Il discorso di Giuliani

Caro Romano, sono stato ad una cena organizzata da una lobby di ebrei americani. L’ospite principale della serata è stato l’ex sindaco di questa bellissima città che è New York. Giuliani nel suo discorso, motivando come mai sia necessario continuare la guerra contro il terrorismo, a partire dal Medio Oriente, si è soffermato sulla vicenda di Craxi e Sigonella. bollando noi italiani come socialisti che non fanno niente contro il terrorismo.
Sono rimasto scioccato. Lei cosa ne pensa?

Andrea Mrakic

La pagina più brutta, nella
vicenda dell’Achille Lauro, fu l’assassinio di un turista ebreo americano, Leon Klinghoffer. Continuo a pensare che Bettino Craxi abbia affrontato la crisi con grande abilità, ma mi rendo conto dei sentimenti che le comunità ebraiche provano per quell’episodio.
Quando al discorso di Rudolph Giuliani (se effettivamente si è espresso in quei termini) non ne sono sorpreso. L’ex sindaco di New York spera di conquistare la candidatura repubblicana alle prossime presidenziali e sa che il voto ebraico è molto importante.
Quando verrà a Roma userà probabilmente un altro linguaggio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 giugno 2007

 
   
 

Il «ciego en Granada»

Caro Romano, perché si legge sempre «l’anziana donna o gli anziani o l’anziano uomo» riferito a persone di 50-60-70 anni? Perché non si legge mai l’anziana attrice Sofia Loren, l’anziano parlamentare Vincenzo Visco, l’anziano ex premier? Forse la notorietà ha il pregio di annullare la vecchiaia? Non sarebbe più civile omettere quella antipatica definizione? Perché non trovare un eufemismo tipo «non udente» (sordo) «non vedente »(cieco)?

Silvana Zambonini

La frontiera della vecchiaia si è spostata in avanti, ma continuo a pensare che sia meglio chiamare le cose con il loro nome e che cieco, sordo, vecchio, zoppo e storpio siano meglio di non vedente, non udente, anziano, claudicante e disabile. Quando chiedevano l’elemosina i ciechi di Granada dicevano alle donne della città: dammi un soldo, signora, perché «no hai en la vida nada como la pena de ser ciego enGranada (non esiste nella vita pena maggiore di essere ciechi a Granada) ». Avrebbero ispirato la stessa compassione e ammirazione se si fossero definiti non vedenti?

Sergio Romano
Corriere della sera, 16 giugno 2007

 
   
 

Gli intrecci tra finanza e politica
Minimizzare è un errore
di Sergio Romano

Massimo D’Alema ha ragione quando deplora queste intercettazioni telefoniche, appese come panni sporchi alle finestre del Paese di fronte allo sguardo «trascurato» della magistratura. Non è bello che una conversazione privata, soprattutto se non contiene indizi di reato, venga ascoltata, trascritta e gettata in pasto alla pubblica opinione. È grave che queste intrusioni surrettizie nella vita privata degli italiani stiano diventando lo strumento preferito della magistratura inquirente. Ed è ancora più grave che servano ad accrescere l’instabilità politica di un’Italia già così faziosa e litigiosa.
Ma temo che il vicepresidente del Consiglio, in questo caso, non abbia colto il punto. Certe intercettazioni assomigliano a una delazione anonima e dovrebbero suscitare un moto di sdegno. Ma se apro una lettera anonima e scopro che contiene informazioni importanti per la sicurezza e il buon governo del Paese, debbo forse stracciarla per ragioni di principio? Posso deplorare l’uso eccessivo delle intercettazioni e il modo in cui vengono divulgate. Posso auspicare una legge che protegga la vita privata degli italiani da questi pubblici linciaggi. Ma non posso ignorare che la lettura di certe conversazioni e di alcuni verbali d’interrogatorio (come quello di Stefano Ricucci sui legami esistenti fra le scalate dell’estate del 2005) ha spalancato le finestre del palazzo e ha rivelato l’esistenza di rapporti su cui è necessario fare chiarezza.
Abbiamo scoperto anzitutto che esiste al vertice del Paese, fra gli uomini della politica e quelli degli affari, una familiarità non meno «indecente» dello spettacolo a cui D’Alema ha fatto riferimento nella sua intervista al TG5. Quando trattano con i loro amici, alcuni leader di partito, membri del governo e parlamentari parlano il linguaggio del bar, della caserma e dello stadio. Non è semplicemente una questione di stile e di buona educazione. Il linguaggio, in questo caso, dimostra che non hanno il sentimento della loro dignità e della distanza che dovrebbe sempre esservi, anche in un sistema democratico, fra coloro che rappresentano interessi pubblici e coloro che rappresentano interessi privati.
Abbiamo scoperto, in secondo luogo, che alcune conversazioni vanno molto al di là della semplice informazione. Posso capire che un uomo politico non voglia apprendere dai giornali, all’ultimo momento, la notizia di una fusione o di una acquisizione che modifica il panorama della finanza nazionale. Ma vi sono circostanze in cui sembra diventare un interessato collaboratore. Accade quando il segretario dei Ds Piero Fassino chiede al presidente di Unipol Giovanni Consorte come comportarsi con il presidente della Banca Nazionale del Lavoro Luigi Abete quando questi gli farà visita, di lì a poco.
Accade quando il senatore Nicola Latorre accetta di trasmettere a Fassino i ringraziamenti dell’immobiliarista Stefano Ricucci per un non specificato favore. E accade infine quando D’Alema sembra essere il tramite di un contatto fra Consorte e il parlamentare europeo dell’Udc Vito Bonsignore per una questione di azioni della Bnl detenute da un’azienda della famiglia di quest’ultimo. È probabile che in nessuno di questi casi vi sia l’ombra di un illecito. Ma l’opinione pubblica ha il diritto di chiedersi se e quali interessi si nascondessero dietro una tale pasticciata confusione di ruoli. Non è tutto.
Dalla lettura di queste intercettazioni gli italiani hanno appreso che nei tre grandi arrembaggi del 2005 (alla Bnl, alla Banca Antonveneta e alla Rcs-Corriere della Sera) gli stessi finanzieri facevano i loro affari ora con la sinistra, ora con la destra. E hanno il diritto di chiedersi se i grandi partiti siano sempre pronti a litigare in pubblico, ma sempre altrettanto disposti a perdonare le loro rispettive colpe in privato.
Corriere della sera, 17 giugno 2007

 
   
 
Guerra civile a Gaza: economia, demografia, politica

Commentare eventi a caldo è spesso impresa da indovini, più che da storici. Tuttavia, alla luce della faida interna ai palestinesi, non le sembra che l'embargo economico nei confronti di Hamas per favorire Abu Mazen e Fatah non si sia rivelato un boomerang? Gli occidentali ragionano ancora con parametri economici propri degli occidentali e non si rendono conto che nella situazione psicologica ed economica dei palestinesi, un embargo rinforza solo chi non riceve i soldi, non chi li riceve.

Guido Bocchetta

Caro Bocchetta, quando Hamas, nelle elezioni palestinesi del gennaio 2006, sconfisse Fatah e conquistò 74 seggi sui 132 di cui si compone il Consiglio legislativo, gli osservatori internazionali dovettero constatare che il voto non era il risultato di frodi e manipolazioni. Ma i membri del "quartetto" (Onu, Russia, Stati Uniti e Unione Europea) sospesero i loro aiuti all'Autorità palestinese e dichiararono che avrebbero ricominciato a elargirli soltanto se Hamas avesse riconosciuto lo Stato d'Israele e rinunciato all'uso della violenza. Da allora l'Ue ha continuato ad assicurare una certa assistenza, ma soltanto per le popolazioni attraverso uno speciale "meccanismo" chiamato "Temporary International Mechanism". Questa decisione ha avuto l'effetto di ridurre di due terzi il bilancio dell'Autorità, ha trasformato 160.000 pubblici dipendenti (fra cui molti membri dei servizi di sicurezza) in altrettanti precari, e ha reso estremamente difficile la gestione di scuole e ospedali. Israele, dal canto suo, ha smesso di trasferire all'Autorità il gettito dei dazi doganali sulle importazioni palestinesi. Alcuni Paesi musulmani (tra gli altri l'Iran e l'Arabia Saudita) hanno cercato di fornire un'assistenza finanziaria,mail denaro è stato spesso bloccato perché "potrebbe alimentare i circuiti del terrorismo". Queste sanzioni hanno avuto conseguenze devastanti per il livello di vita delle popolazioni. Secondo un portavoce dell'Oxfam (l'Oxford Committee for Famine and Relief, creato nel 1942), più di un milione di palestinesi vive oggi con 50 centesimi di dollaro al giorno. Esiste poi un fattore demografico descritto da uno studioso tedesco dell'Università di Brema, Gunnar Heinsohn, in un articolo apparso nel Financial Times del 14 giugno. Grazie al tasso di accrescimento della popolazione araba, Gaza è passata dai 240.000 abitanti del 1950 a un milione e mezzo. Mentre nel 2005 i ragazzi israeliani al di sotto dei 15 anni erano 640.000, i ragazzi arabi nella stessa fascia d'età erano un milione e centomila. Con un confronto molto suggestivo Heinsohn osserva che la popolazione degli Stati Uniti, se il tasso di accrescimento demografico fosse stato simile a quello di Gaza, conterebbe oggi 945 milioni di abitanti e 120 milioni di giovani nella fascia d'età-fra 15 e i 29 anni -in cui gli spiriti bellicosi si manifestano con maggiore frequenza. Riuscirebbe a controllarli? A queste considerazioni economiche e demografiche occorre aggiungere un fattore politico. Hamas e Fatah, (l'organizzazione creata da Arafat e guidata ora dal presidente palestinese Mahmud Abbas, noto anche con il nome di Abu Mazen) sono da sempre partiti nemici. Il boicottaggio decretato dal Quartetto e da Israele ha incoraggiato Abbas a impegnare con Hamas un braccio di ferro. Sperava che gli islamisti, messi alle strette, gli avrebbero ceduto il controllo delle forze di sicurezza e non comprese che stava divenendo in tal modo, agli occhi di molti palestinesi, complice di Israele e dei suoi alleati in Occidente. Un Paese alla fame, soldati e poliziotti armati ma privi di qualsiasi sicurezza economica e una folla di giovani senza futuro, pronti ad abbracciare le armi della disperazione: ecco, caro Bocchetta, gli ingredienti della guerra civile palestinese. Non dovrebbero esserne sorpresi i governi che, con le loro miopi sanzioni economiche, hanno soffiato sul fuoco.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 giugno 2007

 
   
 

Le scuole a Bengasi

Caro Romano, nel suo libro "La quarta sponda, la guerra di Libia 1911-1912" pubblicato in Italia per la prima volta nel 1977 lei scrive: "A Bengasi, dove la collettività italiana era molto meno importante, le scuole elementari maschili ospitavano 160 alunni (di cui 16 italiani e il resto ebrei, tranne un musulmano) ". Domanda: essere ebrei al tempo escludeva l'essere italiani? Immagino si sia trattato di una distrazione, ma mi piacerebbe comunque saperne qualcosa in più.

Giulio Prosperi, giupros@yahoo.it

La situazione descritta nel passaggio da lei citato è quella di Bengasi alla vigilia dell'invasione italiana. Vi erano nella regione parecchi ebrei che erano divenuti, grazie ai loro rapporti commerciali con Livorno, cittadini del Granducato di Toscana e, dopo l'Unità, italiani.Maerano prevalentemente a Tripoli.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 giugno 2007

 
   
 

Il mancato soccorso

Caro Romano, mi risulta che in caso di mancato soccorso, soprattutto qualora le conseguenze per chi non lo riceve siano fatali, le legislazioni di tutti i Paesi europei prevedano sanzioni, talvolta pesantissime. C'è da chiedersi allora quale dovrebbe essere l'atteggiamento dell' Unione Europea verso un Paese membro dal 2004, come Malta, qualora venisse realmente appurato che in più occasioni le sue navi si sono rifiutate di porgere soccorso ai naufraghi durante le loro attraversate clandestine del Mediterraneo, con la morte di decine di esseri umani di ogni età.

Francesco Mantero

Malta è stata severamente criticata dal Consiglio d'Europa e dal commissario europeo Franco Frattini, responsabile per i problemi dell'immigrazione. Frattini ha annunciato che avrebbe chiesto all'isola d'impegnarsi formalmente a evitare che analoghi incidenti possano ripetersi. Malta, dal canto suo, ha invocato la modesta dimensione delle proprie strutture e ha lasciato intendere che le maggiori responsabilità in queste vicende sono del governo libico.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 giugno 2007

 
   
 

Logica degli affari

Caro Romano, ritiene che i 500.000 barili di petrolio che ogni giorno importiamo dalla Libia impediscano un atteggiamento dignitoso e coerente dei politici italiani a ogni sussulto nazionalista di Gheddafi? Se sì, perché?

Giulio Prosperi

Temo che la logica degli affari abbia prevalso in alcune circostanze su quella della dignità nazionale. Mi consolo tuttavia osservando che gli Stati Uniti, quotidianamente svillaneggiati da Hugo Chávez, continuano a comperare in Venezuela il20%del petrolio necessario alla loro economia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 18 giugno 2007

 
   
 
Referendum: la battaglia contro il silenzio

È come se fosse discesa una cortina del silenzio dell’informazione, tutta, sul referendum per la legge elettorale. Si vuole mantenere la cosiddetta «porcata»? O se ne vuole fare un’altra peggiore, magari bipartisan?

Giovanni Testanera

Caro Testanera,
quando un gruppo di persone intelligenti e di buona volontà, guidato da Mario Segni e Giovanni Guzzetta, lanciò la proposta di un referendum per l’abrogazione di alcuni passaggi della legge elettorale approvata nell’ultima fase del governo Berlusconi, fummo in molti a pensare che avremmo avuto di fronte a noi, da quel momento, un’alternativa. Il Parlamento avrebbe evitato il referendum con l’approvazione di una nuova legge; oppure non vi sarebbe riuscito e il referendum ci avrebbe finalmente sbarazzato di quella esistente. E in ambedue i casi saremmo andati alle urne, per le elezioni successive, con un nuovo sistema elettorale.
Ebbene, ci siamo sbagliati.
Il pericolo, oggi, è che non succeda niente: né l’approvazione in Parlamento di una nuova legge, né il referendum.
Per comprendere la ragioni di questa inerzia occorre ricordare che una nuova legge, comunque ottenuta, avrebbe l’effetto di sfoltire la boscaglia delle piccole formazioni politiche che rendono l’Italia così difficilmente governabile. Se vincessero i sì, il referendum ci restituirebbe una ragionevole soglia di sbarramento: 4% alla Camera, 8% al Senato. Se il Parlamento approvasse una nuova legge, questa non potrebbe non tenere conto dei guasti provocati da quella esistente e delle molte critiche che ha suscitato in una larga parte del Paese. I parlamentari che preferiscono lo statu quo non hanno quindi alcun interesse a prendere iniziative. E i partiti maggiori (Forza Italia, il futuro Partito democratico) temono di sollevare un vespaio all’interno delle rispettive coalizioni.
Per esorcizzare un problema il metodo migliore è quello di ignorarlo. Secondo Mario Segni (intervista al Corriere del 19 giugno) «c’è una fortissima campagna silenziosa che tende a bloccare i consiglieri comunali nella raccolta delle firme. Un catenaccio attivissimo.
Bossi, poi, ha letteralmente terrorizzato Berlusconi che lancia messaggi a Forza Italia di non muoversi». Ciò che Segni dice di Berlusconi vale probabilmente anche per buona parte del governo Prodi, preoccupato dal desiderio di evitare una spaccatura nella maggioranza fra i partigiani del cambiamento e quelli dell’immobilità.
È possibile che la campagna per la raccolta delle firme si scontri con un altro ostacolo.
La maggioranza degli italiani non ama la legge con cui ha votato un anno fa, ma vorrebbe soprattutto il ripristino delle preferenze e constata con amarezza che il referendum non restituirebbe agli elettori il diritto di scegliere i parlamentari.
È vero. Come ho già detto in altre occasioni, un referendum abrogativo può sopprimere una legge o alcuni dei suoi passaggi, ma non può aggiungere nulla al suo testo originario.
Eppure questi italiani delusi e amareggiati dovrebbero ricordare che la scelta non è quasi mai fra la soluzione buona e quella cattiva. Come accade spesso in politica, occorre scegliere fra il male e il meno peggio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 giugno 2007

 
   
 

Il metro di giudizio

Caro Romano, leggo il suo ritratto
tutto in positivo di Giovanni XXIII. È significativo che Roncalli piaccia più ai non credenti come lei che ai credenti, almeno quelli non completamente succubi del neomodernismo.
Quelle che lei chiama finezze diplomatiche non sono invece, viste da un altro punto di vista, che vergognosi baratti: il silenzio sul comunismo (come mai nessuna «sottile distinzione» del genere sul nazionalsocialismo?) contro la presenza di osservatori «ortodossi » al Concilio. Concilio che è poi la causa prima se non unica della crisi della Chiesa (ha presente i seminari vuoti, le chiese che si stanno svuotando e soprattutto la spaventosa perdita di fede?) e, quel che è peggio, di quella apparentemente senza uscita della società. Un Concilio che fu proprio il «buon» Roncalli a volere a tutti i costi e a pilotare cinicamente verso il suo esito eversivo, il capovolgimento totale della dottrina cattolica, la nascita di una nuova religione di tipo massonico-sincretistico-ecumenico, inoffensiva per i nemici della Chiesa e simpatica al mondo tanto quanto odiosa per i cattolici.
Il metro di giudizio per un Papa dovrebbe essere quello della religione, non quello della politica.
Da questo punto di vista il bilancio del pontificato roncalliano è disastroso. Nulla è rimasto della dottrina cattolica tradizionale, le verità più elementari vengono impugnate oggi persino da cardinali e dallo stesso pontefice.
Tutto ciò ampiamente legittimal'esistenza di gruppi tradizionalisti e integristi che rifiutano l'obbedienza a un «conciliabolo» talmente nefasto e in taluni settori negano il riconoscimento dell' autorità agli eletti al soglio pontificio: tutte cose mai viste in duemila anni.
Certo, l’importanza del Vaticano II non è stata ahimè inferiore a quella del Concilio Tridentino: ma in senso opposto, cioè negativo.
Non è stato monsignor Lefèbvre ma il cardinale Suenens, uno degli artefici del Concilio, a definirlo «l’89 della Chiesa », il che potrà far piacere a un laico come lei ma non certo a un cattolico. Infine è strano che né lei né Salomoni ricordiate il giovanile modernismo di Roncalli, che lo rese assai inviso a S. Pio X, e le voci di iniziazione massonica quand’era nunzio a Parigi, ampiamente legittimate dal suo operare successivo.
Particolarmente nefaste la distinzione tra errante ed errore, come se gli errori non camminassero sempre sulle gambe di qualche uomo, la rinuncia agli anatemi (impegnati da allora, e con una spietatezza degna di miglior causa, solo contro i fedeli non disposti a svendere la fede) e l’«apertura al mondo», che lei giudica generosa e che fu invece solo temeraria. In particolare ricordiamo lo stravolgimento della preghiera del Venerdì Santo per venire incontro, al prezzo della rinuncia alla verità, al diktat del B'nai B'rith sul «perfidi judaeis », talché oggi gli ebrei infedeli sono diventati «fratelli maggiori » e nessuno prega più per la loro conversione, cioè per la loro salvezza. Oggi con Benedetto XVI questa tragedia continua.

Franco Damiani Villafranca Padovana (Pd)

Pubblico volentieri la sua lettera per due ragioni. In primo luogo perché ha il pregio di essere ben scritta e argomentata.
In secondo luogo perché dimostra che esiste, accanto agli integralismi islamico ed ebraico, anche un integralismo cattolico.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 giugno 2007

 
   
 

Il miracolo cinese e i dubbi dell’America

Ho assistito con interesse al suo intervento sulla Cina in occasione di una conferenza organizzata di recente dalla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia. Credo anch’io, come lei, che la Cina sia una delle grandi incognite del futuro delle relazioni internazionali, anche se ritengo che l'India reciterà una parte più importante del Grande drago cinese, se non altro per la stabilità e la gradualità della sua crescita economica.
Fondamentali saranno nel futuro prossimo le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina perché dai cambiamenti nei rapporti tra queste due potenze potrebbero dipendere i riallineamenti economicopolitici di molti altri Paesi.
I progetti economici della Cina per il futuro potrebbero determinare un costante irrigidimento delle relazioni con gli Stati Uniti, che si troverebbero a dover fronteggiare un’espansione cinese incontrollata in Paesi in cui l’influenza politicoeconomica statunitense non è mai stata in discussione.
Il progressivo allargamento delle relazioni tra Cina e Paesi africani e sudamericani potrebbe portare Washington ad assumere posizioni sempre più dure verso il Paese asiatico nei consessi internazionali, come già capitato con le denunce statunitensi contro la Cina al Wto.

Simone Comi

Caro Comi,
ho dovuto accorciare considerevolmente le sue considerazioni sui rapporti tra Cina e Stati Uniti, ma spero di avere conservato il senso della sua analisi.
Vi è effettivamente, nelle relazioni fra i due Paesi, un curioso paradosso. America e Cina scambiano beni, ogni anno, per la somma complessiva di trecento miliardi di dollari,ma il deficit commerciale della prima è ammontato, nel 2006, a 230 miliardi. Questo squilibrio ha provocato reazioni critiche che si sono espresse al Congresso degli Stati Uniti attraverso una serie di progetti legislativi.
Vi è un disegno di legge che vorrebbe imporre una tariffa del 27,5% su tutti i prodotti importati dalla Repubblica popolare.
Altri parlamentari sostengono che la Cina favorisce le proprie esportazioni mantenendo artificialmente basso il valore dello yuan e che una tale politica monetaria autorizza l’imposizione di tariffe punitive. Qualcuno si spinge sino ad affermare che la manipolazione del valore del denaro è in realtà un sussidio occulto e andrebbe trattato come tale.
È interessante osservare che questo «partito anticinese» è composto in buona parte da Democratici, ma rispecchia anche i sentimenti di quei neoconservatori che vedono nella Cina una minaccia alla potenza americana e sostengono da tempo la necessità di trattarla con maggiore durezza.
L’amministrazione Bush, dal canto suo, dà prova di pragmatismo e cerca di raffreddare gli animi per alcune buone ragioni. In primo luogo i dazi punitivi sulle importazioni cinesi colpirebbero anche quei consumatori americani che hanno considerevolmente approfittato dei prodotti a buon mercato, giunti in grande abbondanza nei negozi degli Stati Uniti in questi ultimi anni. In secondo luogo il denaro che la Cina ha ricavato dal suo interscambio con l’America è stato investito per molto tempo nelle cartelle del Tesoro americano e ha permesso agli Stati Uniti di accumulare impunemente (per ora) un debito colossale. La Cina, quindi, non è soltanto un oggetto misterioso, un «mostro» per metà totalitario e per metà liberista. È anche un oggetto delicato di cui è difficile comprendere il funzionamento e anticipare l’evoluzione.
Che cosa accadrebbe il giorno in cui l’economia cinese, messa in difficoltà dai maggiori importatori internazionali, entrasse, come il Giappone degli anni Ottanta, in una fase recessiva? Quali sarebbero le ripercussioni della crisi sulla situazione sociale del Paese, sulla stabilità del regime, sulla sua politica estera?
Di fronte a questi preoccupanti interrogativi esistono alcuni fatti di cui è necessario tener conto.
La Cina offre un grande mercato alle imprese occidentali, dà un contributo considerevole all’economia dell’America Latina e sta creando in Africa le condizioni per una sorta di miracolo economico. Non è vero, d’altro canto, che le autorità cinesi siano indifferenti alle preoccupazioni delle maggiori potenze industriali.
È stato osservato che il valore dello yuan è aumentato dell’8% dal 2005 e che i salari cinesi hanno cominciato a crescere. Quando la Cina ci chiede di essere pazienti, vale probabilmente la pena di darle retta.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 giugno 2007

 
   
 

Le convocazioni

Caro Romano, le chiedo di aiutarmi a capire le ragioni della prassi nazi maoista in vigore negli uffici pubblici italiani (tribunali, Asl ecc.) per la quale, se si devono convocare 30 cittadini che devono svolgere ognuno una diversa pratica, li si fa venire tutti alla stessa ora (per esempio, alle 9 di mattina), in modo da procurare il massimo disturbo e la maggior perdita di tempo per tutti. Se proprio non è possibile convocare ciascuno in un tempo diverso, sarebbe così difficile convocare, per esempio, i primi dieci alle 9, altri dieci un'ora dopo e gli ultimi dieci due ore dopo? Se si è chiamati a fare una testimonianza in tribunale, capita di dover bivaccare nei corridoi dalle nove all'una, e oltre, per poi magari apprendere che la causa viene rinviata.
Così fra qualche mese si ricomincia da capo. È il caso di meravigliarsi se poi i cittadini sono restii a prestare testimonianza in tribunale e, se possono, evitano di farlo?

Giuseppe Traìna, Vittoria (Rg)

Non sono in grado di darle una risposta. E sarei lieto se qualcuno (un magistrato o il direttore di un’Asl) ci aiutasse a comprendere la logica di queste convocazioni.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 giugno 2007

 
   
 
Studiare la storia dimenticata dai manuali

L'ho ascoltata al Festival dell'economia di Trento e vorrei porle un quesito. Sono una insegnante di storia e vorrei avvicinarmi a un dottorato in storia. Secondo lei quali potrebbero essere i temi interessanti da approfondire nell'ambito della storia contemporanea?

Maria Valeri

Gentile signora, esiste un noto aforisma di Benedetto Croce secondo cui la storia è sempre «contemporanea ». Il filosofo napoletano intendeva dire che ogni storico, anche quando si occupa dell'antichità, sceglie i propri temi in funzione dei problemi che preoccupano e appassionano la società a cui appartiene. Studiamo l'impero romano per meglio comprendere la formazione e la mentalità degli imperi moderni. Studiamo la società ateniese per meglio comprendere la storia della democrazia. Studiamo le repubbliche mercantili, le signorie e i principati per avere una migliore comprensione dei caratteri della società italiana e della sua evoluzione. Studiamo l'illuminismo nella speranza di individuare nel pensiero dei «philosophes» i dati genetici delle ideologie del Novecento. Lo stesso Croce, nelle opere storiche, applicò consapevolmente il proprio aforisma. La sua «Storia d'Europa nel secolo XIX» è un inno alla libertà contro le teorie illiberali prevalenti negli anni Trenta. Ogni nostro interesse per il passato, anche quando non ne siamo consapevoli, è provocato dal nostro confronto quotidiano con problemi che dobbiamo comprendere e affrontare. Nel caso della storia insegnata a scuola, il rapporto tra il presente e il passato è stato per molto tempo ancora più stretto. In tutte le scuole europee e americane l'insegnamento della storia è servito ad affermare la legittimità degli Stati nazionali e a suscitare l'orgoglio dei loro cittadini. Gli autori dei manuali scolastici risalivano il corso del tempo per individuare e ingrandire fattori e vicende che sembravano preannunciare il destino nazionale dei popoli insediati su un particolare territorio. Abbiamo appreso la storia come un teorema rovesciato, ricavando dal risultato finale soltanto le premesse che ci facevano comodo. È facile immaginare quanta storia sia stata scartata perché poco adatta allo scopo che gli autori dei manuali si erano proposti. Ed è facile comprendere perché questa storiografia, in un'epoca distinta dalla crisi degli Stati nazionali, abbia perduto buona parte del suo valore. Penso che lei, se desidera approfondire i suoi studi storici, dovrebbe dedicarsi per l'appunto a questa storia «scartata». Mi spiego meglio. Se abita a Trento, come desumo dalla sua lettera, lei ha la fortuna di vivere in una città di frontiera che fu governata da un principe vescovo e venne considerata per molto tempo una fortezza della fede cattolica contro l'incombente protestantesimo dell'Europa centro- settentrionale. Fu questa, del resto, la ragione per cui venne scelta nel 1545 come sede del Concilio di Trento. Ma questa cittadella di confine fu anche una finestra sul Nord, la prima città di lingua italiana per i viaggiatori discesi dal Brennero e l'ultima per quelli che salivano verso il passo. Come Trieste, Nizza, Ginevra, Lubiana, Leopoli, Praga e dozzine di altre città o regioni di frontiera sparse per l'Europa, Trento è un luogo ideale per studiare questa ininterrotta contaminazione dei costumi, delle mentalità e delle idee che è una delle maggiori ricchezze dell'Europa. Se posso darle un consiglio, quindi, eviti di studiare ciò che è esclusivamente nazionale e concentri la sua attenzione su ciò che appartiene contemporaneamente a due o più Paesi, a due o più culture. E poiché la storia è sempre «contemporanea», cioè sollecitata dai problemi del presente, potrebbe scegliere, per cominciare, quei luoghi d'Europa, dalla Spagna ai Balcani, in cui la cultura cristiana e quella musulmana si sono al tempo stesso combattute e influenzate.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 giugno 2007

 
   
 

Argentina 2005: la tragica storia dei tango bond

Sono uno dei tanti proprietari di tango bond governativi emessi dall'Argentina. Non ho accettato la proposta di parziale rimborso e sono in attesa dell'esito dell'arbitrato Icsid, anche se tutto fa pensare che della cosa nessuno voglia più parlare. Due amare considerazioni: il governo argentino ha recentemente dichiarato di avere ricostituito riserve per 40 miliardi di dollari (molto superiori al debito residuo), di avere saldato il debito con il Fondo monetario internazionale e di essere molto fiducioso sul futuro economico della nazione. Perché allora non mantiene i suoi impegni? E perché i nostri governi, a parte le solite velate proteste, non hanno mai preso energica posizione di condanna nei confronti di uno Stato sovrano che non mantiene i suoi impegni pur essendo ora in grado di farlo?

Guido Gabaglio

Caro Gabaglio, non sono in grado di fare previsioni sull'esito del negoziato. Ma posso cercare di risvegliare interesse per questa vicenda ricordando i fatti. Lo farò sulla base di un libro apparso in questi giorni presso l'editore Rubbettino. Si intitola "Servizio di Stato" ed è scritto da un diplomatico, Giovanni Jannuzzi, che è stato ambasciatore a Buenos Aires dal luglio 1998 al novembre 2001. Gli ultimi mesi della missione di Jannuzzi in Argentina coincidono con la fase più grave della crisi finanziaria che aveva colpito il Paese. Alla fine del 2001, prima e dopo le dimissioni dei suoi maggiori responsabili (il presidente De la Rua e il ministro dell'economia Domingo Cavallo), il Paese fu sull'orlo della rivoluzione. Vi furono manifestazioni di piazza nelle quali persero la vita più di venti dimostranti. Il governo dovette ordinare la cessazione dei pagamenti internazionali e la fine di quella parità del peso col dollaro, voluta da Cavallo, che era stata uno dei fattori scatenanti della crisi. Nel 2002, ricorda Jannuzzi, il prodotto interno lordo perdette 14 punti e la disoccupazione superò il 20%. Ma il momento di maggiore crisi fu anche l'inizio della ripresa. Liberatosi dall'obbligo di pagare i creditori internazionali, il Paese poté approfittare della svalutazione (il peso valeva ormai tre dollari) e ricominciò a esportare. Al momento della sua elezione, nel maggio 2003, il nuovo presidente Nestor Kirchner poté approfittare del miglioramento dei conti pubblici e registrare una crescita annua pari al 9%. Ma rimase fedele alla sua matrice ideologica (era un peronista di sinistra) e proseguì una politica che penalizzava gli investitori e i risparmiatori stranieri. Questa politica colpì particolarmente l'Italia. "Per molti anni, ricorda Jannuzzi, i nostri principali istituti di credito (in particolare Bnl, Banco di Roma e San Paolo Imi) avevano collocato sul mercato italiano titoli del Tesoro argentino in quantità rilevanti: allo scoppio della crisi, l'insieme dei titoli in mano a più di 450.000 risparmiatori italiani raggiungeva la somma di 14 miliardi di dollari, il che faceva di noi il secondo Paese creditore, dopo gli Stati Uniti, mamolto avanti alla Germania e al Giappone". Sempre secondo Jannuzzi, le banche non furono colte di sorpresa: "avevano di fatto interrotto le operazioni di collocamento già a fine 2000, e si erano affrettate a girare ai risparmiatori una buona parte dei titoli che avevano in portafoglio ". Più tardi, preoccupate dalle reazioni dei loro clienti, avevano chiesto a Jannuzzi, da poco rientrato in Italia, una missione esplorativa a Buenos Aires che non dette alcun risultato. Nella speranza di un negoziato si costituì una "task force ", guidata dall'ex direttore generale del Banco di Roma Nicola Stock, ma l'elezione di Kirchner rese ancora più rigida la posizione del governo di Buenos Aires. Il resto è storia più recente di cui lei in particolare, caro Gabaglio, è certamente al corrente. L'Argentina rifiutò qualsiasi negoziato bilaterale e i rapporti fra i due Paesi divennero alquanto tesi. Il momento culminante della crisi italo-argentina fu verso la fine del 2004, quando il governo di Buenos Aires, dopo avere cominciato a tacitare con i suoi rimborsi il Fondo Monetario Internazionale, fece un'offerta finale che prevedeva varie possibilità, fra cui in particolare "il cambio dei titoli scaduti con nuovi titoli di un valore leggermente superiore al 30% di quelli originari ". Era una proposta punitiva, ma, secondo Jannuzzi, corrispondente alle reali condizioni del Paese in quel momento e, comunque, difficilmente modificabile. La "task force", tuttavia, "adottò una linea diametralmente opposta, facendo campagna attiva perché i creditori italiani la rifiutassero, nella previsione che essa sarebbe stata rigettata dai mercati e sarebbe quindi decaduta". L'offerta fu invece accolta dal 78% dei creditori e divenne quindi esecutiva. Nel frattempo, commenta amaramente Jannuzzi, la nostra presenza economica in Argentina era "considerevolmente arretrata". Con l'uscita dal mercato finanziario argentino della Banca Commerciale e della Bnl "si è lasciato che in un Paese come l'Argentina scomparisse qualsiasi istituto di credito italiano, con ovvie conseguenze sull'insieme delle nostre attività economiche in questa zona".

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 giugno 2007

 
   
 
Indipendenza del Kosovo: omaggio al nazionalismo

Durante la recente visita di Bush in Europa mi hanno molto colpito le sue dichiarazioni secondo le quali l'Albania dovrebbe entrare nell'Ue e il Kosovo dovrebbe ottenere l'indipendenza dalla Serbia. Ma, soprattutto, sono rimasto meravigliato dall'assenza di reazioni da parte dell'Europa. Quella del presidente degli Usa è stata, a mio avviso, una chiara ingerenza. Ma neppure i media ne hanno dato conto più di tanto, forse preoccupati di muovere una qualsivoglia critica alla visita. Che ne pensa?

Franco Cagliari, Mantova

Caro Cagliari, la dichiarazione di Bush sul Kosovo è stata fatta a Tirana, di fronte a una folla osannante, dopo un viaggio durante il quale il presidente degli Stati Uniti aveva constatato quale fosse il livello della sua popolarità in buona parte della società europea. Grato per l'accoglienza ricevuta, Bush ha pagato il debito dicendo al pubblico albanese esattamente ciò che desiderava ascoltare. L'Europa non ha reagito pubblicamente (non ne valeva la pena), ma non potrà permettere che il problema del Kosovo venga risolto al di fuori del Consiglio di sicurezza dell'Onu dove Russia e Cina, probabilmente, si opporranno all'indipendenza della provincia. Le ragioni del loro veto sono state ricordate e sostenute da Armando Cossutta in un articolo pubblicato da l'Unità del 16 giugno. Cossutta fu contrario alla guerra del Kosovo, nel marzo 1999, e ne dette una dimostrazione visitando Belgrado in aprile. Sembrò strano a molti che un alleato del governo D'Alema avesse colloqui con il presidente di uno Stato su cui cadevano in quei giorni le bombe di aerei americani decollati da basi situate in territorio italiano. Ma il vice presidente del Consiglio Sergio Mattarella, interrogato alla Camera da un deputato dell'opposizione, dovette riconoscere che l'Italia stava facendo una guerra sui generis. Eravamo la portaerei naturale dei bombardieri americani, ma avevamo mantenuto rapporti diplomatici con la Jugoslavia, rappresentata a Roma da un ambasciatore, Miodrag Lekic, che ha recentemente raccontato nelle sue memorie, pubblicate dall'editore Guarini, la storia di questo paradosso diplomatico. Cossutta è rimasto fedele alle sue convinzioni. Fu contrario, nel 1999, alla guerra della Nato contro la Serbia di Slobodan Milosevic, ed è contrario oggi all'accanimento con cui la comunità internazionale continua a punire la Serbia. È probabile che questa posizione sia ispirata dalle sue vecchie simpatie sovietiche e dalla sua ostilità alla Nato. Ma Cossutta non ha torto quando sostiene che l'indipendenza del Kosovo potrebbe rappresentare un pericoloso precedente per altre province potenzialmente secessioniste. Vladimir Putin ha ricordato che esiste il problema dell'Abkhazia (una provincia caucasica che vuole staccarsi dalla Georgia), ma pensa probabilmente alla Cecenia. La dirigenza cinese preferisce tacere, ma non dimentica che l'esempio kosovaro potrebbe creare un nuovo problema tibetano. Non basta. Anche in Europa, come ricorda Cossutta, esistono regioni (la Scozia, il Paese Basco, la Corsica) che potrebbero sentirsi incoraggiate ad avanzare le stesse rivendicazioni. Tralascio il problema russo e quello cinese per osservare che in Europa il cambiamento delle frontiere è, oltre che pericoloso, inutile. La guerra ha lasciato molti confini ingiusti e contestabili. Ma l'esistenza dell'Unione europea e il suo inevitabile allargamento ai Balcani tendono a ridurre progressivamente la sovranità degli Stati e a creare contemporaneamente spazi crescenti per il ruolo delle regioni. Il cambiamento delle frontiere nazionali diventa in questa prospettiva un esercizio anacronistico, una sorta di omaggio a una creazione (lo Stato nazionale) che appartiene al passato e a un sentimento (il nazionalismo) che dovremmo invece scoraggiare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 giugno 2007

 
   
 

Il pensiero e la parola

Caro Romano, siamo davvero sicuri che l'affermazione "le manifestazioni sono il sale della democrazia", che sempre più spesso sentiamo dire dai nostri politici, sia effettivamente corretta? Forse sì, se le manifestazioni sono in numero limitato e per motivi di una certa importanza, ma quando avvengono a ritmo sostenuto e con motivazioni spesso risibili, come in Italia, allora: o gli italiani non hanno ben chiaro il concetto di democrazia parlamentare; o la nostra democrazia ha qualcosa che non va. Che cosa ne pensa?

Giovanni Di Federico, Roma

Esistono dichiarazioni a cui la classe politica italiana ricorre frequentemente: ho fiducia nella giustizia, le manifestazioni popolari sono il sale della democrazia, il capo dello Stato è il presidente di tutti gli italiani, gli scioperanti hanno esercitato il loro diritto, le forze dell'ordine hanno dato prova di abnegazione. Sono il "politicamente corretto" degli italiani e vengono usate generalmente quando colui che se ne serve pensa esattamente il contrario.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 giugno 2007

 
   
 

Congo 1961: la misteriosa morte di Lumumba

Secondo la sua opinione, la morte del leader del Congo libero Lumumba è imputabile a qualche potenza occidentale, vedi Usa, per il suo accostamento all'Urss, o al Belgio che vedeva perdere il proprio Stato? Crede che il movimento, senza la morte di Lumumba, potesse espandersi in altri Stati africani e quali colpe ebbe l'Onu in quel contesto?

Andrea Sillioni

Caro Sillioni, ricordo ai lettori che Lumumba divenne primo ministro del Congo quando la colonia belga ebbe l'indipendenza, il 30 giugno 1960, e che fu per alcuni mesi protagonista di una drammatica crisi in cui vennero coinvolti l'Onu, il Belgio, gli Stati Uniti, l'Urss, i maggiori Stati africani e le grandi società internazionali, da tempo installate nelle ricche zone minerarie del Paese. La crisi costò all'Italia, sia detto per inciso, la vita di tredici aviatori membri di una missione dell'Onu, massacrati a Kindu nel novembre 1961.
Sulla morte di Lumumba abbiamo ancora oggi notizie imprecise. Sappiamo che il presidente della Repubblica Kasavubu e il colonnello Mobutu lo privarono del potere nel settembre del 1960. Sappiamo che fu arrestato nella provincia del Kasai, in dicembre, per ordine delle autorità centrali, mentre cercava di raggiungere Stanleyville dove sperava di raccogliere intorno a sé un gruppo di seguaci. Sappiamo che fu incarcerato due giorni dopo nel campo militare di Thysville. E sappiamo infine che la notizia della sua morte venne data soltanto il 13 febbraio con un comunicato del ministro degli Interni del Katanga, la ricca provincia secessionista che Lumumba, nei mesi precedenti, aveva cercato di riconquistare. Ma su ciò che accadde nei giorni precedenti abbiamo notizie incerte e confuse. Maria Stella Rognoni, autrice di un ottimo studio sulla crisi del Congo («La scacchiera congolese», apparso per le edizioni Polistampa nella collana diretta da Ennio Di Nolfo), ricorda che nel campo di Thysville, il 13 gennaio, scoppiò una rivolta e che il governo di Léopoldville ne attribuì probabilmente la responsabilità a Lumumba. Secondo il rapporto di una commissione parlamentare belga, le autorità centrali avrebbero deciso di trasferire l'ex primo ministro, insieme a due compagni, e di consegnarlo ai suoi nemici katanghesi. Secondo una commissione dell'Onu i tre sarebbero stati uccisi il 17 gennaio, «vicino a Elisabethville, probabilmente alla presenza di alti funzionari del governo della provincia del Katanga».
Nei pochi mesi passati al potere Lumumba si era dimostrato capace di suscitare grandi entusiasmi, ma anche forti timori e sospetti. La sua morte provocò reazioni diverse. In Urss gli fu dedicata la grande università che venne creata dalle autorità sovietiche per gli studenti del terzo mondo.
Nelle democrazie popolari fu onorato come un combattente per la libertà, eroe dell'anticolonialismo. In alcune capitali africane fu considerato una vittima delle potenze (il Belgio in primo luogo) che desideravano continuare a sfruttare le ricchezza della vecchia colonia. Ma all'Onu e in molte capitali occidentali fu considerato uno spericolato e ambizioso opportunista, deciso a usare le rivalità delle grandi potenze e a collaborare con il migliore offerente. Maria Stella Rognoni ha ritrovato negli archivi del Foreign Office il ritratto che fece di lui Ian Scott, ambasciatore britannico a Léopoldville. Eccone un passaggio.
«Lumumba aveva certamente una grande abilità naturale e un potere ipnotico come oratore. Aveva anche un'immensa energia, coraggio personale, un fascino intrigante e un certo gusto per l'azione drammatica. Era ambizioso, crudele, insensibile alle sofferenze umane, un tossicodipendente che fumava hashish come molti congolesi. (...) Da una posizione vicina al teatro dei combattimenti appare chiaro che furono i suoi stessi compatrioti che a poco a poco si allontanarono dal cammino su cui voleva condurli, ripudiarono i suoi metodi, rimossero i suoi consiglieri comunisti e i suoi simpatizzanti dalla scena, e alla fine lo uccisero».
Credo che il ritratto di Scott, caro Sillioni, dia una implicita risposta alle sue domande. Non vi fu mai un «modello Lumumba», esportabile in altri Paesi africani. La sua vicenda appartiene alla storia della psicologia umana piuttosto che a quella delle vicende politiche. Ma dimostrò al tempo stesso che la decolonizzazione, in Paesi pressoché completamente privi di una classe dirigente, era destinata a produrre effetti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 luglio 2007

 
   
 

Anche l'Unione europea è stata sconfitta in Iraq

Ho assistito al suo intervento al Forum «Economia e società aperta», presso l'Ispi di Milano. Nonostante ottime argomentazioni, riguardanti le prospettive degli scenari internazionali, non ho gradito il suo pessimismo nei confronti dell'Europa e del ruolo che essa manca di ricoprire. A mio parere il «vecchio continente» si sta muovendo sulla strada della rinascita e, attraverso la cooperazione interstatale, sta progressivamente tornando ad avere un ruolo di prestigio al pari delle grandi potenze mondiali. Il passo ulteriore deve essere un'accelerazione sul piano politico, dove l'Europa stenta ancora a trovare un processo coeso e unitario.

Niccolò Scheva

Caro Scheva, spero che lei abbia ragione e che il suo ottimismo sia giustificato. Ma io non posso dimenticare che nella vicenda irachena degli ultimi anni vi è un capitolo europeo da cui l'Unione esce assai male. Quando George W. Bush decise di attaccare l'Iraq e lasciò comprendere che lo avrebbe fatto anche senza l'avallo dell'Onu, nessun governo europeo (neppure quello di Londra) era convinto della necessità del conflitto. Ci dividemmo in due grandi gruppi perché alcuni Paesi (fra cui Gran Bretagna, Italia e Spagna) decisero che il rapporto con gli Stati Uniti e un gesto di amicizia per il suo presidente fossero più importanti della solidarietà europea e dei sentimenti della loro pubblica opinione. Commettemmo in tal modo un doppio errore. In primo luogo dimostrammo di essere indifferenti al principio dell'unità. In secondo luogo abbandonammo la nostra politica medio- orientale nelle mani di un potenza che avrebbe fatto la guerra senza consultarci e che non avrebbe tenuto alcun conto dei nostri interessi. So che il Primo ministro britannico ritenne di potere orientare, all'occorrenza, la posizione del presidente degli Stati Uniti. Ma gli inglesi restarono sempre sostanzialmente estranei alle decisioni strategiche della Casa Bianca e del comando americano. Tutti coloro che hanno accompagnato gli americani in Iraq hanno recitato la parte dello scudiero nei combattimenti antichi. Non è soltanto questione di prestigio. Avremmo dovuto ricordare che il Medio Oriente è alle porte di casa nostra e che le vicende della regione sono destinate coinvolgere, in primo luogo, l'Europa. Se l'Unione desidera avere una politica estera è qui, in questa parte del mondo, che deve coltivare amicizie, esercitare influenza, avanzare proposte. Quale può essere al Cairo, a Damasco, a Riad o ad Amman la percezione di Paesi che rinunciano alla propria unità per assecondare la politica degli Stati Uniti o tutt'al più (come accadde alla Francia e alla Germania) si fanno da parte e si limitano a manifestare il loro dissenso? Non credo che avremmo potuto impedire agli Stati Uniti di fare la guerra. Ma avremmo potuto fare sapere alla comunità internazionale che la guerra non ci piaceva. Una posizione unitaria, manifestata con chiarezza alla vigilia del conflitto, ci avrebbe permesso di conquistare la simpatia della regione e di avere un ruolo importante dopo il fallimento dell'operazione americana. Da allora, vi sono stati in effetti alcuni segnali positivi: la costituzione di una forza prevalentemente europea in Libano, i ripetuti colloqui del rappresentante europeo Javier Solana con il negoziatore iraniano Larijani e qualche contatto con la Siria, fra cui la visita di D'Alema a Damasco. Ma su molte questioni l'Europa continua a muoversi timidamente con iniziative mal coordinate. Sarò ottimista, caro Scheva, soltanto quando avrò l'impressione che l'Europa ha tratto dalla vicenda irachena una lezione per il futuro.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 luglio 2007

 
   
 

L'appoggio di Israele

Al suo nascere Israele ha appoggiato Hamas contro Fatah; ora appoggia Fatah contro Hamas. Divide et impera, come da manuale. Ho la fortuna di ascoltare la radio della Svizzera italiana. Quotidianamente noto la serietà e completezza e indipendenza di questa emittente, qualità che mancano troppo spesso nelle nostre radio (e televisioni) e nei nostri quotidiani, compresi e per primi i sedicenti indipendenti. Sono stati liberati da Olmert 250 prigionieri palestinesi: la radio Svizzera precisa che ne restano altri 10.400 nelle carceri israeliane; e precisa che nessun prigioniero appartenente a Hamas è stato liberato; tutti di Fatah. Ora, che Israele— con il beneplacito del cosiddetto Quartetto — faccia il suo gioco (divide et impera), non sorprende; sorprende che Abu Mazen si presti a questo gioco.

Luigi Fioravanti

Giusto. Ma le segnalo che la notizia è stata data negli stessi termini anche da buona parte della stampa italiana.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 luglio 2007

 
   
 

Le condanne a morte

Caro Romano, l'ex capo dell'authority cinese per la sicurezza degli alimenti e dei farmaci cinese è stato mandato a morte perché aveva permesso la messa in commercio di acqua minerale inquinata. La sentenza secondo la proverbiale efficienza della macchina giudiziaria cinese è già stata eseguita e il colpevole ha pagato per le sue colpe. Chissà quanti bambini saranno morti a causa della sua avidità di denaro. Stranamente la notizia è passata in secondo piano, quasi nessuno ci ha fatto caso. C'erano i finti dentifrici Colgate, sempre cinesi, da tenere sotto osservazione in Italia. Negli Stati Uniti non si rischia il patibolo per aver messo in circolazione cibo adulterato ma per reati ben più gravi. Ogni qualvolta il boia entra in azione negli Usa arrivano le solite manifestazioni contro la pena di morte, cortei e indignazione dei soliti che vogliono l'impunibilità di Caino, che vogliono che i compagni brigatisti siano messi fuori dalle galere e che pensano che l'unico terrorista sia lo Stato. Accade in Cina, nazione con la quale abbiamo importanti rapporti economici e tutto passa quasi in sordina. Non possiamo immischiarci nei loro affari interni, rischieremmo di mettere a repentaglio milioni di euro spesi per costruire delicate relazioni economiche con quella nazione. Qual è la coerenza di questi pacifisti sempre disposti a porgere l'altra guancia quando il cattivo da punire non sono gli Usa?

Paola Ràditi

Lesegnalochedituttele esecuzioni cinesi (un numero superiore, ogni anno, al resto del mondo) quella di Zheng Xiaoyu è stata fatta «a nostro beneficio». Come direttore dell'agenzia a cui è affidato il compito di verificare la sicurezza dei prodotti alimentari e farmaceutici, Zheng era responsabile dei molti scandali che hanno intaccato in questi ultimi tempi la credibilità dei prodotti cinesi all'estero. Con questa condanna a morte eseguita in tempi particolarmente rapidi, il governo di Pechino ha voluto tranquillizzarci.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 luglio 2007

 
   
 

Perché è difficile rimpiangere la Prima repubblica

Leggo la sua risposta e la critica riguardo ai laudatores temporis acti. Può essere che lei abbia ragione, però ricordo che ai tempi della cosiddetta Prima repubblica, allorché la magistratura milanese non aveva ancora messo in opera quella specie di colpo di Stato che rischiò di buttare all'aria le istituzioni e che, comunque, cambiò, forse in peggio, non tanto il volto politico del Paese, quanto il modo di pensare la politica, il quotidiano italiano scorreva con i normali, fisiologici sussulti, la Legge finanziaria non era uno spauracchio e generalmente passava in Parlamento senza che i cittadini quasi se ne accorgessero, ogni tanto cadeva il governo e se ne faceva un altro e, se si era all'avvio dell'estate, il nuovo esecutivo si chiamava «balneare» e così via. Le polemiche tra maggioranza e opposizione erano pressoché inesistenti e, a parte qualche raro scandalo di normale amministrazione, di intercettazioni, inchieste, avvisi di garanzia ed imperversare delle procure in genere, manco si parlava per sentito dire. Oggi tutto è maledettamente diverso. Più imbrogliato, più litigioso, più sporco. Ma, soprattutto, si sente aleggiare, palpabile, cupa e orrenda, un'atmosfera di odio che avvelena tutto e tutti. Sì, obietterà lei, ma prima rubavano. Sarà probabilmente anche vero.
Oggi, però, si continua lo stesso a rubare, ma con molto, molto meno senso del reciproco rispetto e della forma. E anche questo conta.

Bernardo Pianetti della Stufa - Firenze

Caro Pianetti della Stufa, per coloro che non hanno visto la corrispondenza precedente, ricordo che alcun lettori, negli scorsi giorni, mi hanno scritto per elogiare il regime austro- ungarico delle province italiane unite all'Italia nel 1866 e nel 1918. Conosco questi elogi, abbastanza comuni da qualche anno soprattutto in Trentino e Venezia Giulia, e le confesso che provo, leggendoli, un certo fastidio. In primo luogo perché l'Austria era allora un vecchio Stato, conservatore, bigotto, più o meno bonariamente poliziesco, diviso fra una vivace intellighenzia e una classe burocratico-militare assillata dall'angoscia del proprio declino e desiderosa di fermare, per quanto possibile, l'orologio della storia. In secondo luogo, perché intravedo in queste manifestazioni di nostalgia asburgica i sentimenti antirisorgimentali che si sono introdotti come un virus nel corpo della società italiana. È questa la ragione per cui ho risposto a un lettore che la nostalgia è un vizio ricorrente del nostro Paese ed è spesso basata su una visione idealizzata dal passato. Temo di doverle dare la stessa risposta. So che l'Italia sta attraversando un brutto momento e che il clima politico è pessimo. Ma i suoi ricordi della cosiddetta Prima repubblica non coincidono con i miei. Mentre lei ricorda sussulti normali e fisiologici, io ricordo una cinquantina di governi, crisi ricorrenti e lunghi periodi di stasi durante i quali ogni grande progetto veniva bloccato e restava nel cassetto in attesa che un nuovo ministro buttasse tutto per aria e ricominciasse da capo. Dove lei ricorda Leggi finanziarie affrontate ogni anno senza angosce, io ricordo lunghi mercanteggiamenti che in qualche caso si prolungavano al di là del 31 dicembre e rendevano necessaria l'adozione dell'esercizio provvisorio. È certamente vero che i rapporti con l'opposizione furono in alcuni momenti abbastanza civili. Ma dietro i governi di centrosinistra e di solidarietà nazionale vi furono parecchi compromessi trasformistici fra cui la lottizzazione della Rai e molte leggi di spesa concordate in Parlamento con vantaggi per tutti coloro che le avrebbero votate. Mi è difficile provare nostalgia per un sistema politico che permise al '68 di diventare terrorismo, che non seppe impedire la diffusione della criminalità organizzata in molte province italiane, che consentì ai partiti di percepire, sotto forma di tangenti, una imposta sugli affari, e che alla fine produsse un colossale debito pubblico. Anche a me, caro Pianetti della Stufa, non è piaciuta la «rivoluzione giudiziaria» della prima metà degli anni Novanta. Ma non ho rimpianti per gli anni in cui la Procura di Roma veniva definita il «porto delle nebbie».

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 luglio 2007

 
   
 

I contratti

Caro Romano, solo una piccola parte dei parlamentari italiani paga un regolare stipendio ai propri assistenti e portaborse, i restanti lo fanno in nero. Ho provato a richiedere l'elenco degli onorevoli che non hanno fatto un regolare contratto, e che per tale scopo ricevono comunque circa 4.000 euro mensili. Purtroppo ci sono forti resistenze da parte dei questori sia della Camera che del Senato che invocano il rispetto della privacy. Sarebbe ora che la trasparenza tanto evocata per il normale cittadino e per le imprese, venisse applicata anche da chi ci rappresenta e fossero gli stessi presidenti di Camera e Senato a pretenderla per primi da parte dei deputati e dei senatori.

Cesare Alberto Casula

La legge dovrebbe pretendere dai parlamentari, per queste spese, un rendiconto dettagliato e documentato. Anche se purtroppo rischierebbe di fare la fine di quei bilanci che i partiti erano tenuti a presentare in Parlamento dalla legge sul loro finanziamento pubblico. Erano generici, incompleti e finivano in archivio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 luglio 2007

 
   
 

Palestina: guerra dei falchi e sconfitta delle colombe

Vorrei che mi aiutasse a capire la natura di Hamas.
E' un movimento politico?
Con quale programma elettorale ha vinto le elezioni? Chi, con armi e finanziamenti, dà la forza ad Hamas di sbaragliare l'esercito regolare palestinese e conquistare Gaza? Sul piano internazionale si possono prevedere gli obiettivi che Hamas si prefigge?

Renato Malgaroli

Caro Malgaroli, Hamas è una costola della Fratellanza musulmana, nata nei territori occupati all'inizio dell'Intifada (1987), quando agli israeliani non spiaceva che esistesse un'organizzazione capace di fare concorrenza all'Olp di Yasser Arafat. Aveva una forte dose di fanatismo religioso, ma era anche un movimento di liberazione ed ebbe aiuti finanziari o logistici da tutti i Paesi che, per una ragione o per l'altra, avevano motivi di risentimento verso Israele o avevano fatto dell'antisionismo la loro bandiera nazionale. Acquistò credito e popolarità a Gaza e in Cisgiordania, dopo la creazione dell'Autorità autonoma palestinese, per molte ragioni: la svolta conservatrice della politica israeliana dopo l'avvento del Likud al potere, la macchina corrotta e clientelare che Arafat aveva creato per l'Olp e Al Fatah nei territori occupati, la grande rete di assistenza sociale con cui aveva saputo provvedere alle più elementari esigenze della popolazione. Quanto più i «laici » dell'Olp si dimostravano inetti e venali, tanto più gli austeri miliziani di Hamas acquistavano credito agli occhi della società palestinese.
Come accadde in tutti i movimenti di liberazione (il Fronte algerino, l'Ira irlandese, l'Eta basca), la dinamica del terrorismo e della guerriglia spinse al vertice dell'organizzazione la sua componente più estrema, violenta e inflessibile. Esistevano anche le colombe, ma venivano escluse o messe a tacere dal diabolico ingranaggio che è tipico delle guerre di guerriglia. Ogni attentato inaspriva le reazioni degli israeliani, ogni reazione «giustificava» e incoraggiava l'attentato successivo. La situazione accennò a cambiare dopo il successo di Hamas nelle elezioni politiche del gennaio 2006. Le colombe divennero più visibili e cercarono probabilmente di orientare la politica del nuovo governo. Ma i falchi, per ragioni ideologiche e interessi di parte, non intendevano fare concessioni che avrebbero intaccato il loro potere. L'episodio più interessante di questo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della flessibilità fu un documento scritto da quattro esponenti del movimento palestinese detenuti nelle carceri israeliane: Marwan Barghouti (Al Fatah), Abdel Khalek al-Natsheh (Hamas), Abdel Rahim Malouh (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), Sceicco Bassam al-Sadi (Jihad Islamica). Il documento era composto da 18 punti e comprendeva proposte (ad esempio il ritorno dei rifugiati palestinesi nelle terre da cui erano partiti nel 1948 e nel 1967) che il governo israeliano non avrebbe accettato. Ma proponeva la nascita di uno Stato palestinese a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, vale a dire in territori conquistati da Israele durante la Guerra dei sei giorni. Pur senza dirlo esplicitamente, quindi, il documento Barghouti, come veniva allora generalmente chiamato, conteneva un implicito riconoscimento dello Stato d'Israele. Per alcuni giorni sembrò che il documento sarebbe potuto diventare la base di un compromesso politico fra Hamas e l'Olp.
La risposta dei falchi fu la cattura del caporale israeliano Gilad Shalit, il 25 giugno 2006. Ma è probabile che anche a Gerusalemme esistessero ambienti decisi a evitare che il compromesso privasse Israele del suo nemico. Un nuovo tentativo venne fatto qualche mese dopo dall'Arabia Saudita quando re Abdallah convocò alla Mecca, nel febbraio di quest'anno, il Primo ministro di Hamas Ismail Haniya e il presidente Mahmud Abbas per la ricerca di una soluzione concordata. Il documento finale di quell'incontro si compone di otto capitoli interamente riprodotti e commentati da Antonio Napolitano in una «Lettera» del 23 marzo pubblicata dal Circolo di studi diplomatici di Roma. Napolitano mette in evidenza la frase del primo capitolo in cui è detto che il nuovo governo palestinese «rispetterà la legittimità internazionale delle risoluzioni e degli accordi firmati dall'Olp». Non è esatto quindi sostenere che Hamas rifiuta ostinatamente di riconoscere l'esistenza di Israele. In questo e in altri passaggi del documento della Mecca esiste una implicita accettazione di quella che veniva chiamata «entità sionista». Come ha scritto Arrigo Levi in un recente articolo apparso su La Stampa («Israele, la pace si fa con i nemici», 20 luglio), il «riconoscimento pubblico e finale» potrebbe giungere alla fine della trattativa. Se è questa la materia principale del negoziato, è comprensibile che Hamas non voglia gettare sul tavolo, all'inizio della partita la sua carta migliore.
Ma anche questo documento, come sappiamo, è stato messo in disparte dalla breve guerra civile di Gaza e dall'estromissione dell'Olp dalla Striscia. Sarà opportuno non dimenticare tuttavia che all'origine di quegli scontri vi fu anche il rifiuto di Mohammed Dahlan, il «duro » dell'Olp, di rinunciare al controllo delle milizie palestinesi, un piccolo esercito forte di circa 70.000 uomini. Evidentemente ciascuno ha i suoi falchi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 luglio 2007

 
   
 

L'assenteismo

Caro Romano, sorridere fa bene all'anima. Leggendo il giornale ho sorriso di gusto nel leggere il titolo «Arresti per assenteismo: indaga anche il Parlamento ». Si fa riferimento al comportamento di malasanità relativo a persone accusate di aver timbrato il cartellino per conto di colleghi assenti dal lavoro. A indagare sul caso sarà ora anche una commissione d'inchiesta parlamentare. Rappresentanti cioè di un Parlamento che, quanto a presenze in Aula, spesso non danno il buon esempio e nel quale il fenomeno dei «pianisti» (abuso paragonabile alla timbratura per altre persone) continua a presentarsi con una certa frequenza senza che il Parlamento stesso abbia potuto o voluto eliminare.

Claudio Franza

Non dimentichi che i grandi peccatori sono generalmente indulgenti con i propri peccati e severi con quelli degli altri.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 luglio 2007

 
   
 

I polacchi espulsi

Caro Romano, a lei che è così sensibile alle sofferenze dei tedeschi espulsi da Slesia e Pomerania, per par condicio, consiglio di leggere il libro di A. Zagajewski che narra il dramma dei polacchi espulsi dalle loro terre. Unico caso al mondo invece di adattare i confini alla popolazione in Polonia i comunisti adattarono la popolazione ai confini.

Marek V.

E' vero. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Polonia scivolò sulla carta geografica da Est a Ovest. Ma è bene ricordare che i territori annessi all'Unione Sovietica furono in buona parte quelli che la Polonia aveva conquistato durante la guerra russo-polacca del 1920.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 luglio 2007

 
   
 

Fejtö, esule ungherese, cittadino europeo

Non trova che, guardando a Est, non si parli abbastanza di François Fejtö? Perché nella sua rubrica non ne traccia un profilo? Anni addietro, proprio spulciando le pagine culturali del Corriere, mi sono imbattuto in questo storico delle Democrazie popolari e del dissolvimento dell'impero austro ungarico. Che, se non erro, dovrebbe avere 97 anni.

Pablo Dell'Osa

Caro Dell'Osa, il mio ultimo incontro con François Fejtö risale a un anno fa. Eravamo insieme a Budapest per un convegno sul cinquantesimo anniversario della rivoluzione ungherese all'Istituto italiano di cultura e abbiamo pranzato in un ristorante accanto al museo. È afflitto dagli acciacchi (qualche mese dopo ha fatto una brutta caduta), ma è straordinariamente vivo e intelligente, una vecchia quercia mitteleuropea con tanti rami quanti sono gli avvenimenti di cui è stato testimone e protagonista: lo scoppio della Grande guerra (aveva soltanto quattro anni, ma non ha mai dimenticato il volto buio del padre quando apprese la notizia), la rivoluzione dei consigli in Ungheria, il regime liberale di Karolyi, l'avvento di Horty al potere, l'arrivo in Francia alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la lunga osservazione del blocco comunista dagli uffici dell'Agence France Presse e i ritorni nell'Ungheria liberata alla fine della Guerra fredda.
Per gran parte della sua vita Fejtö non ha conosciuto altra condizione fuor che quella dell'esule. Negli anni in cui l'Ungheria era governata dall'ammiraglio Horty fu all'opposizione e, per molti aspetti, esule in patria. Giunto in Francia alla fine degli anni Trenta, dovette nascondersi durante il regime di Vichy e divenne esule nella sua seconda patria. Terminata la guerra, quando fu tra i primi a denunciare la vera natura delle democrazie popolari e a scrivere libri esemplari sui loro regimi, venne esiliato dall'intellighenzia dominante. Fu un irregolare persino sul piano religioso. Nacque ebreo, ma venne fortemente attratto dal cattolicesimo. E qualche anno fa pose al cardinale Lustiger, arcivescovo di Parigi (anch'egli un ebreo convertito) un quesito interessante: «potrà un officiante recitare per me, dopo la mia morte, il kadish (una preghiera ebraica, spesso usata per i defunti ndr) e un requiem?» Lustiger volle riflettere per un paio di settimane e gli fece sapere che la cosa era possibile. Il Rabbino di Parigi, interpellato, dette una risposta meno positiva. Se si fosse congedato dal mondo e dagli amici quando l'Ungheria era una democrazia popolare, l'Urss era la «patria del socialismo » e gli intellettuali dell'Europa occidentale erano solidamente schierati a sinistra, Fejtö avrebbe totalizzato il massimo degli esili possibili.
È accaduto invece che le patrie perdute tornassero a lui, una dopo l'altra, senza che egli dovesse attraversare la frontiera dell'esilio. Dopo gli avvenimenti ungheresi del 1956, una parte dell'intellighenzia europea capì che i suoi studi sulle democrazie popolari erano assai più vicini alla realtà di quanto fossero le rappresentazioni ideali con cui erano state nutrite le sue illusioni. Dopo gli avvenimenti cecoslovacchi del 1968, nessun intellettuale si vergognò di tenere sulla sua scrivania il libro che Fejtö pubblicò sul colpo di stato a Praga di vent'anni prima. E dalla fine degli anni Ottanta l'Ungheria stessa, infine, è tornata a François Fejtö. Dopo essere stata lungamente bandita dal regime, la sua opera ha trovato il posto che le spettava nelle librerie, nelle biblioteche, nei dibattiti e nella cultura nazionale.
Esiste poi un altro Fejtö: quello che con una certa civetteria intellettuale ha scritto un nostalgico requiem per l'impero austro-ungarico di cui fu cittadino sino al 1918. La Duplice Monarchia è irrimediabilmente scomparsa, sepolta dai propri errori. Ma il meglio di quel mondo multinazionale, multiculturale e multireligioso sopravvive nell'Unione europea, il solo «Impero» che permetta a tutte le componenti della sua cultura politica e religiosa — ungherese, germanica, slava, francese, italiana, spagnola, greca, ebraica, cattolica e islamica — di convivere, speriamo armoniosamente, in una stessa cittadinanza ideale. Fejtö è nato europeo. L'Europa, dopo molte traversie e travagli, comincia finalmente ad assomigliargli.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 luglio 2007

 
   
 

Le guardie svizzere

Caro Romano, il 22 gennaio 1506 è la data di nascita ufficiale della Guardia Svizzera Pontificia, perché in questo giorno, sull'imbrunire, un gruppo di centocinquanta svizzeri, al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Cantone di Uri, attraverso Porta del Popolo entrò per la prima volta in Vaticano, dove furono benedetti da Papa Giulio II. Così il sito della Curia Romana sull'origine della centenaria storia del corpo delle guardie svizzere. Lo stesso sito alla voce «requisiti per l'ammissione» come primo requisito recita «cittadino svizzero ». Sa dirmi quale funzione ha oggi la guardia svizzera del Papa e per quale motivo risulta armata seppur di alabarde? Perché il Papa ha bisogno di un corpo di pretoriani?

Giannandrea Dagnino

Le guardie svizzere del Vaticano sono l'ultimo esempio di una tradizione che risale al Cinquecento. Per più di tre secoli non vi fu sovrano importante in Europa che non avesse uno o più reggimenti di soldati reclutati nei cantoni elvetici. Le ricordo che seicento svizzeri morirono alle Tuileries il 10 agosto 1792 per difendere la famiglia reale dalla folla che fece irruzione nel palazzo. E le ricordo infine che Ferdinando II di Borbone si servì dei suoi svizzeri per reprimere i moti risorgimentali del 1848 e del 1849. Altri combatterono a Gaeta nel 1860 e nel 1861, e alcuni di essi accompagnarono l'ultimo Borbone in esilio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 luglio 2007

 
   
 

Nomine inutili

Caro Romano, non le sembra inutile la nomina da parte del Consiglio dei ministri del prefetto Serra ad «Alto Commissario per la prevenzione e la lotta contro la corruzione»? Il problema a mio parere non sta negli indiscussi meriti di Serra in tutti gli incarichi ricoperti in passato fino all'attuale come prefetto di Roma, quanto nel reiterare con altisonanza che rembra richiamare ex ministeri talebani «per il buon costume e la moralità», il vizio politico italiano di pensare di risolvere problemi reali nominando commissioni e lasciando inalterati i problemi stessi. Una iniziativa di questo tipo può sembrare una risposta «furba» al clima anti «Casta». Se si attivassero con più efficacia e rigore i vari meccanismi di controllo e disciplinare nei diversi settori della Pubblica amministrazione, a cominciare da quelli più sensibili, utilizzando come da tempo reclama, inascoltato, il professor Ichino, lo strumento del licenziamento, forse si eviterebbero inutili battaglie contro i mulini a vento da parte del futuro Commissario.

Sauro Magnani - Marino (Roma)

Temo che lei abbia ragione. Forse se l'Alto Commissario avesse facoltà d'intervenire col bisturi del licenziamento il suo ruolo sarebbe più efficace.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 luglio 2007

 
   
 

Nei brogli elettorali siamo finalmente bipartisan

Qualche tempo fa è uscito un libro di grande interesse, una specie di storia delle elezioni italiane dal 1948 ad oggi, firmato da un autorevole studioso, Luca Ricolfi e da due suoi collaboratori.
Verso la fine c'è un capitolo che potrebbe essere intitolato «storia dei brogli», nel quale i dati sono messi a disposizione del lettore, così che possa trarre egli stesso le sue conclusioni.
Ebbene, un lettore con qualche nozione di statistica arriva a una conclusione traumatica, e cioè che le ultime elezioni le aveva vinte la destra, non la sinistra.
Leggere per credere.
Il libro non è stato censurato, per carità, in Italia c'è la libertà di stampa, ma semplicemente ignorato.

Rosalino Sacchi

Caro Sacchi,
Il libro a cui lei si riferisce s’intitola «Nel segreto dell’urna, un’analisi delle elezioni politiche del 2006» (Utet 2007) ed è una raccolta di studi scritti da diversi autori e curata da Paolo Feltrin, Paolo Natale e Luca Ricolfi. Anch’io ho letto il capitolo intitolato «L’ipotesi dei brogli», scritto da Ricolfi e Silvia Testa, ma sono giunto a conclusioni meno nette delle sue.
Ricolfi e Testa ricordano la situazione all’indomani del voto allorché il centrodestra, dopo avere chiesto e ottenuto la riconta delle schede contestate (2000) alzò la mira e chiese il controllo di tutte le schede valide e non valide. La situazione sembrò rovesciarsi quando apparve nelle edicole, il 24 novembre dell’anno scorso, un film in dvd di Enrico Deaglio e Beppe Cremaschi in cui gli autori sostenevano una tesi clamorosa. Il centrodestra avrebbe sottratto un milione di voti al centrosinistra grazie a un software «annidato nella rete informatica del ministero dell’Interno». L’ipotesi parve abbastanza convincente e tenne la scena per parecchi giorni.
Vi furono quindi per un certo periodo due sospetti contrapposti: una massiccia frode a danno del centrodestra, perpetrata nelle sezioni elettorali, e una frode altrettanto massiccia a danno del centrosinistra realizzata nel «cervellone » del Viminale o nei computer delle prefetture. Ma non appena la tesi di Deaglio venne messa in dubbio, il centrosinistra si accorse che essa avrebbe favorito le richieste del centrodestra e rinunciò a servirsene. Prevalse alla fine la richiesta di Berlusconi. «Il 6 dicembre», ricordano Ricolfi e Testa, «la Giunta per le elezioni del Senato decide di procedere alla riconta dei voti.
Il giorno dopo, anche nella Giunta della Camera, i parlamentari dell’Unione, dopo mesi di resistenza, cedono alle richieste della Casa delle Libertà e accettano di dar corso alla riconta».
Buona parte dello studio è dedicato alle procedure di controllo.
Dopo avere descritto le due filiere esistenti (quella che passa attraverso Comuni, prefetture, ministero dell’Interno, e quella che passa attraverso i tribunali, le Corti di appello e la Corte di cassazione), gli autori giungono alla conclusione che un grande imbroglio, orchestrato dall’alto, è «estremamente difficile, per non dire impossibile ». Sono invece possibili i brogli periferici, effettuati attraverso le sezioni. Maè difficilissimo scovarli e correggerli perché i «cani da guardia» (le Giunte delle due Camere) «non sono organismi terzi, bensì organismi politici bipartisan, i cui membri non solo sono in grado di bloccare o ritardare i lavori che non favoriscono la propria parte politica, ma in alcuni casi sono in patente conflitto d’interessi (può capitare che della Giunta faccia parte un parlamentare contro la cui elezione ha fatto ricorso il candidato che ne rivendica il posto) ».
Resta da capire che cosa sia veramente successo nelle elezioni del 2006. Il «margine risicato » ha comprensibilmente alimentato sospetti e reciproche accuse. Qualche decina di migliaia di voti in più alla destra le avrebbe dato la vittoria; e qualche decina di migliaia di voti in più alla sinistra le avrebbe permesso di governare più comodamente. Sulla regolarità del voto Ricolfi e Testa hanno molti dubbi. Vi sarebbe stata una «sistematica e grave violazione delle regole nel caso del voto degli italiani all’estero ». E vi sarebbe stata «una enorme massa di irregolarità e stranezze denunciate—e spesso documentate— da membri dell’opposizione (compresi due ex ministri), specie in Emilia Romagna, e nelle quattro regioni—Liguria,Lazio, Sardegna, Puglia—in cui lo scrutinio manuale è stato affiancato da quello elettronico». Anche sulla base di un confronto con le due elezioni politiche precedenti, Ricolfi e Testa sono giunti alla conclusione che qualcosa «non va» e annunciano che stanno lavorando «a una serie di modelli matematici- statistici capaci di riconoscere le tracce di eventuali alterazioni di voti e valutarne la direzione (pro destra o pro sinistra) ». Per ora, in attesa dei modelli matematici e della riconta (per cui occorrerà attendere più di un anno), l’ipotesi generale suggerita dalle analisi oggi possibili «è quella di brogli di entità non trascurabile, e di segno alterno. Insomma di nuovo brogli bipartisan ». Rimane una speranza: che quanto è accaduto dimostri la necessità di regole più severe e di risultati più facilmente verificabili. Non basta quindi cambiare la legge elettorale.
Occorre anche migliorare e semplificare le procedure di voto. «Per quanto ci concerne », concludono Ricolfi e Testa, «ci accontenteremmo che, quale che sia il sistema elettorale (...), a noi cittadini possa almeno essere restituita una certezza: che una volta infilata nell’urna la nostra scheda resti quella che è».

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 luglio 2007

 
   
 

I Sarkozy in Libia

Caro Romano,
si può considerare un successo diplomatico quello dei Sarkozy in Libia (Cécilia come Jackie Kennedy), stante che L'Ue si è impegnata a versare la maggior parte dei 461 milioni di dollari chiesti per indennizzare le famiglie dei bambini di Bengasi, nonché a versare 12,5 milioni di euro per una Ong guidata dal figlio di Gheddafi che si chiama «Spada dell'Islam»?. La vita non ha prezzo, anzi un prezzo, sia pure elevatissimo, ce l'ha.

Lucio Flaiano - Montesilvano (Pe)

Ricorda gli indennizzi che la Libia dovette versare agli eredi dei passeggeri che viaggiavano a bordo di un aereo della Panamerican, colpito da un attentato nel cielo scozzese di Lockerbie? Ho l’impressione che questa vicenda abbia permesso a Gheddafi di recuperare una parte del denaro perduto.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 luglio 2007

 
   
 

Rigore del bisturi

Caro Romano,
immagino che nessuno degli attuali senatori a vita abbia problemi economici.
In considerazione di ciò, e anche per dare un esempio contro gli sprechi e gli eccessi documentati nel libro «La Casta», non potrebbero rinunciare allo stipendio e ad altri appannaggi devolvendoli a favore di sicuri e accertati cittadini bisognosi?

Natalino Russo Seminara

Quella che lei suggerisce è un’opera di carità, vale a dire un gesto lodevole che giova al prestigio morale del suo autore. Per risolvere il problema dei costi della politica in uno Stato moderno, la carità non basta.
Occorre il rigore del bisturi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 luglio 2007

 
   
 

L’impero dei chazari e gli ebrei in Europa orientale

Un lettore ha parlato di «antisemitismo islamico». Ma come è possibile parlare «antisemitismo islamico» quando i membri di Hamas sono essi stessi semiti? Infatti tutti gli arabi sono semiti e gli israeliani costituiscono soltanto il 7% dei semiti nel mondo. Forse si intende dire «anti-giudaismo islamico»? Ma anche qui c'è un equivoco perché l'87% degli ebrei del mondo non sono semiti, bensì chazari. Perfino gli ebrei lo riconoscono perché hanno due grandi rabbini distinti: uno per i sefarditi semiti e uno per gli ashkenaziti non-semiti, cioè chazari.

padre Brian Paul Maguire, Congregazione dei passionisti

Caro Maguire, spero che lei vorrà scusarmi se non ho pubblicato la seconda parte della sua lettera in cui sono contenuti argomenti biblici e talmudici con cui ho poca familiarità. La prima parte invece solleva un’antica questione che potrebbe interessare i lettori. Da dove vengono gli ebrei che si sono insediati per molti secoli in Polonia, nelBaltico, in Bielorussia, in Ucraina e dì lì sono partiti per costituire importanti comunità in Germania, in Ungheria, in Austria, nelle regioni nordorientali dell’Italia e in una parte della penisola balcanica? Sono anch’essi di origina mediterranea, come gli ebrei che dovettero abbandonare la penisola iberica alla fine delQuattrocento e il Nord Africa dopo le guerre arabo-israeliane del secolo scorso? O provengono da un Impero dei chazari che si costituì prima dell’anno Mille in una regione a nord del Caucaso delimitata dal Mar Nero, dal Mar Caspio e dal fiume Volga? Nel primo caso sarebbero tutti semiti. Nel secondo, invece, sarebbero solo in parte semiti e, per la maggior parte, eredi di una popolazione di origine turca che sarebbe stata convertita all’ebraismo nel nono secolo dopo Cristo. La seconda tesi ebbe una certa popolarità fra Ottocento eNovecento ed è fondata su vecchie cronache, riapparse in Europa soprattutto a partire del XVII secolo. La storia narrata in queste cronache è per molti aspetti simile a quella di cui fu protagonista, due secoli dopo, Vladimiro principe di Kiev. Sembra che anche il Kagan (imperatore) dei chazari volesse convertire il suo popolo a una religione monoteista e avesse convocato alla sua corte alcuni dotti.Vennero un rabbino, un saraceno e, inviati dall’imperatore di Costantinopoli, due monaci greci (Costantino filosofo, meglio noto come Cirillo, e il fratello Metodio) che passeranno alla storia come evangelizzatori degli slavi. Vi fu una disputa e il rabbino, a quanto pare, sostenne il primato della sua fede con un argomento politico: «Soltanto io sono quello che voi chazari non dovete temere. Perché dietro gli ebrei non viene né un califfo con le vele verdi della sua flotta, né un basileus bizantino con la croce sulle bandiere del suo esercito.Con Costantino arrivano da Salonicco cavalleria e lancieri, mentre con me, rabbino ebreo, soltanto scialli da preghiera».Masembra che il Kagan, dopo avere ascoltato le ragioni degli uni e degli altri, abbia scelto il cristianesimo e inviato all’imperatore di Costantinopoli una lettera in cui è scritto tra l’altro: «Convinti che questa è la religione giusta, abbiamo ordinato al popolo di battezzarsi di sua spontanea volontà». Ho scritto «sembra» perché esistono altre versioni secondo cui i chazari si sarebbero convertiti all’ebraismo e si sarebbero dispersi, dopo il crollo del loro impero, nelle terre ucraine, bielorusse e baltiche che divennero parte del regno polacco e successivamente dell’impero zarista. Quest’ultima tesi storica ha particolarmente convinto un grande scrittore ebreo di origine ungherese e di lingua tedesca. Arthur Koestler, autore di un bellissimo romanzo sulle purghe staliniane («Buio a mezzogiorno»), scrisse nell’esilio londinese, verso la fine della sua vita, una sorta di saggio storico intitolato «La tredicesima tribù» in cui sostenne che gli ebrei askenaziti erano in buona parte chazari, vale a dire un popolo turco convertito all’ebraismo. Koestler fu appassionatamente sionista, ma il suo libro piacque particolarmente a tutti coloro che contestavano il diritto degli ebrei alla Palestina.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 luglio 2007

 
   
 

Questione del velo

Caro Romano, il ministro Amato è quello che nel 1992 è penetrato di notte nei nostri conti correnti e si è prelevato quanto gli è convenuto. Un'operazione che per logica corrisponde a mettere i carabinieri sull'autostrada e confiscare il portafogli di chi passa. Ora il ministro Amato scopre che spesso rappresentiamo la Madonna a capo coperto e che quindi è giusto che le musulmane circolino intabarrate per le nostre città.Strana logica. Rappresentiamo Gesù in croce. Dobbiamo restaurare la pena di morte per crocifissione?

Giuliano Grasselli, Udine

Nel 1992 Amato ebbe il merito di salvare il Paese dalla bancarotta. In materia di rapporti con i musulmani ha il merito di ricordare ai suoi connazionali che la condizione delle donne in certe regioni della penisola, non più di cinquant’anni fa, non li autorizza a formulare giudizi così drasticamente severi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 luglio 2007

 
   
 

Limiti del mandato

Caro Romano, è passato circa un anno dal conflitto che ha visto contrapposto il movimento Hezbollah a Israele e che ha portato allo spiegamento della missione Unifil, sulla cui attività si può provare a tracciare un primo bilancio. Se va sottolineato che da allora non si sono più verificati scontri armati nella zona, è però vero che molti altri aspetti negativi non sono stati risolti. In particolare rimane disatteso quel processo di smantellamento delle milizie armate, ivi comprese quelle di Hezbollah, come richiesto da più risoluzioni Onu. In questo senso, i limiti e le ambiguità del mandato assegnato a Unifil non contribuiscono certo a rendere più chiara la situazione. Nasce quindi un timore, e cioè che la mancanza di quel coraggio necessario ad assegnare un mandato più robusto a Unifil stessa, possa costituire una sorta di premessa per il riaccendersi di un conflitto che, lungi dall’aver rimosso le proprie cause, potrebbe riesplodere con maggiore violenza da un momento all’altro.

Giovanni Martinelli

A giudicare dal modo in cui Hezbollah si è affrettato a sconfessare gli attentati alle forze di Unifil, le sue milizie, per ora, sembrano decise a evitare incidenti. Il maggior rischio è rappresentato dalla continua instabilità del Libano e dalla mancanza di una chiara linea politica mediorientale nei governi europei che partecipano all’operazione.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 luglio 2007

 
   
 

Il mestiere della Chiesa e quello dello Stato

Ci crede che la sua risposta alla mia (Corriere, 20 luglio) mi ha turbata non poco? Io capisco che lei non si senta, oppure non voglia dare consigli alla Chiesa; mi sembra anche giusto, ma come si fa a non dare giudizi sulle sue posizioni su temi che riguardano la nostra società? Lei parla di regole alle quali "i suoi membri devono conformarsi". Ma a quali regole si riferisce? Ho forse capito male? Se lei si riferisce a regole interne alla gerarchia ecclesiastica, io posso comprendere la sua posizione neutrale, ma quando le indicazioni della Chiesa, a prescindere da interferenze dirette nella sfera politica, finiscono per influire sulle leggi che si fanno in Italia, sui costumi, sul modo di vivere dell'intera società, come si fa a non dare giudizi? E se tali indicazioni sono in contrasto con la ragione, con la morale comune, e magari col Vangelo? Ce ne laviamo le mani? Quando parla di "membri" si riferisce agli ecclesiastici, oppure ai fedeli tutti? Perché in questo ultimo caso è vero che appartengono alla Chiesa, ma appartengono anche alla società, e finiscono per influire su questa positivamente o negativamente. E come si fa allora restare neutrali?

Veronica Tussi

Cara Signora, i giudizi sulla Chiesa dipendono dalla prospettiva e dalla condizione del giudice. Cercherò di proporle qualche esempio. Vi è anzitutto il giudizio del fedele. Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, il fedele ha certamente il diritto di battersi perché la Chiesa adotti nuove posizioni in materia di aborto, procreazione assistita, rapporti omosessuali, eutanasia, suicidio, e tutte le altre questioni che hanno formato oggetto di appassionate discussioni nelle società europee e americane di questi ultimi anni. Se la Chiesa di Roma è la "sua" Chiesa, il fedele potrà spingersi, per trasformarla, sino ai confini della disciplina o addirittura, come accadde per molti lefebvriani dopo il Concilio, scavalcarli. Vi è il giudizio dei laici democratici, soprattutto di tradizione giacobina, e dei lontani nipoti di Voltaire. Per costoro la Chiesa ha il diritto di esistere, ma è un'anomalia, una presenza fastidiosa e ingombrante nelle società avanzate, una sorta di residuo storico che dovrebbe starsene tranquillo in un angolo senza pretendere di esercitare alcuna autorità morale. Vi è poi il giudizio di quelle ideologie autoritarie che hanno la propria fede e credono nello Stato etico, vale a dire in uno Stato che è al di sopra delle Chiese e non tollera concorrenti. In questo caso il giudizio dipende dal carattere della ideologia e dalla natura del regime. Il fascismo decise di riconoscere alcuni diritti alla Chiesa cattolica con il Concordato del 1929, ma cercò di farne una volonterosa collaboratrice dello Stato fascista. Il cattolicesimo, per Mussolini, era un dato ineliminabile della identità storica degli italiani e poteva essere usato come religione civile dello Stato nazionale, utile in altre parole per benedire gagliardetti e decorare le pubbliche cerimonie con la propria liturgia. Franco ne fece un carattere distintivo della hispanidad e quindi un utile pilastro del suo nazionalismo. Hitler cercò di sovrapporre al cristianesimo una confusa mitologia teutonica, nibelungica, wagneriana, e si sarebbe volentieri sbarazzato di tutte le Chiese del suo Paese se ne avesse avuto il tempo. Lenin non ebbe alcun dubbio: occorreva sopprimere la Chiesa ortodossa o, tutt'al più, cacciarla nelle catacombe. Stalin adottò la stessa linea fino all'invasione tedesca del 1941, quando ritenne utile farla uscire dalle catacombe e sfruttarla per rendere la guerra "patriottica". Vi è poi il giudizio dei liberali. Per costoro la Chiesa è una grande istituzione storica che ha il diritto di autogovernarsi, di proclamare le sue verità e di chiedere ai suoi fedeli di osservare i suoi precetti. Il liberale vorrebbe che lo Stato si occupasse il meno possibile di questioni morali, ma sa che vi sono circostanze in cui la mancanza di una regola, soprattutto nelle questioni che concernono la famiglia e la sessualità, può nuocere alla convivenza civile.E sa che la Chiesa cattolica, anche per ragioni storiche, esercita una grande influenza sulla cultura degli italiani. Ma quando le esigenze della Chiesa rischiano di prevalere su quelle dello Stato, il liberale non nega alla Chiesa il diritto di "fare il suo mestiere". Preferisce ricordare allo Stato che non sta facendo il proprio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 29 luglio 2007

 
   
 

I rapporti con l'Urss

Caro Romano, la Polonia, come altre Repubbliche dell'Est europeo, ha confermato l'adesione al progetto di scudo spaziale. È il sistema per difendersi dall'ex alleato, o una sorta di tassa di ingresso nel mondo cosiddetto occidentale?

Walter Collazzo

Credo che alla Polonia interessi soprattutto avere un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Posso comprendere le sue storiche preoccupazioni per la potenza russa, ma penso che l'unità dell'Europa garantirebbe la sua sicurezza molto più dell'alleanza militare con un Paese che ha i propri interessi non sempre coincidenti con quelli del continente europeo. Aggiungo una precisazione. Non parlerei in questo caso di "scudo spaziale ". Così si chiamava il sistema progettato all'epoca della presidenza Reagan e composto di armi che erano effettivamente dislocate nello spazio. Oggi lo scudo è realizzato con missili situati a terra.

Sergio Romano
Corriere della sera, 29 luglio 2007

 
   
 

Il virus dell'Aids

Caro Romano, della vicenda delle infermiere accusate di aver inoculato il virus dell'Aids in 438 bambini libici qualcosa sfugge. A che scopo lo avrebbero fatto? E come? E per quale motivo questi poveretti erano ricoverati? Mistupisce poi la grazia immediata concessa dalle autorità del loro Paese. Se le accuse fossero provate ci troveremmo di fronte a un crimine paragonabile a quello dei nazisti. Se invece non fossero colpevoli rimarrebbe comunque da capire chi e perché l'ha fatto.

Ardengo Alebardi

Credo che la spiegazione di ciò che accadde sia tragicamente banale. L'innocenza delle infermiere fu dimostrata sin dal 2002 quando una ispezione internazionale guidata da due esperti (Vittorio Colizzi e Luc Montagnier), accertò che il virus dell'Aids esisteva nell'ospedale di Bengasi primadel loro arrivo.Mail contagio di tanti bambini, in una zona dove Gheddafi conta molti oppositori, creò un'ondata di rabbia che il governo sperò di calmare con qualche capro espiatorio. I tribunali si adeguarono e la sentenza di condanna creò un fatto compiuto che dava soddisfazione alla lobby delle vittime. Per smantellare quel fatto compiuto furono necessari parecchi anni di trattative e parecchio denaro.

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 luglio 2007

 
   
 
L’imperatrice Sissi, un assassinio «casuale»

Ho rivisto le solite repliche della Rai sulla principessa Sissi. Incuriosito, sono andato a cercare notizie sulla sua vita e ho appreso che fu uccisa da un italiano. Sono rimasto allibito. Le chiedo se fu proprio così. Mi sembra incredibile. Che bisogno c'era di uccidere la moglie dell’imperatore? Allora accanto a questi filmetti replicati e zuccherini, la Rai potrebbe spiegare come poi la vicenda andò a una fine ben penosa. Altro che «italiani brava gente...»!

Angelo Pizzocri

Caro Pizzocri,
è vero. L’assassino di Elisabetta di Wittelsbach, imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, fu un anarchico italiano, Luigi Luccheni. Ma prima di descrivere le circostanze della morte debbo ricordarle che non sarebbe giusto imputare agli italiani il primato degli assassini reali. Raramente la vita di re, imperatori, presidenti e principi fu così precaria comenella stagione prerivoluzionaria che va dal 1870 alla Prima guerra mondiale. Nel primavera del 1878 un gruppo di radicali cercò di uccidere Guglielmo I, imperatore di Germania.
Nel novembre dello stesso anno, un anarchico, Giovanni Passanante, attentò alla vita di Umberto I, da pochi mesi re d’Italia. Nel marzo del 1881 venne assassinato Alessandro II, imperatore di Russia. Nel dicembre del 1893 un anarchico francese, Auguste Vailland, fece esplodere una bomba a Parigi nella Camera dei deputati. Nel giugno del 1894 un altro anarchico italiano, Sante Ieronimo Caserio, uccise Sadi Carnot presidente della Repubblica francese.
Nel settembre 1898 fu la volta di Elisabetta, uccisa da Luccheni a Ginevra. Nel luglio 1900, a Monza, Umberto I fu ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci, rientrato in patria dagli Stati Uniti per compiere la sua «missione». Nel febbraio 1901 Carlo I, re del Portogallo, fu ucciso col principe ereditario durante una rivolta repubblicana. Nel settembre 1901 un anarchico di origine polacca uccise il presidente degli Stati Uniti William McKinley mentre visitava la grande esposizionePanamericana di Buffalo nello Stato di New York. Nel settembre 1911 il Primoministro russo Piotr Stolypin fu ucciso in un teatro di Kiev, forse da un rivoluzionario che era al tempo stesso agente dell’Okhrana.
E nel giugno del 1914, infine, un nazionalista serbo uccise a Sarajevo l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando e sua moglie. Tralascio per brevità gli attentati «minori» contro deputati, ministri, funzionari di polizia. Se vuole avere un’idea del terrorismo, soprattutto anarchico, che imperversò tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, legga uno splendido romanzo di Conrad, «L’agente segreto », pubblicato nel 1907.
La morte di Sissi fu in un certo senso «casuale». Il suo assassino, Luigi Luccheni, aveva venticinque anni ed era convinto, come altri anarchici in quegli anni, che un «grande gesto» avrebbe liberato il mondo dai tiranni coronati. Andò a Ginevra nella speranza di uccidere Eugenio d’Orléans, pretendente al trono di Francia, ma la vittima designata cambiò programma e Luccheni non aveva i soldi per tornare in Italia dove il suo bersaglio preferito era Umberto I. Quando apprese dai giornali che l’imperatrice Elisabetta era all’albergo Beau Rivage di Ginevra, l’attese lungamente passeggiando tra la folla e nascondendo nella manica destra una lima sottile, accuratamente affilata.
La storica austriaca Brigitte Hamann, autrice di una bella biografia di Elisabetta, apparsa nel 1983 presso Longanesi, racconta che l’imperatrice uscì dall’albergo con una dama di compagnia verso l’una e mezza del pomeriggio per salire a bordo di un battello diretto a Montreux. Luccheni si gettò sulle due donne e colpì Elisabetta al petto.
Il particolare più drammaticamente paradossale della vicenda fu che Elisabetta, dopo essere caduta a terra, si rialzò e proseguì verso l’imbarcadero «con passi concitati» chiedendo alla sua dama di compagnia chi fosse «quell’uomo terribile ». Svenne a bordo, dopo la partenza, e «solo quando le aprirono il corpetto per strofinarle il petto», scrive Brigitte Hamann, «si scoprì una minuscola macchia brunastra e un foro sulla camicia di batista».

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 luglio 2007

 
   
 

L’esistenza di Israele

Caro Romano, è vero che Israele diede qualche sostegno a Hamas,ma quando era un’organizzazione caritevole che sembrò una valida e pacifica alternativa al Plo e i suoi attacchi terroristici. Quindi, non è esatta l’affermazione che Israele fa una tattica di divide et impera.
Cerca semplicemente di appoggiare gli interlocutori meno fanatici e violenti del momento, che oggi sembrano essere Abu Abbas e Fatah. Per quanto riguarda la tesi che Hamas potrebbe riconoscere l’esistenza d’Israelemanon lo vuole dichiarare pubblicamente, sarei molto cauto. Da quando la Palestina fu spartita dalle Nazioni Unite l’atteggiamento degli arabi è sempre stato di chiusura all’esistenza dello Stato ebraico (infatti, a tutt’oggi nessun governo arabo lo riconosce ufficialmente).
Poiché molti arabi considerano il territorio d’Israele un’area che è stata sotto controllo musulmano e quindi deve rimanere così per sempre, non hanno mai voluto un compromesso vero che non comprometta la sicurezza d’Israele e senza minare la sua natura ebraica, e che deve per forza partire dal riconoscimento esplicito d’Israele come uno Stato alla stregua di tutti gli altri del mondo.

Daniel Gold, dangold@stny.rr.com

Israele ha relazioni diplomatiche con Egitto e Giordania, e i ministri degli Esteri dei due Paesi hanno recentemente visitato Gerusalemme in rappresentanza della Lega Araba. Ha avuto anche relazioni diplomatiche a più basso livello con Marocco, Tunisia e Oman, interrotte dopo la crisi palestinese del 2000.Mai contatti con il Marocco, ad esempio, non sono mai cessati e il ministro degli Esteri israeliano ha visitato Rabat nel 2003.
Il riconoscimento degli altri Paesi è implicito nella proposta saudita del 2002, solennemente confermata negli scorsi mesi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 luglio 2007

 
   
 
L'Italia è stata, ma non è più, il giardino d'Europa

Non le sembra che si stia esagerando nella devastazione di un Paese che ai tempi del Grand Tour era definito il Giardino d'Europa? In Italia manca il rispetto del bene comune, della res publica, probabilmente perché già a partire dalle scuole elementari difetta il materiale umano in grado di inculcare buoni principi.
Come purtroppo è latitante un certo giornalismo, ormai incapace di indignare e indignarsi commentando all'acqua di rose fatti gravi come gli incendi che devastano territorio e paesaggio e l'inciviltà alimentata dalle varie mafie per quanto riguarda il riciclaggio dei rifiuti. C'è da vergognarsi di appartenere a questo Paese che è sempre più lontano dall'Europa in termini di società civile!

Maurizio Ferrara

Caro Ferrara, a costo di sembrarle freddo e distaccato, come i giornalisti da lei denunciati, credo che occorrerebbe chiedersi anzitutto perché l'Italia sia stata per tanto tempo uno dei luoghi europei più ricchi di straordinarie bellezze artistiche e naturali. La prima e la più ovvia delle risposte, naturalmente, è: per il gran numero di pittori, scultori, architetti, mecenati che questo Paese ha generato nel corso della sua storia, e per l'abbondanza delle memorie archeologiche che le maggiori civiltà europee hanno lasciato nel suo territorio. Ma un secondo motivo, non meno importante, è il lungo periodo (quasi due secoli) durante il quale l'Italia è stata scavalcata dalla modernità e lasciata, per così dire, sul ciglio della strada che i maggiori Paesi europei stavano velocemente percorrendo. In un breve saggio di storia economica apparso in Gran Bretagna nel 1952, Carlo Cipolla (uno dei maggiori studiosi europei del secolo scorso) colloca l'inizio di questa fase ai primi del Seicento e produce, per dimostrare la sua tesi, alcuni dati di straordinario interesse. Nei primi anni del secolo l'Italia settentrionale e centrale aveva un livello di vita eccezionalmente alto ed era una delle più avanzate aree industriali dell'Europa occidentale. Venezia produceva circa 20.000 panni all'anno. Milano aveva sessanta o settanta aziende collegate con l'industria della lana e una produzione annua di circa 15.000 panni. Como aveva una sessantina di aziende con una produzione annua di 8.000-10.000 panni. Firenze ne aveva circa 120 con una produzione annua di 14.000. Nei decenni successivi la situazione divenne drammaticamente diversa. Agli inizi del Settecento Venezia produceva 2.000 panni. Nel 1640 Milano produceva 3.000 panni e aveva, nel 1682, soltanto cinque aziende. Nel 1650 la produzione annuale di Como era ridotta a 400 panni. Nel 1627 Firenze aveva una produzione annuale di poco superiore alla metà di quella di trent'anni prima. Un'altra importante fonte di reddito (le esportazioni «invisibili » generate dai trasporti marittimi e dalle operazioni bancarie) si era progressivamente prosciugata. La principale ragione del declino fu il dinamismo commerciale e marittimo della Francia, della Gran Bretagna e dell'Olanda. La qualità dei prodotti italiani, osserva Cipolla, era superiore, ma le mani degli industriali e dei mercanti erano legate dalla politica conservatrice delle corporazioni e dei sindacati di mestiere, dal peso delle imposte e dal maggior costo della mano d'opera. A questi fattori negativi si aggiunsero la peste del 1630 e quella del 1675: due catastrofi «naturali » che ridussero di un terzo la popolazione delle grandi città. Alla fine del ciclo, quando la popolazione ricominciò a crescere, l'Italia aveva perduto i suoi mercati tradizionali, mentre i suoi concorrenti avevano ormai tutto ciò che aveva contribuito nei secoli precedenti alla fortuna del nostro Paese: le aziende, le maestranze, le banche, le flotte. Il declino rese l'Italia, con poche eccezioni, una grande area depressa, ma ebbe l'effetto di preservare, come in un museo, le bellezze naturali e artistiche che furono inevitabilmente soggette in altri Paesi agli assalti della modernità. Quando D'Annunzio decise di evocare, con la sua poesia, le «città del silenzio», ne descrisse in versi 25: Ferrara, Pisa, Ravenna, Rimini, Urbino, Padova, Lucca, Pistoia, Prato, Perugia, Assisi, Spoleto, Gubbio, Spello, Montefalco, Narni, Todi, Orvieto, Arezzo, Cortona, Bergamo, Carrara, Volterra, Vicenza, Brescia. Nessun altro Paese europeo poteva contare un tal numero di gioielli urbani sparsi sul suo territorio. Ma il prezzo pagato per la conservazione di tanta bellezza fu il declino economico, politico, sociale e intellettuale. Pagammo un altro prezzo, non meno salato, quando la modernità, giunta tardi e troppo impetuosamente, cominciò a produrre gli effetti descritti, caro Ferrara, nella sua lettera. E ora, se perdessimo ancora una volta il treno della storia, non potremmo neppure consolarci dicendo a noi stessi che siamo «il giardino d'Europa».

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 agosto 2007

 
   
 

Il quorum

Caro Romano, la sua risposta a proposito degli eventuali brogli sulle ultime nostre elezioni mi fa ricordare i risultati del referendum post-bellico monarchia- repubblica. Sino a poche ore dal termine della conta dei voti, la monarchia era in vantaggio (soprattutto per i voti del Centro-Sud), poi a risultato finale, vi fu il capovolgimento improvviso. Togliatti dopo due giorni fece bruciare tutte le schede. Un alto magistrato foggiano, in pensione, scrisse qualche anno fa un saggio, che non ho letto, dove pare dimostrasse che in realtà i brogli affossarono la maggioranza dei voti, che fu monarchica. A distanza di 60 anni e con la costituzione repubblicana saldamente fissata, si potrebbe fare finalmente luce, senza timori, su quei risultati, invece di affossare sempre tutto in un limbo equivoco, come purtroppo è abitudine nostrana.

Marcello Ortera

Come hanno ricordato Luca Ricolfi e Silvia Testa nel saggio sui brogli elettorali di cui ho scritto recentemente, il principale fattore di contestazione fu il quorum. Doveva essere calcolato sui voti validi o sui votanti? Con il primo criterio i voti per la repubblica erano «largamente sufficienti». Con il secondo criterio erano appena sufficienti e quindi più facilmente discutibili. Da allora, di tanto in tanto, il problema riemerge alla superficie e provoca discussioni, ormai esclusivamente accademiche.

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 agosto 2007

 
   
 

L'emigrazione

Caro Romano, da anni in estate, i vari tg mostrano il continuo sbarco di migranti nordafricani o comunque islamici a Lampedusa o su qualche altra nostra costa. Le motovedette dei guardiacoste o navi della marina nazionale sono costrette a intervenire spesso per salvare questi poveri disgraziati dalla morte in mare a causa delle pessime condizioni delle carrette del mare, usate dai moderni mercanti di carne umane. Mi domando però, perché le nazioni islamiche, Arabia Saudita, Emirati, Libia, Iran, ecc., ricchissime per via del petrolio e tanto brave a blaterare sulla solidarietà islamica, non intervengano offrendo posti di lavoro e condizioni di vita migliori ai loro fratelli nella stessa religione. Facile infuriarsi per la satira su Maometto e facile emanare fatwe nei confronti di scrittori occidentali, più difficile è aiutare la massa dei disperati in fuga.

Lamberto Gori

La Siria ha accolto un milione e mezzo di profughi iracheni. La Giordania ne ha accolti 800.000. Nei paesi del Golfo, fra cui principalmente l'Arabia Saudita, i lavoratori immigrati sono spesso più del 20 per cento della forza lavoro.

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 agosto 2007

 
   
 
Come i belgi perdettero il Congo e Lumumba la vita

A proposito della sua risposta sulla morte di Lumumba vorrei aggiungere che il leader congolese è stato assassinato dai grandi poteri e interessi internazionali per appropriarsi della ricchezza del Katanga. Diamanti.
Petrolio. Il tutto mentre nel mondo si sviluppava un forte movimento neocolonialista.
Lumumba non voleva diventare il servo di Bruxelles. Il suo assassinio ha condizionato lo sviluppo del Continente Africano.
Assassinato insieme a Joseph Okito e Maurice Mpolo il 17 gennaio 1961 di fronte alla reazione in Europa e in Africa, fu esumato e nuovamente seppellito a 220 chilometri a Nordest di Elisabethville presso la frontiera con la Rhodesia, a Kanenga il 18 gennaio 1961.
Il 21 gennaio 1961 il lavoro viene finito da due Europei e aiutanti locali con dell'acido solforico. Il giorno 22 gennaio 1961 di Patrice Lumumba, Joseph Okito e Maurice Mpolo non rimaneva assolutamente niente. Nel Congo invece rimaneva tanta povertà e migliaia di morti. Oggi sotto la guida dell'Onu ci sono nel Congo 17.000 peacekeepers provenienti da 48 nazioni per dare speranza a questa importante, ricca e strategica nazione.

Oscar García

Caro García, un altro lettore, Massimo Mazza, mi ha scritto per sottolineare che anche i belgi, alla fine, riconobbero le loro responsabilità. Nel corso del 2001 una commissione d'inchiesta della Camera dei deputati indagò sulla morte di Lumumba raccogliendo una impressionante massa di documenti e testimonianze da cui emergono le numerose trame con cui molti esponenti dei poteri pubblici e le grandi aziende interessate alle ricchezze del Paese si misero all'opera per rovesciare Lumumba e conservare il controllo della vecchia colonia. Il rapporto venne reso pubblico nel novembre del 2001 e formò l'oggetto di una seduta plenaria della Camera, convocata per il 5 febbraio del 2002. Più tardi il governo di Bruxelles prese nota delle conclusioni parlamentari e pronunciò una sorta di confiteor. Deplorò che il governo dell'epoca non avesse preso in considerazione il problema dell'integrità fisica di Lumumba e avesse dato prova di scarso rispetto per i principi dello Stato di diritto. Riconobbe anche il coinvolgimento di alcuni membri del governo e altre personalità belghe «negli eventi che portarono alla morte di Patrice Lumumba». Non ammise una responsabilità diretta e preferì rimproverare al governo dell'epoca due errori che definì, con un certo eufemismo, «apatia e fredda neutralità », ma fece mea culpa e chiuse con un'autosentenza un capitolo di storia coloniale che aveva conosciuto tra l'altro gli spaventosi massacri del regno di Leopoldo II. Ma il problema della decolonizzazione non può essere trattato in termini esclusivamente morali e il giudizio non può prescindere da altre considerazioni. All'origine della vicenda congolese vi è la convinzione, molto diffusa nelle democrazie occidentali, che il clima politico del mondo, in epoca di Guerra fredda, non permettesse alle potenze coloniali europee di conservare il dominio diretto dei territori conquistati. Dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez nel 1956, la Gran Bretagna decise che l'unica strada percorribile fosse quella della indipendenza, e il Belgio, la più piccola, con il Portogallo, delle potenze coloniali europee, si adeguò alla linea di Londra. Ma chi accettò di rinunciare al dominio coloniale lo fece nella speranza di conservare con la sua vecchia colonia un rapporto speciale e di avere un accesso privilegiato alle sue risorse naturali. Non conosco potenza coloniale, caro García, dalla Gran Bretagna alla Francia, dal Belgio al Portogallo (l'ultimo a uscire dalla gara) che non abbia coltivato questa speranza. Persino l'Italia, dopo avere perduto le sue colonie, pensò che l'amministrazione fiduciaria della Somalia, dal 1950 al 1960, le avrebbe garantito una posizione di riguardo a Mogadiscio. In Congo l'illusione divenne tragedia. Il governo belga non era preparato alla fase di transizione, i suoi amministratori coloniali erano troppo arroganti, le sue imprese erano prive di scrupoli e la classe dirigente locale era pressoché inesistente. Come in ogni vicenda umana, tuttavia, anche in Congo l'evoluzione degli avvenimenti deve molto alla personalità dei protagonisti, alla loro mentalità e al loro stile. Il mio giudizio su Patrice Lumumba rimane quello della mia prima risposta. Anziché preparare il suo Paese alla conquista di una indipendenza non soltanto formale, combatté subito su due fronti: contro la vecchia potenza coloniale e contro il presidente della Repubblica Kasavubu. Il suo primo discorso alla presenza di re Baldovino, il 30 giugno 1960, fu un modello di intemperanza, il modo migliore per insospettire tutti coloro di cui avrebbe avuto bisogno nei mesi seguenti. E la richiesta di aiuto ai sovietici, due mesi dopo, ebbe l'effetto di proiettare il Congo nel mezzo della Guerra fredda. La sua canonizzazione da parte di Mosca, dopo la morte, fu soltanto una manifestazione di opportunismo politico. Se il Congo fosse divenuto un pupillo dell'Urss, i dirigenti sovietici non avrebbero esitato a sbarazzarsi di lui, il più presto possibile.

Sergio Romano
Corriere della sera, 02 agosto 2007

 
   
 
Come la Spagna è diventata un Paese moderno

Negli ultimi 15 anni la Spagna è riuscita a darsi uno scrollone liberandosi prima dagli estremismi politici e poi dall'influenza troppo forte del clero, inserendosi con autorità nel consesso europeo. Considerati gli eccellenti risultati ottenuti dalla Spagna, sia a livello nazionale che internazionale, per quale motivo l'Italia non riesce perlomeno a imitarla?

Giberto Gnisci

Caro Gnisci, per comprendere le ragioni del successo spagnolo occorre risalire agli anni della transizione. In un lungo saggio («Italia e Spagna: un confronto»), pubblicato come introduzione a «La lezione spagnola», il libro di Víctor Pérez-Díaz apparso presso il Mulino nel 2003, Michele Salvati scrive che «l'orientamento verso una economia aperta era evidente nelle ultime fasi del franchismo». Ma occorreva evitare i due scogli contro i quali la nuova Spagna correva il rischio di naufragare. Il primo era «quella perversa rincorsa di inflazione, svalutazione e disavanzi di bilancio in cui l'Italia si andava avvitando» in quegli anni. Il secondo era il possibile ritorno ai conflitti politici e civili che avevano agitato il Paese prima dell'avvento di Franco al potere.
Il primo scoglio fu evitato grazie alla prudenza dei moderati di Adolfo Suarez, al socialismo democratico di Felipe Gonzalez, «molto attento agli equilibri macroeconomici», e al patto della Moncloa con le Commissioni operaie. Il secondo, grazie a un tacito accordo di riconciliazione nazionale che è stato per alcuni decenni la Carta non scritta della democrazia spagnola. Il confronto con l'Italia, a questo proposito, è particolarmente istruttivo. Mentre l'Italia visse per parecchio tempo nel clima di una Resistenza «incompiuta» e sfiorò negli anni Settanta la guerra civile, la Spagna ricostruì con un sforzo collettivo le sue istituzioni. Mentre da noi, dopo la fine della guerra, non passava giorno senza che i comunisti denunciassero la minaccia incombente del fascismo e i moderati fossero costretti a tenere conto dell'esistenza di un partito comunista legato alla politica dell'Urss, la Spagna decise di accantonare il passato e di concentrarsi sul futuro. I monumenti al Caudillo continuarono a decorare le piazze delle città, ma vennero rinchiusi in una invisibile campana di vetro e ignorati. Gli eredi delle vittime rinunciarono a rievocare la tragedia del passato e l'unico tentativo di restaurazione autoritaria fu un ridicolo colpo di Stato che il re Juan Carlos liquidò con un tempestivo messaggio alla nazione. Il partito comunista di Santiago Carillo cercò di sopravvivere giocando la carta dell'eurocomunismo, ma divenne una piccola forza marginale e insignificante. Il ricordo dei torbidi anni che avevano preceduto il pronunciamiento militare e le memorie della guerra civile ebbero il magico effetto di indirizzare tutte le energie nazionali verso due obiettivi: la ricostruzione delle istituzioni democratiche e lo sviluppo economico del Paese. La nuova Costituzione dette alla Spagna un esecutivo autorevole (Zapatero e il suo predecessore assomigliano al cancelliere tedesco molto più di quanto non assomiglino al presidente del Consiglio italiano) e favorì l'alternanza al governo di due grandi partiti nei quali, come scrive Salvati, «s'identificano la grande maggioranza degli elettori».
Il confronto con l'Italia, naturalmente, non può ignorare alcune importanti differenze. Mentre la Spagna evitò il coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale, noi vi partecipammo e fummo sconfitti. Mentre la Spagna, negli anni seguenti, rimase ai margini della guerra fredda, noi fummo per quasi mezzo secolo una marca di frontiera dell'Alleanza Atlantica.
Mentre i comunisti spagnoli uscirono rapidamente di scena, i comunisti italiani potevano essere considerati, per la loro partecipazione alla Resistenza, «coautori» della Repubblica. Mentre la Spagna d'oggi è pur sempre erede di uno Stato secolare, fiero del proprio passato imperiale, l'Italia è una giovane nazione afflitta da localismi e campanilismi. Ma esiste ormai una lezione spagnola da cui la classe politica italiana potrebbe ricavare qualche utile ammaestramento.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 agosto 2007

 
   
 

La danza del ventre

Caro Romano, a proposito dello scialle che copriva un tempo la testa delle donne italiane, ricordo che dal Concilio Vaticano II, molti ordini religiosi femminili hanno abolito il velo per le suore. La «modestia» ma io preferisco dire la «dignità» femminile, è cosa molto più seria di un pezzo di stoffa poggiato in foggia diversa sulla testa. Mi permetta, inoltre, di porle una domanda cui io non riesco proprio a dare una risposta: come può coniugarsi la «danza del ventre» (e relativo abbigliamento che definire castigato è francamente difficile) con il velo e le sue virtù?

Rosanna Goglia Andria - Napoli

La «danza del ventre» può sorprendere soltanto coloro che credono nell'esistenza di un mondo musulmano uniforme, omogeneo, compatto, senza tendenze culturali e stili di vita alquanto diversi da un Paese all'altro.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 agosto 2007

 
   
 

Ipotesi della congiura

Caro Romano, se l'attentato del 22 novembre 1963 a Kennedy fosse stato organizzato da più persone, sicuramente esse avrebbero fatto in modo che apparisse che una sola persona, nel nostro caso Lee Oswald, aveva sparato i colpi assassini. E allora sorge spontanea una domanda: come mai avrebbero fornito a Oswald un fucile Carcano, pur modificato e migliorato, ma tale che avrebbero destato dubbi e perplessità i tre colpi sparati in dieci secondi? Non sarebbe stato più logico se i «congiurati » avessero fatto in modo di dotare Oswald di un fucile a ripetizione, più veloce e affidabile? Così non sarebbero mai sorte discussioni, e il ventiquattrenne, poi ucciso da Jack Ruby prima che potesse parlare ed essere processato, sarebbe stato l'unico indiziato. Paradossalmente, il fucile Carcano rende debolissima l'ipotesi della congiura di più persone.

Vito La Colla

In generale i teorici del complotto si chiedono a chi possa giovare l'avvenimento in discussione (cui prodest?) e su questa domanda costruiscono il castello delle loro illazioni. Lei riesce, con lo stesso argomento, a smantellare la tesi del complotto. Congratulazioni.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 agosto 2007

 
   
 
L'avventurosa vita del Gran Mufti di Gerusalemme

Nel corso di una trasmissione su Radio radicale si è parlato della possibile instaurazione a Gaza, e in futuro anche in Cisgiordania, di un regime fondamentalista islamico. Le chiedo quanto ritenga remota questa possibilità. Alla radio un esperto del Medio Oriente paventava l'azione degli emuli del Gran Mufti di Gerusalemme che, proprio a Gaza, nel 1948 creò un governo palestinese rivendicante il potere su tutta quanta la Terrasanta. Ma chi era questo sinistro personaggio, precursore degli integralisti attuali?

Mario Giuseppe Anzani

Caro Anzani, il "sinistro personaggio" di cui è stato evocato il ricordo a Radio radicale è probabilmente Haji Amin al Husayni, forse il più importante e avventuroso dei leader palestinesi nel periodo fra l'instaurazione del mandato britannico nel 1920 e la prima guerra arabo-israeliana del 1948. Ebbe una carica religiosa (Gran Mufti di Gerusalemme) e usò la religione per mobilitare l'interesse del mondo musulmano per la causa palestinese. Ma non fu "fondamentalista " nel senso che la parola ha assunto in questi ultimi anni. Nella sua grande storia del conflitto arabo-sionista dal 1881 al 2001 ("Vittime", Rizzoli 2001), lo storico israeliano Benny Morris ricorda che era nato a Gerusalemme nel 1895 e apparteneva al clan degli Husayni, il più importante e inf l u e n t e , con quello dei Nashashibi, nella società palestinese dell'epoca. Studiò al Cairo nella più autorevole università islamica del mondo (Al Azhar), divenne ufficiale dell'esercito ottomano e prese parte alle operazioni della Grande guerra nelle file dell'esercito turco. Ma nel 1917 disertò e raggiunse le formazioni irregolari dello sceriffo della Mecca per partecipare, con gli amici e alleati di Lawrence d'Arabia alla "rivolta nel deserto". Fra il 1917 e il 1918, quindi, fu filobritannico e addirittura, secondo alcuni, un informatore dell'Intelligence Service, "infiltrato tra i seguaci dello sceriffo". Ma quando ritornò in Palestina, alla fine della guerra, divenne subito uno dei maggiori esponenti delle agitazioni palestinesi che scoppiarono in quel periodo contro gli insediamenti ebraici. Fu arrestato, processato, condannato a dieci anni di reclusione. Ma di lì a poco, nel maggio 1921, riemerse come Gran Mufti di Gerusalemme, e più tardi, nel 1936, come presidente dell'Alto Comitato Arabo, vale dire dell'organizzazione che assunse la rappresentanza politica della società palestinese ed ebbe una parte direttiva in tutte le rivolte anti-ebraiche degli anni Trenta. L'amministrazione britannica tenne nei suoi confronti un atteggiamento ambiguo e oscillante. Lo usò nei periodi in cui voleva dare qualche soddisfazione alla maggioranza palestinese e cercò di tenerlo a freno ogniqualvolta le agitazioni arabe mettevano a rischio la governabilità del Protettorato. Nulla di nuovo. Fu questo, generalmente lo stile realistico e spesso cinico delle amministrazioni coloniali britanniche, sempre inclini a spostare il loro appoggio da un campo all'altro per meglio impedire la nascita di una organizzazione troppo potente. Il Gran Mufti, tuttavia, si dimostrò ben presto incontrollabile. Se gli inglesi erano pronti a servirsi del suo prestigio, Amin al Husayni, dal canto suo, era pronto a usare chiunque potesse giovare alla causa arabo-palestinese. Strinse rapporti con il consolato tedesco a Gerusalemme, accettò probabilmente denaro dai servizi italiani. E quando, finalmente, gli inglesi decisero di sbarazzarsi di lui esiliandolo alle Seychelles, fuggì da Gerusalemme travestito da beduino e si imbarcò per il Libano. Dopo lo scoppio della guerra si trasferì a Baghdad e sostenne la piccola rivoluzione di palazzo che portò al potere nel 1941 la fazione filo- tedesca e filo-italiana della politica irachena. E quando gli inglesi ripresero in mano il controllo della situazione, riparò in Turchia dove l'ambasciata d'Italia gli dette un passaporto e gli permise di arrivare a Roma. Poche settimane dopo era a Berlino, nell'ufficio di Hitler, pronto a stringere con il Fuehrer un patto di amicizia e collaborazione. Esiste una fotografia, scattata qualche mese dopo, in cui il Gran Mufti passa in rassegna un reggimento SS composto da reclute della Bosnia musulmana che portavano, come nei reggimenti bosniaci dell'esercito austro- ungarico, un fez rosso. Ed esiste l'interessante libro di Stefano Fabei ("Una vita per la Palestina", Mursia 2003) in cui i suoi rapporti con l'Asse sono attentamente descritti e studiati. Intelligente, abile e spregiudicato, sopravvisse alla sconfitta del Terzo Reich e riapparve in Palestina dopo la fine della guerra con il sostegno di alcuni dei maggiori Paesi della Lega Araba. Era ancora il Gran Mufti di Gerusalemme, ma soprattutto un leader politico-militare, pronto ad assumere la supervisione delle unità combattenti palestinesi nella guerra civile che precedette lo scoppio del conflitto arabo-israeliano durante la primavera del 1948. Benny Morris ricorda che nel settembre 1948 si costituì a Gaza, per sua iniziativa, un governo palestinese e che Husayni fu eletto presidente di un'assemblea costituente chiamata "Consiglio nazionale". Mané la Giordania né l'Egitto desideravano in quel momento la nascita di un vero Stato palestinese. Il governo di Gaza non ebbe alcun potere e Husayni dovette trasferirsi al Cairo dove godette di una dignitosa ospitalità. Morì a Beirut nel 1974 portando con sé nella tomba il ricordo dei suoi intrighi e delle sue avventure. Se mai esisterà uno Stato palestinese, Amin al Husayni figurerà probabilmente nella galleria dei precursori.

Sergio Romano
Corriere della sera, 04 agosto 2007

 
   
 

I fondi assegnati

Caro Romano, come vennero divisi fra le regioni d'Italia i soldi del piano Marshall?

Giuseppe Tizza , giuseppetizza@ hotmail.com

Gli aiuti del Piano Marshall non vennero distribuiti su base regionale, ma assegnati a singoli progetti sotto l'egida dell'Oece.

Sergio Romano
Corriere della sera, 04 settembre 2007

 
   
 

I volontari Usa

Caro Romano, di recente l'amministrazione Bush, per incentivare l'arruolamento per la guerra in Iraq, ha stabilito di elargire un assegno di 10 mila dollari ai volontari. E sembra che si siano presentati in molti, e tutti pronti a imbracciare le armi, e con l'intento di partire immediatamente! Mentre anni fa, i soldati venivano addestrati per almeno sei mesi prima di inviarli sui campi di battaglia. Pertanto le chiedo: non crede anche lei che questa improvvisa (e in numero rilevante) corsa alle armi da parte degli americani (forse quasi tutti sprovveduti), si possa considerare anche un nuovo modo di reclutare dei soldati mercenari?

Giovanni Papandrea - Ardore Marina (Rc)

Ilpremioèdi20.000dollari (non 10.000) ed è offerto ai volontari che accettano di affrontare immediatamente la fase dell'addestramento rapido e quindi, con ogni probabilità, di essere trasferiti successivamente in Iraq. Non sono mercenari, ma cittadini che hanno scelto la carriera delle armi. Potrebbero essere definiti mercenari invece i 20.000 impiegati di società militari private che prestano attualmente servizi logistici e di sicurezza in Iraq.

Sergio Romano
Corriere della sera, 04 settembre 2007

 
   
 

Una chiesa in Alto Adige e la foto di un giovane milite

Frequento da anni il Sud Tirolo, da noi chiamato Alto Adige, e comprendo che possa essere scomodo vivere entro i confini di una nazione diversa per lingua, storia, cultura ed economia.
Però mi ha fatto impressione in una chiesa nel centro di un paese vicino a Bolzano notare all'ingresso una lastra tombale con ben in evidenza la foto di un giovane milite delle SS. Avevo visto elmetti della Wehrmacht intorno alle chiese in altri paesi della provincia, ma che il ricordo di uomo appartenuto al più sanguinario corpo della storia venga mostrato a tutti mi è sembrato stonato, benché pubblicamente accettato. I sudtirolesi sono rappresentati in larga maggioranza dalla Svp, un movimento conservatore d'ispirazione religiosa (antiabortista al tempo del referendum), che si è peraltro alleato localmente e a Roma con il centrosinistra: perché non provare a collaborare alla rimozione del passato oscuro, partendo dalle piccole cose?

Maurizio Boerci

Caro Boerci, suppongo che la lapide di cui lei parla non sia all'interno dell'edificio, ma nel piccolo cimitero che circonda spesso le chiese, soprattutto nei Comuni della provincia di Bolzano. A Corvara, ad esempio, ho visto questa estate, attorno alla piccola chiesa gotica di Santa Caterina, tombe con lapidi in ladino, italiano e tedesco. Quella che ha attratto i suoi occhi contiene in effetti una contraddizione. Il Terzo Reich fu, oltre che ferocemente antisemita, ideologicamente anticristiano, e trattò spesso le due maggiori chiese tedesche, luterana e cattolica, come istituzioni nemiche. Ma la popolazione del Tirolo meridionale è devotamente cattolica. Come è possibile, lei si chiede, che il parroco, il sindaco, il vescovo, l'autorità provinciale e la Svp (Südtiroler Volkspartei), che raccoglie i maggiori consensi della popolazione locale, tollerino in un luogo sacro una sorta di indiretto tributo a un corpo militare e poliziesco che fu fanaticamente fedele a Hitler e non avrebbe mancato di eseguirne gli ordini anche contro la Chiesa cattolica? La cosa le sembrerà meno sorprendente se ricorderà che la Seconda guerra mondiale fu percepita da alcune popolazioni di frontiera in modo alquanto diverso dal nostro. Penso ai tedeschi del Sud Tirolo, della Slesia, del Sudetenland, di una parte dell'Alsazia. Penso ai sassoni della Romania e agli ungheresi della Transilvania, della Croazia, della Vojvodina. Penso ai musulmani della Bosnia e a quelli del Caucaso. Penso agli ucraini, agli estoni, ai lettoni e ai lituani. Per queste genti, o almeno per una parte importante di esse, la liberazione ebbe luogo quando credettero di ritrovare la loro indipendenza (gli ucraini e i baltici) o di essere finalmente ricongiunti alla nazione con cui avevano maggiori affinità storiche e culturali. Quando il Terzo Reich li chiamò alle armi nelle proprie forze armate o formò con essi corpi territorialmente omogenei, molti di quei giovani ebbero la sensazione di combattere per la propria patria contro lo Stato a cui erano stati annessi dopo la Grande guerra o di cui erano stati costretti a diventare cittadini dopo il patto fra la Germania e l'Unione Sovietica dell'agosto 1939. Fu questo probabilmente il clima in cui il giovane di cui lei ha visto la tomba decise di arruolarsi nelle SS, vale a dire in un corpo che fu anch'esso oggetto in quegli anni di una doppia percezione. Fu lo strumento più feroce e inumano del potere di Hitler. Ma i suoi reparti combattenti, per molti giovani, furono soprattutto coraggiosi, audaci, pronti all'estremo sacrificio. Se non tenessimo conto di questa doppia percezione non capiremmo perché il giovane Günter Grass, all'età di sedici anni, ne abbia indossato l'uniforme. Ci vorranno ancora parecchi anni, caro Boerci, prima che l'Europa riesca a relegare nel passato questo intreccio di storie contraddittorie e di percezioni diverse. Nel frattempo è meglio lasciare le tombe dove sono e come sono. La tolleranza, che gli europei hanno faticosamente conquistato dopo la fine delle guerre di religione, vuole che i sepolcri appartengano allo spazio privato della memoria individuale: uno spazio che nessuno dovrebbe invadere.

Sergio Romano
Corriere della sera, 05 settembre 2007

 
   
 

Passare da un partito all'altro: il caso Churchill

In un sistema bipolare come quello statunitense o britannico sarebbe possibile che un deputato eletto nelle file della destra passasse nello schieramento di sinistra o viceversa?

Roberto Bellia , paradosso44@yahoo.it

Caro Bellia, suppongo che questa domanda le sia stata suggerita dalla «mobilità» della politica italiana nel corso degli ultimi anni (200 passaggi di campo in una sola legislatura) e da certe indiscrezioni sul modo in cui Berlusconi cercherebbe di attrarre verso il centrodestra una dozzina di senatori del centrosinistra.
Il Galateo della buona politica vorrebbe che un parlamentare, nel momento in cui decide di abbandonare il proprio partito, si dimettesse e si presentasse nuovamente agli elettori per spiegare le ragioni del suo gesto.
Ma questa buona regola è difficilmente applicabile in Paesi dove si vota con una legge elettorale proporzionale e il deputato dimissionario verrebbe automaticamente sostituito da un collega di lista. Anche in Paesi dove si vota col sistema maggioritario dei collegi uninominali, tuttavia, può succedere che il deputato, dopo essere passato a un altro partito, conservi il seggio sino alla fine della legislatura. Una implicita risposta alla sua domanda, caro Bellia, è il caso di Winston Churchill che entrò alla Camera dei Comuni come conservatore nel 1900, passò ai liberali nel 1904 e tenne il seggio di Oldham, dove era stato eletto, sino alle elezioni del 1906.
Ma il caso Churchill dimostra che possono esservi circostanze in cui il deputato «traditore» è in realtà molto più coerente con se stesso di quanto non siano i suoi compagni di partito. In un bel profilo apparso nella collana diretta da Francesco Perfetti per Le Lettere di Firenze («Winston Churchill, luci e ombre»), Enrico Serra ricorda che il padre, Lord Randolph, fu uno spirito riformatore, attento ai ceti sociali meno favoriti della società vittoriana e deciso a iniettare nel partito conservatore una buona dose di modernità. Ma le sue ambizioni politiche (fu un brillante, giovanissimo cancelliere dello Scacchiere e poteva aspirare alla guida del partito) vennero bruscamente stroncate da Lord Salisbury, esponente di una linea più tradizionalmente conservatrice. Quando entrò in Parlamento a 26 anni, nel 1900, Winston Churchill era un conservatore nello spirito e nello stile del padre. Credeva che lo Stato dovesse «venire in aiuto di coloro che hanno più bisogno» e sosteneva fermamente le virtù del libero commercio internazionale contro il partito delle tariffe doganali.
Allorché il governo adottò la linea protezionista di Joseph Chamberlain, Churchill decise di «cross the floor» (attraversare la Camera) e passare ai liberali, vale a dire a un partito che in quegli anni era al tempo stesso «liberoscambista » e «sociale». Serra ricorda che «furono i liberali a fare approvare in Inghilterra il primo aiuto statale per l'istruzione, la prima legislazione industriale, la prima legge sulle "Trade Unions", la prima legge sulla pensione di vecchiaia e malattia». Churchill fu quindi liberale per vent'anni, dal 1904 al 1924, e tornò al partito conservatore soltanto quando l'autorità dello Stato contro la «minaccia socialista» gli parve più importante di altre esigenze. Ma non bisogna dimenticare che il contesto sociale era stato profondamente modificato negli anni precedenti dalla rivoluzione bolscevica e dall'apparizione di correnti massimaliste in molte sinistre europee. La conclusione, caro Bellia, è che ogni salto di campo, in politica, deve essere valutato individualmente. Può essere dettato da opportunismo ed essere quindi riprovevole.
Ma può anche essere dettato da coerenza intellettuale, se non addirittura da lungimiranza. Sarebbe un errore, quindi, fare leggi che, per evitare l'opportunismo, finirebbero per scoraggiare manifestazioni di libertà e indipendenza di giudizio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 settembre 2007

 
   
 

Gli ebrei rifugiati

Caro Romano, lei ha recensito un libro di Langendorf che fa comparire la povera Svizzera come vittima dei soliti ebrei. Ognuno ha diritto di dire la sua, naturalmente, e il suo parere sugli ebrei è ben noto. Tuttavia mi pare rasenti il ridicolo quando ricorda che la Svizzera ospitò circa 21.000 ebrei, come gli Usa, e chiede quale Paese fu più generoso. Ma gli ebrei perseguitati durante la guerra potevano fuggire dall'Italia, la Francia, la Germania, l'Austria, Paesi confinanti con la Svizzera verso gli Usa? A nuoto?

Franco Ottolenghi , franco.ottolenghi@ tiscali.it

L'articolo a cui lei si riferisce espone le tesi di uno scrittore svizzero, Jean-Jacques Langendorf che mi sono sembrate in parte ragionevoli. Quando confronta il numero dei rifugiati ebrei ammessi dalla Svizzera con quello dei rifugiati entrati negli Stati Uniti, Langendorf si riferisce verosimilmente alla politica dei visti, generalmente restrittiva, praticata dai consolati americani. E suppongo che pensasse in particolare al caso della nave tedesca Saint Louis che partì da Amburgo nel maggio del 1939 con più di 900 passeggeri ebrei diretti all'Avana. Dopo essere stati respinti a Cuba i passeggeri tentarono inutilmente di sbarcare negli Usa e in Canada. Durante il viaggio di ritorno quasi tutti i profughi trovarono accoglienza in Gran Bretagna, Francia, Belgio e Paesi Bassi. La storia del Saint Louis è il tema di un film americano del 1976 intitolato «Voyage of the Damned».

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 settembre 2007

 
   
 

La casta e i suoi costi, visti dall'Australia

Ho appena finito di leggere con incredulità e anche amarezza il libro «La casta» di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Le vorrei chiedere quali sono state le conseguenze della pubblicazione di questo libro.
È cambiato qualcosa? Ci sono state inchieste? O è solo aumentata la sfiducia, lo scoraggiamento, e il cinismo verso i politici? Io sono stata parlamentare in Australia per 18 anni. Ho avuto molte responsabilità, alcuni vantaggi e uno stipendio dignitoso.
Oggi, ritirata dalla politica, godo di una pensione dignitosa e credo che sia tutto quello che abbia diritto di aspettarmi.

Franca Arena, Sydney (Australia)

Cara signora Arena, il libro di Rizzo e Stella è stato uno dei maggiori successi editoriali degli ultimi anni (le copie vendute sono più di 800.000) ed è ancora oggi continuamente citato nelle lettere che giungono a questa rubrica. Non vale la pena, quindi, di riassumerne il contenuto per i lettori. Piuttosto che rispondere direttamente ai suoi quesiti, proverò a descrivere l'evoluzione della politica italiana durante gli ultimi quindici anni. Trarrà lei le sue conclusioni. Nel 1992 (l'anno di Tangentopoli) la classe politica era, letteralmente, in ginocchio. Colpita da avvisi di reato, mandati di comparizione, inchieste giudiziarie e ordini di cattura, dovette sottoporsi a una sorta di pubblico lavacro e perdere alcune vecchie prerogative, fra cui il finanziamento statale dei partiti politici, previsto da una legge degli anni Settanta. Fu quello il momento in cui sarebbe stato possibile riformare il sistema politico ed eliminare alcune delle cause istituzionali che hanno favorito la nascita di una casta e lo stravagante aumento della spesa pubblica: il bicameralismo perfetto, un numero di parlamentari sproporzionato alle esigenze del Paese, la proliferazione degli enti pubblici e delle autorità locali. Ma la stagione delle riforme si concluse con risultati mediocri e la classe politica, solo parzialmente rinnovata e ormai rinfrancata, cominciò a imitare, per molti aspetti, i manager delle grandi aziende. Non poté distribuire a se stessa «stock options» (lo Stato non è una società per azioni), ma aumentò i propri salari e soprattutto quei vantaggi «extracontrattuali» che in inglese vengono chiamati «perks»: spese di viaggio, assistenza sanitaria, pensione, rimborsi per l'assunzione di collaboratori, minuti servizi garantiti all'interno dei palazzi parlamentari. Un ministro del governo Prodi, Franco Bassanini, riuscì a fare approvare una legge che si proponeva di ridurre il numero dei membri del governo. Ma lo stesso Prodi, quando tornò al potere nel 2006, finì per accontentare i suoi molti alleati con una generosa distribuzione di ministeri e sottosegretariati (oggi, se non sbaglio, sono 99). Tenga presente, cara signora, che ogni titolare di una carica governativa è in realtà una falla da cui escono rivoli di denaro pubblico: automobili di servizio, viaggi, computer, cancelleria e una legione di consulenti che hanno a loro volta bisogno di denaro per arredare i loro uffici, viaggiare, pagare i propri collaboratori. Lo stesso è accaduto nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni. Mentre l'Italia proclamava la necessità di ridurre i funzionari dello Stato (quelli che voi chiamate «public servants»), è nata nel Paese una struttura parallela privata, ma pagata con denaro pubblico. Sono migliori dei funzionari? Qualche volta sì, ma in molti casi formano la corte che ogni uomo politico cerca di creare per meglio governare il proprio collegio e dare una dimostrazione della propria influenza. A quanto ammonta, per lo Stato, il costo della politica? Il calcolo dipende naturalmente dalla valutazione delle spese e della loro inutilità. In una intervista a La Stampa del 3 settembre, il senatore Cesare Salvi (autore con Massimo Villone di un libro, «I costi della democrazia», pubblicato da Mondadori nel 2005) sostiene che la cifra potrebbe aggirarsi sui 6 miliardi di euro. Ma Confindustria, dal canto suo, parla di 4 miliardi e Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma di governo, propone risparmi per un miliardo e 300 milioni di euro. Per cominciare a risparmiare, sempre secondo Salvi, basterebbe «ridurre i membri del governo, dei parlamentari, dei consiglieri regionali ». Ma per farlo, ovviamente, occorre un governo forte, una maggioranza omogenea, un presidente che abbia i poteri di un premier britannico o di un cancelliere tedesco: condizioni che oggi, in Italia, purtroppo non esistono.

Sergio Romano
Corriere della sera, 07 settembre 2007

 
   
 

Il film «Bobby»

Caro Romano, ho visto il film «Bobby» e, come quel 6 giugno 1968, quando a scuola ci giunse la notizia dell'assassinio del senatore Kennedy, non ho potuto trattenere le lacrime. Un film, questo su Bob Kennedy, di grande intensità, ma che forse solo chi ha vissuto quegli anni può capire, un film che propone all'attenzione di tutti un uomo che non usò la politica per affermare sé o il suo gruppo di potere, ma che visse la politica come servizio ad un ideale. Questo fu Bob Kennedy, un uomo che sfidò l'America e tutto il mondo ad aprire il cuore ai grandi ideali della vita. Per questo fu un autentico uomo del '68, perché non accettò di rinchiudersi nei gretti spazi dell'ideologia, ma tentò orizzonti ampi, più ampi della stessa America, gli orizzonti del cuore umano.

Gianni Mereghetti

Comeilfratello,Robert Kennedy fu uomo di grande intelligenza e di forte carattere. Negli anni in cui occupò la carica di Procuratore generale combatté instancabilmente la criminalità organizzata e si batté per l'estensione dei diritti civili alla comunità nera degli Stati Uniti. Ma anche Bob, come Jack, ha nel suo curriculum qualche ombra. I documenti della Cia resi pubblici recentemente hanno riaperto la discussione sul suo presunto coinvolgimento nel tentato assassinio di Castro con la collaborazione di due noti boss mafiosi di Chicago.

Sergio Romano
Corriere della sera, 07 settembre 2007