Risposte a Norimberga
Carl Schmitt
Laterza, pagg.208, Euro 16,00
 
Trattenuto e interrogato per tredici mesi nel campo di internamento di Berlino tra il 1945 e il 1946, nuovamente arrestato nel 1947 e rinchiuso in una cella del penitenziario di Norimberga, Carl Schmitt si dovette difendere dall’accusa infamante di crimini di guerra. Questo volume raccoglie i testi, inediti in Italia, di quell’esperienza, i verbali dei tre interrogatori condotti da Robert Kempner, le autodifese di Schmitt sul tema del grande spazio e della guerra di aggressione e i pareri resi all’autorità americana sul Capo della Cancelleria e sui Segretari di Stato nel Terzo Reich. Il nodo teorico che queste pagine sollevano è ancora irrisolto e non ovvio: è possibile processare la storia e i nemici sconfitti? La giustizia dei vincitori può essere un tribunale morale? Chi esegue gli ordini di un dittatore è colpevole?
 
  "Carl Schmitt - scrive Helmut Quaritsch - non ha lasciato "ricordi". Non gli mancarono né la penna, cui era abituato, né il tempo - trentacinque anni di "pensione" sono un privilegio di pochi. Se le memorie lo avessero costretto a giustificarsi ed egli non avesse voluto giustificare ciò che non richiedeva giustificazioni o anche solo spiegazioni plausibili, avrebbe comunque potuto riferire su singole fasi della sua lunga vita, non coincidenti con gli anni del regime nazionalsocialista.

  "Ma dopo la rigida educazione ricevuta nel seminario di Attendorn la riproduzione letteraria dell’io e della propria vita doveva apparirgli un atto di superbia. Nel settembre del 1947 citò il voto del cardinale Passionei del 1753 in merito alla causa di beatificazione del cardinale Roberto Bellarmino, il quale a 71 anni su richiesta di un amico aveva scritto la sua autobiografia: descrivere la propria vita è «per lo meno una occasio proxima del peccato più pericoloso – l’egoismo e l’alterigia – che in quanto peccato spirituale è più pericoloso della concupiscenza». Ma questa annotazione non è l’unica a rispecchiare le sue convinzioni personali: già trent’anni prima aveva pubblicato una brillante satira maligna sullo scrittore di diari. Schmitt fu ancora più esplicito in un saggio scritto nell’estate del 1946, quando si trovava nel campo di internamento:

«Un giurista che ha educato se stesso, e molti altri, all’oggettività, evita gli egotismi psicologici. La propensione alle confessioni e alle professioni di fede letterarie mi è un po’ interdetta dai brutti esempi quali Jean-Jeacques Rousseau e il povero August Strindberg. [...] Chi vuol confessarsi, esca e vada dal parroco».

  "Certo non ogni resoconto della propria vita è una «confessione». Anche se Schmitt pensava di aver «parlato qui di me stesso, invero per la prima volta nella mia vita», la sua ammissione non si riferiva all’autobiografia in senso tradizionale. Nel suo saggio egli aveva semplicemente illustrato perché si sentisse particolarmente vicino a Jean Bodin (1530-1596) e a Thomas Hobbes (1588-1679) con un’immagine di corrispondenza temporale e spaziale: «di questo novero fanno parte Francisco de Vitoria, Alberico Gentili e Ugo Grozio. [...] Li amo. Se appartengono, com’è certo, al mio campo, non fanno però parte della mia intimità. Prossimi, intrinsecamente prossimi, di una prossimità quotidiana, sono per me due altri, che muovendo dal diritto pubblico hanno posto i fondamenti del diritto internazionale: Jean Bodin e Thomas Hobbes».

  "Il brano trattava essenzialmente della posizione e dell’importanza di questi due grandi autori. I riferimenti al proprio destino personale appaiono letterariamente allusivi, riconoscibili solo per chi conosce la sua vita.

  "Una ragione del mancato riferimento in Schmitt a singoli capitoli o anche solo a esperienze della sua vita potrà forse essere rintracciata nella sua peculiare incapacità di conservare nel tempo la rappresentazione di persone e situazioni, di descrivere minutamente l’immagine conservata nel ricordo o per lo meno di farne uno schizzo completo. Solo una volta ha ricordato il suo primo anno di università a Berlino. I ritratti di Josef Kohler e Ulrich Wilamowitz-Moellendorff, due professori di cui Schmitt aveva seguito le lezioni, nonché due personalità di statura internazionale, sono radiosi, dai vividi contorni, non privi di vivacità e umorismo, e tuttavia collocati in una luce più tenue da successive valutazioni; un saggio scritto nel gelido inverno di stenti del 1947, che lascia intravedere il talento di Schmitt anche per questo genere di testi. Considerate le molte persone importanti che Schmitt ebbe occasione di incontrare, ci si può solo rammaricare del fatto che si sia fermato a «Berlino, 1907». Ogni nome, ogni evento era per Schmitt un’occasione per riflettere, per astrarre e per stabilire associazioni.

  "Anche la piacevole rappresentazione del tanto geniale quanto vanitoso Josef Kohler e del suo romanzo Eine Faust-Natur sfocia subito in una trattazione del tipo e del suo tempo. Schmitt non conosceva freni nella riflessione e in ogni caso non li aveva quando scriveva. Sullo studente Schmitt egli racconta nel 1947: «Ero un oscuro giovane di umili origini. Non appartenevo né allo strato dominante né a una corrente di opposizione. Non avevo alcun legame, alcun partito e alcun gruppo e non ero nemmeno corteggiato da nessuno. Non ero infatti sufficientemente interessante né per me stesso né per altri. Povertà e modestia erano gli angeli custodi che mi facevano rimanere nell’ombra. Per il nostro quadro ciò significa che stando completamente nell’ombra guardavo dall’ombra in uno spazio chiaramente illuminato. Per spettatori e osservatori è la posizione migliore»".

  Indice dell'opera: Prefazione – 1. Carl Schmitt nel penitenziario di Norimberga – 2. Carl Schmitt: criminale di guerra o esperto? – 3. Giustificazione e competenza – 4. La trasmissione dei testi – Bibliografia – Indice dei nomi