I Fascisti islamici

Nel linguaggio corrente la parola «fascista» ha perduto il suo senso originario e significa semplicemente violento, intollerante, se non addirittura mascalzone. Molti di coloro che se ne servono hanno del fascismo un'idea vaga e sanno soltanto che è un insulto, quindi buono per aggredire verbalmente un uomo politico. Ma quando il presidente degli Stati Uniti dice che il suo Paese è in guerra con i «fascisti islamici», anche se le sue dichiarazioni improvvisate sono spesso imprecise, dobbiamo supporre che sappia di che cosa parla.
  George W. Bush, d'altro canto, non è il primo che si serve dell'espressione. Qualche intellettuale della sinistra liberale americana ha parlato recentemente di «totalitarismo musulmano», e il ministro degli Interni britannico John Reid, poco prima dei falliti attentati di Londra, ha messo in guardia i suoi interlocutori contro la minaccia di «coloro che potrebbero essere definiti fascisti». Esiste quindi un fascismo islamico? E, se esiste, quali sono i suoi ideologi, i suoi maggiori esponenti, i suoi partiti politici?
  Il sospetto nacque quando i diplomatici e i servizi d'intelligence europei riferirono ai loro governi, negli anni Trenta, che i regimi fascisti suscitavano interesse e simpatia fra gli intellettuali e i militari di alcuni Paesi musulmani. Uno dei primi ad accorgersene e a ritenere che quella simpatia potesse diventare un'utile carta politica fu Mussolini. Da quel momento il regime cominciò a lanciare segnali di amicizia verso il nazionalismo antibritannico e antifrancese dell'Africa settentrionale e del Levante, con una particolare attenzione alla Palestina. Fu creata una stazione radiofonica (Radio Bari) che trasmetteva in arabo. Furono stabiliti contatti con Habib Bourguiba, fondatore del movimento nazionalista tunisino Neo Destur, erede di un precedente Destur (la parola significa indifferentemente libertà o costituzione), più moderato e conciliante. Quando Mussolini andò in Libia nel 1937, il governatore della colonia, Italo Balbo, mise in scena per lui una straordinaria accoglienza nella radura di Bugara, non lontano da Tripoli, dove 2000 cavalieri lo salutarono con inni di guerra e rulli di tamburo. Un cavaliere, Iussuf Kerbisc, si staccò dal gruppo e offrì a Mussolini una spada in oro massiccio intarsiato. «Vibrano accanto ai nostri animi in questo momento - gli disse - quelli dei musulmani di tutte le sponde del Mediterraneo che, pieni di ammirazione e di speranza, vedono in te il grande uomo di Stato, che guida con mano ferma il nostro destino».
  I contatti con il nazionalismo arabo divennero ancora più intensi durante la guerra, quando Italia e Germania sperarono di suscitare alle spalle dell'Impero britannico una rivolta araba simile a quella che T. E. Lawrence e Feisal, figlio dello sceriffo hascemita della Mecca, avevano guidato contro l'Impero ottomano nel 1916. Le principali pedine di questa politica furono un uomo di Stato iracheno, Rashid Alì Al Gaylani, e il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini. Come racconta Manfredo Martelli nel suo libro su «I nazionalisti arabi e la politica di Mussolini» (Edizioni Settimo Sigillo, 2003), il primo conquistò il potere a Bagdad con un colpo di Stato, agli inizi del 1941, entrò in guerra con la Gran Bretagna ed ebbe qualche modesto aiuto dall'aviazione dell'Asse sino alla fine di maggio, quando gli inglesi entrarono a Bagdad e lo costrinsero a riparare in Iran.
  Fuggì con lui anche il Muftì di Gerusalemme che dall'Iran, dove riuscì a evitare l'arresto della polizia, passò in Turchia, (racconta Martelli) con un passaporto italiano, i capelli tinti e la barba tagliata. Quando arrivò finalmente a Roma, il 10 ottobre 1941, fu ricevuto da Mussolini alla presenza di Galeazzo Ciano. La conversazione si svolse in francese e Mussolini disse che era pronto a fare ogni sforzo per aiutare gli arabi «politicamente e spiritualmente». Parlarono anche delle aspirazioni ebraiche in Palestina e il leader del fascismo (che negli anni Trenta, per un certo periodo, aveva sostenuto contro la Gran Bretagna il movimento sionista) lo tranquillizzò: «Se gli ebrei vogliono un loro Stato dovranno stabilire Tel Aviv in America. Sono nostri nemici e non ci sarà posto in Europa per loro». Da Roma il Muftì andò a Berlino dove rimase sino alla fine della guerra. Ma fece anche un viaggio in Bosnia per esortare i musulmani della regione a collaborare con l'Asse e permise in tal modo ai tedeschi di costituire la divisione Handzar, composta da SS che portavano, come segno distintivo, un fez rosso.
  Al Gaylani e Al Husseini non furono i soli amici dell'Asse in Medio Oriente. Alla fine del 1941, mentre l'Afrika Korps avanzava verso Alessandria, un gruppo di ufficiali egiziani raccoglieva informazioni per lo stato maggiore di Rommel sui movimenti delle truppe britanniche. Uno dei loro capi era Anwar Al Sadat che divenne presidente della Repubblica egiziana dopo la morte di Nasser. Alcuni di essi attraversarono le linee per raggiungere le truppe dell'Asse e riapparvero a fianco di Nasser nella rivoluzione del 1952. Jean Lacouture, biografo del rais, racconta che in quei giorni, mentre i tedeschi e gli italiani combattevano a El Alamein, vi furono manifestazioni al Cairo e ad Alessandria. La folla inneggiava a Rommel e invocava Mussolini storpiandone il nome: lo chiamavano Mussa Nili, Mosé del Nilo.
  Ma nessuno di questi personaggi può essere definito fascista. Erano nazionalisti e chiedevano aiuto agli avversari della Gran Bretagna perché «i nemici dei miei nemici sono miei amici». È certamente vero che i regimi nazionali e sociali, creati in alcuni Paesi europei negli anni Venti e Trenta, parvero a molti leader arabi e musulmani, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, particolarmente adatti alle loro esigenze. L'autorità indiscussa del leader, il partito unico, il ruolo delle forze armate e della burocrazia, l'uso spregiudicato della polizia e dei servizi segreti, il controllo della società e della stampa parvero ingredienti utili per Stati nascenti dove le masse erano in buona parte analfabete e l'albero della democrazia parlamentare stentava a crescere. Ma non tutti i regimi autoritari possono considerarsi fascisti o comunisti. Il più simile al fascismo, tra i gruppi politici sorti in Medio Oriente durante il Novecento, fu un movimento creato in Siria nel 1940. Il suo fondatore, Michel Aflaq, era siriano e cristiano. Aveva studiato alla Sorbona negli anni Trenta, aveva assistito alle battaglie politiche fra destra e sinistra nelle strade di Parigi, aveva inghiottito un inebriante cocktail di letteratura politica europea da Mazzini a Lenin, era anticolonialista, panarabista, fiero del grande passato arabo, ma risolutamente laico e socialista. Tornato in patria fondò il partito Baath (in arabo: risorgimento, rinascimento), e uno dei suoi primi gesti fu l'adesione alla rivolta di Al Gaylani contro la Gran Bretagna nel 1941. Morì nel 1989, probabilmente a Bagdad, ospite di un uomo che lo aveva molto ammirato e si era ispirato al suo insegnamento per organizzare lo Stato iracheno. Quell'uomo era Saddam Hussein. «È lui che ha creato il partito - disse a un intervistatore nel 1980 - come posso dimenticare ciò che Michel Aflaq ha fatto per me? Se non fosse stato per lui non sarei a questo posto».
  L'Iraq fu quindi il più fascista dei regimi medio-orientali degli ultimi decenni. Saddam si servì del partito unico per militarizzare la società, instaurò un culto del leader che era modellato su quello del Duce e del Führer, mise la burocrazia in uniforme, affidò la sua fama alla costruzione di grandi opere pubbliche, fu al tempo stesso nazionalista e, a modo suo, socialista. Fu questo il fascismo del mondo arabo. Mi sarebbe molto più difficile, invece, trovare tracce di fascismo nei movimenti politici di ispirazione religiosa, dalla Fratellanza musulmana a quelli che sono nati dopo la rivoluzione iraniana, l'invasione israeliana del Libano nel 1982 e la prima Guerra del Golfo nel 1991. Fra il Baath e il fanatismo religioso, anche quando si alleano contro un nemico comune, vi è un incolmabile fossato. A differenza dei suoi predecessori, Bush sembra avere dimenticato che il maggiore nemico dell'Iran di Khomeini fu l'Iraq di Saddam Hussein, e che nella lunga guerra fra i due Paesi, dal 1980 al 1988, gli Stati Uniti furono dalla parte dei fascisti contro gli islamisti.
Sergio Romano
Corriere della sera, 12 agosto 2006

 
   
 

Corridoni, vita e morte di un rivoluzionario

Al mercato dell'antiquariato che ogni giovedì si svolge a Parma, ho acquistato due fascicoli unici che commemoravano, per il 26° e il 27° anniversario, la scomparsa di Filippo Corridoni. Editi dal Gruppo rionale fascista di Parma, entrambi i numeri (presumo tra gli ultimi stampati, essendo datati rispettivamente nell'ottobre del 1941 e del 1942) ricordano, con l'enfasi del periodo, la morte in battaglia del 23 ottobre 1915 di questo sindacalista, a pochi mesi quindi dall'intervento dell'Italia nel primo conflitto mondiale.
Pur non avendone sentito parlare più di tanto nei libri di storia, la figura del Corridoni è ricordata nella mia città da un importante monumento che, mi pare, venne inaugurato alla presenza di Mussolini stesso. Probabilmente la scelta interventista e il conseguente inserimento nell'elenco dei protomartiri del fascismo hanno consegnato questa figura al semioblio storico.
Incuriosito però dalle cronache dell'epoca che lo descrivevano come grande oratore e difensore dei diritti dei lavoratori al punto di definirlo «apostolo del lavoro», mi permetto di chiederle un'opinione su questo personaggio.

M. Taliani

Caro Taliani, Filippo Corridoni non fu fascista (morì prima della fondazione del movimento) ed ebbe con Mussolini, in alcuni momenti, rapporti polemici e tempestosi. Ma nei corsi di studio della Scuola di mistica fascista fu venerato come il precursore, il profeta della «buona novella», il martire, il modello di una gioventù combattente che era pronta a sacrificarsi sull'altare degli ideali. Ebbe diritto al monumento di cui lei parla nella sua lettera, a parecchie targhe stradali e a una distinzione che fu riservata, in Italia, soltanto ad alcuni protagonisti della storia nazionale: il paese in cui nacque (Pausula, un comune di 14.000 abitanti nella provincia di Macerata) venne chiamato Corridonia. Molti di coloro che lo conobbero e lo stimarono (ad esempio Giuseppe Di Vittorio, futuro leader della Cgil) parlarono di appropriazione indebita. Ma ebbero ragione soltanto in parte. Mussolini, non c'è dubbio, si appropriò deliberatamente della sua immagine e si servì del nome di Corridoni per conferire al regime una patente di nobiltà. Ma le sue motivazioni non furono soltanto opportunistiche. Quando si accorse che il ragazzo, educato in famiglia da un prozio francescano, aveva eccezionali qualità intellettuali, il maestro della scuola di Pausula disse al padre, operaio in una fornace, che occorreva permettergli di continuare gli studi. Corridoni si diplomò all'Istituto superiore industriale di Fermo, approdò a Milano, divenne operaio nell'officina di un'azienda meccanica e cominciò a frequentare i circoli socialisti di Porta Venezia. Ma fu attratto soprattutto dalle battaglie sindacali e s'impose rapidamente come un efficace organizzatore di agitazioni e di scioperi. Parlava come un brillante tribuno della plebe, scriveva articoli taglienti e sembrava avere inclinazioni anarchiche piuttosto che socialiste. La polizia se ne accorse e lo prese di mira. Il curatore dei suoi scritti, Andrea Benzi, ricorda che riuscì a totalizzare, in poco più di un decennio, una condanna a cinque anni di carcere, una trentina di arresti cautelari e due fughe all'estero, in Francia e Svizzera. A Parma, dove fu molto attivo all'epoca degli scioperi agricoli, conobbe Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario e autore della Carta del Carnaro che d'Annunzio promulgò a Fiume dopo la conquista della città nel 1919. Entrò con lui nel Comitato nazionale di azione diretta e fu da quel momento, sino alla vigilia della Grande guerra, uno dei maggiori esponenti dell'anarco-sindacalismo: un movimento che teorizzò lo sciopero generale come strumento per la conquista del potere e la trasformazione rivoluzionaria della società. Il passaggio dal sindacalismo rivoluzionario all'interventismo fu meno difficile e sorprendente di quanto non sembri. Come altri paladini dell'«azione diretta», anche Corridoni vide nella guerra il grande evento che avrebbe ripulito il mondo dalle sue scorie borghesi e favorito il rinnovamento della società. Scrisse agli amici: «Noi, fra giorni, partiremo per il fronte vestiti da soldati del re, ma soprattutto partiamo con l'anima rigidamente repubblicana». Morì, come lei ha ricordato, pochi mesi dopo. Mussolini capì che poteva utilizzare il capitale di prestigio e simpatia che Corridoni aveva conquistato con la sua vita e con la sua morte. Ma ho l'impressione che nel rendere onore a questa singolare figura di interventista rivoluzionario fosse animato anche da un sentimento di nostalgia per le origini del fascismo e, forse, per il proprio passato.
 
Sergio Romano
Corriere della sera, 28 gennaio 2006

 
   
 

La sindrome di Crimea
di Sergio Romano

Quando decise l'invio di 18 mila uomini in Crimea nell'aprile del 1855, Cavour sapeva che le truppe del Regno di Sardegna non avrebbero dato un contributo decisivo alla vittoria contro la Russia o alla soluzione della Questione d'Oriente. Voleva soltanto prenotare per sé e per il Piemonte un posto al tavolo della pace. Vi fu un dignitoso combattimento sulle rive di un torrente e Cavour poté partecipare al Congresso di Parigi, nella primavera dell'anno seguente, per agitare di fronte alle grandi potenze la questione italiana. L'operazione quindi andò bene. Ma i successi possono produrre riflessi automatici, non sempre positivi. Anziché restare un episodio di storia nazionale, la «guerra di Crimea» divenne un modello virtuoso. Quando Pasquale Stanislao Mancini non volle partecipare con la Gran Bretagna alla repressione di una rivolta egiziana nel 1882, Francesco Crispi lo rimproverò aspramente in Parlamento e nel Paese, lamentò l'occasio ne perduta e creò il clima per future missioni, fra cui Creta nel 1897 e la Cina all'epoca della rivolta dei boxer nel 1900. Tralascio le guerre combattute per spirito di conquista e mi limito a constatare che le «partecipazioni» in nome della pace e del diritto sono tanto più numerose quanto più i governi italiani condannano il ricorso alle armi. Dopo l'approvazione di una Costituzione in cui l'articolo 11 «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», i soldati italiani sono andati, tra l'altro, nel Sinai, in Congo, nel Libano meridionale, a Beirut, nel Golfo Persico, in Somalia, in Bosnia, in Albania, nel Kosovo e più recentemente in Afghanistan e in Iraq. Quando Giulio Andreotti lasciò capire che la partecipazione italiana alla Guerra del Golfo, nel gennaio del 1991, gli sembrava inopportuna, gli interventisti prevalsero. Ciascuna di queste operazioni ha caratteristiche e giustif icazioni diverse.
Ma sono tutte manifestazioni di una malattia che affligge il Paese dal momento della sua unità. L'Italia è nata grazie all'aiuto determinante delle due maggiori potenze militari del continente, la Francia e la Prussia. Ha perduto alcune memorabili battaglie. Ha abbandonato i suoi alleati per passare nel campo dei loro nemici. Ha dimostrato in altri momenti di sapere combattere, ma ha finito per acquisire una sgradevole reputazione di inaffidabilità militare. Si direbbe che la partecipazione a una missione armata sia considerata da tutti i governi, di destra o di sinistra, il mezzo migliore per correggere questa immagine, dimostrare che il Paese esiste e ha il diritto di essere trattato con rispetto. Naturalmente il governo Prodi sosterrebbe che tra una missione in Libano, organizzata per impedire lo scoppio di un nuovo conflitto, e l'invio di truppe in Iraq dopo l'invasione americana del Paese esiste una fondamentale differenza. E potr ebbe aggiungere con ragione che l'Italia ha un evidente interesse alla preservazione della pace sulle coste meridionali del Mediterraneo. Ma in ogni missione militare italiana, quali che siano le sue motivazioni, esiste un dato comune: per il governo che prende l'iniziativa le considerazioni politiche e la speranza di qualche riconoscimento, in Italia e all'estero, prevalgono sul calcolo dei rischi militari. Il governo Berlusconi mandò truppe in Iraq senza accorgersi che la guerra non era ancora finita. Prodi e D'Alema sanno che in Libano vi è soltanto una fragile tregua. Ma vorremmo essere certi che hanno preso in considerazione anche la possibilità di una «missione di pace» costretta a combattere su due fronti.

Corriere della sera, 25 agosto 2006

 
   
 

Fascista o no, l'Italia è quasi sempre filoaraba

Sarebbe utile conoscere i motivi per cui la politica estera italiana sulla questione mediorientale, a eccezione del periodo berlusconiano, sia sostanzialmente filoaraba. È vero che la storia non fa salti, ma nemmeno può essere rimasta ferma alle leggi razziali o addirittura alla colpa bimillenaria degli ebrei per la morte di Cristo.

Domenico Carbone

Caro Carbone, all'origine del filoarabismo della politica estera italiana non vi è, se non in alcuni gruppi politici e in particolari circostanze, un pregiudizio anti- ebraico e anti-israeliano. Abbiamo coltivato l'amicizia dei popoli arabi e musulmani del Mediterraneo, anche prima della Seconda guerra mondiale, per ragioni strettamente politiche e nazionalistiche. Quando la Gran Bretagna e la Francia si spartirono le province arabe dell'Impero ottomano, dopo la fine della Grande guerra, il «Mare Nostrum» divenne, ancora più del passato, un condominio anglo-francese e l'influenza dell'Italia sulle sue coste meridionali si restrinse alla Libia. Per farsi largo a colpi di gomito Mussolini puntò dapprima sul movimento sionista ed ebbe buoni rapporti con Vladimir Zeev Jabotinskij, il suo leader più radicale e rivoluzionario, l'uomo che gli inglesi condannarono a morte per terrorismo. Poi, dopo la guerra d'Etiopia e il peggioramento dei rapporti con le democrazie occidentali, ritenne che il miglior modo per sgretolare l'egemonia francese e inglese nella regione fosse quello di soffiare sul fuoco del nazionalismo arabo, soprattutto in Tunisia, in Egitto e in Iraq. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la politica estera italiana nel Mediterraneo divenne molto meno aggressiva, ma le sue linee di tendenza rimasero sostanzialmente le stesse. Cercammo di conservare le colonie prefasciste (Somalia, Eritrea, Libia) e successivamente, quando ci accorgemmo che non saremmo riusciti ad avere nemmeno un pezzo di Tripolitania, decidemmo di trasformare la perdita dei possedimenti coloniali in un vantaggio politico e di presentarci agli arabi come la sola potenza europea che non avesse, nei loro confronti, ambizioni territoriali. Il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, dopo la nazionalizzazione del Canale nel 1956, ci dette una carta in più che tutti i maggiori ministri degli Esteri (Fanfani, Moro, Andreotti) cercarono di utilizzare. In questo disegno politico vi furono un capitolo economico, scritto da Enrico Mattei, e un capitolo culturale di cui l'autore principale fu Giorgio La Pira, esponente del mondo cattolico e popolare sindaco di Firenze. Il primo rivoluzionò i rapporti petroliferi con il mondo arabo-musulmano e si spinse sino a stabilire relazioni confidenziali con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino all'epoca della sua guerra contro i francesi. Il secondo organizzò le Giornate mediterranee e invitò a Firenze i «popoli del libro» per alcuni colloqui interculturali e interconfessionali. Nelle intenzioni di Fanfani, Mattei e La Pira, l'Italia sarebbe stata il «referente» europeo del mondo arabo e il suo maggiore partner economico. In questa vicenda esiste naturalmente anche un capitolo israeliano che è ben raccontato da Ilaria Tremolada in un libro apparso tre anni fa presso l'editore M&B Publishing («All'ombra degli arabi»). Quando Israele proclamò la propria indipendenza, il 14 maggio 1948, il governo italiano dovette tenere conto di due fattori. Il primo era la Santa Sede, a cui non piaceva che il nuovo Stato divenisse indipendente in un momento in cui l'internazionalizzazione dei Luoghi Santi, prescritta da una risoluzione dell'Onu, non era stata ancora realizzata. Il secondo era l'ostilità dei Paesi arabi con cui l'Italia intendeva avere rapporti particolarmente cordiali. Questo non impedì il riconoscimento di Israele nel febbraio del 1949. Ma da allora la diplomazia mediterranea e medio- orientale dell'Italia dovette barcamenarsi fra due esigenze, spesso contraddittorie. Più o meno, è ciò che sta accadendo anche in questi giorni.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 agosto 2006

 
   
 

Michel Aflaq: vita e morte del panarabismo

Ho notato un rinnovato interesse per la personalità di Michel Aflaq, fondatore del Baath, il partito della rinascita araba. Si tratta di un uomo politico controverso che appariva raramente in pubblico. Ho avuto occasione di incontrarlo quando ero consigliere dell’Ambasciata d’Italia a Damasco, dove il siriano Aflaq risiedeva, e ricevere direttamente da lui una descrizione particolareggiata sulle finalità del movimento che aveva fondato e per il quale aveva coniato il motto «el wahda, arabìa, istirakìa» (unità, arabismo, socialismo). Non vi è dubbio che le idee baathiste hanno avuto un forte impatto sull’assetto politico mediorientale ed influenzato il nasserismo e soprattutto costituito la base della dittatura di Saddam Hussein in Iraq e dell’attuale regime in Siria. Mi chiedo quale valutazione si debba dare di questo discusso personaggio anche in relazione al fatto che le sue ideologie sono state recentemente tirate in ballo nell’ambito della discussione sul «fascismo islamico». Nella mia conversazione con Aflaq ho tratto l’impressione che più che a certi aspetti del nazifascismo, egli si richiamasse al modello socialista europeo per tentare di innestarlo con gli adattamenti del caso nel mondo arabo islamico nel quadro di un orientamento rigorosamente laico.

Francesco Mezzalama

Caro Mezzalama, una precisazione, anzitutto, per i lettori. Durante la sua carriera lei ha conosciuto bene i due Paesi che formano oggi in Medio Oriente, per l’America di George W. Bush, l’«asse del male». Ho ripreso in mano le sue memorie, apparse qualche mese fa presso l’editore Rubbettino («L’avventura diplomatica ») e ho constatato che lei è un esperto in «Stati canaglia » perché è stato consigliere dell’ambasciata d’Italia a Damasco fra il 1963 e il 1967, e ambasciatore a Teheran dopo l’avvento di Khomeini al potere fra il 1980 e il 1983. Il suo arrivo a Damasco, nel febbraio 1963, cadde pochi giorni prima del colpo di Stato (l’ottavo dal 1949) con cui alcuni amici di Aflaq e simpatizzanti del presidente egiziano Nasser s’impadronirono del potere e collocarono alla testa del governo un esponente del partito Baath: Salah Al-Bitar. L’uomo che lei incontrò in un modesto appartamento del quartiere piccolo borghese di Damasco e con cui ebbe una lunga conversazione sul partito Baath, era quindi la mente della rivoluzione siriana e, al tempo stesso, il referente ideologico di un altro colpo di Stato che aveva avuto luogo qualche settimana prima a Bagdad, dove il partito Baath e un seguace di Nasser, il colonnello Abdel Salam Arif, si erano sanguinosamente sbarazzati del generale Abdul Karim-Al Kassem per installarsi al vertice dello Stato. Nei tre maggiori Paesi della regione — Egitto, Siria, Iraq — vi furono quindi, agli inizi del 1963, tre regimi caratterizzati da forme simili di socialismo ed egualmente convinti (sotto la guida politica di Nasser e ideologica di Aflaq) che soltanto l’unità avrebbe restituito agli arabi la dignità e l’influenza della loro storia passata. Esisteva già del resto, sin dal 1958, una sorta di unione fra Egitto e Siria (La Repubblica Araba Unita), fortemente voluta da Nasser, cui l’Iraq, nelle intenzioni dei suoi nuovi governanti, avrebbe potuto aderire sin dal 1964. Mai come allora l’unione dei popoli arabi sembrò a portata di mano. Le cose andarono diversamente. Nelle sue memorie, caro Mezzalama, vi è la cronaca dei torbidi, delle manifestazioni, dei colpi di mano e delle congiure di palazzo che caratterizzarono la vita politica siriana negli anni seguenti: il partito Baath diviso in correnti antagoniste, i nasseriani contro i nazionalisti siriani, i fautori del dirigismo socialista contro i mercanti del suk. La situazione restò instabile fino a quando un nuovo colpo di Stato, nel febbraio del 1966, portò al potere la fazione nazionalista del partito Baath. Il primo ministro, amico di Aflaq, fu arrestato, ma riuscì a evadere «rocambolescamente », e lo stesso Aflaq si rifugiò a Bagdad dove divenne segretario del Baath iracheno, amico e consigliere di Saddam Hussein. Questa imbrogliata storia medio-orientale può sembrare a un distratto lettore occidentale quello che Shakespeare, nel «Macbeth», definì un «racconto senza senso, pieno di chiasso e furore». Ma racconta la fine del grande sogno panarabo che alcuni intellettuali e politici medio- orientali avevano concepito dopo la fine dell’epoca coloniale. Dopo gli anni Sessanta vi fu una storia d’amore fallita fra Egitto e Libia, maogni Stato arabo pensò soprattutto a rafforzare la propria struttura nazionale e a perseguire i propri interessi. E la Lega araba, da allora, è soltanto una piccola Onu regionale dove i fratelli arabi riescono raramente a raggiungere un pieno accordo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 04 settembre 2006

 
   
 

Come la Gran Bretagna aiutò Garibaldi in Sicilia

Ho letto un suo recente intervento che citava la partecipazione del Regno di Sardegna alla guerra in Crimea. Cavour avrebbe sfruttato il pretesto per sedere al tavolo dei negoziati a fine conflitto e poter «sollecitare» in un consesso internazionale la questione dell' unità dell' Italia, ancora «espressione geografica». A suo dire, tale unità venne poi conseguita grazie anche al «favore» di Francia e Prussia. Ho letto, al contrario, che fu la Gran Bretagna, col suo intento di controbilanciare il potere degli imperi centrali, a guardare di buon occhio la nascita di un soggetto politico e militare come il Regno d' Italia; mentre la suddetta Francia non era certo contenta di un Regno d' Italia che la contrastasse nel Mediterraneo. Mi aiuta a capirne di più?

Matteo Zambelli

Caro Zambelli, le due versioni sono solo apparentemente contraddittorie. Napoleone III aiutò il Piemonte per una combinazione di ragioni sentimentali e calcoli politici. Era stato carbonaro. Aveva partecipato ai moti di Romagna nel 1830. Aveva letto con una certa commozione e, forse, con una punta di rimorso, la lettera che Felice Orsini (responsabile di un sanguinoso attentato al Teatro dell' Opera di Parigi) gli scrisse prima di salire sul patibolo per ricordargli la causa dell' unità italiana. E riteneva infine che un regno dell' Italia settentrionale, protetto da Parigi, avrebbe permesso alla Francia di conquistare, a danno dell' Austria, una forte influenza sull' Europa meridionale. Ma non aveva alcuna intenzione di favorire l' unificazione dell' intero territorio italiano sotto la dinastia dei Savoia. Un nuovo Stato, esteso all' intera penisola, avrebbe avuto maggiori ambizioni e sarebbe potuto diventare, come effettivamente accadde, un ingombrante concorrente della Francia nel Mediterraneo. La Gran Bretagna, invece, aveva sentimenti e interessi alquanto diversi. La sua opinione pubblica provava grandi simpatie per la causa italiana e lo dimostrò, tra l' altro, garantendo una generosa ospitalità a Giuseppe Mazzini, a Francesco Crispi, a Giovanni Ruffini, ad Antonio Panizzi e ad altri esuli italiani. Il suo governo, d' altro canto, vedeva con favore la nascita di un moderno Stato mediterraneo, governato da una classe dirigente liberale, ma ancora fragile e quindi interessato ad avere con Londra rapporti amichevoli. Fu questo il motivo dell' attenzione con cui gli inglesi, all' inizio del 1860, seguirono i preparativi di Garibaldi per l' organizzazione di una spedizione militare in Sicilia. Quando salparono da Quarto il 5 maggio del 1860, le navi dell' «eroe dei due mondi» avevano due interessati «angeli custodi». Il primo era l' ammiraglio Persano della marina sarda, incaricato da Cavour di seguire Garibaldi a rispettosa distanza e di intervenire, all' occorrenza, per dargli una mano. Il secondo era l' ufficiale della Royal Navy che comandava una piccola squadra britannica composta da due navi (Argus e Intrepid) che l' ammiragliato aveva mandato per proteggere i grandi stabilimenti vinicoli inglesi di Marsala (Woodhouse, Ingham, Wood). Vi erano anche, nella zona, alcune navi borboniche, ma si disse che l' ammiraglio Persano riuscì a negoziare la loro neutralità e che la presenza delle navi inglesi ebbe comunque un effetto deterrente. Naturalmente la spedizione ebbe successo grazie all' audacia di Garibaldi, al coraggio dei suoi uomini e alle vittorie militari dei Mille nel corso della loro campagna. Ma Cavour e la Gran Bretagna furono i padrini occulti della spedizione. La Francia e la Prussia ci aiutarono sul campo di battaglia battendo l' Austria a Solferino e a Sadowa, ma Londra ci dette una mano sul mare in un momento decisivo. Nasce allora quella alleanza anglo-italiana che durerà sino a quando, nella seconda metà degli anni Trenta, Mussolini decise di perseguire una politica mediterranea che si sarebbe scontrata con gli interessi britannici.

Sergio Romano
Corriere della sera, 09 settembre 2006

 
   
 

Gli intellettuali italiani tra fascismo e comunismo

Leggendo il testo da lei consigliato, «I redenti» di Mirella Serri, mi è venuto il desiderio di approfondire il tema degli intellettuali dapprima fascisti e decisamente razzisti, e dalla fine del 1943 in poi antifascisti organici; infatti da tale lettura risultavano duramente colpiti i totem della mia formazione liceale (Sapegno, Salinari, Argan, Garin, Russo).
Ho quindi avuto l'opportunità di sfogliare alcuni numeri della rivista « Primato», constatando che pur tra molti articoli non firmati, proprio di apologia del razzismo si trattava, con esaltazione dell'Ordine nuovo voluto da Hitler e affermazioni quali «la cultura è internazionale quanto più è nazionale» (Corrado Alvaro). So che la vicenda è già stata sviscerata in questi anni, ma mi domando banalmente se quella dell'opportunismo e «voltagabbanismo» non sia una nostra caratteristica imprescindibile e che tanto ci differenzia dai più lineari anglosassoni.
Insomma, secondo lei, la vicenda di «Primato» e «Roma fascista» configura davvero un caso politico tale da incrinare la fama della cultura italiana del dopoguerra o ha invece rappresentato una delle tante opportunità in cui gli italiani si buttano «per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i propri rancori e le loro invidie...
contro i colleghi» (De Felice), fenomeno a cui possiamo peraltro assistere spesso nel mondo del lavoro e in generale nella vita?

Maurizio Boerci
 
Caro Boerci, piuttosto che di intellettuali (espressione di cui amano fregiarsi le persone che non hanno una precisa competenza professionale) preferisco parlare di scrittori, docenti e artisti. Lei si chiede se il loro fascismo, prima del 1942, fosse una delle tante forme di opportunismo e carrierismo che ritornano periodicamente nella società italiana. È possibile. Gli scrittori e gli artisti hanno spesso occupazioni effimere, soggette alle fluttuazioni della domanda e legate alle irrazionali tendenze del gusto. E oscillano, durante la loro vita, fra due sentimenti: un esagerato concetto dei propri meriti e un disperato bisogno di denaro. Non è sorprendente quindi che siano particolarmente vulnerabili alle lusinghe e alle seduzioni del potere politico. Il fascismo e i suoi maggiori esponenti (Bottai, Farinacci, Balbo) li attrassero anche perché il regime fu un generoso finanziatore di opere pubbliche, un grande impresario culturale e un prodigo elargitore di commesse artistiche, cattedre, collaborazioni giornalistiche, funzioni direttive e organizzative nel mondo della cultura. Non sarebbe giusto, tuttavia, interpretare l'intero fenomeno con i soli criteri dell'opportunismo e del carrierismo. Il fascismo non avrebbe avuto tanta fortuna se non fosse cresciuto su un terreno lungamente coltivato da coloro che avevano duramente attaccato, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, la democrazia parlamentare, le «libertà borghesi» e l'individualismo liberale. Quasi tutta la più innovativa letteratura politica e filosofica europea, da Nietzsche a Sorel, da Barrès a Maurras, da Marinetti a d'Annunzio, da Marx a Bergson e al Croce della prima fase, fu esplicitamente antidemocratica o molto scetticamente democratica. Tutti erano alla ricerca di uno Stato nuovo, di un Ordine nuovo e, beninteso, di un uomo nuovo. E quasi tutti gli scrittori e artisti di quegli anni furono attratti dagli esperimenti sociali che si stavano realizzando nella Russia bolscevica, nell'Italia fascista e, dopo il 1933, nella Germania nazista. Aggiunga a queste considerazioni, caro Boerci, che la gioventù degli anni Trenta divenne fascista o comunista (i percorsi sono, sin dall'inizio, paralleli) perché la grande recessione del 1929 sembrò dimostrare che capitalismo e democrazia borghese stavano attraversando una crisi terminale. A fronte di questa crisi vi erano, invece, i successi dei regimi antidemocratici: il piano quinquennale in Unione Sovietica, l'Iri in Italia, le grandi opere pubbliche di Hitler dopo la conquista del potere. Per molti giovani «intellettuali» europei, la scelta in quegli anni non fu tra fascismo e democrazia, ma tra fascismo e comunismo. Si potrebbe persino sostenere che il successo del comunismo nel mondo della cultura fu enormemente facilitato in Italia dal successo che il fascismo aveva riscosso negli anni precedenti. Le schiere degli scrittori e degli artisti erano già pronte: dovevano soltanto imparare un nuovo catechismo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 11 settembre 2006

 
   
 

1939: il patto segreto fra la Germania e l’Urss

Sono uno studente di 18 anni e mi riallaccio all’intervento sulla questione di Danzica. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione in merito al patto nazi-sovietico del 1939 firmato dai rispettivi ministri degli Esteri Molotov e Ribbentrop che, al di là degli accordi economici, prevedeva la spartizione della Polonia (a ovest e a est di Brest Litovsk) e gli spazi di egemonia delle due potenze nell'Europa orientale. Come mai il patto è oggi poco noto? Eppure io credo che fosse di importanza notevole, come rivela la nota di Goebbels nel suo diario, perché era una sorta di scudo per Hitler non solo nei confronti dell’Urss, ma anche delle potenze europee che sarebbero dovute intervenire non solo contro il Reich ma anche contro l’Unione Sovietica. Ma la Francia e la Gran Bretagna dichiararono guerra solo al Reich. Erano forse preoccupate soltanto dalla difesa dell’Europa occidentale? E non è forse vero che al processo di Norimberga sulla condanna di Ribbentrop, plenipotenziario del Reich e protagonista del patto, pesò anche questo fattore?

Dante Antonio De Giovanni

Caro De Giovanni, il patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939 comprendeva due documenti: un trattato di amicizia, di cui venne pubblicato il contenuto essenziale, e un protocollo segreto con cui i due Stati si accordarono per la spartizione della Polonia e la delimitazione delle rispettive aree di influenza nel Baltico (l’accordo sulla Bessarabia fu stipulato più tardi). Per giustificare se stessi e riparare allo scompiglio che l’annuncio aveva provocato nelle file dei partiti comunisti, i sovietici sostennero che l’intesa era stata provocata dai negoziati bruscamente falliti a Mosca, nei giorni precedenti, con una delegazione anglo-francese. Gli occidentali (questa la tesi della diplomazia sovietica) pretendevano di essere aiutati contro laGermania nazista,madiffidavano dell’Urss e non erano disposti a permettere il transito dell’Armata Rossa attraverso il territorio polacco in caso di conflitto. In queste condizioni, aMosca non restava altra soluzione fuor che quella di proteggersi dall’espansionismo tedesco e guadagnare tempo. La spiegazione era ingegnosa, ma fu contraddetta dai vantaggi territoriali che l’Urss incassò nei mesi seguenti e dagli intensi rapporti economici che essa ebbe con il Terzo Reich sino al giugno 1941. Naturalmente l’invasione tedesca fece dell’Urss una preziosa alleata dell’Occidente ed ebbe l’effetto di stendere sul patto Ribbentrop- Molotov il velo del silenzio. Ma la questione riemerse quando gli americani, dopo la fine della guerra, annunciarono di avere trovato in un archivio tedesco la copia fotografica del protocollo segreto che i due ministri degli Esteri avevano firmato a Mosca alla presenza di Stalin. I sovietici replicarono che il documento era un falso, concepito nel clima della guerra fredda per screditare la patria del socialismo, e tutti i partiti comunisti occidentali si allinearono disciplinatamente su questa versione. Ma una commissione presieduta da Aleksandr Jakovlev, negli anni della presidenza di Boris Eltsin, ebbe il merito di scavare senza pregiudizi negli archivi del Cremlino e di portare alla luce l’originale del protocollo segreto. Ecco, caro De Giovanni, la storia del documento a cui lei, giustamente, attribuisce tanta importanza. Alla sua domanda sull’atteggiamento della Francia e della Gran Bretagna dopo l’inizio delle ostilità, rispondo che i due Paesi aiutarono la Polonia costringendo la Germania a combattere su un secondo fronte, ma non erano in grado di fornirle in quel momento più concreti aiuti militari o, peggio, di affrontare l’Unione Sovietica. Quanto al processo di Norimberga, non credo che il patto di Mosca abbia avuto alcuna influenza sulla sorte di Ribbentrop. Il ministro degliEsteri nazista fu considerato membro influente della corte di Hitler e responsabile, non meno di Göring, Keitel, Rosenberg, Franck, Kaltenbrunner, Seyss-Inquart e altri, dei crimini commessi dal regime. Se l’accordo con l’Urss fosse statomateria del dibattimento, Ribbentrop avrebbe potuto chiamare, come testimone per la difesa, il collega Molotov, e i magistrati sovietici naturalmente si sarebbero opposti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 Settembre 2006

 
   
 
Gerusalemme: questione insoluta della città contesa

Penso che Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese non sarebbe una buona idea. Gerusalemme dovrebbe rimanere una zona libera, gestita con il contributo degli Stati confinanti, e punto di incontro delle diverse religioni. Che ne pensa lei?

Giorgio Murgia

Caro Murgia, la sua convinzione riflette in parte le proposte di un Comitato speciale sulla Palestina istituito dall’Onu nel 1947. In un rapporto rilasciato il 31 agosto di quell’anno la maggioranza del comitato propose la creazione di due Stati e suggerì che la città di Gerusalemme venisse affidata all’amministrazione fiduciaria dell’Onu. I suoi confini sarebbero stati quelli indicati nel rapporto e gli affari della città sarebbero stati retti da un governatore, affiancato da una burocrazia municipale e da un corpo di polizia. Ma la guerra scoppiata dopo la proclamazione dello Stato d’Israele terminò con un armistizio che lasciava i combattenti sulle posizioni conquistate nei mesi precedenti: gli israeliani nei quartieri occidentali e i giordani nella parte storica della città. Le proposte del Comitato speciale, adottate nella risoluzione del 29 novembre 1947, rimasero lettera morta, e fu chiaro da quel momento che la sorte della città sarebbe stata legata alla sorte delle armi. La soluzione desiderata da Israele venne il 7 giugno del 1967 quando le sue forze, dopo avere circondato la città, entrarono nei vecchi quartieri attraverso la Porta dei Leoni. Cominciò immediatamente una corsa verso il Muro del Pianto, e «non ci volle molto», ha scritto Karen Armstrong in un libro su Gerusalemme pubblicato da Mondadori, «perché settecento soldati, con i volti anneriti e le uniformi macchiate di sangue, affollassero la piccola enclave che era stata interdetta agli ebrei per quasi vent’anni». L’emozione esplose quando un rabbino fece risuonare nella spianata del tempio il lamento dello shofar, il corno che accompagnava, nella tradizione ebraica, i riti sacrificali e l’inizio dei giubilei. Qualche settimana dopo, ricevendo una laurea honoris causa nell’Università ebraica, il generale Yitzhak Rabin, capo di Stato maggiore nei giorni della guerra, descrisse i paracadutisti che avevano conquistato il muro e piangevano, piegati sulle sue pietre. Daquel momento Israele fece tutto ciò che gli parve opportuno per creare il fatto compiuto. Il giorno della conquista fu annunciato che Gerusalemme era «l’eterna capitale di Israele ». Fu distrutto il quartiere maghrebino (circa 600 abitanti) per far posto ai pellegrini ebrei che avrebbero visitato il Murodel Pianto. Furono allargati i confini della città e vennero costruiti nuovi quartieri. Furono tentate esplorazioni archeologiche che i musulmani interpretarono come una minaccia ai loro monumenti religiosi. Quando divenne sindaco di Gerusalemme, Ehud Olmert, oggi Primo ministro, dichiarò: «Posso adoperarmi per garantire che la città rimarrà unita sotto il controllo israeliano per l’eternità». Quando volle manifestare la sua contrarietà al tentativo di intese che avrebbero avuto per conseguenza la creazione di due capitali, Ariel Sharon fece una clamorosa passeggiata sul piazzale delle moschee, vale a dire sul luogo che i musulmani chiamano Haram e gli ebrei il monte del tempio. Cominciò nelle ore seguenti la seconda Intifada. Formalmente la questione resta ancora aperta. Le ambasciate dei Paesi che hanno relazioni con Israele sono ancora a Tel Aviv e la Santa Sede, pur avendo stretto rapporti diplomatici con lo Stato israeliano, non ha rinunciato alla speranza che la vecchia Gerusalemme possa avere, in futuro, uno statuto internazionale. Matemo che il nodo della città santa sarà l’ultimo a essere affrontato e il più difficile da sciogliere.

Sergio Romano
Corriere della sera, 16 Settembre 2006

 
   
 
Quei missili libici contro Lampedusa vent'anni fa

Insomma, lei sostiene che la risposta all'attacco alle Torri Gemelle avrebbe dovuto fondarsi su polizia, intelligence e sorveglianza finanziaria. Mi pare essere l'atteggiamento tipico dei cultori dell'«appeasement» a tutti i costi. A questo atteggiamento mentale dobbiamo il disastro della Seconda guerra mondiale.
Nel seguire il filo di questa corrente di accomodante passività, oggi sarebbe interessante sapere quale era stata allora l'opinione degli addetti al lavori del ministero degli Esteri italiano sulla inconsistente reazione al lancio di due missili da parte di Gheddafi verso l'isola di Lampedusa.
In realtà l'Italia abbozzò perché in condizione di sudditanza petrolifera.
L'Agip ricava il greggio migliore dai pozzi libici.
Ma ciò ha confermato Gheddafi nella linea di poter impunemente continuare a non prenderci sul serio, di accampare esorbitanti pretese, di non pagare i debiti alla nostre imprese e di proseguire a spedirci immigrati clandestini nonostante ogni contraria assicurazione. E crede che gli Stati Uniti avrebbero potuto seguire la traccia di una siffatta politica? E che sarebbe stato utile alle sorti future dell'umanità e invece funzionale alla da noi dominante filosofia andreottiana del «tirare a campa'», visceralmente estranea alla cultura anglosassone?

Vincenzo Dittrich

Caro Dittrich, la sua lunga lettera contiene anche una seconda parte sull'Iraq a cui cercherò di rispondere in un'altra occasione. Per ora debbo limitarmi alle sue osservazioni sul mio presunto «appeasement» (l'atteggiamento conciliante di Chamberlain verso Hitler alla vigilia della Seconda guerra mondiale) e sulla questione dei due missili Scud lanciati dai libici contro Lampedusa il 15 aprile 1986. Credo che il richiamo all'appeasement appartenga alla categoria dei confronti, molto frequenti in questi ultimi tempi, fra eventi solo apparentemente simili. Si è parlato di islamo-fascismo, di falangi islamiche, di totalitarismo musulmano e sono state evocate, per giudicare gli eventi di questi ultimi anni, le ombre di Chamberlain, Hitler, Mussolini, Stalin. Nulla di nuovo. Quando decisero di attaccare l'Egitto dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez, il premier inglese Anthony Eden e il presidente del Consiglio francese Guy Mollet erano convinti che il presidente egiziano Nasser fosse un novello Hitler e che le lancette del grande orologio della storia segnassero le ore cruciali del 1938 e del 1939. Anche l'esempio dei missili libici mi sembra poco adatto a spiegare l'attualità. Per coloro che lo hanno dimenticato l'episodio cadde dopo una lunga crisi fra la Libia e gli Stati Uniti, ben descritta da Angelo Del Boca nella sua biografia di Gheddafi pubblicata da Laterza nel 1998. Gheddafi rivendicava la sovranità della Libia sulle acque del Golfo della Sirte, frequentemente pattugliate dalle navi della flotta americana, e il presidente Ronald Reagan era convinto che il colonnello libico andasse richiamato all'ordine con una operazione punitiva. Quando un attentato attribuito ai libici, in una discoteca di Berlino, uccise due persone (un sergente americano e una giovane donna turca) e ne ferì 230, Reagan decise di passare ai fatti. Nella notte del 15 aprile 1986, 70 cacciabombardieri americani si dettero appuntamento nel cielo della Libia. Gli obiettivi da colpire, ricorda Del Boca, erano cinque: «la base navale di Sid Bilal, gli aeroporti militari di Tripoli e di Bengasi, una base missilistica in Cirenaica e infine la caserma di Bal al'Aziziyyah dove abitualmente risiedeva Gheddafi con la sua famiglia». Vi furono 37 morti fra cui la figlia adottiva di Gheddafi, Hanna, di sedici mesi e 93 feriti fra cui la moglie del colonnello e due dei suoi figli. Le reazioni libiche furono tutto sommato limitate e prudenti. I due missili contro Lampedusa erano diretti, secondo i libici, contro la base di ascolto americana Loran C, occupata da una piccola guarnigione che era stata rafforzata qualche giorno prima da un contingente di marines. Ma caddero in mare a due chilometri dalla costa. Un anno fa il generale Basilio Cottone, già capo di stato maggiore dell'Aeronautica, ha dichiarato che di quei missili non esiste la prova e che la notizia gli era parsa falsa. Resta il fatto, comunque, che l'ambasciata di Libia a Roma ne confermò il lancio. L'Italia indirizzò ai libici una nota di protesta e Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, diffidò la Libia dal compiere altri atti del genere, ma dette un giudizio assai severo sull'azione americana. Fummo troppo cedevoli? Forse, soprattutto alla luce dei molti sgarbi di Gheddafi verso l'Italia. Mi chiedo tuttavia quale sarebbe stata la nostra reazione se fossimo stati colpiti da una grande potenza lontana che aveva le sue basi militari in uno Stato a noi vicino. Avremmo considerato questo Stato neutrale? O lo avremmo giudicato obiettivamente complice del nostro nemico?

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 Settembre 2006

 
   
 

Le armi chimiche

Caro Romano,
vorrei esprimere un mio dubbio sulle armi di distruzione di massa mai trovate in Iraq. Sicuramente Saddam non aveva la bomba atomica, ma circa le armi chimiche e batteriologice che dire? È credibile che gente come Saddam, o il famigerato Alì il chimico, avessero rinunciato a possedere tali armi?
E perché? Per timore degli osservatori e delle sanzioni dell’Onu?
Tanto più che si tratta di prodotti di non complessa reperibilità, facili da mimetizzare, trasportare e nascondere. Ma allora che fine hanno fatto queste armi?
Sono finite in Iran o Siria, in mano a qualche gruppo terrorista, oppure sono ancora nascoste chissà dove in attesa che qualcuno le recuperi e le usi? O forse, più semplicemente, queste armi sono state ritrovate (intendo in quantità significativa) e a me è sfuggita la notizia?

Luca Cremaschi

Le sue osservazioni sono
molto interessanti. Ma se gli americani avessero ancora qualche speranza di dimostrare che i loro argomenti, prima del conflitto, erano fondati, non mancherebbero di dircelo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 Settembre 2006

 
   
 
Perché tanti fascisti diventarono comunisti

La sua risposta su «Gli intellettuali italiani tra fascismo e comunismo» mi fa sorgere un interrogativo e azzardare una risposta. Non è il mito della rivoluzione la chiave privilegiata per spiegare l’adesione massiccia degli intellettuali italiani (ma non solo italiani, forse europei) prima al fascismo poi al comunismo?
Sulla base dei miei studi, ho maturato la convinzione di quanto questo mito (trasversale, che sfugge alle categorie di «destra» e di «sinistra») sia stato potente e pervasivo nella storia del ’900. Non è esso responsabile dell’attacco virulento da parte della cultura europea nei confronti delle istituzioni democratiche, fin dal periodo a cavallo tra ’800 e ’900? La guerra mondiale, il fascismo e il comunismo non sono forse interpretati da scrittori, docenti e artisti (portatori di una visione religiosa ed estetica della politica) come rivoluzioni capaci di fondare una nuova civiltà, una sorta di paradiso in terra, per realizzare il quale ci si affida agli strumenti del totalitarismo? Crollato il fascismo, gli stessi soggetti trovano nel comunismo (ugualmente antiborghese, antiliberale, antiamericano) l’incarnazione di quello stesso mito. Che cosa ne pensa?

Paolo Buchignani, paolobuchignani@tin.it

Caro Buchignani,
il mito della rivoluzione è stato la patologia del Novecento.
Una delle ragioni per cui i bolscevichi riuscirono a prevalere sulle forze democratiche e a godere in certi momenti di un considerevole consenso, fu l’attesa messianica della rivoluzione che si era diffusa nella società russa durante gli anni precedenti. Una larga parte della intellighenzia europea era convinta che il liberalismo, il capitalismo e la democrazia parlamentare avessero frantumato e corrotto la società.
Occorreva cambiare lo Stato, cambiare l’economia e, soprattutto, cambiare l’uomo.
Questo desiderio di rivoluzione ebbe l’effetto di rendere la guerra, nel 1914, un evento salutare e provvidenziale da cui l’Europa sarebbe uscita rigenerata.
Uno degli aspetti più sconcertanti del clima culturale europeo, fra il 1914 e il 1915, fu lo straordinario numero di scrittori, giornalisti, poeti e artisti che reagirono con incontrollabili manifestazioni di entusiasmo alla notizia del conflitto. I profeti armati o disarmati, pronti a servire il loro Paese in uniforme o con la penna, non furono soltanto i futuristi e i rappresentanti delle altre avanguardie, fiorite negli anni precedenti.
Nel suo libro («La rivoluzione in camicia nera», edito da Mondadori) ho trovato, caro Buchignani, una sorprendente citazione di Thomas Mann.
Il grande scrittore borghese, autore dei Buddenbrok e della «Montagna incantata», scrisse: «Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione, di immane speranza ci pervase allora! (...) Era la guerra di per se stessa a entusiasmare i poeti, la guerra quale calamità, quale necessità morale.
Era l’inaudito, potente e passionale serrarsi della nazione nella volontà di una prova estrema, una volontà, una radicale risolutezza quale la storia dei popoli sino allora forse non aveva conosciuto (...)».
Credo che lei abbia ragione, quindi, quando osserva che il fascismo ebbe un’anima rivoluzionaria e appartiene di diritto a questa grande patologia del Novecento. Mussolini fu interventista nel 1915 perché ritenne, come Lenin, che la guerra avrebbe rimescolato le carte e spianato la via alla rivoluzione. Dopo la marcia su Roma e la conquista del governo, venne a patti con tutti i «poteri forti» della società italiana, dalla monarchia al papato, ma non rinunciò mai alla componente rivoluzionaria della sua cultura politica. E’ stato spesso osservato che il regime fascista, a dispetto delle retoriche dichiarazioni del suo fondatore, fu più autoritario che totalitario. Ma il concetto di Ordine nuovo e di rivoluzione riappare prepotentemente, con tutte le sue implicazioni totalitarie, nella seconda metà degli anni Trenta e produce dibattiti che si prolungheranno sino al 1942. Appartiene al periodo della guerra un’altra citazione tratta dal suo libro. È una pagina del diario di Berto Ricci (il giovane ammirato da Montanelli) in cui si invoca una rivoluzione «nel fascismo e non contro il fascismo», e si afferma: «Siamo totalmente decisi a far questo, che se per ottenerlo occorresse combattere lo stesso Mussolini, noi lo combatteremmo». Berto Ricci morì in guerra. Molti suoi compagni divennero comunisti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 Ottobre 2006

 
   
 

La Nato: il lungo declino di una grande alleanza

Nella prospettiva
dell’unificazione europea molti passi avanti sono compiuti in ambito economico e giuridico.
I campi che sembrano presentare le più grosse difficoltà sono quelli della politica estera e della costituzione di una forza militare comuni. Le due questioni sono indubbiamente delicate perché più di altre sono espressione della sovranità nazionale, a cui nessuno rinuncia facilmente.
La politica estera dei singoli componenti dell’Unione continua a obbedire più a logiche e interessi di carattere strettamente nazionale che di respiro europeo: la diversa reazione all’intervento americano in Iraq lo dimostra. Inoltre, un ostacolo a una progressiva integrazione delle forze armate dei Paesi europei è, credo, rappresentato dalla Nato, organizzazione che, utilissima durante la Guerra fredda, dopo la fine di quest’ultima e la dissoluzione del Patto di Varsavia serve probabilmente più agli Stati Uniti per continuare a legittimare la propria presenza militare in Europa che non agli Stati europei. È realistico ipotizzare il raggiungimento degli obiettivi di una politica estera comune e di un’alleanza militare esclusivamente europea nell’arco dei prossimi dieci anni?

Luca Buonvino

Caro Buonvino,
è vero che la Nato è un ostacolo sulla strada della integrazione politica emilitare dell’Europa.
Gli Stati Uniti la vogliono tenere in vita perché permette a Washington di sostenere che la difesa dell’Europa è già assicurata e che ogni iniziativa europea nel campo militare sarebbe soltanto un inutile doppione.
Molti europei la accettano perché temono che la sua dissoluzione li costringerebbe ad affrontare responsabilmente il problema della propria sicurezza e provocherebbe una crisi maggiore nei rapporti con l’America. Grazie a questa convergenza fra interessi diversi, ma egualmente poco confessabili, la Nato ha impiegato gli ultimi quindici anni, dopo il crollo del suo vecchio nemico, nella instancabile ricerca di nuove missioni e nuovi obiettivi, insomma di una ragione che giustifichi la propria esistenza. I risultati non sono brillanti. Ne ricorderò alcuni a titolo di esempio.
La guerra del Kosovo, vale a dire l’operazione che i militari diMons e i funzionari di Bruxelles considerano probabilmente un successo, ha umiliato la Serbia, ha creato un problema pressoché insolubile (che cosa fare del Kosovo) e ha avuto per di più il paradossale effetto di scontentare l’America. Agli Stati Uniti, infatti, non è piaciuto che i loro bombardieri fossero costretti a operare sotto la guida di un comitato che si riuniva ogni mattina per scegliere gli obiettivi da colpire nel corso della giornata.
Il risultato del malumore americano fu evidente in Afghanistan nell’ottobre del 2001.
Quando Bush decise di reagire all’11 settembre colpendo il regime dei talebani, il Consiglio Atlantico scattò in piedi e offrì all’America, per la prima volta nella storia della Nato, l’applicazione dell’art. 5 del trattato, versione moderna del giuramento dei moschettieri: uno per tutti, tutti per uno. Ma quando si passò dai comunicati di solidarietà all’uso delle armi, gli Stati Uniti preferirono agire al di fuori dell’Alleanza con l’aiuto dei pochi Paesi anglofoni (Gran Bretagna, Canada) su cui ritenevano di poter contare.
Nel caso dell’Iraq, due anni dopo, la Nato venne chiamata in causa soltanto quando gli Stati Uniti si resero conto che non avrebbero ottenuto l’avallo del Consiglio di sicurezza. Fu quello il momento in cui convocarono il Consiglio Atlantico e chiesero agli alleati di impegnarsi a proteggere la Turchia dalle minacce irachene. Quali minacce? Sappiamo che Saddam Hussein non era in condizione di attentare all’integrità del territorio turco, ma quell’impegno, se fosse stato sottoscritto, avrebbe dato al mondo la sensazione che l’America combatteva in Iraq con l’approvazione dell’Alleanza.
Più tardi la Nato ha fatto finalmente la sua apparizione in Afghanistan, dove è oggi impegnata contro le formazioni talebane che si sono ricostituite in alcune parti del Paese.Maè accaduto perché gli Stati Uniti, dopo avere vinto la guerra, non avevano alcuna intenzione di gestire il dopoguerra distogliendo truppe dall’Iraq. E non sembra purtroppo che i membri europei dell’Alleanza abbiano voglia di mettere in campo le forze necessarie al successo dell’operazione.
Vi è ancora un esempio che dimostra quanto la Nato sia oggi difficilmente utilizzabile.Allorché l’operazione israeliana contro gli Hezbollah si dimostrò più difficile del previsto e fu necessario ricorrere a una forza d’interposizione nel Libano meridionale, gli Stati Uniti e Israele lasciarono intendere che la loro preferenza andava a un intervento della Nato.Masi resero conto rapidamente che una forza atlantica sarebbe stata percepita nella regione come la longa manus degli Stati Uniti e, indirettamente, dello Stato israeliano. Sono giunto così, caro Buonvino, al punto sollevato nella sua lettera. Il compito per cui la Nato si è rivelata inadatta è stato assunto da una forza dell’Onu che è in buona parte europea. Se i Paesi dell’Ue che la compongono si accordassero per gestirla collegialmente e dimostrassero di avere un visione comune dei problemi della regione, il Libano potrebbe forse diventare il terreno di prova e il laboratorio dell’Europa politica e militare di cui abbiamo bisogno.

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 Ottobre 2006

 
   
 
Tonchino 1964: comincia la guerra del Vietnam

Le scrivo per chiederle delucidazioni sull’incidente del golfo del Tonchino nell’agosto del 1964, il «casus belli» della guerra del Vietnam. Gli storici sono divisi tra chi crede nella messinscena americana (con l’avallo del nuovo presidente Lyndon Johnson), al fine di risolvere una volta per tutte i conti aperti nel sud est asiatico, e chi crede che realmente il cacciatorpediniere Maddox sia stato sfiorato da un missile comunista.
Quale è la sua opinione in proposito?

Riccardo Ronchese

Caro Ronchese,
gli incidenti del Golfo del Tonchino furono in realtà due ed ebbero luogo fra il 2 e il 4 agosto del 1964. Ma non ne comprenderemmo l’importanza se non ricordassimo che gli Stati Uniti si erano da tempo sostituiti ai francesi e assistevano militarmente il governo di Saigon.
L’inizio dell’impegno risale a un discorso del presidente Eisenhower, verso la fine della sua presidenza, in cui l’ex comandante in capo delle truppe alleate durante la seconda guerra mondiale sostenne che l’Asia sud orientale correva il rischio di cadere, un pezzo alla volta, sotto il dominio comunista.
Parlò di «effetto domino» e lasciò comprendere che il governo americano avrebbe fatto del suo meglio per impedirlo.
L’impegno a favore del governo di Saigon cominciò con l’invio di consiglieri militari.
Erano 685 nel 1961, ma andarono progressivamente aumentando durante la presidenza Kennedy sino a raggiungere il numero di 18.000 nell’anno della sua morte (1963) e di 25.000 nell’anno seguente. La parola «consiglieri» era una sorta di eufemismo. Addestravano l’esercito vietnamita, prendevano parte ad alcuni combattimenti, effettuavano voli sulle zone presidiate dai vietcong (i combattenti comunisti nel Vietnam del Sud) e fornivano preziose informazioni logistiche.
Ma formalmente gli Stati Uniti furono sino al 1964 soltanto una potenza amica, decisa ad assistere il Vietnam senza impegnarsi direttamente nel conflitto contro la guerriglia vietcong e le ambizioni della Repubblica popolare del nord.
La situazione cambiò, per l’appunto, nei primi giorni dell’agosto 1964.Un cacciatorpediniere degli Stati Uniti, il Maddox, fu attaccato in acque internazionali da tre cannoniere del nord e poté mettersi in salvo soltanto grazie all’intervento di aerei americani.
Sembrò una ingiustificata provocazione del nord e come tale venne presentata all’opinione pubblica degli Stati Uniti. Ma il Maddox «ascoltava» con le sue attrezzature elettroniche le comunicazioni militari dei nord-vietnamiti e trasmetteva informazioni all’aviazione del Sud. Non sappiamo se l’incidente fosse stato deliberatamente provocato dagli americani.
Ma sappiamo che Johnson era fermamente deciso a impedire la conquista comunista del sud. La «risoluzione del Golfo del Tonchino» fu approvata il 5 agosto con una schiacciante maggioranza (soltanto due senatori votarono contro) e conferì al presidente il diritto di agire senza una formale dichiarazione di guerra. Per molti aspetti l’episodio appartiene alla categoria degli incidenti fabbricati di sana pianta o opportunamente «corretti» di cui i governi si servono per meglio giustificare la loro politica estera. Ne troverà molti altri, caro Ronchese, in un bel libro di Marcello Foa («Gli stregoni della notizia. Da Kennedy alla guerra in Iraq: come si fabbrica informazione al servizio dei governi») apparso proprio in questi giorni presso l’editore Guerini.

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 Ottobre 2006

 
   
 
La base americana di Vicenza: meglio chiuderla

Recentemente gli Stati Uniti, al fine di potenziare la loro base militare in Veneto, hanno stanziato trecentoventidue milioni di dollari, in parte per realizzare nuove strutture all'interno della base e in parte in opere a favore della città di Vicenza. Sarebbe un bel colpo di fortuna per l'economia vicentina in quanto oltre a impiegare imprese locali per la realizzazione delle opere vedrebbe alla fine anche aumentate le maestranze italiane, ora settecentoquarantaquattro, che operano all'interno della base stessa.
In alternativa all'ampliamento gli americani sarebbero costretti a trasferire la base in altra nazione. Le autorità vicentine naturalmente non possono che vedere positivamente il progetto ma, e qui le dolenti e anacronistiche note, l'estrema sinistra, i Verdi e i pacifisti si oppongono.
L'indubbio benessere che ne deriverebbe per la comunità a loro non interessa, loro sono per la pace, odiano le armi e, purtroppo sono così miopi da non vederle quando a usarle sono i loro fratelli di pensiero. Certamente ai nostri pacifisti sarebbe più gradito trasformare l'attuale base militare in deposito ove accatastare mazze, bulloni, bottiglie incendiarie, estintori e quant'altro necessario per dare eclatanti esempi di inciviltà nell'assaltare le Forze dell'Ordine o nel devastare le città.
Forse, a pensarci bene, a questi benpensanti qualche mesetto nei centri di rieducazione cinesi non farebbe poi tanto male.

Leonardo Cecca
 
Caro Cecca, non occorre essere Verde o pacifista per avere qualche dubbio sull'opportunità delle basi americane in Italia. Gli Stati Uniti non sono un Impero, nel senso tradizionale della parola, e hanno smesso di acquisire nuovi territori sin dalla guerra ispanoamericana del 1898. Ma hanno creato nel mondo una fitta rete di installazioni militari che godono di una sostanziale extraterritorialità e sono quindi pressoché interamente sottratte alla giurisdizione dello Stato in cui sono collocate. Ne avemmo una prova quando i piloti responsabili della tragedia del Cermis, in cui perdettero la vita venti persone, vennero processati negli Stati Uniti ed ebbero pene modeste. E ce ne siamo accorti recentemente quando abbiamo appreso che la base di Aviano sarebbe stata una tappa nel «viaggio di trasferimento» di Abu Omar verso l'Egitto dopo il suo rapimento in una via di Milano. Queste basi risalgono agli anni della guerra fredda e rispondevano, nel momento in cui vennero create, a un interesse comune. L'Italia era una marca di frontiera, a poche centinaia di chilometri dal sipario di ferro, ed era naturale che il suo governo offrisse all'alleato maggiore l'uso del territorio nazionale per le esigenze della sua sicurezza. Oggi, dopo il crollo dell'Urss e dell'impero sovietico in Europa centro- orientale, le basi sono al servizio di una strategia politico- militare che l'Italia potrebbe non condividere. So che rappresentano per la gente del posto una fonte di reddito. Assumono personale civile, acquistano beni e servizi, appaltano lavori di costruzione e manutenzione, contribuiscono alla prosperità della regione. Ma non credo che uno Stato sovrano abbia interesse a cedere una parte del proprio territorio per attività su cui, in ultima analisi, non può esercitare alcun controllo. E credo che vi siano beni, nella vita di un Paese, che non possono essere misurati con il metro del denaro. Esiste del resto un caso recente in cui è stata fatta, a mio avviso, la scelta giusta. Quando è stato eletto alla presidenza della Regione Sardegna Renato Soru ha detto che si sarebbe impegnato per la chiusura della base americana della Maddalena. Vi sono stati contatti del nostro ministro della Difesa con il segretario Donald Rumsfeld e gli americani hanno accettato di andarsene. Mi piacerebbe che la stessa cosa accadesse a Vicenza.
 
Sergio Romano
Corriere della sera, 16 ottobre 2006

 
   
 
Perché esiste ancora il Lombardo Veneto

Può chiarire, specialmente a beneficio dei cittadini meridionali e con maggiori argomentazioni anche sotto il profilo storico, la seguente frase nel suo editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 5 ottobre prima pagina? «Esiste un’Italia del Nord e al suo interno un Lombardo Veneto che ha una storia, una cultura economica e una tradizione civile diverse da quelle del resto del Paese».

Francesco Fiorello

Caro Fiorello, per coloro che non l’hanno letto ricordo che l’articolo da cui è tratta la frase citata è un editoriale in cui segnalavo le dure reazioni alla legge finanziaria soprattutto in quella parte d’Italia che viene abitualmente chiamata Nord-Est e corrisponde al vecchio Lombardo Veneto della dominazione austriaca. Premetto che il culto di Maria Teresa e di Francesco Giuseppe mi è sempre sembrato una manifestazione di folklore provinciale e una sorta di leghismo colto. Ma è certamente vero che la Lombardia, il Veneto, il Friuli, la Venezia Giulia e il Trentino hanno avuto nella loro storia una lunga dimestichezza con l’amministrazione austriaca e con l’Europa centrale. L’illuminismo lombardo fu favorito dal clima culturale dell’impero durante il regno di Giuseppe II e produsse risultati (ad esempio il catasto) che ebbero effetti molto positivi per lo sviluppo dell’economia lombarda e veneta. L’amministrazione austriaca era spesso gretta e fiscale, ma seria e sostanzialmente corretta. Vi fu persino una fase, nei primi decenni dell’Ottocento, in cui alcuni riformatori, e soprattutto Carlo Cattaneo, credettero che la migliore prospettiva possibile per le province dell’Italia nord-orientale fosse un impero federale. Il Lombardo- Veneto ne avrebbe fatto parte, su un piede di pari dignità, con altre regioni storiche dell’Europa centrale e danubiana: l’Austria, l’Ungheria, la Boemia, la Croazia. La storia ha preso una diversa direzione e le due regioni, nel frattempo, hanno assorbito altre influenze europee e italiane. Ma il Veneto e il Friuli furono austriaci sino al 1866, Trieste e Gorizia fino al 1918: lunghi periodi durante i quali quella parte d’Italia ebbe maggiori rapporti con Parigi e Vienna di quanti ne avesse con Roma e Napoli. Non basta. Anche dopo l’Unità, la Lombardia e le province orientali hanno continuato a vivere in uno stesso contesto sociale ed economico. Bergamo e Brescia continuano a essere per molti aspetti, anche culturalmente, lombarde e venete. La prima immigrazione a Milano, negli anni in cui la città divenne il principale centro economico dello Stato unitario, fu prevalentemente veneta. Per i giovani ambiziosi delle province orientali Milano fu per molto tempo il «miraggio» europeo, la città in cui avrebbero potuto «fare fortuna». Guido Piovene nacque a Vicenza, ma fu milanese di adozione e scrisse prima di morire un saggio «contro Roma» in cui spiegò in termini letterari la sua predilezione per il Lombardo Veneto. Disse che Milano lo avvicinava alla cultura francese mentre il Veneto schiudeva il suo orizzonte a «influenze balcaniche orientali». Intendeva dire che tra Milano e Parigi, tra il Veneto e Vienna o Praga vi è meno distanza di quanta non ve ne sia tra il Lombardo Veneto e altre regioni della penisola. Aggiunga a tutto questo che Lombardia e Veneto hanno sempre guardato a nord più di quanto abbiano guardato a sud e non sono propriamente mediterranee. Lei potrebbe ricordarmi a questo punto che Venezia e Trieste si affacciano sull’Adriatico, ma io dovrei risponderle che l’Adriatico è soprattutto un mare interno dell’Europa danubiano-balcanica. Comunica con il Mediterraneo, ma non è Mediterraneo. Spero, caro Fiorello, che lei non mi attribuisca intenzioni secessioniste. Ma l’«eccezione » lombardo-veneta esiste e i governi nazionali farebbero bene a esserne consapevoli..

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 ottobre 2006

 
   
 
Base di Vicenza: qualche riflessione in più

Ho letto con stupore la risposta in merito alla base Usa a Vicenza. Secondo la sua tesi sarebbe opportuno che gli americani lasciassero completamente l’Italia, in nome della sovranità dello Stato. Non sono d’accordo innanzitutto perché questo principio sarebbe dovuto valere anche durante la guerra fredda. Ma quello che più mi stupisce è che lei consideri l’Italia talmente sicura da permettersi di rinunciare alle basi Usa e quindi all’ombrello protettivo degli americani.
Credo anzi che l’Italia abbia ancora bisogno degli americani e delle loro basi, visto che il mondo è ancora diviso in blocchi.
Un dato su tutti: gli Stati con l’atomica sono passati da 5 a 9. Esiste poi il fattore Nato, alleanza per l’autodifesa dei Paesi occidentali. Ebbene, in base al principio della sovranità dello Stato, chiudiamo anche queste basi?
O forse, visto che sono di una organizzazione sopranazionale, devono restare? Ma se queste basi possono restare aperte in base a trattati internazionali che di fatto riducono la sovranità dello Stato, non si può fare lo stesso discorso per qualche convenzione con una Nazione alleata?
Non dimentichiamoci e non facciamo finta di non vedere che gli Usa non sono un semplice alleato, ma il fulcro dell’Occidente.
Al contrario di lei, auspico che chi ha il potere di decidere le sorti delle basi americane le faccia rimanere per la sicurezza dell’Italia. Non vorrei che l’Italia si trovasse nella condizione di dipendere dalla difesa dell’Unione Europea che, come l’ha definita in modo sintetico ma efficace il presidente Cossiga, è «un gigante economico, un nano politico e un verme militare».

Giampaolo Guidolin
 
Caro Guidolin,
mi spiace, ho dovuto tagliare una parte della sua lettera, troppo lunga,maspero di averne conservato i punti essenziali.
Lei sostiene che la sovranita nazionale, in altri momenti, non ci ha impedito di accettare le basi americane e soprattutto la leadership degli Stati Uniti. E¡¯ certamente naturale che ogni Paese, in tempo di guerra, rinunci in parte alla sua sovranita. Durante il primo conflitto mondiale gli inglesi e gli italiani accettarono di combattere in Europa sotto il comando di un generale francese.
Durante la Seconda guerra mondiale la Gran Bretagna e i Paesi del Commonwealth riconobbero l¡¯utilita di un comandante americano.Ealtrettanto accadde, nell¡¯ambito della Nato, durante gli anni della guerra fredda.
Ma alla base di queste decisioni vi sono naturalmente l¡¯esistenza di un nemico comune e la necessita di una forte solidarieta. Oggi la situazione e radicalmente diversa. Il nemico comune e il terrorismo islamico d¡¯ispirazione religiosa, ma il miglior modo per sconfiggerlo non e combattere guerre immotivate come quella irachena, smantellare strutture statali senza avere idee chiare sul sistema politico che dovrebbe prenderne il posto, creare condizioni d¡¯insicurezza che provocano il risentimento della popolazione civile. In Iraq e per certi aspetti anche in Afghanistan, l¡¯America ha creato il terreno su cui il fanatismo religioso puo raccogliere sotto le proprie bandiere anche coloro che si battono, piu semplicemente, contro l¡¯occupazione straniera del loro Paese.
Se l¡¯America persegue una politica estera discutibile e non conforme ai nostri interessi, perche l¡¯Italia dovrebbe ospitare basi che sono strumenti di quella politica?
Evero che il numero dei Paesi nucleari sta progressivamente aumentando. Ma vi sono due considerazioni di cui e necessario tener conto. In primo luogo la bomba, soprattutto per una potenza di media grandezza, e un¡¯arma deterrente, destinata a garantirle una certa invulnerabilita di fronte a una potenza maggiore.
Se la Corea del Nord se ne servisse, sarebbe oggetto, pressoche immediatamente, di una micidiale rappresaglia. In secondo luogo, il Trattato di non proliferazione, firmato il 1¢ª luglio 1968, contemplava per i Paesi nucleari una sorta di reciprocita: l¡¯obbligo di adoperarsi per il progressivo disarmonucleare.
Tutti e in particolare gli Stati Uniti, hanno continuato ad arricchire e a perfezionare il loro arsenale.
Resta naturalmente il problema delle basi Nato, aperte sulla base di accordi con una organizzazione di cui l¡¯Italia e membro. Ma l¡¯organizzazione ha perso la sua originale ragione sociale e corre il rischio di essere usata, come nel caso dell¡¯Afghanistan, quando Washington non puo o non vuole portare a termine un lavoro lasciato a meta. Vi sono ottime ragioni per mantenere in vita l¡¯Alleanza Atlantica.
Ma ve ne sono altrettante per rivedere interamente gli accordi militari della Nato.
Per concludere, anch¡¯io, caro Guidolin, so che non e possibile, per il momento, fare affidamento sulla forza militare dell¡¯Europa. Ma il problema in questo caso e un altro: se sia opportuno affidarsi alla politica estera degli Stati Uniti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 ottobre 2006

 
   
 

Lo spazio e l’America secondo George W. Bush

La nuova dottrina sulla sicurezza nazionale Usa, varata in sordina dall’amministrazione Bush, stabilisce il diritto per Washington di negare a chiunque l’accesso allo spazio extra atmosferico «se ritenuto ostile agli interessi americani». Per assicurarsi la supremazia nell’atmosfera e oltre, gli Stati Uniti si autoconferiscono diritti privilegiati su un bene, lo spazio extra atmosferico, che è patrimonio comune di tutta l’umanità; e mentre si appropriano di tali diritti, si conferiscono anche il privilegio di negarli a chi venga «ritenuto ostile agli interessi americani». Il colmo è che mentre loro stessi si riservano il diritto di negare a chiunque l'accesso allo spazio dichiarano che «gli Stati Uniti si opporranno alla creazione di nuovi regimi legali o restrizioni che cerchino di proibirne o limitarne l'accesso e l’utilizzo dello spazio».

Federico Usiglio

Caro Usiglio,
la nuova dottrina degli Stati Uniti non pretende vietare ad altri Paesi l’uso dello spazio.
Vi sono addirittura passaggi del testo in cui sembra che l’America auspichi l’ingresso dei privati nel grande mercato delle attività spaziali. Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale si è limitato a una dichiarazione in cui si afferma che il documento «rispecchia la crescente importanza dello spazio come componente della sicurezza economica, nazionale e interna degli Stati Uniti». E un altro esponente dell’amministrazione ha detto bruscamente: «Questa politica non ha nulla a che vedere con lo sviluppo e la dislocazione di armi. Punto e basta ».
Ma vi sono almeno tre fattori che lasciano intravedere, nelle intenzioni dell’America, una crescente utilizzazione dello spazio per usi militari.
In primo luogo esistono ormai, nell’arsenale americano, numerosi sistemi d’arma e d’intelligence che dipendono da informazioni satellitari.
Colpire un satellite con una azione ostile significa accecare il «navigatore» di un’arma o una fonte di notizie. Sembra che gli americani siano stati preoccupati, negli scorsi mesi, da un raggio laser, quasi certamente cinese, che ha improvvisamente illuminato un loro satellite.
In secondo luogo gli Stati Uniti si sono continuamente opposti in questi anni alla proposta di un trattato sul disarmo spaziale.
Vent’anni fa, durante la presidenza Reagan, concepirono una ambiziosa «Iniziativa strategica di difesa» e si prepararono a costruire nello spazio una «linea Maginot» composta da ordigni nucleari, raggi laser e armi cinetiche (bombe composte da palline di acciaio) che avrebbero intercettato e distrutto i missili diretti contro il territorio americano.
Furono stanziate somme importanti e furono condotti alcuni esperimenti. Ma i risultati furono inferiori alle attese, i costi risultarono più alti del previsto e il buon andamento dei negoziati con l’Urss di Gorbaciov sui missili intermedi finì per rendere il progetto meno desiderabile.
Non sembra che gli americani abbiano l’intenzione di rimetterlo per ora in cantiere, ma non credo che lo abbiano completamente dimenticato.
In terzo luogo esiste nel documento americano la precisa volontà di negare l’uso dello spazio a una potenza ostile. È difficile immaginare che gli Stati Uniti facciano questa affermazione di principio senza predisporre al tempo stesso i mezzi necessari per raggiungere lo scopo. Gli strumenti più frequentemente discussi in questo contesto, secondo il Washington Post, sono i laser «accecanti» per neutralizzare i satelliti avversari, e i satelliti manovrabili con cui speronare quelli del nemico.
Lei potrebbe chiedermi a questo punto, caro Usiglio, se esista una autorità internazionale autorizzata a valutare le iniziative spaziali dei singoli Stati e a decidere quale fra esse debba considerarsi «ostile» agli interessi degli Stati Uniti.
La risposta è: no, non esiste.
L’America riserva unilateralmente a se stessa il diritto di decidere ciò che potrebbe nuocerle e a comportarsi di conseguenza.
Credo che sia questo il principale significato del documento firmato da Bush negli scorsi giorni.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 ottobre 2006

 
   
 
Hugo Chavez, un caudillo armato di petrolio

Il presidente venezuelano Chavez è stato qui in Cina a vendere petrolio, poi è andato in Siria. Io non conosco persone del Venezuela a cui rivolgermi per avere opinioni pro o contro, e chiedo quindi un suo giudizio su Hugo Chavez. Per il Venezuela e quindi per il popolo venezuelano è un buon presidente?

Giorgio Vettor

Caro Vettor, ai viaggi di Chavez occorre aggiungerne almeno due. A Cuba, dove ha partecipato al grande incontro dei Paesi non allineati, ha fatto una affettuosa visita a Castro nella clinica dove sta passando la sua convalescenza e ha firmato 29 accordi di cooperazione economica con il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. A New York, in occasione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha pronunciato un discorso durante il quale si è fatto il segno della croce e ha detto che il passaggio del presidente Bush, qualche ora prima, aveva lasciato nel grande emiciclo della maggiore organizzazione internazionale un odore di zolfo. Questo è lo stile del caudillo che governa il Venezuela dalle elezioni presidenziali del 2000. Ogni domenica mattina Chavez mette in scena alla televisione il suo show: mirabolanti promesse politiche, battute goliardiche, professioni di fede religiosa, continui riferimenti all'infanzia e all'adolescenza nella povera casupola dei suoi genitori, immancabili filippiche contro la politica imperialista degli Stati Uniti. Lo show apparentemente riscuote un grande successo. Hugo Chavez è un caudillo di estrazione militare, nello stile dei molti leader populisti che hanno preso il potere in America Latina nel corso del Novecento, da Getulio Vargas in Brasile a Juan Peron in Argentina. Secondo Mauro Elli e Lucio Valent, ricercatori del Centro di politica estera e opinione pubblica dell'università di Milano, "il populismo latinoamericano si è sempre definito una "terza via" tra liberalismo individualista e comunismo collettivista". Non ha mai contestato e abolito i principi fondamentali dell'economia di mercato, ma ha sempre cercato di "porre sotto il controllo dello Stato le industrie considerate di carattere strategico". Nelle sue forme più estreme e demagogiche il populismo latinoamericano si erge a paladino del popolo contro i latifondisti "rapaci", le multinazionali straniere, il capitalismo yankee; e finisce per dar vita, prima o dopo, a regimi autoritari caratterizzati da un forte culto della personalità. I suoi ultimi rappresentanti (Chavez in Venezuela, Evito Morales in Bolivia) hanno conquistato la loro popolarità denunciando i danni provocati dalle politiche liberiste che il Fondo Monetario Internazionale ha imposto alle economie latinoamericane durante gli anni Novanta. Quelle politiche avevano prodotto agli inizi risultati positivi, ma nella versione latinoamericana hanno provocato in qualche caso grandi crisi finanziarie e hanno ulteriormente allargato il divario fra ricchi e poveri. Il fattore che ha maggiormente contribuito al successo di Chavez in Venezuela e di Morales in Bolivia, tuttavia, è stato lo straordinario aumento del prezzo del petrolio e del gas nel corso degli ultimi anni. Per il Venezuela, in particolare, il petrolio rappresenta il 44 per cento del Pil e ha generato una considerevole ricchezza. Nello studio di Elli e Valent, completato nel novembre del 2005, si calcola che l'aumento del prezzo abbia regalato al governo di Caracas, nella prima metà del 2005, riserve di valuta pari a 28,7 miliardi di dollari. Le risorse energetiche e questa pioggia di denaro hanno permesso a Chavez di offrire aiuti ai Paesi di cui voleva conquistare l'amicizia (Cuba, ad esempio) e di adottare qualche generosa politica sociale. Aggiunga a tutto questo, caro Vettor, che vi è una larga parte del mondo in cui l'antiamericanismo, soprattutto dopo l'avvento di George W. Bush al potere, è una carta vincente. Oggi Chavez gode in molti Paesi di una notevole popolarità. Fra un anno, se il prezzo del petrolio si attestasse su livelli molto più bassi di quelli degli ultimi anni, la situazione potrebbe essere diversa.

Sergio Romano
Corriere della sera, 4 novembre 2006

 
   
 

Dialogo nucleare con un portavoce americano

Le scrivo per avere una sua risposta a questo quesito: quale diritto permette a una potenza nucleare di minacciare embarghi, ritorsioni o invasioni nei confronti di quelle nazioni che aspirano a diventare tali? È mai possibile che la Francia o il Regno Unito possano impedirlo al Belgio o all'Iran o alla Corea del Nord? Sono mai stati firmati patti contrari?
Io sono favorevolissimo a un disarmo nucleare totale del mondo ma non vedo per principio perché dovrei fidarmi di una nazione anziché di un'altra.

Timo Fè, Arcille (Gr)

Caro Fè, prima di darle la mia risposta cercherò di immaginare quella che le darebbe un portavoce del governo americano. Le direbbe anzitutto che nessuno pretende di impedire a un altro Paese di acquisire tecnologia nucleare per usi civili. Esiste anzi un Trattato per la non proliferazione delle armi nucleari, firmato il primo luglio 1968, in cui si legge all'art. IV: «Nulla di quanto è scritto in questo trattato può essere considerato diretto a impedire che tutti i suoi firmatari abbiano il diritto di sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso di energia nucleare per usi civili». E più in là, nello stesso articolo: «Tutti i firmatari si impegnano a favorire (...) lo scambio di attrezzature, materiale e informazione tecnologica per l'uso pacifico di energia nucleare». Lei potrebbe obiettare che gli Stati Uniti usano due pesi e due misure. Chiudono un occhio quando le armi nucleari sono nelle mani dell'India, del Pakistan e di Israele; ma non intendono permettere che esse cadano nelle mani dell'Iran e della Corea del Nord. A questa obiezione, sostanzialmente giusta, il portavoce risponderebbe che i primi tre Paesi hanno sempre rifiutato di firmare il Trattato di non proliferazione, mentre gli altri due lo hanno firmato e stanno quindi violando gli impegni assunti con un accordo internazionale. Lei potrebbe ribattere che l'Iran sostiene di non volere la bomba e di perseguire scopi esclusivamente civili. Ma il portavoce, a questo punto, le risponderebbe più o meno in questi termini: «Non crediamo all'Iran per due ragioni. In primo luogo ha nascosto agli ispettori della Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica) la costruzione di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio. In secondo luogo ha un pessimo regime e ha finanziato le attività di gruppi terroristici in Libano e altrove». Come vede, caro Fè, i problemi sono sempre molto più complicati di quanto possa sembrare a prima vista. Se lei vorrà discutere di queste cose con un portavoce americano dovrà tenere conto delle sue ragioni e disporre di qualche buon argomento supplementare. Ne suggerisco due, strettamente collegati. Osserverei anzitutto che il Trattato di non proliferazione non è un testo sacro, consegnato al presidente degli Stati Uniti sul monte Sinai. È soltanto il contratto che i beati possidentes della fine degli anni Sessanta (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina) hanno cercato d'imporre al resto del mondo. A giudicare dal numero di Paesi che sono riusciti in un modo o nell'altro a procurarsi armi nucleari, l'obiettivo sta fallendo e sarà sempre più difficile, nei prossimi anni, impedire che il club si allarghi. Come ho avuto occasione di osservare in un'altra risposta, l'Iran confina con la maggiore potenza nucleare del mondo su due frontiere (Afghanistan e Iraq, ambedue occupati dagli Stati Uniti) ed è a non grande distanza da altri cinque Stati nucleari: Russia, Cina, India, Pakistan, Israele. Osserverei poi che il Trattato di non proliferazione contiene due obblighi paralleli. I Paesi privi di arsenali nucleari si impegnano a non acquisirli mentre i cinque «possidentes» promettono di impegnarsi a disarmare. L'articolo VI dice esplicitamente: «Ogni firmatario s'impegna a negoziare in buona fede per interrompere il più presto possibile la corsa agli armamenti nucleari (...) e per concludere un trattato che realizzi un disarmo nucleare generale e completo sotto un rigoroso ed effettivo controllo internazionale». Chieda al portavoce americano, caro Fè, che cosa hanno fatto gli Stati Uniti e le altre potenze nucleari per realizzare le buone intenzioni di questo articolo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 5 novembre 2006

 
   
 

Il ruolo degli Usa nella Seconda guerra mondiale

Esce in questi giorni da noi «Flags of our Fathers», film dedicato da Clint Eastwood alla battaglia di Iwo Jima.
Di nuovo imperversa la civetteria servile di lasciare non tradotto il titolo di un film anglosassone, ma vorrei in realtà proporre qualche considerazione partendo da un'operazione commerciale che mira a vellicare l'esasperato patriottismo degli statunitensi. Questi sono convinti di aver vinto la guerra da soli e di potersi attribuire tutto, o quasi, il merito per avere abbattuto l'imperialismo nipponico e il totalitarismo nazista. Vorrei far notare che ai primi del 1942 Goebbels, nei suoi diari, attribuiva all'attacco contro l'Unione Sovietica la perdita della superiorità aerea tedesca su tutti gli altri fronti; e vorrei anche ricordare come alla fine del 1944, con gli Alleati sbarcati in Normandia da mesi, il fronte russo teneva impegnate molte più divisioni tedesche di quante Hitler ne potesse dispiegare sul fronte occidentale. Mi pare di tutta evidenza che la Germania ha perso la Seconda guerra mondiale essenzialmente per la follia dell'attacco all'Urss: mancando il fronte orientale, avrebbe vinto o quanto meno tenuto gli Alleati in posizione di stallo a tempo indefinito; e magari sarebbe pure riuscita a dare efficacemente man forte al Giappone.
Gli statunitensi, per favore, ricordino di dovere la vittoria al fatto che per ogni loro concittadino morto in guerra (praticamente tutti militari) persero la vita cinquanta sovietici (certo non tutti civili, dato che, a quanto pare, l'Armata Rossa, durante tutto il conflitto, impegnò la Wehrmacht più efficacemente di quanto seppe fare la U.S. Army).

Daniele Borlenghi , danieleborlenghi@libero.it

Caro Borlenghi, ogni Paese ha una naturale tendenza a esaltare le proprie vittorie e a glorificare l'eroismo dei propri soldati. Non è sorprendente quindi che Clint Eastwood, regista intelligente con un forte spirito nazionale e conservatore, abbia deciso di ricordare la guerra del Pacifico, un conflitto molto più difficile e sanguinoso per gli Stati Uniti di quanto siano state le battaglie combattute in Africa e in Europa. Ciò che maggiormente colpisce, nel panorama dei film di guerra, è l'assenza di una produzione europea che non sia generalmente pacifista e poco patriottica. I film americani dominano il mercato (penso al caso del «Soldato Ryan») anche perché gli europei, quando sono assetati di spirito patriottico e di glorie militari, finiscono per consumare il patriottismo e le glorie degli Stati Uniti. Vengo ora alle sue osservazioni sul ruolo degli americani nel conflitto. Credo che il loro intervento in Europa sia stato decisivo soprattutto per la quantità dei mezzi di cui disponevano, e che lei non abbia torto quando ricorda l'importanza determinante del fronte orientale. La sconfitta della Germania cominciò a Stalingrado, tra la fine del '42 e gli inizi del '43. L'assedio di Leningrado fu una straordinaria pagina di storia russa. L'Armata Rossa combatté eroicamente. I sacrifici sofferti dalla popolazione civile e dalle forze armate dell'Urss non hanno confronti con quelli subiti da altri Paesi. Vi sono tuttavia due aspetti della Seconda guerra mondiale che la sua lettera ignora e di cui sarebbe giusto tener conto. Il primo concerne la politica di Hitler verso l'Urss. Se il Führer non fosse stato dominato da un forte pregiudizio razziale, la Germania avrebbe potuto sfruttare i forti sentimenti anticomunisti delle popolazioni in Ucraina, in Bielorussia, in Crimea e nel Caucaso. Ma l'Armata bianca del generale Vlasov venne male impiegata, i russi che collaborarono con la Wehrmacht furono considerati soldati di seconda categoria e i prigionieri dell'Armata Rossa subirono un trattamento simile a quello dei prigionieri politici. Se Stalin potè contare sullo spirito patriottico del popolo russo, il «merito» fu in buona parte di Hitler e del disprezzo che il leader nazista nutriva per il grande popolo slavo. Il secondo aspetto ignorato nella sua lettera è la tenacia con cui gli inglesi decisero di continuare a combattere. Ciò che maggiormente colpisce nella rotta di Dunkerque (il porto sulla Manica dove s'imbarcarono le divisioni sconfitte della Francia e della Gran Bretagna) non fu l'entità del disastro, ma lo spirito di resistenza che animò da quel momento la società britannica. Churchill sapeva di poter contare sui Paesi del Commonwealth e sull'amicizia degli Stati Uniti. Ma non avrebbe potuto reagire con tanta fermezza alle sfortune militari dei mesi precedenti e preparare la riscossa, se non avesse avuto alle spalle la forza morale dei suoi connazionali. Onore ai russi, quindi. Ma anche, in un momento non meno difficile, onore agli inglesi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 novembre 2006

 
   
 

Quando Giovanni XXIII decise di parlare con l'Urss

Antonio Socci, alla vigilia del convegno ecclesiale di Verona, ha ricordato criticamente il «patto» tra il Kgb e il Papa buono, Giovanni XXIII, il quale, per avere al Concilio Vaticano II (solo) due osservatori della Chiesa russo-ortodossa («ben controllati dal Kgb», precisa Socci), rinunciò a condannare il comunismo (già definito da Pio XI «un flagello satanico»), che aveva fatto morire nel mondo decine di milioni di persone, di cui tanti milioni di cristiani e tante migliaia di religiosi, così favorendone la sopravvivenza, anziché accelerarne il crollo avvenuto nel 1989, dopo l'avvento di Papa Wojtyla. Quanto è fondato il giudizio negativo di Socci su Papa Roncalli?

Lucio Di Nisio

Caro Di Nisio, non ho letto le riflessioni di Antonio Socci e la mia risposta, quindi, varrà soltanto per le impressioni che lei ne ha tratto. Giovanni XXIII aveva una particolare sensibilità per i rapporti con il cristianesimo orientale. I suoi incarichi diplomatici in Bulgaria, Turchia e Grecia, fra il 1925 e il 1944, gli avevano ispirato grande simpatia per la Chiesa ortodossa. Ne conosceva i costumi, la mentalità, i riti, e sapeva che le differenze tra Roma e Costantinopoli sono meno importanti di quelle che separano la Santa Sede dalle Chiese riformate. Era naturale quindi che desiderasse una presenza ortodossa al Concilio Vaticano II. Sapeva che gli osservatori russi sarebbero stati scelti dal Cremlino e sorvegliati durante il loro soggiorno romano da agenti sovietici. Ma credo che il gesto ecumenico gli sembrasse più importante di altre considerazioni. Non credo che PapaRoncalli abbia rinunciato a condannare il comunismo. Per comprendere il suo atteggiamento conviene ricordare quale fosse il clima politico dell'Europa all'inizio degli anni Sessanta. La rivoluzione ungherese dell'ottobre 1956 era fallita. Fu chiaro a tutti in quei giorni che gli Stati Uniti non intendevano sostenere i ribelli e che non si sarebbero adoperati neppure per ottenere che all'Ungheria venisse conferito lo status di due Paesi (Finlandia e Austria) a cui l'Urss aveva concesso una sorta di libertà vigilata. All'inizio della rivolta il generale Eisenhower era in campagna elettorale per il rinnovo del suo mandato presidenziale. Al momento del secondo intervento sovietico era immerso nella crisi di Suez, una vicenda che, a torto o a ragione, dovette sembrargli più importante per l'Occidente delle sorti dell'Ungheria. Nei mesi seguenti, mentre Budapest era governata da un proconsole sovietico, tutti cominciarono a comportarsi come se la rivolta fallita avesse avuto l'effetto di consolidare la spartizione dell'Europa. La guerra fredda venne normalizzata, codificata, e gli scontri fra i due blocchi, da quel momento, ebbero luogo in altri continenti: a Cuba, nel Vietnam, nel Corno d'Africa, nelle ex colonie portoghesi. Non è sorprendente che in questa situazione Giovanni XXIII sia giunto, su un altro piano, alle stesse conclusioni. Se il sistema comunista era destinato a durare ancora qualche decennio, occorreva piegarsi alla realtà e cercare tra le pieghe del blocco sovietico gli spazi che avrebbero consentito alla Chiesa di restare in contatto con i suoi fedeli e svolgere al meglio la sua missione. L'avvenimento che doveva segnalare simbolicamente la svolta fu l'udienza che il Papa, poco prima di morire concesse alla figlia di Kruscev e a suo marito, il direttore della «Tass» Aleksej Adzhubej. Il documento da cui emerge implicitamente questa intenzione è l'enciclica Pacem in Terris, promulgata l'11 aprile 1963. In quel testo si legge che è necessario distinguere i movimenti filosofici dai movimenti politici e sociali che ne derivano. Mentre gli insegnamenti rimangono immutati, i movimenti sono condizionati dalle vicende storiche e possono subire cambiamenti di natura profonda. Insomma una cosa è il marxismo-leninismo, un'altra del tutto diversa è l'Unione Sovietica. Da quell'apertura di credito all'Urss cominciano la Ostpolitik della Santa e le lunghe peregrinazioni di monsignor Agostino Casaroli nelle capitali dell'Est europeo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 13 novembre 2006

 
     
     
   
 

Il tribuno elegante. Il segreto del successo di un leader
di Sergio Romano

Se il giudizio sulla grande manifestazione di Roma dipendesse esclusivamente dal programma e dai propositi contenuti nel discorso di Silvio Berlusconi, potremmo limitarci a constatare che nulla di quanto è stato detto a Piazza San Giovanni è particolarmente nuovo e convincente. L’uomo che assicura un futuro radioso è stato presidente del Consiglio e ha governato il Paese sino alla scorsa primavera. Il leader che promette sviluppo non è riuscito a impedire che il tasso di crescita del suo Paese, nei cinque anni del mandato, fosse estremamente modesto. Il leader che ha fatto della libertà il tema dominante del suo discorso non è riuscito a riformare gli ordini professionali, ad abolire il valore legale del titolo di studio e a ridurre ulteriormente la presenza dello Stato nell’economia. L’uomo che dichiara ai giovani di avere a cuore la loro sorte, non ha fatto nulla per impedire che essi debbano pagare con il loro lavoro, per molti anni, le troppe pensioni «di anzianità» della società italiana. Non tutto, naturalmente, può essere rimproverato a Berlusconi. La situazione economica europea era generalmente mediocre, la coalizione era eterogenea e il sistema politico italiano costringe il presidente del Consiglio a navigare con difficoltà tra compagni di viaggio rissosi che rimettono continuamente in discussione l’unità del governo. Molto di ciò che sta accadendo in questi mesi al governo di Romano Prodi era già accaduto al governo Berlusconi.
E la crescita dell’economia italiana nel corso del 2006 (stimata all’1,7%) non è probabilmente merito né dell’uno né dell’altro. Ma Berlusconi parla come se fosse un uomo nuovo. E’ questo l’aspetto più interessante del suo discorso di ieri. Un leader che non è riuscito a mantenere le promesse del 2001 e che ha impiegato una parte del suo tempo a risolvere in Parlamento i suoi problemi personali, può entusiasmare più di metà del Paese. Spero che il governo non si faccia illusioni. Deve riconoscere che la manifestazione romana è stata uno straordinario successo e deve chiedersene i motivi. La prima ragione è il pessimo spettacolo che la maggioranza ha dato di sé nei primi sei mesi del suo governo. Una maggioranza che litiga quotidianamente di fronte alla pubblica opinione e un governo in cui ministri e sottosegretari si comportano come se fossero all’opposizione, non sono credibili. Una Finanziaria che aumenta le entrate per risanare i conti dello Stato, ma non fa nulla per riformare il Paese, è destinata a scontentare anche quelli che avevano sperato nelle virtù dell’alternanza.
La seconda ragione è la massa di malumore e risentimento che gli italiani provano per la loro classe politica. Berlusconi dovrebbe essere, come qualsiasi altro uomo pubblico, l’oggetto di questo risentimento, ma è colui che, paradossalmente, ne trae vantaggio. Ottiene questo risultato con una retorica efficace e una straordinaria capacità di comunicazione. Forse soltanto Tony Blair, in Europa, riesce a stabilire un rapporto così intimo con il suo pubblico. Anche quando non convince con i suoi argomenti, Berlusconi è sempre un elegante, attraente «tribuno della plebe». Ma il vero segreto del suo successo è nella sua capacità di lusingare la folla, di sfruttare le sue paure e di alimentare i suoi pregiudizi. Non è senza significato che in tutto il suo discorso mancasse il benché minimo cenno all’Europa, alla globalizzazione e alla necessità di affrontarne le sfide. Peccato, perché sono queste le due realtà da cui dipende il futuro dell’Italia.

Corriere della sera, 03 dicembre 2006

 
   
 

Kosovo, il dramma di una patria contesa

L’8 novembre la Serbia ha proclamato solennemente la propria Costituzione: un evento storico sul quale tuttavia la maggior parte dei media italiani ha sorvolato, limitandosi a sottolineare che il preambolo riafferma la sovranità sul Kosovo-Metokja e che questo è un neo sul volto della nuova Serbia democratica. Quello della Serbia non è un caso isolato. Esiste infatti un pregiudizio antislavo che sembra serpeggiare in molti articoli di politica estera.
La Russia, per esempio, viene rimproverata di non essere democratica ogniqualvolta difende i propri interessi nazionali. Non le sembra che invece di cercare il dialogo con il mondo slavo si cerchi lo scontro più o meno diretto?

Marco Baratto

Tralascio il caso della Russia,
che meriterebbe una risposta separata, e riassumo i termini della questione per i lettori che non hanno seguito attentamente questo problema balcanico.
Un mediatore europeo (l’ex presidente finlandese Martti Ahtisaari) sta faticosamente cercando di trovare un punto di conciliazione tra due posizioni opposte. I kosovari vogliono l’indipendenza, senza condizioni e limitazioni. I serbi sostengono che il Kosovo è una provincia storica della loro nazione e approfittano dello stallo negoziale per bruciarsi i ponti alle spalle con il «fatto compiuto » del preambolo costituzionale a cui lei fa riferimento nella sua lettera. Il punto dolente di questa vicenda è che ciascuna delle due posizioni può apparire per molti aspetti legittima.
Gli albanesi del Kosovo rappresentano il 90 per cento della popolazione, ed è quindi normale che sostengano di avere diritto a una patria. Ma i serbi hanno qui le radici della loro storia secolare: la pianura in cui si combatté nel 1389 la battaglia di Kosovo Polje, gli antichi monasteri della Chiesa ortodossa, la sede del Patriarcato. E’ comprensibile, quindi, che essi considerino Pristina, secondo la definizione di un intellettuale serbo, la loro Gerusalemme.
Là dove lei vede un pregiudizio antislavo, caro Baratto, io vedo piuttosto l’imbarazzo degli osservatori internazionali quando sono costretti a occuparsi di questa imbrogliata vicenda.
Sanno che il Kosovo, dopo le repressioni serbe della fine degli anni Novanta e l’esodo forzato della popolazione durante il conflitto, non potrà più appartenere a Belgrado. Ma sanno che la creazione di un Kosovo indipendente aprirebbe due questioni non meno complicate.
Penso in primo luogo alla sorte della comunità serba che non ha abbandonato la provincia (più di 100.000 persone) e vive ormai dal 1999 in stato d’assedio. E penso, in secondo luogo, al problema della «Grande Albania». Quanto tempo passerà, dopo la costituzione di uno Stato kosovaro, prima che gli albanesi di Tirana, Pristina e Skopje (la capitale della Macedonia) chiedano di riunirsi all’interno di uno stesso Stato? Quali saranno le conseguenze di questo nuovo terremoto balcanico?
Qualche giorno fa la questione è stata affrontata all’Ispi (l’Istituto milanese per gli studi di politica internazionale) in occasione della presentazione di un libro di Miodrag Lekic edito da Guerini («La mia guerra alla guerra») in cui l’autore, ambasciatore di Jugoslavia in Italia durante il conflitto, descrive le vicende di cui fu testimone e protagonista in quei mesi.
Hanno partecipato all’incontro, insieme all’autore, Mara Gergolet, giornalista del Corriere, Riccardo Sessa, ambasciatore a Belgrado durante la guerra, eMaurizio Massari che fu per tre anni, dopo il conflitto, direttore della rappresentanza dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea) a Belgrado. Se ho ben capito, tutti sono giunti malinconicamente alla conclusione che il Kosovo, prima o dopo, avrà una sorta d’indipendenza a sovranità limitata e che le truppe europee, per evitare il peggio, dovranno continuare a presidiarlo. Una soluzione provvisoria destinata a durare indefinitamente.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 novembre 2006

 
   
 

Quando le democrazie sono più bellicose delle dittature

Per anni ho creduto che la democrazia fosse garanzia di pace. Mi sbagliavo e non vedevo quanto avevo sotto gli occhi. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono due grandi democrazie, ma non hanno garantito la pace nel mondo. L'elezione di Bush ha provocato l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq e ha fatto incancrenire la questione palestinese. Israele, la democrazia mediorientale vanto dell'Occidente, non riesce a garantire la pace con vicini che a mio parere la desiderano. In ogni caso la pace coi palestinesi scaricherebbe i fucili siriani e iraniani. Non le sembra giunto il momento di avviare una riflessione sul rapporto democrazia-guerra?

Pietro Ancona

Caro Ancona, la tesi secondo cui le democrazie sarebbero pacifiche e un mondo democratico sarebbe assai meno bellicoso di un mondo dominato da regimi autoritari è in una buona parte una leggenda. Ma anche le leggende meritano di essere studiate e comprese. Il nesso fra democrazia e pace risale alla filosofia politica di Woodrow Wilson e ai "14 punti" con cui il presidente degli Stati Uniti, nel gennaio 1918, spiegò al mondo che una diplomazia trasparente e democratica, condotta alla luce del sole sotto gli occhi della pubblica opinione, avrebbe risparmiato al mondo gli orrori della guerra. Più tardi, durante gli anni Trenta, gli umori della pubblica opinione nelle due maggiori democrazie europee (Francia e Gran Bretagna) sembrarono confermare la filosofia di Wilson. Mentre Hitler chiedeva la revisione dei Trattati di Versailles e l'Italia si preparava a invadere l'Abissinia, i cittadini del Regno Unito, nel giugno 1935, parteciparono a una specie di referendum sulla pace e approvarono a grande maggioranza gli ideali della Società delle Nazioni. A Monaco, nel 1938, il Premier britannico e il presidente del Consiglio francese (Chamberlain e Daladier) dimostrarono di essere pronti a considerevoli sacrifici pur di evitare la guerra. Gli avvenimenti dell'anno seguente, quando Francia e Gran Bretagna si risolsero al conflitto soltanto dopo l'invasione tedesca della Polonia, suggellarono la leggenda e ne fecero una incontrovertibile verità storica. E Pearl Harbor sembrò dimostrare che la libera America combatteva soltanto quando era minacciata e provocata da un regime militarista e autoritario. Ma il pacifismo inglese e francese degli anni Trenta era il risultato contingente delle perdite umane che i due Paesi avevano subito durante la Grande guerra e rifletteva la protesta delle opinioni pubbliche contro quello che molti definivano allora il "cinismo delle classi dirigenti". In realtà le democrazie, soprattutto dopo l'avvento delle società di massa, sono state spesso più bellicose dei regimi autoritari. Nel 1898 gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna e invasero Cuba. Nel 1911 l'Italia dichiarò guerra alla Turchia e invase la Libia. Nel 1914 le società democratiche della Francia e della Gran Bretagna salutarono la guerra con lo stesso bellicoso entusiasmo che essa suscitava nelle società un po' meno democratiche degli Imperi centrali. Nel 1956 la Francia e la Gran Bretagna, d'accordo con Israele, invasero l'Egitto. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti mandarono mezzo milione di uomini a combattere in Vietnam. E più recentemente, come lei stesso ricorda nella sua lettera, l'invasione americana dell'Iraq è avvenuta sulla base di argomenti che si sono rivelati insussistenti. Si potrebbe persino sostenere con qualche forzatura, caro Ancona, che certi regimi autoritari possono essere, in alcuni periodi della loro storia, meno bellicosi della democrazia. Né la Spagna né la Turchia parteciparono alla Seconda guerra mondiale. La Russia zarista e l'Unione Sovietica furono spesso considerate un pericolo per la pace d'Europa. Ma non fu la Russia che provocò la guerra russo- giapponese del 1904; e non fu l'Urss che provocò quella con la Germania del giugno 1941.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 novembre 2006

 
   
 

Come fare fortuna nella Russia ex sovietica

L’avvocato Gianni Agnelli disse
un giorno che le grandissime fortune familiari si costruiscono nel giro di molti decenni con tenacia e saggezza. Però, con la spregiudicata intelligenza e l’humour che lo caratterizzavano, aggiunse qualcosa di più interessante: disse, in sostanza, che i capostipiti di quegli inizi di accumulo di ricchezza non potrebbero essere oggi annoverati tra i santi. Tuttavia, mi pare che tra i costruttori di ricchezza dovuta a ingegno, implacabile determinazione, qualche pelo sullo stomaco e un pizzico di fortuna, e coloro che, da un giorno all’altro, si ritrovano plurimiliardari senza forse neanche sapere come, ce ne corra. Lei che ha conosciuto la realtà della Russia, mi sa spiegare come siano sorti all’improvviso in quel Paese, dopo la caduta dell’impero sovietico e nel giro di pochissimi anni, tanti super ricchi tra dirigenti e impiegati di Stato, molti dei quali probabilmente all’inizio degli anni Novanta avevano uno stipendio molto inferiore al mio di normalissimo funzionario di banca italiano? Io mi sono fatto una vaga idea. Ma avrei bisogno di saperne di più.

Alberto Voltaggio

Caro Voltaggio, quando descriveva la genesi di una grande fortuna familiare, Agnelli aveva perfettamente ragione. I «robber barons», i baroni ladri degli Stati Uniti, costruirono la loro ricchezza facendosi strada a colpi di gomito tra concorrenti meno abili o meno spregiudicati. Così fu scritta, tra la Guerra di secessione e lo Sherman Act del 1890 (la prima legge anti-trust), la storia americana del petrolio, dell’acciaio, della chimica e delle ferrovie. Ma i figli e i nipoti dei «robber barons» divennero colonne dell’establishment nazionale, si dedicarono al servizio dello Stato, crearono splendide fondazioni consacrate al bene dell’umanità, donarono al pubblico le loro splendide collezioni. Non so come si comporteranno in futuro gli eredi degli oligarchi russi, ma cercherò di descrivere nuovamente (credo di averlo già fatto in un’altra occasione) il modo in cui edificarono i loro imperi sulle macerie dello Stato sovietico. Tutto cominciò all’inizio degli anni Novanta quando Anatolij Ciubajs, ministro nel governo di Egor Gajdar (il presidente della Repubblica era Boris Eltsin), decise che il miglior modo per privatizzare i grandi conglomerati sovietici era quello di distribuire a tutti i cittadini russi un certo numero di buoni, comunemente chiamati coupon o voucher, ciascuno dei quali rappresentava una piccolissima frazione del bene che lo Stato metteva sul mercato. Quotati alla Borsa di Mosca quei buoni avevano un valore e divennero immediatamente oggetto di compravendita. Apparvero allora alcuni membri dell’apparato comunista, «giovani leoni» che conoscevano bene i meandri del potere sovietico. Per comprare i buoni si erano procurati il denaro ottenendo prestiti a tassi di favore dalle Casse di risparmio, vale a dire da quei salvadanai in cui i cittadini sovietici avevano depositato il denaro che non riuscivano a spendere in un Paese dove i negozi erano vuoti. Dopo avere acquisito in tal modo la proprietà delle aziende, i baroni russi dovettero, beninteso, restituire i prestiti. Ma l’inflazione galoppante, nel frattempo, aveva considerevolmente ridotto il loro debito. Per sfruttare al meglio le loro imprese, gli oligarchi furono altrettanto spregiudicati. Quando producevano materie prime richieste dai mercati internazionali, le esportavano e trattenevano all’estero, per sottrarla all’inflazione e al fisco, buona parte del prezzo in valuta pagato dall’importatore. Non era legale, ma è probabile che bastasse ungere qualche ruota per evitare guai con la giustizia. Ben presto, comunque, gli oligarchi capirono che occorreva disporre, per completare l’opera, di due strumenti: un mezzo d’informazione (giornale o canale televisivo) e una banca. Il primo serviva a influire sulla pubblica opinione, la seconda a manovrare il denaro delle loro transazioni. Toccarono lo zenith del potere quando finanziarono la campagna elettorale diBorisEltsin per il rinnovo del mandato presidenziale. Alla fine degli anni Novanta erano entrati al Cremlino e avevano un ruolo simile a quello dei boiari prima della grande purga di Ivan il Terribile. La parte dello zar, in questo nuovo dramma russo, fu recitata, meno sanguinosamente, da Vladimir Putin. Ecco perché i russi gliene sono grati, caro Voltaggio, e continuano a pensare, nonostante le critiche dell’Occidente, che l’ex colonnello del Kgb sia un buon presidente.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 novembre 2006

 
   
 

Il Vietnam: una sconfitta militare e politica

Nella pagina del Corriere della Sera del 18 novembre
che riportava la cronaca della visita di Stato del presidente statunitense George W. Bush in Vietnam ho letto due affermazioni che a mio avviso possono apparire in qualche modo contraddittorie.
Infatti si descrive il Vietnam come «...Il Paese comunista che oltre trent'anni fa sconfisse militarmente l’America», mentre al contempo si riporta la dichiarazione testuale di Bush che ha dichiarato: «...Allora perdemmo perché scappammo». Quello che vorrei chiederle è proprio come si debba interpretare tale sconfitta: ha ragione il presidente americano nell’affermare che la «fuga» americana dall'Indocina fu dettata da una scelta politica più che da una valutazione di carattere militare?

Mario Taliani - Noceto (Pr)

Caro Taliani,
non v’è dubbio che gliStati Uniti, se lo avessero voluto, avrebbero potuto continuare la guerra e infliggere al Vietnam del Nord danni molto più gravi di quelli che il Paese aveva già sofferto.
Mail presidente Nixon e il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, furono indotti a chiudere la partita da due considerazioni.
In primo luogo il fronte interno si stava rapidamente sgretolando.
Non dimentichi che esisteva allora negli Stati Uniti la leva obbligatoria. I neri sacchi di tela cerata che rientravano in patria ogni giorno sotto gli occhi delle telecamere, non contenevano corpi di «professionisti pagati per morire», ma di giovani coscritti. E non dimentichi infine che dalla metà degli anni Sessanta all’inizio degli anni Settanta la società americana fu sconvolta da forme di contestazione giovanile e da rivolte razziali sempre più radicali e violente. Vi fu un momento in cui il direttore del Fbi, John Edgar Hoover, temette che il Paese fosse entrato in un fase prerivoluzionaria.
In secondo luogo la guerra stava paralizzando la politica estera americana. Impegnata da un conflitto che diventava ogni giorno sempre più imbrogliato e sanguinoso, la maggiore potenza mondiale era divenuta una specie di Gulliver, inchiodato al suolo del Vietnam da una miriade di minuscoli lillipuziani.
Il primo ad accorgersi che occorreva tagliare i lacci e restituire agli Stati Uniti una maggiore libertà di movimento fu Henry Kissinger, prima consigliere per la sicurezza nazionale, poi segretario di Stato.
Fu lui che negoziò segretamente la ripresa dei rapporti con la Cina e creò le condizioni per il trionfale viaggio di Nixon a Pechino nel febbraio 1972.
Per uscire dal Vietnam Kissinger decise che occorreva «vietnamizzare» il conflitto.
L’accordo con il Nord, concluso dopo un lungo negoziato nel gennaio 1973, prevedeva la fine delle ostilità, il ritiro delle truppe americane, libere elezioni nel Sud, la convocazione di una Conferenza internazionale e un graduale processo di riunificazione.
Questo castello di buone intenzioni non resse alla prova dei fatti,ma permise agli Stati Uniti di ritirare le truppe.
La vera partita continuò a essere giocata sul terreno tra i due campi vietnamiti e terminò con la caduta di Saigon nelle mani dei comunisti il 30 aprile 1975.
Torno ora, caro Taliani, alla sua domanda. A me sembra che la disfatta sia stata contemporaneamente militare e politica.
Le forze armate avrebbero potuto continuare a combattere, ma i piani dello Stato maggiore si scontrarono con la imprevista resistenza dei vietcong e si dimostrarono quindi inefficaci. La vicenda vietnamita dimostrò che un esercito, per vincere, deve avere alle proprie spalle un Paese convinto e pronto a sopportare sacrifici per il tempo necessario alla vittoria. I nord vietnamiti vinsero anche perché dimostrarono di avere una coesione e una tenacia superiori a quella dei loro avversari.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 novembre 2006

 
   
 

Il mito di Yalta e la storia della Guerra fredda

Riguardo alla genesi della Guerra fredda, di cui la rivolta di Ungheria fu un episodio, lei osserva che valse a stabilizzare più che attizzare, poiché gli Stati Uniti, astenendosi dall’intervenire, rispettarono gli equilibri territoriali scaturiti dalla Seconda guerra mondiale.
Possiamo aggiungere «secondo il Patto di Yalta» che li aveva già fissati?

Pier Luigi Baglioni

Caro Baglioni,
nel 1989 uno studiosa dell’università di Sassari, Paola Brundu Olla, organizzò nella sua città un bel convegno sulla conferenza di Yalta a cui parteciparono storici di molti Paesi. Quasi tutti i relatori s’impegnarono a dimostrare, carte alla mano, che la realtà del grande incontro tripartito, organizzato nel febbraio 1945, era stata assai diversa dalla versione diffusa nei manuali di storia degli anni seguenti. I tre grandi (Churchill, Roosevelt e Stalin) parlarono della guerra che l’Unione Sovietica si era impegnata a dichiarare contro il Giappone, del governo che avrebbe rappresentato la Polonia dopo la fine del conflitto e soprattutto della grande organizzazione internazionale che avrebbe dovuto sostituire la Società delle Nazioni.
Non vi fu spartizione perché la guerra non era ancora finita e molte questioni, per necessità o scaltrezza, vennero affrontate in termini molto generali. Oggi sappiamo che i tre leader avevano ambizioni diverse e che Stalin, in particolare, era deciso a controllare politicamente tutti i territori di cui l’Armata rossa si sarebbe impadronita prima della fine del conflitto. Ma in quei giorni, ripeto, non vi fu la divisione dell’Europa in sfere d’influenza che molti attribuiscono all’incontro tripartito del febbraio 1945 nella vecchia residenza estiva di Nicola II.
Charles F. Bohlen, grande esperto di cose sovietiche e interprete di Roosevelt in quella circostanza, disse un giorno, con ragione: «Credo che la carta d’Europa sarebbe più o meno la stessa anche se non vi fosse mai stata una conferenza di Jalta».
Il problema che dovrebbe preoccuparci, quando parliamo di quell’avvenimento, è la tenacia del mito. Perché Yalta, da allora, è sinonimo di spartizione? Perché la maggior parte della pubblica opinione è fermamente convinta che i tre leader dell’Alleanza vincitrice abbiano diviso l’Europa in sfere d’influenza e gettato in tal modo le basi per quella convivenza conflittuale che fu definita «Guerra fredda ». Credo che il mito di Yalta abbia almeno tre padri.
Il primo è il generale de Gaulle. Profondamente irritato dallo sgarbo che i tre grandi gli avevano fatto tenendolo fuori della porta, de Gaulle sostenne che la conferenza era responsabile delle sventure del mondo negli anni seguenti. E trasse da questa analisi un argomento per giustificare la politica autonoma che la Francia, sotto la sua guida, avrebbe perseguito.
Il secondo è il partito anti roosveltiano della società americana.
In odio a Roosevelt e per conquistare consenso, soprattutto negli ambienti maggiormente preoccupati dalla minaccia sovietica, questo partito sostenne che il vecchio presidente, ormai stanco e malato, aveva ceduto a Stalin il controllo di una larga parte del continente europeo e che occorreva quindi ricacciare l’Urss all’interno delle sue frontiere.
Il terzo padre, caro Baglioni, è la nostra propensione a interpretare le vicende storiche come frutto di congiure, manipolazioni, patti segreti, accordi di vertice conclusi dietro le spalle dei popoli. Anche quando i leader cercano di trattare i popoli e i territori come le poste di una grande partita, le vicende storiche sono il risultato di una molteplicità di fattori che sfuggono quasi sempre al loro controllo. Nella storia della Guerra fredda Yalta è soltanto un capitolo, forse meno importante di quelli che sono stati scritti negli anni seguenti a Potsdam, Praga, Berlino.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 novembre 2006

 
   
 

La Russia e l’Europa

Caro Romano, su Putin sono perfettamente d’accordo con lei. Anche qui in Germania Putin è oggetto di molte critiche, tanto forti quanto ingiuste: Putin ha stabilizzato, ridato coscienza nazionale e forza a un grande Paese, già sull’orlo del baratro e del dissolvimento.
Quale alternativa avrebbero voluto e preferito le tanto critiche «anime belle», in particolare qui in Europa: una Jugoslavia o un Iraq all’ennesima potenza sulla soglia di casa, ai confini sia con la Cina che con un mondo islamico già più che esplosivo? «Là dove si pialla cadono trucioli»: è il realismo, non il cinismo che mi fa ricordare questo vecchio proverbio tedesco.

Giuseppe Bancale, Nürnberg (Germania)

Molti sembrano avere dimenticato in Europa che l’integrità e la stabilità dello Stato russo sono un interesse europeo.
Incidentalmente il proverbio tedesco da lei citato, me ne ha ricordato uno russo, assai più brutale e molto amato da Krusciov: quando si tagliano alberi, volano schegge.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 novembre 2006

 
   
 

Fascismo, comunismo e la nascita dei «partiti chiesa»

Sono rimasto colpito dalla sua affermazione riguardo al fatto che molti italiani divennero comunisti perché scoprirono nel Pci la bella copia del grande partito di massa che li aveva attratti e ispirati durante gli anni del fascismo.
Colpito perché un'affermazione del genere, non so quanto casualmente, quasi coincide con quanto detto da Giorgio Bocca durante la presentazione del suo ultimo libro, che pare essere la risposta «confermista» a quello di Pansa. Intervistato in diretta nel programma «Che tempo che fa» di Fabio Fazio, l'ex partigiano ha testualmente asserito che gli italiani sono tutt'oggi in maggioranza fascisti. Affermazione che pare avere trovato in quanto da lei scritto una involontaria conferma.

Mario Taliani

Caro Taliani, non ho ascoltato le dichiarazioni di Giorgio Bocca alla trasmissione televisiva da lei menzionata, ma non ne sono sorpreso e non credo di avere detto cose particolarmente originali. Chiunque sia nato negli anni del fascismo e abbia assistito alla straordinaria popolarità del partito comunista non può non avere notato le analogie fra i due fenomeni. Il Pci conquistò rapidamente due milioni di membri, molti dei quali erano stati certamente fascisti. E gli intellettuali del partito, come è stato spesso ricordato su questa pagina, avevano quasi tutti iniziato la loro carriera nelle riviste fasciste o conquistato i loro primi allori nei Littoriali organizzati dal regime. La somiglianza tra i due fenomeni non è occasionale o superficiale. Fascismo e comunismo furono progetti totalitari, animati da una forte ambizione educativa. Non volevano semplicemente conquistare voti o simpatie, come è nella natura di qualsiasi partito politico. Volevano rifare la società, creare l'«uomo nuovo», impartirgli una solida educazione ideologica, inquadrarlo nelle organizzazioni del partito e trasformarlo in cittadino militante, pronto a mobilitarsi ogni qualvolta la casa madre decideva di riempire le piazze e mostrare i muscoli della propria forza. Vi è una evidente affinità tra le oceaniche adunate di piazza Venezia e i giganteschi comizi di piazza San Giovanni. Le parole pronunciate in quelle occasioni erano diverse, ma le liturgie e la regia erano straordinariamente simili: le «cartoline precetto» in un caso, gli autobus predisposti dai sindacati per gli operai delle fabbriche nell'altro. Ciascuno di questi due grandi partiti di massa dovette fare i conti con la realtà e venire a patti con le tradizioni e le abitudini della società italiana. Il fascismo conquistò il potere, ma fu costretto a spartirlo con la monarchia e con la Chiesa. Il comunismo conquistò una parte della società civile e delle grandi istituzioni culturali, ma si rese conto che gli italiani sarebbero rimasti, nonostante tutto, cattolici, familisti e profondamente legati ai beni che erano riusciti ad accumulare nel corso della loro esistenza. Questo successo parziale ebbe l'effetto di provocare nei militanti dei due movimenti l'attesa di un evento che avrebbe completato l'opera e soddisfatto pienamente le loro attese. Nel partito di Mussolini vi fu sino alla fine una componente che non smise mai di attendere la «seconda ondata» della rivoluzione fascista. Nel partito di Togliatti vi furono coloro che auspicavano una nuova Resistenza, più radicale e decisiva di quella che veniva celebrata come pietra di fondazione della Repubblica. Qualche giorno fa, rispondendo a una lettera su Eugenio Reale (il comunista che abbandonò coraggiosamente il Pci dopo la rivoluzione ungherese), ho ricordato una raccolta dei suoi scritti pubblicata qualche anno fa. Nella prefazione Antonio Carioti ricorda che i militanti, dopo la repressione sovietica a Budapest, fecero quadrato intorno a Togliatti e scrive: «Condizionati da un antico retaggio storico e dalla recente esperienza del regime fascista, molti italiani preferiscono avere con la politica un rapporto fideistico, chiedono di riconoscersi in un'autorità che offra loro certezze indiscutibili». Ecco perché fascismo e comunismo furono, come osserva ancora Carioti, «partiti chiesa». Si odiarono e si combatterono perché avevano straordinarie somiglianze, operavano su uno stesso terreno e cercavano di conquistare lo stesso popolo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 novembre 2006

 
   
 

La fine della guerra

Caro Romano, tutto storicamente corretto ciò che lei scrive sulla fine della guerra in Vietnam. Ma i lettori hanno forse perso di vista un punto importante: non è vero che gli Stati Uniti sono stati sconfitti militarmente. Il Vietnam del Sud è stato invaso mesi e anni dopo che gli americani si erano ritirati da quel Paese. Militarmente è stato sconfitto il Vietnam del Sud. Che poi questo sia avvenuto perché gli Stati Uniti non hanno avuto la volontà di rimanere a presidiarlo, è vero. Ma battere militarmente — ripeto, militarmente — gli Stati Uniti, è un'altra cosa.

Gianni Pardo

Già prima del ritiro delle forze degli Stati Uniti esistevano nel Vietnam del Sud numerosi nuclei di vietcong che conducevano operazioni di guerriglia e che gli americani non riuscirono a eliminare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 novembre 2006

 
   
 

Orrore e violenza nella televisione e nella vita

Negli ultimi tempi le cronache hanno riferito episodi di bullismo e di violenza sessuale tra adolescenti. Qualcuno si è meravigliato di come alcuni di questi hanno descritto, senza alcun pudore, le loro bravate, ma se la tv trasmette in continuazione film e fiction dove la violenza e le scene erotiche sono all'ordine del giorno, c'è poco da meravigliarsi se i ragazzi sono convinti di fare cose normali. Chi si è battuto contro la censura e per la libertà di espressione dovrebbe fare qualche riflessione.

Datino Datini

Caro Datini, la rappresentazione dell'orrore e della violenza appartiene alla storia della cultura popolare europea. Sin dalla fine dell'Ottocento la penny press (i giornali a poco prezzo, diffusi soprattutto in Inghilterra, Stati Uniti e Germania) racconta con grande compiacimento storie di sangue e di sesso. Per molti anni, fino al secondo dopoguerra, vi fu a Parigi un «Théatre du Grand Guignol» dove andavano in scena ogni sera assassini, stupri, decapitazioni e mutilazioni di ogni genere. Quello a cui lei fa riferimento, quindi, non è un fenomeno nuovo. Ma la curva, in questi ultimi decenni, si è bruscamente impennata e la rappresentazione dell'orrore o della violenza sessuale è diventata molto più esplicita di quanto sia mai stata in passato. È probabile che all'origine di questa impennata vi siano molti fattori fra la cui la maggiore licenza che la rivoluzione dei costumi, dopo il 1968, ha reso possibile. Ma la causa principale è probabilmente lo straordinario aumento dei consumi, reso possibile dal cinema e dalla televisione, nel corso degli ultimi decenni. La massa crescente degli spettatori ha provocato una vertiginosa crescita dell'offerta, vale a dire dei prodotti che programmatori, registi e sceneggiatori debbono fornire ogni giorno. Come nel caso della moneta, l'aumento del «circolante» ha prodotto inflazione e una sorta di concorrenza al rialzo. Ne ho avuto una prova recentemente vedendo, a un giorno di distanza l'uno dall'altro, due film tratti da un famoso romanzo fantascientifico intitolato «La guerra dei mondi» in cui H. G. Wells immaginò nel 1898 la tentata conquista del pianeta da parte di una flotta di navi marziane. Il primo fu realizzato da George Pal nel 1953 ed ebbe grande successo per la fantasia delle sue invenzioni e le qualità dei suoi effetti speciali: la forma delle astronavi (grandi uccelli d'acciaio con un enorme becco minaccioso), le tempeste magnetiche, i raggi di luce che colpiscono la terra e riducono in cenere gli esseri umani, gli alberi e le case. Il secondo, firmato da Steven Spielberg e realizzato un anno fa con la partecipazione di Tom Cruise, si ispira in buona parte alla fantasia di Pal, ma rincara la dose con un tasso di orrore molto più elevato. Un solo esempio: mentre nel primo film i terrestri vengono inceneriti, nel secondo una sonda calata dall'alto risucchia il loro sangue nel serbatoio dell'astronave. Si direbbe che Spielberg, per rendere il suo film maggiormente «credibile», sia stato costretto a moltiplicare le immagini orribili e violente. Ciò che spaventava gli spettatori del 1953 sarebbe ora banale, quasi ridicolo. Gli spettatori si abituano all'evoluzione dello stile e riescono, in grande maggioranza, a conservare intatto nella loro mente il confine tra la realtà e la finzione. Ma è certamente vero che una minoranza, composta non soltanto da giovani, perde il senso di quella distinzione e finisce per ritenere lecito ciò che è frutto della fantasia. Dovremmo forse, a causa di questa minoranza, modificare con qualche forma di censura le regole che governano nelle nostre società la libertà di espressione? Dovremmo prendere una tale decisione anche se qualche governo autoritario, domani, potrebbe servirsi di queste norme per applicarle in altri casi? O non dovremmo piuttosto cercare di educare i giovani a separare la finzione dalla realtà?

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 novembre 2006

 
   
 

La scelta della guerra

Caro Romano, scrivo a proposito del rapporto tra democrazia e guerra. Nella sua rubrica ha recentemente risposto a una lettera su questo argomento, affermando che non è vero che i Paesi democratici sono meno propensi alla guerra che i Paesi non democratici; anzi, secondo lei, spesso può accadere il contrario. Mi permetto di evidenziare che alle guerre partecipano sempre dittature, Stati autoritari o comunque non democratici, con l'eventuale coinvolgimento delle democrazie quando esse si sentono (a torto o a ragione) minacciate. In altre parole, i casi di guerra tra Paesi democratici sono molto rari. Per questo motivo è legittimo e ragionevole prevedere che, quando le procedure e i costumi democratici saranno diffusi in tutti i Paesi del mondo, le guerre probabilmente scompariranno.

Mario Ristoratore

È vero che le democrazie fanno la guerra quando si sentono minacciate. Ma sono spesso i loro governi, non un'indiscussa autorità internazionale, che decidono se si tratta di minaccia o di questione da affrontare e risolvere con altri mezzi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 novembre 2006

 
   
 

La guerra civile spagnola: una difficile verità

In una delle sue risposte, lei fa una distinzione tra giornalisti miopi e storici presbiti. Restando all'interno della metafora oftalmica, come definirebbe gli storici che, «trattando con freddezza» gli argomenti da loro studiati «senza farsene coinvolgere», ancora oggi (Petacco, benemerito, a parte) con il loro silenzio avallano la tesi franchismo uguale male, repubblicani uguale bene? Le sarei grato se potesse darmi la sua opinione.

Massimo Bassetti

Caro Bassetti,
sulla guerra civile spagnola sono stati scritti in questi anni libri molto intelligenti ed equilibrati, fra cui quello di Anthony Beevor edito da Rizzoli, e quello ancora più recente di Gabriele Ranzato («Il passato di bronzo», edito da Laterza), per non parlare di quanto è apparso in Spagna dove una nuova generazione di studiosi sta affrontando il tema con occhi nuovi. Lei non ha torto, tuttavia, quando osserva che per molti anni la ricostruzione di quegli avvenimenti è stata ispirata da una sorta di «partito preso». Occorreva dimostrare che la Repubblica era democratica, che il fronte antirepubblicano era biecamente reazionario e che il trionfo dei franchisti nel 1939 fu la vittoria di una minoranza retriva, spalleggiata dai regimi totalitari, contro la generosa resistenza del popolo spagnolo. Oggi sappiamo che questa versione degli eventi è alquanto elementare e possiamo chiederci perché, nonostante qualche voce dissonante, abbia resistito così a lungo.
La versione presentava, soprattutto per il Pci, molti vantaggi.
Dimostrava che la Spagna, dove si erano combattute le prime battaglie contro nazismo e fascismo, annunciava le guerre di resistenza e liberazione che si sarebbero combattute durante la Seconda guerra mondiale. Confermava che i comunisti avevano avuto in queste battaglie, sin dal 1936, un grande ruolo direttivo. Lasciava nell’ombra la parte ambigua che gli emissari di Mosca avevano recitato nelle vicende spagnole. Dava un colpo di spugna alle relazioni che Stalin ebbe con la Germania nazista fra la firma dei protocolli segreti dell’agosto 1939 e l’invasione tedesca dell’Urss nel giugno 1941. Per accreditare questa versione fu necessario censurare tutto ciò che avrebbe potuto suscitare qualche sospetto sulla sua coerenza.
Fu dimenticato che Togliatti aveva espresso duri giudizi su Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà e autore di un famoso pamphlet intitolato «Oggi in Spagna, domani in Italia». Fu dimenticata la brutale repressione comunista dei trozkisti a Barcellona.
Fu ignorato che i sovietici inviati in Spagna vennero trattati da Stalin, al loro ritorno in patria, come potenziali nemici.
Naturalmente questo non significa che le nuove storie della guerra civile possano ora dimenticare gli orrori del franchismo, soprattutto negli anni immediatamente dopo la vittoria.
Beevor, Ranzato e molti altri hanno documentato la durezza della repressione, le persecuzioni, i giudizi sommari, il lavoro coatto. Dopo avere conquistato il potere, Franco scatenò una nuova guerra civile contro coloro che avevano osato resistergli. Fece in altre parole esattamente quello che avevano fatto i comunisti dopo la conquista del potere e Hitler dopo l’avvento alla cancelleria.
E anticipò su scala più modesta quello che avrebbe fatto Mao dopo la creazione della Repubblica popolare cinese nel 1949.

Sergio Romano
Corriere della sera, 29 novembre 2006

 
   
 

Turchia e Stati Uniti, un’amicizia in pericolo

A proposito della diffidenza degli europei verso la Turchia, le faccio notare che molti non comprendono l’insistenza con la quale, da sempre, gli Stati Uniti (ultima nell’ordine Condoleezza Rice) premono in ogni occasione per convincere l’Europa a consentire l’ingresso della Turchia nella Ue. Personalmente ho rivolto la domanda a diversi cittadini americani che non sono stati in grado di rispondere. Non capisco, dal momento che gli Usa hanno avuto un rapporto previlegiato con la Turchia a causa soprattutto della guerra fredda, perché continuino a mantenere tale atteggiamento fino al punto di pretendere che l’Europa agisca secondo le loro strategie.

Giorgio Di Giacomo

Caro Di Giacomo,
la guerra fredda è finita, ma gli americani non hanno mai rinunciato a tenere in vita le alleanze, le basi militari e i dispositivi di sicurezza creati in quegli anni. Oggi più che mai sono convinti che gli interessi dell’America siano globali e che il Paese debba essere in condizione di combattere su qualsiasi fronte e in qualsiasi teatro geografico. Non esiste più una minaccia comunista, ma potrebbe esistere domani (così ragionano molti esponenti della classe politica degli Stati Uniti) una minaccia russa o cinese.
In questa visione del mondo la Turchia, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha un posto fondamentale. Nel 1947 l’America annunciò un piano di aiuti per proteggere Turchia e Grecia dalle insidie dell’Urss.
Nel 1952 volle che i due Paesi entrassero nell’Alleanza Atlantica. Nel 1955 costruì intorno alla Turchia una sorta di Nato medio-orientale di cui fecero parte l’Iraq (per un breve periodo), il Pakistan, l’Iran e la Gran Bretagna. Aggiunga a questo, caro Di Giacomo, che la Turchia, nel frattempo, aveva partecipato con un contingente militare alla guerra di Corea e che lo stato maggiore americano era rimasto assai colpito dalle qualità militari del soldato turco.
È naturale quindi che gli Stati Uniti non perdano occasione per sollecitare l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.
In primo luogo fanno un piacere al governo di Ankara che ha perseguito tenacemente questo obiettivo sin dagli anni Sessanta. In secondo luogo cercano di impedire che la Turchia, respinta dall’Europa, si stacchi dal fronte atlantico e si lasci attrarre da altre aspirazioni. E in terzo luogo, infine, si propongono probabilmente un altro risultato: un’Europa sempre più vasta e disorganica, incapace di affrontare Washington con forti politiche comuni.
Ma il sostegno degli Stati Uniti nella questione dell’adesione all’Ue non ha impedito che il clima dei rapporti turco- americani divenisse in questi ultimi tempi molto meno cordiale. Le ricordo che il governo di Ankara, nella primavera del 2003, non volle permettere alle truppe americane d’invadere l’Iraq passando attraverso il suo territorio. Temeva che la guerra americana avrebbe messo a soqquadro l’intera regione e che il nazionalismo dei curdi iracheni, rafforzati dal crollo del regime di Saddam, avrebbe attraversato la frontiera e contribuito a riaccendere il fuoco delle agitazioni curde in Turchia. Oggi il governo di Ankara constata che le sue preoccupazioni erano fondate e dà prova del suo malumore facendo poco o nulla per contrastare l’ondata di sentimenti antiamericani che è percepibile in alcuni ambienti del Paese. Come vede, caro Di Giacomo, la colonna dei passivi, nel bilancio della guerra irachena, diventa per l’America sempre più lunga.

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 novembre 2006

 
   
 

La Moschea Blu

Caro Romano, il viaggio del Papa in Turchia e la sua visita alla Moschea Blu non possono non riportarci indietro con un pensiero alla passeggiata sulla spianata delle moschee da parte di Sharon e alle sue conseguenze non proprio positive.
Anche se programmati con le migliori intenzioni, non le sembra che possano venire interpretati come una sfida aprendo un ulteriore vaso di Pandora dal coperchio già traballante e provocare più danni che benefici?

Edith Dzieduszycka

Sharon andò sulla spianata delle moschee a dispetto dei palestinesi.
Benedetto XVI ha visitato la Moschea Blu con il beneplacito delle autorità turche. Il confronto, se mai, è con la visita di Giovanni Paolo II alla grande moschea di Damasco.

Sergio Romano
Corriere della sera, 02 dicembre 2006

 
   
 

I Bush e l'Iraq. Perché il padre fu meglio del figlio

Durante alcuni scambi di opinioni fra amici sulla guerra in Iraq, il discorso è risalito alla prima guerra, quella cioè scatenata dall'invasione, da parte di Saddam, del Kuwait. Prima domanda: fu l'Onu a inviare l'esercito americano o l'America decise da sola? Seconda domanda: gli americani nella vittoriosa corsa si fermarono mi pare a circa 40 km da Bagdad e si ritirarono nonostante le promesse fatte agli sciiti di spodestare Saddam. Promessa non mantenuta che costò cara al popolo sciita, lasciato solo dopo che aveva accettato di dare un certo aiuto a Bush padre. Ebbene perché non conquistarono Bagdad? Nella compagnia c'è chi sostiene che fu il Congresso americano a fermare l'esercito, chi dice invece che l'impegno con l'Onu era solo quello di creare una fascia di sicurezza fra Iraq e Kuwait, chi invece, come me, afferma che non è mai stato chiarito il vero motivo. Addirittura, ho aggiunto, è apparsa tempo fa sul Corriere una notizia in cui si affermava che fu il presidente egiziano a pretendere lo stop. Lei conosce il vero motivo di tale decisione ?

Pierantonio Pedroni, Cremona

Caro Pedroni, la prima Guerra del Golfo fu una guerra dell'Onu, combattuta con l'approvazione e sotto l'egida della maggiore organizzazione mondiale. A differenza del figlio, Bush padre costruì pazientemente il grande meccano della diplomazia internazionale e riunì intorno agli Stati Uniti, nella coalizione, alcuni dei maggiori Paesi musulmani, dall'Arabia Saudita agli emirati del Golfo, dal Marocco all'Egitto, dalla Siria al Pakistan. La decisione d'interrompere l'avanzata dell'esercito americano sulla via di Bagdad fu presa (con un certo disappunto del comandante in capo generale Norman Schwarzkopf) dallo stesso presidente. Quando venne aMilano per la riunione del consiglio di amministrazione di una società americana, due anni fa, Bush sr incontrò alcuni giornalisti che gli chiesero il motivo della decisione. Rispose che questo era il desiderio dei Paesi alleati e in particolare dell'Arabia Saudita. Credo che gli amici arabi di Bush avessero ragione e che la scelta del presidente sia stata particolarmente saggia. Se avessero completato la conquista dell'Iraq e smantellato il regime di Saddam, le forze della coalizione avrebbero dovuto scegliere fra due opzioni: abbandonare l'Iraq agli oppositori del rais o restarvi il tempo necessario alla ricostruzione dello Stato. Nel primo caso sarebbe probabilmente scoppiata una guerra di successione irachena, nello stile di quelle che furono combattute in Europa durante il Settecento quando la fine di una dinastia suscitava le ambizioni di possibili successori stranieri. L'Iraq non è uno Stato nazionale. E' il risultato di un collage, voluto dagli inglesi dopo la Grande Guerra, nel quale convivono, spesso precariamente, tre grandi gruppi etnico- religiosi: sunniti, sciiti e curdi. I tre gruppi si sarebbero contesi il controllo delle ricchezze del territorio e i Paesi confinanti sarebbero entrati in guerra per estendere la propria area d'influenza o, più semplicemente, per evitare che altri Stati concorrenti approfittassero dell'occasione. Nel secondo caso, la forze d'occupazione avrebbero dovuto affrontare, per un periodo difficilmente determinabile, tutti i pericoli di una situazione terribilmente complicata. Ma sui rischi di una lunga occupazione non è necessario spendere molte parole. E' sufficiente guardare all'Iraq d'oggi, tre anni e mezzo dopo l'inizio delle operazioni militari americane, per giungere alla conclusione che la guerra del padre fu meglio di quella del figlio. Resta la questione sciita a cui lei fa riferimento nella sua lettera. Gli americani incoraggiarono gli sciiti a ribellarsi, ma non fecero, per quanto io sappia, promesse formali. La colpa di cui si macchiarono fu un'altra: quella di permettere a Saddam la repressione della rivolta dopo la conclusione dell'armistizio. Lo fecero perché temettero che gli sciiti sarebbero divenuti la quinta colonna dell'Iran e perché ritennero che l'integrità dello Stato iracheno, dopo la liberazione del Kuwait, fosse utile alla stabilità della regione.

Sergio Romano
Corriere della sera, 04 dicembre 2006

 
   
 

Perché è bene che l'economia cinese continui a crescere

Assistiamo in questi giorni alla firma di importanti accordi tra la Cina e alcuni Paesi africani. A quanto sembra il gigante di Pechino continua a fare grossi progressi in politica estera, mostrando a mio avviso di essere ogni giorno di più una potenza in grado di influenzare le sorti del pianeta. Mi chiedo quale sarà il futuro degli equilibri geopolitici. Si andrà verso un predominio del Paese asiatico? Gli Stati Uniti, da sempre paladini della democrazia, quale atteggiamento adotteranno nei confronti della Cina, che non è un esempio di libertà e rispetto dei diritti umani? Il risultato sarà un'integrazione tra Occidente e Oriente, o uno scontro di civiltà di portata ben maggiore di quello già attualmente in corso con il mondo arabo?

Matteo M. Borsoi

Caro Borsoi, per alcuni anni, durante la Guerra fredda, la presenza della Cina in Africa fu ispirata soprattutto da considerazioni politiche. Con l'invio dei suoi tecnici e dei suoi istruttori, il regime comunista di Pechino si proponeva come modello per i Paesi in via di sviluppo e cercava di fare concorrenza all'Occidente e all'Urss nel Terzo mondo. Oggi le motivazioni sono diverse. Grazie alla sua straordinaria crescita economica, la Cina ha bisogno di materie prime e le ottiene stringendo rapporti economici con i Paesi produttori. Lei ha accennato giustamente all'Africa, ma occorre ricordare anche i viaggi dei governanti cinesi in America Latina, divenuti in questi anni particolarmente frequenti e generalmente coronati da importanti contratti. Questa politica economica è anche, naturalmente, politica estera. In Sudan, ad esempio, i cinesi sono accolti a braccia aperte perché chiudono un occhio sulle responsabilità del regime nella sanguinosa vicenda del Darfur e gli assicurano una certa solidarietà all'Onu. In America Latina sfruttano i sentimenti antiamericani di numerosi governi della regione. Quale sarà, nei prossimi anni, il peso della Cina nel mondo? Il problema è stato discusso negli scorsi giorni alla Università Bocconi durante una tavola rotonda, organizzata dall'associazione Gulliver, per la presentazione di un libro di Federico Rampini su «L'ombra di Mao», pubblicato da Mondadori. I relatori, fra cui Enrico Filippini e Paolo Mieli, hanno parlato soprattutto dell'importanza di Mao in una Cina in cui i suoi eredi hanno drasticamente rovesciato, nel campo economico, tutti i principi del suo catechismo rivoluzionario. Ma nel pubblico, composto prevalentemente di studenti, qualcuno ha preso la parola per fare una domanda molto simile a quella della sua lettera: dobbiamo avere paura della Cina? Sono state date due risposte diverse, ma non necessariamente contraddittorie. Sul piano economico, la risposta è no. La crescita dell'economia cinese rappresenta una minaccia per alcune industrie tradizionali europee, come quella dei tessili, e costringerà altri settori a riorganizzarsi. Ma crea straordinarie possibilità di lavoro per tutti coloro che sapranno approfittare della nascita di un nuovo, enorme mercato continentale. Sul piano politico il futuro è più incerto. La Cina si muove sulla scena internazionale con grande prudenza ed evita di assumere atteggiamenti imperiali. Ma Rampini ha osservato che una crisi economica e il rallentamento della crescita (prima o dopo accadrà) potrebbero creare un grande malessere sociale. Nulla esclude che il governo, in quel momento, per rafforzare il proprio controllo della società, attizzi il fuoco del nazionalismo cinese e assuma un atteggiamento deliberatamente provocatorio, ad esempio sulla questione di Taiwan. Quale sarebbe allora la reazione degli Stati Uniti? Washington può accettare in ultima analisi che la Cina avanzi molto lentamente sulla strada della democrazia. Ma non accetterebbe l'annessione di Taiwan al continente. E la guerra diverrebbe allora possibile. Se le riflessioni di Rampini sono giuste, non dovremmo preoccuparci dell'impetuoso sviluppo della economia cinese, ma delle conseguenze sociali e politiche di una eventuale recessione. In altre parole coloro che temono la crescente potenza economica cinese, farebbero bene a sperare che la Cina continui a crescere.

Sergio Romano
Corriere della sera, 05 dicembre 2006

 
   
 

Spagna 1936: le molte guerre della guerra civile

A proposito della lettera di Massimo Bassetti sulla guerra civile spagnola e della sua risposta sul Corriere del 29 novembre vorrei ricordare che: 1) il Fronte Popolare ha vinto le elezioni del 16 febbraio 1936. 2) Il generalissimo Franco si è ribellato e ha promosso una sedizione militare contro il governo legittimo. 3) Come scrive Gabriele Ranzato ( "Rivoluzione e guerra civile in Spagna", Loescher 1975) il patto sottoscritto dai partiti aderenti al Fronte Popolare era un accordo "estremamente moderato nel cui programma prevale (...) il punto di vista della piccola borghesia rispetto a quello dei partiti operai". 4) I governi fascisti italiano e tedesco sono intervenuti militarmente sul suolo spagnolo. 5) I governi democratici europei non hanno aiutato la Repubblica. 6) Lo ha fatto l'Unione Sovietica dopo l'intervento italiano e tedesco. 7) Questo aiuto sovietico, pagato in oro sonante dal governo spagnolo, ha determinato la crescita dell'influenza e del potere del Partito comunista spagnolo che alle elezioni del 16 febbraio 1936 aveva ottenuto appena 17 deputati contro i 99 del Partito socialista e i 126 totalizzati dalla sinistra "borghese" (Sinistra repubblicana e Unione repubblicana).

Gianna Granati, Fondazione Pietro Nenni, nenni@tin.it

Cara signora, la sequenza degli eventi è quella ricordata nella sua lettera. Ma è necessariamente incompleta. Non riusciremo a spiegare la ferocia della guerra civile, l'eccidio di 7.000 ecclesiastici nei primi mesi del conflitto, l'apertura delle tombe nelle chiese e la fucilazione degli scheletri, se non cercheremo di comprendere quale fosse il clima politico della Spagna negli anni che precedettero il "pronunciamiento" dei generali ribelli. Occorre ricordare il colpo di Stato e la dittatura di Primo de Rivera all'inizio degli anni Venti, l'ammutinamento di una guarnigione repubblicana dell'esercito alla fine del 1930, la partenza del re e la proclamazione della repubblica nel 1931, l'insurrezione anarchica di Barcellona nel gennaio 1933 e la repressione alla fine dell'anno, il violento anticlericalismo di quei mesi, lo sciopero dei minatori delle Asturie, la proclamazione dell'indipendenza catalana nell'ottobre 1934. Il 12 luglio 1936 un tenente delle Guardie d'Assalto (un corpo della polizia repubblicana) fu assassinato a Madrid, forse dai carlisti, forse dai falangisti. E il giorno seguente le Guardie vendicarono la morte del loro ufficiale uccidendo Calvo Sotelo, leader del partito conservatore. Era questo il clima di Madrid nelle giornate che precedettero il colpo di Stato. Da un libro di Anthony Beevor, apparso recentemente presso Rizzoli ("La guerra civile spagnola"), appare con chiarezza che la guerra non comincia nel 1936. Uno dei meriti maggiori dello studioso britannico è quello di risalire il fiume della storia spagnola sino ai grandi rivolgimenti dell'Ottocento e alla crisi dello Stato monarchico. I protagonisti del dramma (i militari, la Falange, i socialisti, gli anarchici, i liberal-democratici, i comunisti, la Chiesa) hanno una matrice europea e referenti internazionali, ma ciascuno di essi ha risentimenti, aspirazioni e timori che risalgono alle generazioni precedenti. Quando la guerra comincia nell'estate del 1936, la violenza esplode con una carica di rabbia e paura che si è progressivamente accumulata nel sottosuolo della società. Poche guerre civili sono state altrettanto crudeli e "religiose". Si uccide, da una parte e dall'altra, per "pulire" il Paese, "purificare " la società, distruggere e annientare i microbi che minacciano il suo futuro. Come lei osserva nella sua lettera, cara signora, in questa guerra s'inserirono rapidamente altre potenze.Maciascuna di esse combatté per ragioni diverse da quelle dei principali protagonisti: l'Italia per estendere la propria influenza al Mediterraneo occidentale, la Germania per verificare la preparazione della propria aeronautica militare, l'Unione Sovietica per esportare il comunismo in Europa. Forse l'espressione "guerra civile " è troppo restrittiva. Forse dovremmo parlare delle molte "guerre spagnole" che vennero combattute in quello sventurato Paese fra il 1936 e il 1939.

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 dicembre 2006