice che Khomeini – allora adorato dall’ammazza-musulmani della “7”, Carlo Panella, cellula della giulianoferraresca neoplasia mediatica – finanziò e armò gli assassini del popolo salvadoregno e della rivoluzione sandinista. Sia un promemoria per coloro che ancora oggi, a sinistra, si affidano alla fede in un antagonista persiano dell’imperialismo. Oppure al mito, specialmente diffuso nella sinistra di nostalgie staliniste, di un Saddam “uomo degli americani” negli anni ’80. Mito che di solito viene fondato su una prova “inconfutabile”: la foto di Donald Rumsfeld, emissario di Reagan, e Saddam che si stringono la mano a Baghdad nel 1982. Peccato che la didascalia della foto non ricordi che Rumsfeld era nella capitale irachena per perorare la riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa, arteria di un greggio fortemente voluto da Israele. Apertura seccamente rifiutata da Saddam. L’Iran ha servito l’Occidente fin da quando Shah e Cia fecero fuori Mossadeq, il Premier che, primo nel Terzo Mondo, azzardò l’offesa suprema: la sottrazione del petrolio ai forzieri delle èlite occidentali. Oggi, con la spregiudicatezza e l’astuzia che rendono quei preti assai affini a quelli annidati in Vaticano, l’Iran, emergente potenza regionale, gioca su tutti i tavoli, con ruoli diversi e addirittura opposti in commedia, dal sostegno agli antimperialisti Hezbollah  alla collisione con gli imperialisti in Iraq, forte di un cinismo di cui sembrano capaci solo coloro che la religione ha educato ai vertici dell’ipocrisia. Vale per Tehran, come per gli eletti del Libro Sacro a Tel Aviv, come per i fondamentalisti evangelici di Washington, come per i dotati di rivelazione in San Pietro.

Iran potenza regionale senza concorrenti grazie agli anglo-americani
L’alleanza tra persiani e coalizione  israelo-occidentale per la liquidazione di ogni residuo di una nazione araba sovrana, indipendente, proprietaria delle proprie risorse (che sono poi quella decisive per la sopravvivenza del capitalismo tutto), si ripropone sia nella prima che nella seconda Guerra del Golfo. Ma fu anche alimentata dai cospicui aiuti che il Congresso Usa stanziò per l’Iran, in ognuno degli anni finanziari tra l’inizio e la fine della guerra con l’Iraq. Se ne può trovare traccia nei documenti ufficiali dei National Security Archives. A destra e a sinistra si favoleggiò, invece, di un Iraq armato dagli Usa, quando in quel paese non giunse mai neppure una colt nordamericana. Si rivedano, a proposito, le immagini delle due guerre del Golfo e degli armamenti iracheni, esclusivamente sovietici e di vecchia generazione. Anche all’assalto dei trenta e passa paesi (Italia compresa) all’Iraq, reo di essersi ripreso il Kuwait, cioè la 17. provincia sottratta nel 1927 dagli inglesi, che gli rubava il petrolio da sotto il confine e ne boicottava la ripresa economica dopo il dissanguamento della guerra, abbassando drasticamente, su direttiva Usa, il prezzo del petrolio, l’Iran diede il suo contributo. Prima, sequestrando l’intera flotta aeronautica irachena che Saddam aveva trasferito a Tehran, fidando nell’ antimperialismo verbale di Khomeini e, poi, a Iraq massacrato, infiltrando nel Sud scita e nel Nord curdo migliaia di pasdaran che avrebbero dovuto completare l’opera degli alleati sollevando queste minoranze contro il governo. L’impresa, già tentata e sventata dopo la guerra Iraq-Iran, fallì per la reazione delle residue forze governative irachene e, soprattutto, per la scarsa adesione delle popolazioni coinvolte. Non vi fu allora, l’atteso appoggio ai rivoltosi da parte degli anglo-statunitensi, ma più tardi gli Usa compensarono questo “tradimento” offrendo all’Iran una vittoria strategica, liquidando d’un sol colpo i suoi nemici storici: l’Iraq laico, con un embargo genocidi di 13 anni (2 milioni di morti, di cui un terzo bambini) e la successiva occupazione-disintegrazione, e con l’Afghanistan dei Taliban polverizzato grazie al falso alibi delle Torri Gemelle..

Il mondo se la prende con i “terroristi” Hezbollah e dimentica l’olocausto iracheno
Fino a quando la pulizia etnica israeliana mantenne il suo ritmo “normale” di assassini mirati, distruzione di terre e case, arresti e punizioni collettive, progetto genocida mascherato a un certo punto dal ritiro dei coloni da Gaza, che a Ariel Sharon guadagnò il riconoscimento addirittura di Bertinotti di “uomo di pace”, e fino a quando in Iraq l’inarrestabile avanzata della guerriglia saddamita e islamica equilibrava il mattatoio degli squadroni della morte allestiti da John Negroponte sul modello salvadoregno, l’attenzione del mondo riservava a questi processi una certa attenzione. Il movimento per la pace ne traeva la forza per imporsi sulle piazze e esercitare una discreta influenza su settori politico-parlamentari di opposizione al guitto dell’imperialismo Berlusconi. Ma l’annunciato ritiro del contingente italiano dall’Iraq  e poi lo scoppio della guerra al Libano sottrassero in buona misura quegli avvenimenti dallo scenario mediatico e politico e l’apparente inedito ruolo neutrale, “equivicino”, come lo definiva il nuovo governo dell’Unione col pieno consenso delle sinistre, fece ammutolire la maggioranza delle voci antiguerra e offrì agli occupanti in Iraq e Palestina il destro per accelerare verso la progettata soluzione finale. Il Libano, insomma, funzionò da schermo.

Da Samarra alla “soluzione finale” in Iraq, Palestina, Libano, nel segno del Nuovo Medio Oriente israelo-statunitense
Il 12 febbraio 2006 saltò per aria uno dei monumenti storici e religiosi più importanti dell’Iraq e di tutto l’Islam: la cupola d’oro della moschea di Samarra.
Non ci fu mezzo d’informazione, da destra a sinistra, che riportasse un dettaglio decisivo di quella vicenda: il fatto che elementi armati del Ministero degli interni, coperti da reparti Usa, la sera prima erano penetrati nel tempio e vi erano rimasti per diverse ore. Con ogni verosimiglianza per allestire il botto. Una guerra civile tra sunniti e sciti che nelle intenzioni degli occupanti – e secondo il piano commissionato dall’Amministrazione Bush alla Rand Corporation, intitolato “Strategia Usa nel mondo islamico dopo l’11/9” -  avrebbe dovuto portare alla tripartizione del paese tra Nord curdo, sotto protettorato israeliano (garante dei rifornimenti petroliferi a Tel Aviv), centro sunnita, inoffensivo, privo di risorse  e tenuto in ceppi da basi e controlli Usa (all’italiana),  Sud scita, di obbedienza congiunta iraniano-angloamericana, era stata fino a quel momento ostacolata dalla radicata cultura interconfessionale del popolo iracheno. Conviene qui anche ricordare l’analogo “Piano sionista per il Medio Oriente” elaborato nel 1982 dal consigliere militare di Begin, Oded Yinon, che, assunto dal governo israeliano, prevedeva una strategia di lunga lena per la disarticolazione dell’intero mondo arabo attraverso la promozione di conflitti tribali, religiosi, etnici, fino allora sopiti nella tradizione della tolleranza islamica e dell’ideale panarabo. 

Il vecchio strumento Al  Qaida per la divisione dell’Iraq e contro la Resistenza
Da secoli, sunniti, sciti, ebrei, turcomanni, assiri, cristiani, curdi avevano convissuto senza tensioni, la stragrande maggioranza dei matrimoni erano misti e misti erano i quartieri di Baghdad e delle maggiori città. Furono gli attentati del Mossad, negli anni ’50, a sconvolgere la secolare convivenza degli ebrei d’Iraq e ad avviare una deportazione che li sradicò da una terra di armonia e tolleranza per sprofondarli, sefarditi, in una condizione di subalternità ai dominanti ashkenaziti di origine europea. Ci volle un tale Pantarelli, giornalista del “manifesto”, a definire deliranti le affermazioni, condivise da tutti i conoscitori e dal collega Stefano Chiarini, secondo cui sotto Saddam le religioni presenti erano rispettate e onorate alla pari. Lo Stato laico del Baath aveva garantito la sicurezza e il rispetto di tutte le confessioni. La consapevolezza di appartenere a una grande comunità nazionale, parte integrante del più grande contesto storico e culturale del mondo arabo, aveva negato il successo all’operazione negropontiano-iraniana di frantumare il paese per linee etnico-confessionali. Quante volte, prima, durante e dopo l’aggressione mi sono sentito ripetere “Siamo prima iracheni e poi sunniti, sciti, cristiani…”  Merito di chi aveva saputo costruire una nazione intorno a valori condivisi e dare autostima a un popolo percosso da abusi secolari. I successivi governi fantoccio dei collaborazionisti sciti, con personaggi religiosi e politici tutti indistintamente legati all’Iran (e spesso addirittura di origini iraniane), pur disponendo di milizie addestrate, armate e finanziate in armonica intesa da Tehran, Washington e Tel Aviv, e pur compiendo un numero terrificante di provocazioni stragiste nei diversi ambiti, non erano riusciti a scatenare l’armagheddon decisivo. E’ vero che l’occupante aveva fatto di tutto, rubando, incendiando e disperdendo al vento le testimonianze di sei millenni di civiltà, distruggendo musei e biblioteche, devastando e rapinando siti archeologici ineguagliabili. E’ vero che, con input dei servizi israeliani, l’Iraq aveva subito la decapitazione della sua intellighenzia, con migliaia di accademici, scienziati, medici, ingegneri, professionisti, assassinati e costretti a espatriare; è vero che le condizioni di vita della popolazione erano ridotte, in mancanza di infrastrutture, servizi essenziali, elementi basilari per la sussistenza (cibo, farmaci, acqua potabile, energia), a livelli di inenarrabile degrado. Ma è anche vero che ogni tentativo di aver ragione della Resistenza, diretta da forze che da decenni si erano preparate alla guerra asimmetrica e sostenuta dagli esperti quadri dell’esercito di Saddam e dalle milizie civili, si scontrava con l’appoggio della maggioranza della popolazione.  Ma, in qualche modo, né il terrorismo generalizzato, articolato sulla tecnica dell’intimidazione di massa attraverso rastrellamenti, distruzioni di case, stupri di massa, tortura sistematica di detenuti, sequestro di ostaggi famigliari per ottenere la resa dei combattenti, né la distruzione di intere città con armi proibite, da Falluja a Ramadi, ai tanti centri del cosiddetto Triangolo Sunnita, avevano avvicinato l’obiettivo della frantumazione del paese e della fine della Resistenza.

Le operazioni militari di quest’ultima erano cresciute da 40 al giorno, nell’estate del 2003 a un centinaio per tutto il 2005. Calcoli dei comandi Usa facevano ammontare a circa 200.000 i combattenti della Resistenza. La massima parte del territorio iracheno era stata riconquistata al controllo della Resistenza e delle grandi tribù, sunnite, scite o miste, i cui capi non facevano che ribadire la propria solidarietà alla lotta di liberazione, per poi vedersi sventrare le case e le famiglie da incursioni contro “cellule di Al Qaida”. Con la distruzione della Cupola d’oro di Samarra, rievocatrice di analoghe operazioni di occupanti coloniali, dalle bombe dell’OAS tra i musulmani in Algeria, agli attentati dinamitardi contro civili in Irlanda attribuiti all’Ira, ma poi confessati da agenti britannici, lo scopo doveva essere raggiunto, anche al costo di un pianificato tsunami di orrori e di sangue. Con il beneficio correlato della deviazione verso lo scontro fratricida di una lotta nazionale contro l’occupante e i suoi ascari che crescente imbarazzo e disaffezione popolare stava causando all’amministrazione dei fondamentalisti evangelico-sionisti attorno al debilitato Bush. E’ in questa fase che torna sulla scena alla grande Al Qaida reclamizzata con a capo un inafferrabile fantasma, Abu Mussa Al Zarkawi, un piccolo e rozzo malvivente giordano del quale si proclama la morte in battaglia solo quando le sue presunte infinite fughe per un pelo e la cattura di un numero grottesco di suoi “bracci destri” rendono l’invenzione del tutto ridicola. Anche perché venivano alla luce testimonianze, comprese quelle della sua famiglia giordana a Zarka, sulla sua morte sotto le bombe in Kurdistan nel 2003 e sul successivo funerale pubblico. Ma di fronte all’orrore del mondo per il disvelamento della vera natura dei responsabili statunitensi, israeliani e dei loro reggicoda ad Abu Ghraib e alla macellazione di un popolo intero per mano degli occupanti e delle loro milizie (mercenari italiani compresi), a chi si poteva addossare la responsabilità se non a quell’organizzazione Cia di Osama Bin Laden (anche lui defunto, secondo fonti giornalistiche e governative pakistane, nel 2001, ma resuscitato da una successione di improbabili video), che le popolazioni, le forze della Resistenza, i capitribù dichiaravano del tutto inesistente in Iraq? Ma quando mai si può dar credito a dei “terroristi”? E se circolavano volantini firmati “Al Qaida”, non erano forse circolati nelle madrasse degli studenti di teologia afgani i manuali stampati in Texas dalla succursale Cia, National Endowment for Democracy (NED), che incitavano alla jihad e insegnavano come far esplodere vite e edifici?

Chi mette le bombe: la tecnica delll’11 settembre nei mercati di Baghdad
Fu l’ambasciatore John Negroponte a rilanciare in Iraq la “opzione Salvador”
da lui collaudata nel Centroamerica degli anni’80. Qui il ruolo dei Contras venne assegnato, con grande soddisfazione e sostegno materiale di Tehran, alle milizie dei partiti sciti Dawa e Sciri (Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Iran),  ai quali erano legati tutti i primi ministri quisling – Al Jaafari, Alawi, Al Maliki - succedutisi dal primo “governo provvisorio” del viceré Usa, Paul Bremer, e “legittimati” via via da elezioni-farsa alle quali la maggioranza sunnita non partecipava e la minoranza scita partecipava sotto la minaccia della fatwa dell’ayatollah iraniano Al Sistani, trapiantato dall’Iran a Najaf. E se le milizie Al Badr, dello Sciri di Abdelaziz Al Hakim, avevano legami organici con il ministero degli interni, nelle cui segrete venivano torturati e trucidati a centinaia resistenti veri o presunti e, comunque, sunniti, quelle del chierico che dominava la città-sobborgo di Sadr City (già città-modello per i profughi dal Sud uranizzato da Bush padre, poi ridotto a fatiscente slum), Moqtada al Sadr, chiamate “Esercito del Mahdi”, agivano da pretoriani del premier Nuri Al Maliki. Lo scatenamento pieno di queste milizie, i cui capi si potevano periodicamente incontrare in colloqui con i massimi dirigenti iraniani (ci fu anche un affettuoso incontro tra Al Hakim e Bush), si realizzò, con indiscriminata ferocia, soprattutto dopo l’attentato di Samarra. In precedenza erano state le forze speciali degli occupanti ad assumersi il compito, collaudato in varie guerre coloniali, della provocazione stragista.

Si ricorderà il clamoroso episodio del 2005, quando a Basra un inconsapevole posto di blocco della polizia-fantoccio tentò di fermare una camionetta condotta da due “arabi” con indosso tanto di jallabiah e kefiah. Appena scoperto che non di arabi si trattava, ma di due agenti britannici delle famigerate SAS (Special Air Services), esperti disseminatori di bombe a Aden e a Belfast, costoro aprirono il fuoco e uccisero due poliziotti. Arrestati, nel veicolo si scoprì una vera e propria santabarbara pronta ad esplodere con comando a distanza. Erano diretti verso l’affollata piazza del mercato antistante una moschea. Prima che potessero essere interrogati, una colonna di carri armati inglesi, sparando all’impazzata, penetrò nella prigione dove erano trattenuti, abbattendone il muro di cinta e se li portò via. Analoghi episodi furono poi raccontati a giornalisti e testimoni vari da possessori di autovetture a Baghdad che, essendosi vista sequestrare la macchina da militari o poliziotti e essendo stati invitati a ritirarla qualche giorno dopo, accidentalmente la scoprirono imbottita di esplosivo. In due occasioni, riferite dal prestigioso giornalista dell’ Independent londinese, Robert Fisk, ai proprietari delle auto recuperate fu detto di dirigersi in una certa area, sempre piena di gente, un mercato o una moschea, e di chiamare al cellulare il comando di polizia per riferire cosa stava succedendo. In un caso il cellulare non aveva campo, il conducente si allontanò  per chiamare e in quel momento vide saltare per aria la sua vettura; nell’altro, sempre perché il telefonino non prendeva, l’uomo chiamò da un telefono fisso, con lo stesso risultato. Dal che non è difficile capire chi tenesse il dito sul pulsante del terrorismo iracheno. Con ogni certezza gli stessi che sistematicamente rapivano, e volte uccidevano, giornalisti o pacifisti stranieri, da Giuliana Sgrena alle Simone del “Ponte per…” (incastonate nella nostra memoria per l’indecorosa sceneggiata della finta liberazione gestita dal crocerossino Scelli, con il concorso di compiacenti operatori televisivi), dai giornalisti francesi al povero statunitense Nick Berg, processato e decapitato in un video da un Al Zarkawi che, miracolosamente, aveva recuperato la gamba persa in Afghanistan e parlava con l’accento arabo di uno straniero. Un attento esame del filmato mostrò che l’ambiente delle riprese, pavimento, arredi, pareti, tinteggiatura, erano del tutto identici agli interni di Abu Ghraib… Tutto questo non lo vedevano, ovviamente, solo i giornalisti embedded, arruolati, ma anche, incredibilmente, giornalisti di sinistra come Giuliana Sgrena, affetti da un bigottismo eurocentrico per il quale condividevano con l’aggressore tutti gli stereotipi propagandistici, a partire dal “terrorismo islamico” e da “Al Qaida”.

Angloamericani e iraniani: due avvoltoi sul corpo dell’Iraq
A partire da Samarra, alle bande armate filo-iraniane venne data totale libertà d’azione. Si distingueva per particolare efferatezza la milizia del doppiogiochista Moqtada Al Sadr, il giovane prete che, con due rivolte antiamericane, a Najaf e a Sadr City di Baghdad, si era guadagnato la nomea di capopopolo scita contro gli occupanti. Il ruolo effettivo da lui invece assunto, per conto sia degli occupanti sia, in misura privilegiata, degli iraniani, era quello di sterminatore di ogni presenza baathista – incessanti erano le sue manifestazioni intorno al tribunale in cui si processavano, si fa per dire, i dirigenti del governo legale, e nelle quali turbe di fanatici invocavano l’esecuzione immediata di Saddam – e della pulizia etnica dei quartieri sunniti di Baghdad. All’interno di queste operazioni assumeva un carattere particolarmente odioso la persecuzione di Al Mahdi contro i profughi palestinesi. Ce n’erano a Baghdad 40.000, cui Saddam aveva costruito un quartiere di particolare pregio. Dopo le ininterrotte irruzioni dei tagliagole di Moqtada, nell’inverno 2006-2007, ne erano rimasti 17.000. Gli altri, o trucidati, o fuggiti verso il confine siriano dove, al momento in cui scrivo, tuttora languono in tendopoli esposte al gelo e alla fame, inibiti dall’entrare in Siria, dimenticati dal mondo, anche da coloro che solidarizzano con la Palestina. Nelle loro case vivono gli sgherri del prelato scita.

Saddam sul patibolo, il petrolio in tasca alla criminalità occidentale
La guerra civile, funzionale alla frammentazione del paese e all’emarginazione della Resistenza nazionale, doveva precipitare a tutti i costi. Così a Samarra seguono, con cadenza infernale, altre stragi, nelle moschee, nei mercati, nelle università, nelle scuole,  mentre i marines e l’aviazione Usa si occupano  delle incursioni fuori dalla “Zona Verde” in cui sta rintanata la dirigenza degli occupanti e dei loro pseudo-governi, con spedizioni terroristiche contro i centri di cui si sospetta che alimentino la Resistenza. La quale, dal canto suo, riesce ancora a incrementare la sua efficacia fino ad arrivare, agli inizi del 2007, a una media quotidiana di cinque militari Usa caduti e di circa 120 operazioni  in tutto il paese, mentre gli elicotteri degli occupanti vengono tirati giù al ritmo di almeno uno alla settimana. Il caos è totale, la vergogna di un olocausto paragonabile per efferatezza ai peggiori della storia e ormai a questi superiore per durata e dimensione splatter, intacca anche quel che rimane del sostegno o della comprensione per la strategia della cricca Bush, i contingenti dei paesi complici nell’occupazione si ritirano uno dopo l’altro, le elezioni di medio termine negli Usa – stavolta non falsate dai brogli bushiani -  vanno ai democratici, i sondaggi non fanno in tempo a seguire la rotta dei consensi a Bush, nel mondo riprende vigore un movimento della pace depurato dei suoi elementi più ambigui. Diventa sempre più evidente che, se ci sono vincitori in Iraq, non sono gli Usa, ma piuttosto la Resistenza, indomata e in crescita in tutto il paese e, per quanto riguarda il controllo politico-militare delle istituzioni fantoccio e le pulizie etniche, il complice-rivale Iran con i sicari sciti al centro e i peshmerga curdi nel Nord-Est. A questo punto il rapporto tra occupanti occidentali e forze politico-militare-religiose allineate a Tehran, risoltosi in questi mesi nettamente a favore degli iraniani, rischia di subire una mutazione da collusione a collisione. Anche perché incominciano a irritarsi gli alleati storici degli Usa nella Penisola arabica, sauditi in testa, alla cui destabilizzazione ad opera della contestazione sociale interna concorrono ora anche gli agitatori della minoranza scita. Si rischia un’esplosione incontrollabile di tutta la regione. E non nel senso della ristrutturazione vaticinata dal Nuovo Medio Oriente. A Washington il subumano nella Sala Ovale può registrare solo due soddisfazioni: l’immonda farsa del processo e dell’ esecuzione di Saddam, “colui che ha attentato al mio papà”, per le mani di una feccia schiamazzante, incluso a quanto pare anche lo stesso Moqtada. Soddisfazione peraltro minata dallo straordinario coraggio e dignità del presidente iracheno, innesco di una vasta, commossa e rabbiosa mobilitazione panaraba. L’altra soddisfazione la dà a lui e ai suoi sostenitori  la scandalosa legge sul petrolio approvata da un parlamento di venduti a inizio 2007. Legge che rimedia alla nazionalizzazione dell’”uomo degli americani” con la cessione del 75% della ricchezza irachena alle multinazionali dell’impero, esentasse, con tutti i  profitti rimpatriati, manco fossimo nel 1920 dell’apice della rapina coloniale. C’è solo da consolarsi col fatto che gli ininterrotti sabotaggi degli oleodotti e pozzi petroliferi ad opera dei partigiani iracheni stanno mandando in vacca questo furto con destrezza delle multinazionali, Eni, garantita dagli “eroi di Nassiriya”, compresa. 

Fermare la Resistenza, contenere l’Iran. Dal piano Baker al piano Bush al piano Baker
E’ il momento dell’Iraq Study Group messo in piedi da Bush nell’autunno del 2006, affidato all’ex-segretario di Stato James Baker e a Lee Hamilton e che produce un proposta per il quale dal pantano si può sperare di uscire soltanto con un ritorno alle armi della diplomazia e con il coinvolgimento dei paesi vicini, Siria e Iran. La banda integralista attorno al presidente, legata mani e piedi agli estremisti della comunità ebraica e a Israele, nonché al complesso petrolifero e militarindustriale, uscito enormemente rimpinguato dall’operazione Iraq, non ne vuole sapere e induce Bush a rilanciare: altri 21.000 soldati di un esercito che non ce la fa più, minato da demoralizzazione e droghe e a cui vengono a mancare gli effettivi; altre migliaia di mercenari, oltre ai centomila già impegnati nel fiancheggiamento delle truppe, altre ondate di bombardamenti sui civili e, sul piano diplomatico, una più accentuata aggressività verbale nei confronti dell’Iran, corroborata da una formidabile escalation della presenza aeronavale nel Golfo e nel Mediterraneo. Che però si deve prendere cura di Siria, Afghanistan, Somalia e Sudan. Ma la svolta avviene anche sollecitata dai paesi clienti degli Usa nel mondo arabo, in prevalenza sunnita, dall’Egitto all’Arabia Saudita, preoccupati, nella loro fragilissima posizione di regimi antipopolari, costantemente minacciati dalla contestazione di masse diseredate e escluse, ma ancora profondamente legate all’obiettivo panarabista, dalla travolgente avanzata dell’espansionismo scita di marca persiana. Ignorando il piano Baker, Washington si illude ancora una volta di poter avere ragione – attraverso l’operazione Surge di imposizione a qualsiasi costo della “sicurezza” a Baghdad,  in qualche altro centro del paese ormai dato per perso nella maggior parte del suo territorio – sia della Resistenza nazionale, intatta e all’offensiva dopo oltre quattro anni, durante i quali gli Usa hanno gettato nel conflitto tutto quello che avevano, sia del concorrente iraniano. Gli alleati arabi, che all’ottusità militarista teo-neo-con oppongono una ben più consapevole e antica conoscenza delle cose nella loro regione, non si rassegnano.

A due mesi dall’inizio di Surge, gli Usa si accorgono di non essere in grado di agganciare obiettivi neppure minimi nella normalizzazione di Baghdad senza il concorso delle milizie scite. Il premier Al Maliki, a cui Moqtada al Sadr fornisce la guardia pretoriana, legato a doppio filo a Tehran e che doveva essere a un  certo punto, secondo gli avvertimenti di Condoleezza Rice, spodestato e sostituito da qualcuno che esprimesse una qualche forma di “concordia nazionale” con i coinvolgimenti dei sunniti disponibili, rimane al momento al potere e, anzi, fa segretamente espatriare in Iran gli alleati Moqtada e Al Hakim, dopo che questi, per rabbonire gli Usa, avevano ordinato alle proprie formazioni armate di sostenere il “piano di sicurezza” degli occupanti. Ma la prospettiva, reiteratamente tentata, di una “riconciliazione nazionale” attivata da sparuti gruppetti di pseudo-oppposizione (comunisti ortodossi e fedifraghi, peraltro gemellati al PRC di Bertinotti, sunniti moderati, frammenti della Resistenza), regolarmente respinta dalla vera Resistenza, come dal dignitoso e irriducibile Consiglio degli Ulema sunniti, finisce nel nulla. 

La trincea dell’umanità
L’impasse per gli Usa è totale, con la cancelliera tedesca Merkel, il presidente francese Chirac e addirittura Tony Blair, che sottovoce suggeriscono di dar seguito al Piano Baker; con la battaglia-simbolo di Surge a Baghdad per l’affascinante Haifa Street, meraviglia degli architetti di Saddam e sede del grandioso Museo di Arte Moderna iracheno, che dopo quattro settimane di micidiali bombardamenti e incursioni di marines e fantocci, resta imprendibile; con Falluja, Ramadi e perfino Mosul nel Nord e Basra nel Sud, che tornano a essere impraticabili per gli occupanti; con le roboanti minacce a Tehran, che cadono nella più assoluta indifferenza iraniana e non ottengono l’adesione di pezzi grossi come Russia e Cina e solo un timido accompagnamento in sottofondo da parte dell’Unione Europea. Siamo a primi di marzo e, spalle al muro, l’amministrazione Usa pare rassegnata ad accettare il concorso diplomatico consigliato da Baker: una conferenza che coinvolga i fantocci iracheni, sempre e comunque quinta colonna di Tehran, l’Iran stesso, la Siria, visto come storico fattore di equilibrio regionale, che così uscirebbe dalla tenaglia approntata con la manomissione del Libano, altri Stati arabi e forse altre grandi potenze. Si tratta di raggiungere un equilibrio tra amici arabi degli Usa e avversari iraniani, peraltro complici nello sbranamento dell’Iraq, inventandosi un interlocutore sunnita in Iraq che accetti, nel nome della illusoria “riconciliazione nazionale”, un’equa suddivisione del paese tra dominatori stranieri, giocoforza a egemonia Usa. Interlocutore già affannosamente cercato varie volte, addirittura coinvolto nell’amministrazione fantoccio, ma regolarmente privato di ogni rappresentatività e, quindi, credibilità politica, dalla mancanza di base sociale. Nonostante i tamburi di guerra che da Washington continuano a rimbombare contro l’Iran, con il pretesto dello sviluppo nucleare, ma contro il vero pericolo della sottrazione dell’Iraq al controllo Usa, il pericolo del conflitto Usa-Iran sembra allontanarsi. Ai generali Usa che hanno minacciato di dimettersi nel caso di un’aggressione, è chiaro quanto agli psicopatici della guerra globale e permanente negli Usa e, soprattutto, in Israele resta oscuro: la capacità iraniana di mandare a ramengo qualsiasi progetto occidentale sull’Iraq, seconda, ma forse prima, riserva mondiale di idrocarburi, non appena un F-17 Usa si affacci dalle dune del Golfo o dai picchi nevosi del Kurdistan. All’orizzonte, inoltre, si affaccia l’annunciata e temutissima offensiva dei Taliban in Afghanistan, contro la quale britannici e statunitensi rischiano di restare soli e in mutande, nonostante il servilismo guerrafondaio del governo Prodi. Il quale Prodi, intanto, trema all’idea che, venendo trascinato dal suo imperatore nell’ulteriore guerra all’Iran, perderebbe anche gli ultimi resti di un consenso sociale in veloce evaporazione. Se guerra all’Iran ci sarà, verrà, a scanso di un pazzoide che prema il bottone, parecchio più in là. Per adesso l’antica complicità dei tempi dello Shah e di Khomeini resta, che piaccia o no, il jolly del gioco a carte mediorientale. Intanto, mentre tutti si occupavano di Libano, l’olocausto iracheno arrivava, secondo un inconfutabile studio iracheno-americano, riconosciuto da Lancet, la più autorevole rivista scientifica del mondo, a 657.000 morti ammazzati entro l’ottobre 2006. Da allora la mattanza ha assunto il ritmo di circa cento torturati e ammazzati al giorno. Li si ritrovano nei fossi lungo le strade, nei giardini, nel fiume. Perlopiù hanno il cranio, gli occhi, il corpo trapanati. Sono quasi sempre sunniti. Coloro che assistono al sequestro di queste vittime concordemente riferiscono di sicari nelle uniformi del Ministero degli Interni, o nella tenuta nera dei miliziani di Moqtada. Le stesse fonti di Lancet fanno salire a un milione gli uccisi a marzo 2007. Aggiunti ai due milioni uccisi dall’embargo, fa oltre tre milioni. Quasi tre milioni sono anche gli iracheni che hanno dovuto lasciare il paese. Prima della guerra gli iracheni erano 22 milioni. Meno sei. Ci ricorda qualcosa questa cifra? Anche gli inglesi, in 40 anni di brutale dominio coloniale, li avevano malthusianamente sfoltiti  così, tra gas lanciati dagli aerei di Churchill, inedia, malaria e tubercolosi senza prospettiva medica. Anche allora con l’aiuto degli iraniani e della loro quinta colonna in Iraq. Eppure hanno perso. Oggi l’Iraq, martirizzato quanto si vuole, è tornato a essere, come ho sentito dire una volta al presidente venezuelano Hugo Chavez, la trincea della liberazione dei popoli.

Chi vivrà…Iraq!  
Non posso chiudere questo capitolo senza una nota personale. Quel paese mi accompagna ogni giorno della vita. Fonte di angoscia e di affetto senza uguali. Ci ho fatto amicizia per trent’anni, l’ho seguito nelle sue spirali di tragedie e resurrezioni, come si possono seguire le picchiate, cabrate e impennate di un aquilone. Che sale, ti culla nel sogno del volo, aspirazione massima dell’uomo, metafora di un mondo di giustizia, serenità e dignità. Questo è stato l’Iraq per tanti anni, un aquilone da risalite vertiginose, una locomotiva come quella di Guccini. Una locomotiva contro la stagnazione e la rassegnazione del mondo degli emiri, rubinetti d’oro e schiavi,  contro i lupi mannari che affilavano i denti alle sue porte. La possibilità della rinascita, la possibilità di tessere il futuro con il meglio di un passato senza uguali nella storia degli uomini. Un paese a cui pochissimi hanno pagato il debito della verità. I licantropi della morte e della follia lo hanno accerchiato, ciechi di buio e di abbagli che accecano e non illuminano, hanno sventrato l’aquilone con i B-52, con i mostri di morte Abrams hanno spinto la locomotiva della vita nell’abisso. Hanno azzannato, lacerato, hanno squarciato un corpo che era più bello del prigione di Michelangelo nel momento della rottura delle catene.

Era l’8 aprile 2003. La casa era al fondo di una strada che finiva sul Tigri, dove tra luci che facevano delle acque scure un controcielo di stelle, tante volte avevamo cantato, aggredito i mali del mondo là fuori oltre la Terra dei Due Fiumi, scherzato affratellati e giurato scorno alle nuvole di tempesta che già si infittivano all’orizzonte, sull’orlo del deserto dorato. E’ stata la mia ultima cena con il Dottor Rhiad, le vispissime sue figlie in vista di lauree da spendere nella pavimentazione del futuro, il figliolo che teneva a fianco il Kalachnikov come fosse un arto, come tutti gli iracheni d’onore in vista della battaglia. Battaglia finale, battaglia persa nell’immediato, ma in un segno che da noi quassù, nelle nostre paludi, s’è perso: il segno della dignità. La moglie, ricordo per sempre, teneva nel grembiule un coltello da cucina con cui avrebbe affrontato il primo straniero invasore che le fosse capitato. Patetica arma in una mano che non si sarebbe alzata in segno di resa. Sorella, la pediatra Rhiad, di quelle tre giovani donne che, nei giorni in cui scrivo, stanno per essere impiccate per non aver voluto lasciar cadere quel coltello, per non avere alzato quella mano. Avevano tirato fuori il meglio, dalla penuria dell’embargo e dei bombardamenti che li percuotevano da 20 giorni e che rintronavano anche allora, vicini ma percepiti senza un sussulto: lo hobbes caldo di forno, il dolcissimo e corroborante chai, bollente nei bicchierini svasati e orlati d’oro, i grassi pesci del fiume croccanti di scaglie bronzate, l’ultimo agnello. Un paese agnello, ma ancora e sempre con l’antico spirito del leone, il leone di Babilonia, il leone della dea Ishtar. Come sta dimostrando e continuerà a dimostrare. E Rhiad me ne rappresentava un vessillo, lui che, da quando l’embargo terminator di noialtri negava addirittura le aspirine, aveva messo su una sua clinichetta e lì, più con l’arte e l’amore che con la chimica, curava gratis la crescente folla di sofferenti, di feriti, di mutilati. Era l’ultima fiammella di un tempo in cui, come pochi al mondo, ognuno dei 22 milioni di iracheni aveva assicurata la salute gratis, dal cerotto al trapianto di cuore. L’ultima fiammella prima del tunnel buio delle privatizzazioni imposte dall’invasore e dette neoliberiste, quello tra cui ci sbattiamo noi. Quando, tra gli schianti vicini, un taxi mi portò via, una sola cosa il Dr. Rhiad perorava: cerca di mandarmi medicine. I gangster a stelle e striscie penetrarono anche in quella sua casetta-clinica, sfasciarono tutto, rubarono pochi dollari contribuiti da donatori ormai lontani, portarono via il figlio, mancarono per una volta – le ragazze erano scampate - lo stupro strategico, impunito. Impunito come tutto quello che una cosca criminale, lobotomizzate le proprie genti, asserviti i famigli, dalle rive del Potomac e del Giordano infligge all’Iraq, ai palestinesi, agli esseri umani.

Il taxi sfilava tra crateri e cumuli di macerie, tra vuoti bui là dove solo sei mesi prima era ancora luce di bombole e lampadine colorate, di braci nei carretti degli spiedini, di riflessi nello specchio del grosso barbiere battutista che rallegrava la rasatura con scintillii di cabaret, di squilli e ritmi dell’amatissimo taroccatore. Sfilava, il taxi dall’imbottitura rifatta con stoffa di divano e la collanina delle preghiere ciondolante davanti al santino dell’Imam Hussein, sotto l’Hotel “Al Mansur”, poi sotto il “Palestine”, dove i giornalisti alla Giovanna Botteri – culturalmente se non fisicamente embedded -  celebravano l’imminente vista, dai terrazzi delle postazioni tv, dei carri Abrams. Carri che, tra tonfi e sibili, già si sentivano sferragliare in fondo alla grande arteria dei colori e odori e sorrisi di Baghdad, Shara Sadun. Chissà se avrebbero continuato a brindare, poche ore dopo, quando i gangster, punendo a cannonate chi era rimasto a raccontare il martirio e l’eroismo di Baghdad, avevano ucciso nel Palestine il mio collega spagnolo Cuso e, poco più in là, nella mai embedded “Al Jazira”, l’amico Ayoub, compagno di riprese di infamie giudaico-cristiane nelle terre violentate della Mezzaluna, compagno di tante tazzine di bollente chai, all’ombra delle palme da dattero. Quattro anni dopo, i giornalisti ammazzati dai gangster dell’occupazione-collaborazione sarebbero arrivati a 130, perlopiù arabi, compreso quello che aveva filmato di nascosto i marines mentre seppellivano i corpi dei loro militi ignoti, poveri immigrati del Messico o dell’Ecuador, senza patria, diritto, tomba con bandiera a stelle striscie. Senza nome nella lista dei 200, 3000, 4000 onorati di menzione ufficiale. Lungo la via verso il riparo di Amman, correvo a fianco di un pulmino. Con chi vi viaggiava condividemmo una merenda nel posto di ristoro disintegrato fin dalla notte del 17 marzo, quando arrivai, ma subito risorto in forma di baracchino. Erano due funzionari del Ministero della Solidarietà Araba, portavano alle famiglie dei martiri palestinesi quei 20.000 dollari ciascuna  che Saddam, embargo o non embargo, guerra o non guerra, aveva continuato a stanziare dal giorno della rivoluzione all’ultimo giorno di libertà, fin sotto il naso degli invasori. “L’uomo degli americani”…
Uscendo da Baghdad, schivando le lunghe e nere traiettorie dei missili, sentivo addosso un odore di morte che non veniva dai corpi squarciati, disarticolati tra buche e fossi: persone, cammelli, capre, cani. Quei cani che gli iracheni da qualche anno, diversamente dai popoli vicini, avevano cominciato ad amare e accogliere in famiglia e che ora, con loro, morivano. Lo sento ancora, quell’odore. Dovrebbe inondare il mondo. Mi diceva un grande poeta cubano: “Se uccidiamo un albero, se uccidiamo un cane, muore un arto del mondo”. Morendo l’Iraq moriamo tutti.

 
   
 

Le organizzazioni per i diritti umani avevano chiesto di fermare il boia
Iraq, giustiziato all'alba il vice di Saddam
Taha Yassin Ramadan era stato condannato a morte dopo essere stato riconosciuto colpevole per l'uccisione di 148 sciiti nel 1982

Taha Yassin Ramadan (Afp)

BAGDAD (Iraq) - L’ex braccio destro di Saddam Hussein, Taha Yassin Ramadan, è stato impiccato poco prima dell’alba di oggi, martedì, per il massacro di 148 sciiti. Ne ha dato notizia un responsabile del governo iracheno.
QUARTA ESECUZIONE - Ramadan, che era vice-presidente di Saddam quanto il regime è stato rovesciato quattro anni fa, è il quarto uomo giustiziato per il massacro di 148 sciiti, uccisi per rappresaglia dopo un tentativo di assassinio dell’ex dittatore nella città di Dujail nel 1982. Il responsabile del governo, che ha assistito all’impiccagione rimanendo anonimo, ha afermato che sono state prese precauzioni per impedire che si riproducesse ciò che era successo quando è stato giustiziato il fratellastro di Saddam Hussein, Barzan Ibrahim: il boia dovette decapitarlo per un errore di valutazione sul suo peso. Ramadan è stato pesato prima dell’impiccagione e la lunghezza della corda è stata adattata, ha riferito il responsabile governativo.
APPELLO INASCOLTATO - Le esecuzioni degli esponenti del regime di Saddam Hussein hanno causato la rabbia degli iracheni sunniti e il turbamento delle organizzazioni internazionali di difesa dei diritti dell’uomo, che hanno fatto appello perchè fosse salvata la vita a Ramadan. L’ex vice-presidente era stato riconosciuto colpevole in dicembre di omicidio, deportazione forzata e tortura e condannato all’ergastolo. Un mese dopo, la corte d’appello ha giudicato la pena troppo indulgente e ha rinviato il caso all’Alta Corte chiedendole di condannare l’accusato a morte, ciò che la corte ha fatto.
Corriere della sera, 20 marzo 2007

 
   
 

Sì ai soldi per la guerra, truppe a casa per settembre 2008
I deputati sfidano Bush: «Irresponsabili, metterò il veto»
Iraq, la camera Usa suona la ritirata

Franco Pantarelli
New York
E' passata con 218 voti contro 212 ed è la cosa più «tosta» che sia stata fatta finora dal Congresso contro la sciagurata guerra di George Bush in Iraq. Nella legge che approva lo stanziamento degli ulteriori 124 miliardi di dollari chiesti dal presidente, la Camera dei deputati ha inserito un passaggio che impegna il governo (e stavolta non si tratta di una mozione «non vincolante») a porre fine alla presenza delle truppe americane in Iraq entro il settembre 2008.
Alla Camera i democratici hanno 233 seggi e i repubblicani 201, il che vuol dire che non tutti i democratici e non tutti i repubblicani hanno votato con i rispettivi partiti. Ma mentre i reprobi repubblicani sono stati solo due, quelli democratici sono stati 14. A dissentire sono stati quelli che volevano il ritiro immediato delle truppe, considerando la scadenza dell'autunno 2008 (cioè a ridosso del voto per eleggere il prossimo presidente) troppo lontana nel tempo. Le loro ragioni sono state sintentizzate dal più liberal di tutti, Dennis Kucinich, già candidato «di testimonianza» alla Casa bianca: «Se volete la pace, ponete fine al finanziamento di questa guerra». Una strada che la maggioranza considera non percorribile nel timore che il contrattacco di Bush («vogliono lasciare i soldati senza rifornimenti») possa ancora avere una certa presa.
Il voto contrario dei liberal, comunque, è stato studiato in modo da non pregiudicare il successo dell'iniziativa (hanno votato «secondo coscienza» ma non hanno fatto campagna fra i loro colleghi) e soprattutto in modo da evitare di fare il gioco di quelli più lontani da loro, cioè i democratici moderati che si mostravano riluttanti a privare i capi militari della «necessaria flessibilità» e naturalmente i repubblicani che hanno votato quasi compattamente contro quella che considerano una «ammissione di fallimento» dell'avventura irachena - come se servisse un voto per stabilire che l'Iraq è un fallimento.
Chi esce meglio dall'intera faccenda è Nancy Pelosi, la speaker della Camera, sulle cui capacità di portare la cosa in porto non tutti erano pronti a giurare. Lei ha lavorato infaticabilmente per giorni, discutendo con i deputati democratici uno per uno, e quando ieri sul tabellone è apparso il risultato del voto e lei lo ha ufficialmente sanzionato con il colpo di martello ha liberato la propria tensione con una perentoria dichiarazione: «Il popolo americano ha perso fiducia nel presidente. Il popolo americano vede la realtà della guerra, il presidente no». Incassando così il senso politico dell'intera operazione.
L'obiettivo di questa iniziativa, infatti, non era e non poteva essere che esclusivamente politico, senza un immediato effetto sulle sorti della guerra, per almeno tre ragioni. La prima è che Bush, per inopinato che ciò possa suonare, è costituzionalmente il comandante in capo e solo lui può prendere le decisioni di guerra. La seconda è che l'approvazione di una legge simile a questa, attualmente in corso al Senato, si prospetta molto più difficile. La terza è che anche se il Senato dovesse riuscire con molta fatica ad approvarla, la procedura prevede che le due leggi debbano essere «armonizzate», che il risultato finale di quel lavoro venga spedito a Bush per la firma, che lui si rifiuti di firmarla ponendo il veto e che Camera e Senato non possano fare più nulla perché i due terzi dei voti per rovesciare un veto presidenziale non ce li avranno mai.
Bush ha subito reagito con un'invettiva lanciata in una scenografia ben studiata dai suoi addetti all'imagine. «Una piccola maggioranza di deputati - ha detto circondato da reduci dall'Iraq e da parenti di soldati al fronte - ha abdicato alle proprie responsabilità votando una proposta che non ha alcuna possibilità di diventare legge ma crea ritardi nel fornire ai nostri soldati ciò di cui hanno bisogno. L'idea dei democratici è che più loro ritardano il finanziamento più io mi convincerò ad accettare una fine artificiale della guerra. Questo non accadrà mai». Aveva tecnicamente ragione. La differenza fra lui e il «popolo americano» menzionata da Pelosi è sempre più evidente.
il manifesto del 24 marzo 2007 pagina 04

 
   
 

Iraq, kamikaze contro il vicepremier
Al Zubai ricoverato nella Zona verde, non sarebbe in pericolo di vita. I sunniti della provincia di Al Anbar respingono il piano Usa contro Al Qaeda: uniti contro l'occupante

Mi. Co.
Un attentatore suicida con indosso un corpetto esplosivo è entrato ieri pomeriggio nella residenza di Baghdad del vice primo ministro iracheno e si è fatto esplodere mentre Salam Zubai stava uscendo dalla piccola moschea interna al compound, ferendolo gravemente.
Secondo quanto riferito dalla televisione Al Iraqiya, l'attentatore sarebbe una delle guardie del corpo dell'uomo politico, il che spiegherebbe come sia riuscito ad aggirare i controlli di sicurezza all'ingresso della casa. Subito dopo l'attacco, all'esterno dell'appartamento è esplosa un'auto, che potrebbe essere stata parcheggiata lì dall'attentatore che, in quanto guardia del corpo, non sarebbe stato sottoposto al divieto di circolazione nei venerdì, istituito proprio per evitare attentati nel giorno in cui le moschee sono più affollate. Almeno nove i morti, tra cui l'imam che guidava la preghiera del venerdì. Zubai se l'è cavata con ferite serie, ma non sarebbe in pericolo di vita.
«È ferito ma non è in gravi condizioni», ha dichiarato all'agenzia Reuters il premier Nuri al-Maliki, che in serata ha visitato il suo vice nell'ospedale militare americano all'interno della Zona verde, dove resta ricoverato dopo essere stato operato. L'attacco, arrivato il giorno dopo che colpi di mortaio erano stati sparati contro la Zona verde nel giorno della visita del segretario generale delle Nazioni unite, Ban Kimoon, è stato rivendicato con due messaggi su altrettanti siti islamisti dallo Stato islamico in Iraq, la «filiale» di Al Qaeda im Mesopotamia. Leader del Fronte per l'accordo nazionale, il piccolo blocco di partiti sunniti che, dopo aver boicottato il governo provvisorio, ha scelto di partecipare alla competizione elettorale e d'entrare nel governo d'unità nazionale dominato dall'Alleanza sciita e dai suoi partiti filo-iraniani, il vice premier era, proprio per la sua scelta politica, un obiettivo privilegiato della guerriglia. Non solo, ma mentre una parte del suo clan d'appartenenza milita nel partito al governo e appoggia il premier sciita Al Maliki, l'altra sosterrebbe apertamente l'organizzazione che s'ispira a Osama bin Laden.
La guerriglia, una galassia fatta di ex membri del partito Ba'ath, jihadisti sunniti e radicali sciiti - senza una direzione comune e nonostante i tentativi statunitensi di stringere patti di non aggressione con alcune fazioni - continua ad opporsi a ogni ipotesi di compromesso con gli occupanti. Ciò che stupisce maggiormente è la facilità con cui riesce a portare a termine le sue azioni. E i gruppi islamisti radicali rivendicano le proprie azioni su internet, utilizzando come mezzo di propaganda le immagini dei blindati statunitensi distrutti dalle bombe artigianali (Ied). Soltanto ieri Madina al Munawara ha messo sul web un video che mostra i suoi campi d'addestramento a Falluja, Ansar al Sunna una rivendicazione d'un attacco contro forze americane e irachene nella capitale, lo Stato islamico in Iraq operazioni a Baghdad, Mosul e Diyala.
Sono mesi che gli statunitensi provano a isolare questi gruppi jihadisti dal resto della guerriglia, anche quella sunnita più radicale che non si riconosce però nell'internazionalismo quaedista. Ma ieri per la strategia degli occupanti, dalla provincia nord-occidentale di al Anbar, storica roccaforte della resistenza, è arrivata una doccia gelata. La maggior parte dei gruppi sunniti avrebbe infatti respinto la proposta statunitense di un'alleanza per fare fronte comune contro Al Qaeda nella regione che - assieme alla capitale Baghdad - ha prodotto il maggior numero di caduti statunitensi (3.233 dall'inizio del conflitto). Lo sceicco Majeed al Gaood - a capo del potente clan dei Dulaimi, ha dichiarato che «mettendo i gruppi che combattono l'occupazione l'uno contro l'altro, loro (l'esercito Usa) credono di poter controllare al Anbar, ma qui c'è ancora una rivolta completa contro gli americani e i loro agenti, perché la gente sa che l'occupazione colpisce tutti». Al Gaood, che ha parlato di «espellere gli occupanti come obiettivo comune con i mujaheddin, intervistato dall'agenzia Reuters, ha voluto così smentire le dichiarazioni dell'esercito iracheno, che l'altro ieri aveva fatto sapere di aver raggiunto accordi con parte della guerriglia per cacciare Al Qaeda da Al Anbar.
il manifesto del 24 marzo 2007 pagina 04