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I grandi progetti e i molti peccati di Gheddafi
In questi ultimi anni ho avuto occasione di conoscere la Libia per ragioni professionali e per due volte ho soggiornato a Tripoli. Le perplessità sul Colonnello, frutto di un’immagine preconcetta basata sulle cronache folkloristiche dei media, hanno lasciato il campo a una silenziosa ammirazione per un personaggio che a quasi 40 anni dalla presa del potere ha dimostrato una lungimiranza straordinaria. Nel contesto attuale, tutto percorso da fremiti integralisti, la Libia è l’unico Paese del Nord Africa immune da pulsioni terroristiche. Di fronte alle cronache di questi giorni che ci presentano l’incubo della siccità addirittura in territorio italiano, Gheddafi lascia alle generazioni future un’opera di ingegneria idrica strepitosa, il Great Man Made River, che garantirà abbondante approvvigionamento idrico alla Libia per almeno mezzo secolo. Per non parlare dello sfruttamento di petrolio e gas, che vedono la Libia trattare da pari con le grandi compagnie internazionali una suddivisione degli utili che la maggior parte dei Paesi africani si sogna.
In merito alla questione del contenzioso italo-libico e alla costruzione dell’autostrada su suolo libico come riparazione per i danni arrecati dal colonialismo italiano, vorrei sapere la sua opinione sull’opportunità del gesto diplomatico e se l’iniziativa è il preludio di speciali concessioni economiche da parte della Libia alla luce della doppiezza proverbiale del colonnello Gheddafi. Le sembra credibile che le ferite impresse nella memoria storica delle ex colonie possano essere realmente guarite attraverso iniziative del genere, difficilmente quantificabili dal punto di vista economico e facilmente e cinicamente strumentalizzabili da entrambe le parti?
Ettore F. Volontieri - Elia Bergamini
Cari Volontieri e Bergamini, le vostre lettere hanno il merito di affrontare il problema Libia da punti di vista opposti e si prestano a una risposta comune. Qualche parola anzitutto sui meriti e sui demeriti di Moammar el Gheddafi, guida della rivoluzione e autore di un Libro verde che è stato per qualche anno il rivale arabo-musulmano del Libretto rosso di Mao Zedong. Si è dimostrato abile, intelligente, capace di sedurre molti suoi interlocutori e di esercitare una forte influenza sulle masse del suo Paese e di altre nazioni africane. Ma temo che gli storici, quando faranno il bilancio della sua vita, non potranno dimenticare alcuni peccati. Il primo è quello di avere lasciato alla Libia (se non avrà ripensamenti di qui al giorno della sua scomparsa) un sistemapolitico e costituzionale totalmente inutilizzabile. Ha avuto il merito di combattere il fondamentalismo islamico, anche a rischio della vita, ma la democrazia dal basso e i comitati popolari (poco meno di duemila), a cui ha affidato l’amministrazione delle aziende e della cosa pubblica, sono soviet inefficienti, fondali di teatro dietro i quali si nasconde il potere pressoché assoluto, e spesso arbitrario, di questo monarca del deserto. Dio solo sa che cosa accadrà del sistema libico dopo la sua morte. Il secondo è quello di avere finanziato irresponsabilmente spregiudicate operazioni terroristiche e parecchi movimenti di liberazione dall’Irlanda alle Filippine, dal Marocco allo Zimbabwe, dal Sud Africa alle Canarie (la lista pressoché completa è nella bella biografia di Angelo Del Boca pubblicata da Laterza). Il terzo è quello di avere dissipato buona parte delle considerevoli risorse finanziarie del suo Paese al servizio di progetti fantasiosi, quali l’unità araba e l’unità africana. L’aspetto paradossale di questa politica fu la lunga lista dei conflitti e delle crisi che hanno contraddistinto l’azione internazionale della Libia durante i trentasette anni del regno di Gheddafi. Vi furono momenti in cui il grande unificatore riuscì a suscitare contro di sé una variegata coalizione di nemici composta dalle maggiori potenze occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia), dai Paesi di cui insidiava la stabilità politica e da quasi tutti gli Stati «fratelli» del mondo arabo. Il quarto infine (necessaria conseguenza del terzo) fu quello di avere fatto sostanzialmente assai poco per lo sviluppo del suo Paese e per il livello di vita della sua popolazione. Alla Fiera internazionale di Tripoli, negli scorsi giorni, erano presenti circa trenta Paesi, pronti ad approfittare della nuova politica economica libica dopo la riconciliazione con gli Stati Uniti. Ma la disoccupazione è al 25 per cento e le infrastrutture sono ancora quelle di un Paese sottosviluppato. Esiste effettivamente il grande progetto di un colossale lago artificiale, ma parecchi esperti ritengono che prosciugherebbe rapidamente il sottosuolo e darebbe risultati alquanto inferiori alle aspettative. Quanto alla grande litoranea (1.500 km) che dovrebbe attraversare il Paese dalla frontiera tunisina alla frontiera egiziana, il punto non è se l’Italia debba o meno realizzare questa grande opera e quali vantaggi possa trarne. L’aspetto più interessante della vicenda, quello che maggiormente rivela la natura del regime, è che non sia riuscito a farla Gheddafi con gli enormi proventi delle straordinarie risorse petrolifere di cui dispone.
Sergio Romano
Corriere della sera, 05 maggio 2007 |
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Quel massacro
Caro Romano, ho letto queste parole del presidente della Repubblica a Cefalonia: «... l'Italia non dovesse restare legata alla catena di un’insensata e servile alleanza con la Germania». Facciamo un’ipotesi: nel settembre 1943, la Germania, a nostra insaputa e malgrado l’esistenza di un’alleanza che di solito va rispettata, patteggia in segreto un armistizio con gli alleati angloamericani. Non solo prende questa decisione, ma organizza anche una «resistenza» che comincia a prenderci a fucilate. In tale caso, avremmo definito gli ex camerati tedeschi patrioti, resistenti o più semplicemente traditori?
Claudio Robba, Graniti (Me)
So che i soldati tedeschi si sentirono traditi e posso immaginare i loro sentimenti. Ma il massacro dei prigionieri dopo la fine dei combattimenti rimarrà, nella storia della Wehrmacht, una pagina disonorevole.
Sergio Romano
Corriere della sera, 05 maggio 2007 |
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Pio XII: l'enciclica perduta e la velina ritrovata
Il Nunzio Apostolico in Israele ha deplorato la didascalia che accompagna una foto di Pio XII in cui si legge, tra l'altro: «eletto nel 1939, il Papa mise da parte una lettera contro l'antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore». Gli studiosi di Yad Vashem chiedono al Vaticano di aprire gli archivi del pontificato di Pio XII per ottenere nuove e diverse informazioni da quelle note oggi. È probabile che Pio XII tacque per rispettabili motivi di preoccupazione circa possibili ritorsioni nei confronti dei cattolici nei Paesi dominati dai nazisti. Ma è incontestabile che Pio XI nel 1937 aveva condannato il regime nazista nell'enciclica «Mit brennender Sorge» e nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler a Roma, chiuse i Musei vaticani e si trasferì nella residenza estiva di Castel Gandolfo. Inoltre incaricò il gesuita americano J. La Farge di predisporre la bozza di una enciclica contro il razzismo e l'antisemitismo da intitolare «Humani Generis Unitas», di cui il Papa aveva esposto il tema nelle sue grandi linee. Il testo venne trovato sulla sua scrivania alla sua morte, il 10 febbraio 1939. Non le sembra che rimanga aperta la questione delle ragioni che indussero Pio XII ad accantonare il documento?
Gianni Fossati
Caro Fossati, dopo il libro di B. Passeleq e B. Suchecky dedicato all'«Enciclica nascosta di Pio XI» e pubblicato qualche anno fa da Corbaccio, esiste ormai sull'argomento una vasta letteratura. Ma sulle ragioni per cui Pio XII non volle dare corso al progetto del suo predecessore possiamo fare soltanto supposizioni. Forse papa Pacelli, agli inizi del 1939, temette che la solenne pubblicazione di un documento esplicitamente anti-tedesco avrebbe reso ancora più probabile la prospettiva di un conflitto che egli sperò di evitare fino all'ultimo momento. O forse continuò a pensare, come in passato, che il Terzo Reich, benché minaccioso e «pagano», potesse rappresentare un argine contro l'insidia comunista di cui egli era stato diretto testimone a Monaco di Baviera dopo la fine della Grande guerra. Fino a quando il diario di un contemporaneo o un appunto segreto non ci diranno quali fossero in quel momento le maggiori preoccupazioni del nuovo Pontefice, tutti saranno liberi di formulare le proprie ipotesi. Ma la didascalia che irritò il nunzio a Gerusalemme e mise in forse per un paio di giorni la sua partecipazione alle cerimonie per la Giornata dell'Olocausto contiene altre accuse, ancora più gravi. Vi si afferma infatti che Pio XII, «nel dicembre 1942, si astenne dal firmare la dichiarazione degli Alleati con cui veniva condannato lo sterminio degli ebrei. Quando gli ebrei romani furono deportati a Auschwitz, il papa non intervenne e, a parte gli appelli indirizzati ai governanti dell'Ungheria e della Slovacchia verso la fine del conflitto, mantenne una posizione neutrale per tutto il periodo della guerra. Il suo silenzio e la mancanza di direttive costrinsero il clero, in tutta l'Europa, a decidere individualmente come comportarsi». Su quest'ultimo punto invece vi sarebbero ora novità importanti. In un articolo apparso ne La Stampa del 19 aprile, («Pio XII alla Chiesa: "Salvate gli ebrei"»), Arrigo Levi ha scritto che, «a quanto pare, la direttiva ci fu». La rivelazione risale a pochi giorni fa ed è dovuta a un giovane studioso di storia dell'arte, Sandro Barbagallo, diplomato in archivistica alla Scuola dell'Archivio segreto vaticano. Nel corso di un dibattito su Pio XII e la didascalia di Yad Vashem, Barbagallo ha preso la parola per dichiarare di avere visto la «velina di una direttiva papale, inviata a tutti gli istituti religiosi». Secondo Marco Tosatti, vaticanista del quotidiano torinese, la velina sarebbe in possesso di «un monsignore particolarmente devoto alla memoria di Pio XII, che l'ha ricevuta molto tempo fa da una suora di un ordine presente a Roma». Una buona notizia, dunque, di cui siamo tutti felici. Ma gli storici, come i poliziotti e i magistrati, credono soltanto a ciò che possono vedere e toccare. Come osserva Arrigo Levi, è opportuno che la Santa Sede «renda nota ufficialmente la "direttiva", il suo testo e il modo in cui venne diffusa». Altri lettori, caro Fossati, mi hanno chiesto un giudizio sulla reazione del nunzio che, come è noto, decise in un primo momento di non partecipare alle cerimonie e soltanto più tardi, forse sollecitato dal Vaticano, modificò la sua decisione. Un lettore, in particolare, mi ha chiesto: «Come reagirebbe il governo italiano se un ambasciatore straniero, invitato all'Altare della patria per una solenne ricorrenza, respingesse l'invito?». La risposta è: male, senza dubbio. Ma occorre ricordare, per rendere la situazione più comprensibile, che in Israele l'equivalente dell'Altare della patria e dei tanti monumenti ai morti che esistono in tutte le capitali europee è una grande istituzione museale (in inglese la «Holocaust Martyrs and Heroes Remembrance Authority»), creata nel 1953 per «documentare la storia del popolo ebraico durante il periodo dell'Olocausto, preservare la memoria e la storia individuale dei sei milioni di vittime, diffondere il retaggio dell'Olocausto nelle generazioni future attraverso i suoi archivi, la biblioteca, la scuola, il museo e il riconoscimento dei Giusti fra le Nazioni». Il luogo in cui si celebrano le grandi ricorrenze di Israele, quindi, non è un silenzioso monumento di marmo, ma una istituzione vivente che ha un vivace programma culturale, organizza esposizioni ed esprime, esponendo e commentando i suoi documenti, opinioni e interpretazioni da cui è possibile dissentire.
Sergio Romano
Corriere della sera, 06 maggio 2007 |
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I Saud, dinastia alla ricerca di una politica
L’Arabia Saudita, con le iniziative per accelerare il processo di pace in Medio Oriente, vuol far credere di avere buone intenzioni.Mi sembra poco credibile, dato che con i soldi ricavati dal petrolio finanziano estremisti al di fuori dei loro confini, per avere la legittimazione alla custodia dei luoghi sacri dell'Islam. Quando Re Saud, il 14 febbraio 1945, sull’incrociatore Quincy, firmò quell’«intesa patogena» con Roosevelt, era già chiaro che i regnanti sauditi avevano la coda di paglia. Ora la diplomazia mondiale come deve comportarsi con uno Stato che ha il controllo energetico del pianeta?
Martino Salomoni
Caro Salomoni, credo che il suo giudizio sull’Arabia Saudita cambierebbe se lei tenesse conto di alcuni fatti storici. La nascita del regno dei Saud, all’inizio degli anni Venti, fu il trionfale epilogo dell’irresistibile ascesa di un clan del deserto che si era progressivamente impadronito della penisola ed era divenuto proprietario di due beni egualmente preziosi: i maggiori luoghi santi dell’Islam (laMecca e laMedina), meta tradizionale di grandi pellegrinaggi collettivi, e gli straordinari giacimenti petroliferi che si nascondevano sotto le sabbie del deserto.La conservazione delle due ricchezze impose ai Saud una doppia alleanza. Per giustificare la custodia dei Luoghi santi, il fondatore del regno stipulò una sorta di Concordato con una fazione religiosa che si ispirava agli insegnamenti di un «controriformatore», M o h a m m e d I b n A b d al-Wahhab, teologo del rigore islamico, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo. Per sfruttare il proprio patrimonio energetico e difendersi da coloro che avrebbero cercato di impadronirsi del suo territorio, il re concluse il patto con Roosevelt a cui lei accenna. Male due alleanze erano potenzialmente incompatibili ed esponevano il regno arabo-saudita al rischio di finire «squartato » fra due cavalli che tiravano il Paese in direzioni opposte. Non fu facile per i Saud essere amici dell’America quando gli Stati Uniti diventarono i maggiori protettori dello Stato d’Israele.Enon fu facile resistere alle pressioni del clero quando l’Islam, nella seconda metà degli anni Settanta, cominciò ad assumere una fisionomia sempre più radicale e aggressiva. Il momento di maggiore potenziale contraddizione fu quello della prima Guerra del Golfo. Minacciato dall’imperialismo di Saddam Hussein, re Fahd ritenne giunto il momento di chiedere agli Stati Uniti l’aiuto militare previsto dall’intesa con Roosevelt. Naturalmente fu necessario permettere che le forze americane s’installassero in territorio saudita.Maoccorreva anche convincere gli ulema wahhabiti ad accettare una situazione che appariva al clero radicale «sacrilega». L’Arabia Saudita, pagò il prezzo di quella decisione con due attentati organizzati probabilmente da gruppi salafiti: il primo a Riad nel novembre 1995 e il secondo nella base americana di al-Khobar nel giugno dell’anno seguente. Ma il colpo maggiore contro il regno dei Saud fu l’attacco alle torri l’11 settembre 2001 e in particolare la rivelazione che nella cellula degli attentatori i cittadini sauditi erano 15. Fu chiaro che l’islamismo aggressivo era riuscito a mettere radice nel Paese. Il principe reggente Abdullah capì che il regno correva il rischio di perdere contemporaneamente i due grandi alleati, l’Islam e l’America, che erano stati sino ad allora i contrafforti dello Stato. Ne ebbe la prova quando molti neoconservatori americani sostennero pubblicamente che la guerra contro Saddam avrebbe avuto un altro effetto positivo, oltre all’eliminazione del tiranno: quello di rendere gli Stati Uniti meno dipendenti dall’Arabia Saudita per le loro esigenze energetiche. E ne ebbe un’ulteriore conferma quando, nel 2003, dopo l’occupazione americana dell’Iraq, il suoPaese subì due gravi attentati islamisti: il primo a Riad il 12 maggio e il secondo nella stessa città l’8 novembre. Occorreva correre ai ripari con riforme politiche e segnali internazionali che convincessero il mondo della fermezza di cui il regno avrebbe dato prova per affrontare la situazione. E occorreva tagliare alle radici il male (la questione palestinese) che minacciava la stabilità della regione. Uno dei suoi primi gesti, nel febbraio del 2002, fu una coraggiosa proposta per la soluzione della questione palestinese: il riconoscimento dello Stato israeliano, se il governo di Gerusalemme avesse accettato di abbandonare i territori occupati nel 1967. La proposta non piacque a Sharon, deciso a realizzare la sua strategia unilaterale, e lasciò indifferente, di conseguenza, la presidenza americana.MaAbdullah continuò a perseguire la sua doppia linea. La morte di re Fahd gli ha datomaggiore libertà.Divenuto re nel febbraio 2005, ha potuto prendere iniziative difficili e potenzialmente impopolari. E ha continuato a farlo da allora anche per evitare che la guerra americana avesse il paradossale risultato di rafforzare il ruolo dell’Iran sciita nella regione. Non so, caro Salomoni, se queste iniziative sortiranno qualche effetto. Ma credo che corrispondano agli interessi del Paese e ho l’impressione che buona parte della sua classe dirigente ne sia oggi consapevole.
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 maggio 2007 |
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Francia e Inghilterra: due matrimoni mancati
È emerso da una ricerca storica che nel 1956, durante la crisi di Suez, il primo ministro Guy Mollet avanzò la proposta di unificazione di Francia e Gran Bretagna. Già prima, durante la Seconda guerra mondiale, la stessa proposta era stata avanzata da Winston Churchill. Ebbene, alla luce delle vicende che seguirono,e soprattutto alla luce delle resistenze che ancora oggi Francia e Gran Bretagna pongono all'approvazione di una legge fondamentale comune come la Costituzione europea, non le sembra impensabile che queste due grandi potenze abbiano potuto seriamente ipotizzare di unirsi, sia pure sotto il peso delle drammatiche contingenze storiche in cui quelle proposte furono avanzate?
Girolamo Lazoppina
Caro Lazoppina,in un Atlante storico del Trecento,disegnato con lo stile di una moderna carta politica dell'Europa, vi sarebbe una grande macchia rosa a cavallo della Manica. La macchia comprenderebbe l'Inghilterra,una parte dell'Irlanda, la Normandia, il Maine, la Turenna,mentre una macchia più chiara includerebbe il resto dell'Irlanda, i principati gallesi, la Bretagna, le Fiandre,il Poitou (la regione di cui è oggi "governatrice" Ségolène Royal), l'Aquitania, la Guascogna, il ducato di Tolosa. Sono i domini e i "protettorati" della famiglia normanna che aveva sconfitto Aroldo d'Inghilterra a Hastings nel 1066 e conquistato l'isola. Vi fu dunque un periodo storico in cui l'Inghilterra e buona parte della Francia formarono un solo Stato. Ma una più giovane dinastia francese,i Capeti, si era nel frattempo impadronita di una bella e fertile regione intorno alla città di Parigi, attraversata da grandi fiumi (l'Oise, la Marna,la Senna, la Loira) e cercava di estendere il proprio dominio alle regioni circostanti. Ci vollero una lunga guerra(più di cent'anni), Giovanna d'Arco e alcune memorabili battaglie, da Azincourt a Orléans,per sciogliere questo imbrogliato nodo dinastico e separare definitivamente due grandi Stati europei destinati a essere amici o nemici, a seconda delle circostanze, ma sempre egualmente gelosi della propria identità e sovranità. I due progetti d'unione che lei ricorda nella sua lettera furono grida retoriche, lanciate in momenti gravi,ma destinate a restare lettera morta. I l primo progetto fu un'idea di Winston Churchill, approvata dal Gabinetto di guerra britannico nei giorni del giugno 1940 mentre la Gran Bretagna chiedeva alla Francia di continuare a combattere,se necessario, al di fuori del territorio metropolitano,ma riteneva utile al tempo stesso imbarcare le proprie truppe a Dunquerque per sottrarle all'accerchiamento delle forze tedesche. Se approvata,la "Dichiarazione per una Unione franco-britannica" avrebbe previsto una doppia nazionalità per ciascuno dei suoi cittadini, creato organi comuni per la difesa e la politica economico-finanziaria,istituito un solo Gabinetto di guerra per la direzione delle forze armate dei due Paesi, associato i due Parlamenti. Nella sua opera sulla Seconda guerra mondiale, Churchill racconta che il suo progetto fu calorosamente presentato dal Premier francese Paul Reynaud ai suoi colleghi di governo. Ma "ben di rado",scrisse Churchill, "una proposta così generosa ha avuto una accoglienza tanto sfavorevole". Alla maggior parte dei ministri interessava soprattutto aprire conversazioni con i tedeschi per la conclusione di un armistizio. Il secondo progetto fu francese e risale al settembre1956. Il presidente del Consiglio a Parigi era un socialista,Guy Mollet, e la Francia attraversava allora momenti difficili: una cattiva situazione economica, una guerra algerina scoppiata due anni prima,un complicato contenzioso con l'Egitto dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez. Vecchio professore d'inglese e profondamente convinto che Nasser fosse un nuovo Hitler, deciso a sconvolgere la carta del Medio Oriente, Mollet pensò che Francia e Gran Bretagna dovessero affrontare insieme,come nelle due Grandi guerre dei decenni precedenti, quella che a lui sembrava una pericolosa minaccia. Andò a Londra nel settembre del 1956 e illustrò il suo progetto nel corso di una conversazione con Anthony Eden. Il Premier britannico respinse l'unione, ma disse di essere favorevole all'ingresso della Francia nel Commonwealth. Mollet, dal canto suo, disse di ritenere che i francesi avrebbero accettato senza troppe difficoltà la sovranità nominale della regina Elisabetta e rilanciò suggerendo una sorta di cittadinanza congiunta, simile a quella in vigore tra la Gran Bretagna e l'Irlanda. Questo scambio di vedute non ebbe alcun seguito pratico. Un anno dopo la Francia avrebbe firmato i trattati di Roma per il Mercato Comune e la Gran Bretagna, invitata a farne parte, avrebbe risposto: "no,grazie".
Sergio Romano
Corriere della sera, 11 maggio 2007 |
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Quando i diritti sono troppi e i doveri troppo pochi
Sono uno studente di 16 anni, e frequento il terzo Liceo scientifico. Ho recentemente avuto una discussione con la mia professoressa di italiano e vorrei sapere la sua opinione. La traccia del tema era di analizzare un testo non letterario, e di rispondere a delle domande. L'ultima domanda era:«Esprimi la tua opinione riguardo al tema dei diritti». Io mi sono espresso liberamente dicendo a proposito del lavoro quello che penso; e cioè che il lavoro è un dovere prima che un diritto, in quanto rappresenta l'inserimento dell'individuo nella società in cui vive. La mia docente, mi ha criticato dicendo che lo stato deve darci il diritto di esercitare una attività retribuita, e il lavoro (secondo lei) non sarebbe un dovere. Ai miei tentativi di far valere la mia parola, lei ha reagito dicendo che io ho "idee distorte". Per questo motivo il compito, mi è stato valutato negativamente. Ma il suo comportamento, non è in contrasto con l'articolo 4 della nostra Costituzione?
Rocco Iannarelli
Caro Iannarelli, le sue considerazioni sul lavoro piacerebbero a Nicolas Sarkozy, da poco eletto alla presidenza della Repubblica francese. Nel corso della sua campagna elettorale, il candidato gollista ha lasciato intendere più volte che una «società dei doveri» può essere più efficace, prospera e armoniosa di una «società dei diritti». Altri prima di lui si sono espressi negli stessi termini. In una bella nota, apparsa su la Repubblica
dell'8 maggio, Michele Serra ricorda che «parecchi anni fa il vecchio Willy Brandt, uno dei grandi uomini della sinistra europea, disse che alla Dichiarazione dei Diritti dell'uomo si doveva urgentemente affiancare una Dichiarazione dei Doveri». E forse converrebbe ricordare che Giuseppe Mazzini dedicò a questo tema una delle opere che ebbero maggiore diffusione, in Italia e all'estero, nel corso dell'Ottocento. Nella sua prefazione a «Doveri dell'uomo», Mazzini spiegò ai suoi lettori che non intendeva negare l'importanza dei diritti: «Quand'io dico che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti: dico soltanto che non sono se non conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli». Mentre gli illuministi e i rivoluzionari della fine del Settecento amavano parlare di diritti, Mazzini sostenne, nel suo breve trattato, che l'uomo ha anche e soprattutto doveri: verso l'umanità, la patria, la famiglia, se stesso.
Attenzione, tuttavia. Quando parliamo di diritti e doveri, come lei ha fatto con la sua insegnante, dovremmo ricordare che queste parole possono avere significati diversi. Vi sono diritti e doveri che hanno rilevanza legale e costituzionale. E ve ne sono altri che hanno soprattutto un valore morale e sociale. La confusione è dovuta in buona parte all'articolo della Costituzione citato nella sua lettera dove si legge: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività e una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società». I buoni commentatori si affrettano a ricordare che il diritto di cui parla la Costituzione non è un «diritto soggettivo perfetto». E' soltanto la formula con cui i costituenti hanno deciso di sollecitare i poteri dello Stato (governo e Parlamento) a perseguire l'obiettivo sociale della piena occupazione. Ma dopo essere stato tradotto in slogan politico-sindacali, il «diritto al lavoro» è diventato nell'opinione corrente espressione di un obbligo dello Stato e ha finito per generare una nidiata di altri «diritti» come quelli alla casa, alla salute, alla tutela del risparmio o, addirittura, come è stato sostenuto in occasione del dibattito sulla procreazione assistita, alla maternità. Questa proliferazione di pseudodiritti ha avuto almeno due effetti negativi. Ha creato una fascia sociale di persone che attribuiscono allo Stato il compito di realizzare le loro aspettative. E ha suscitato frustrazione, risentimento e rabbia in coloro che si ritengono privati di un diritto. Queste persone, in ultima analisi, sono meno intraprendenti, meno coraggiose e, quindi, meno libere.
Sergio Romano
Corriere della sera, 13 maggio 2007 |
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I mali del '900: quando i vecchi nemici tornano di moda
Quello che sta succedendo in Polonia e in Estonia, e viene fatto passare per spontanea reazione della popolazione alle passate vessazioni comuniste e sovietiche, sarebbe stato comprensibile se fosse avvenuto nel 1989 ma è assai sospetto ora. Sarebbe stato assennato andare a smantellare il Foro Italico o distruggere le piastrelle di Palazzo Venezia con i disegni dei fasci nel 1963 dopo che avevano superato indenni il 1945? O non c'è piuttosto una relazione con l'ingresso della Polonia e dell'Estonia nella Comunità europea e con i rapporti tra Putin e l'America che recentemente sono divenuti tesi? I soldati sovietici che sono morti, e che il monumento di Tallinn ricorda, hanno vessato i poveri estoni o sono morti per liberarli? Che senso ha smantellare il monumento eretto alla loro memoria? Ed è ben noto che i polacchi non sono stati aggrediti da eserciti stranieri nel 1980 quando avvennero i ben conosciuti fatti orchestrati dal Papa con i finanziamenti dello Ior del cardinale Marcinkus. Perché i polacchi fanno la caccia alle streghe, cosa che non mi risulta facciano gli ungheresi, i cechi e gli slovacchi?
Leone Faravelli
Caro Faravelli, la rimozione del monumento al soldato sovietico da una piazza di Tallinn mi è sembrata un gesto inutilmente polemico. Gli austriaci e i tedeschi hanno deciso di non toccare i grandi monumenti all'Armata Rossa che vennero costruiti alla fine della guerra nella Schwarzenbergplatz di Vienna e nella Siegallee di Berlino, e hanno fatto bene. Credo che gli estoni avrebbero potuto fare altrettanto senza rinunciare ai loro sentimenti nazionali. E' possibile deplorare l'occupazione sovietica delle Repubbliche baltiche nel 1940 e il duro regime imposto da Stalin nell'immediato dopoguerra, senza disconoscere i meriti dell'Armata Rossa e il suo ruolo nella guerra contro il Terzo Reich. Lei si chiede perché queste manifestazioni di anticomunismo e antisovietismo appaiano a quasi vent'anni dalla fine della guerra fredda. Proverò a risponderle osservando anzitutto che il fenomeno rispecchia tendenze e cicli di cui siamo stati più volte testimoni in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. In Italia, dopo gli episodi descritti da Gianpaolo Pansa nei suoi libri, decidemmo tacitamente di accantonare il passato e pensare al futuro. L'antifascismo ridivenne una ideologia militante all'epoca del governo Tambroni e soprattutto dopo l'autunno caldo, quando una nuova generazione cominciò a denunciare il «pericolo nero», il «fascismo diffuso nella società borghese» e a proclamare la necessità di una «nuova resistenza». Lo stesso accadde in Germania, più o meno nello stesso periodo. Anche nella Repubblica federale si chiuse bruscamente la stagione dei silenzi (durante la quale alcuni esponenti del regime hitleriano avevano trovato decorose collocazioni nelle istituzioni democratiche) e il nazismo divenne ancora una volta il nemico da vincere, talora con la violenza del terrorismo. Un terzo episodio, particolarmente interessante, concerne le comunità ebraiche. Per un paio di decenni, dopo la fine della guerra, i loro leader avevano parlato soprattutto di coloro che li avevano aiutati durante le persecuzioni e ringraziato pubblicamente, in particolare, Pio XII. Ma dopo il processo Eichmann e la Guerra dei sei giorni, l'ebraismo ufficiale modificò il proprio atteggiamento. Apparve allora, insieme alle accuse contro papa Pacelli, una sorta di ideologia fondata sulla convinzione che il genocidio hitleriano fosse il risultato di antichi sentimenti e pregiudizi antiebraici delle società cristiane, mai completamente sradicati. Credo che all'origine di questi soprassalti a scoppio ritardato di antifascismo, antinazismo, anti-antisemitismo e ora di anticomunismo vi siano ragioni generazionali, politiche e sociali, in parte eguali per tutti e in parte diverse da un Paese all'altro. Nel caso di alcuni Paesi dell'Europa centro- orientale, dove la transizione è stata dolce e ha permesso a molti comunisti di mantenere o conquistare posizioni di prestigio, il fenomeno coincide con l'ascesa al potere di gruppi nazional- populisti che si servono dell'anticomunismo anche per meglio combattere l'opposizione. E' probabile che la protezione degli Stati Uniti e il peggioramento dei rapporti russo-americani diano a questi governi un sentimento di invulnerabilità e, quindi, una maggiore baldanza. Ed è possibile che ad alcuni ambienti americani queste posizioni, direttamente o indirettamente antirusse, non spiacciano. Se le cose sono in questi termini è più facile comprendere perché Putin reagisca bruscamente a qualsiasi dimostrazione popolare. Un'ultima osservazione, caro Faravelli. E' probabile che la Santa Sede abbia aiutato finanziariamente Solidarnosc. Ma il verbo «orchestrare» non rende onore a un movimento che dette prova di grande coraggio e fu sostenuto da una larga parte della società nazionale.
Sergio Romano
Corriere della sera, 14 maggio 2007 |
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Israele e i suoi nemici: attenzione ai confronti sbagliati
Le sue considerazioni sul possibile ingresso di Israele nella Nato ricordano le riflessioni di Neville Chamberlain durante la crisi dei sudeti, allorché osservò come, pur dichiarandosi solidale con una piccola nazione (la Cecoslovacchia) alle prese con un potente vicino (il Terzo Reich di Adolf Hitler), ritenesse che fosse da escludere qualsiasi sostegno militare al governo di Praga da parte delle democrazie occidentali in caso di aggressione nazista, in quanto una tale azione avrebbe offeso la suscettibilità dell'imbianchino austriaco. A distanza di quasi 70 anni, lei sostiene l'identico ragionamento, quando afferma: «Possiamo essere amici di Israele e simpatizzare con la sua difficile situazione, ma non sino al punto di stringere con il suo governo un'alleanza politico-militare»; come la prenderebbero infatti Ahmadinejad, Assad junior e gli altri antisemiti islamici?
Alla stessa maniera di ciò che avvenne nel 1938, questa non è una posizione politica; è una resa vera e propria ai dittatori criminali a spese di una piccola nazione civile, punto e basta. E come allora, abbandonare il principio della sicurezza collettiva contro gli estremisti guerrafondai porterà danno non solo a Israele ma all'intero mondo civile.
Luigi Prato, Sassari
Caro Prato, credo che lei abbia alquanto semplificato la posizione di Neville Chamberlain alla vigilia della Seconda guerra mondiale e gli abbia attribuito motivazioni molto diverse da quelle che ispirarono la sua diplomazia. Il Premier britannico temeva che il nuovo ordine politico creato dal Trattato di Versailles avesse eccessivamente punito la Germania ed era probabilmente convinto che lo Stato cecoslovacco fosse una creazione artificiale ed effimera. Commise l'errore di credere che Hitler avesse ambizioni territoriali limitate e fosse un revisionista razionale. Ma i suoi dubbi sulla Cecoslovacchia, sia detto per inciso, furono confermati dalla separazione consensuale fra cechi e slovacchi dopo la fine della Guerra fredda. Il punto centrale della sua lettera, tuttavia, è un altro. Lei sostiene che Israele è oggi nella situazione in cui furono la Cecoslovacchia del 1938 e la Polonia del 1939. E ritiene che lo Stato ebraico sia minacciato da una volontà annientatrice simile a quella di Hitler. Dovremmo quindi difendere Israele anche e soprattutto per non ripetere l'errore in cui caddero gli «appeasers», come si chiamavano i concilianti pacifisti del 1938. Mi sono tornati alla mente, leggendo la sua lettera, altri casi in cui il precedente del 1938 è stato invocato per giustificare una politica più muscolosa. Accadde poco più di cinquant'anni fa quando il capo del governo francese sostenne che il presidente egiziano Nasser era un novello Hitler, animato da un disegno panarabo simile a quello che il fondatore del Terzo Reich aveva cercato di realizzare in Europa. Più che dalla nazionalizzazione della Società di gestione del Canale di Suez, annunciata da Nasser nel giugno del 1956, Guy Mollet era preoccupato e irritato dal sostegno che il leader egiziano assicurava agli algerini del Fronte nazionale di liberazione nazionale nella loro lotta contro la Francia. Il paragone con Hitler gli fornì la giustificazione morale di cui aveva bisogno per intraprendere un'azione militare, d'accordo con la Gran Bretagna e Israele, che venne duramente contrastata dagli Stati Uniti e fu per le due maggiori potenze europee una esperienza umiliante. Nasser aveva molti difetti, ma non era l'incarnazione medio-orientale di Hitler. E l'insurrezione algerina, piaccia o no, era un movimento di liberazione nazionale con cui la Francia, otto anni dopo, dovette venire a patti.
Un altro confronto storico sbagliato fu quello che ispirò la decisione americana di intervenire militarmente in Vietnam. I presidenti degli Stati Uniti erano convinti che i vietcong e il governo di Hanoi fossero la pattuglia avanzata di una grande orda comunista, decisa a sommergere l'intera Asia sudorientale. Credettero di dovere fronteggiare un disegno imperiale simile a quello di Hitler e misero in campo, per stroncarlo, cinquecentomila uomini. Ci vollero parecchi anni perché Washington si accorgesse che non vi era, dietro il Vietnam, il fronte compatto del comunismo mondiale e che la loro guerra era stata, sin dall'inizio, un clamoroso errore.
E' evidente, caro Prato, che io e lei abbiamo sulla questione palestinese idee e posizioni diverse. Possiamo certamente discutere e confrontare le nostre opinioni. Ma credo che dovremmo farlo senza ricorrere al metodo dei confronti storici tra situazioni diverse.
Sergio Romano
Corriere della sera, 15 maggio 2007 |
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Le tare storiche della Germania: leggenda e verità
Lei aveva individuato nell'esasperato nazionalismo, nel razzismo e militarismo le storiche tare della Germania. Dalla lettura della sua risposta «Angela Merkel e il futuro dell'Europa unita» emerge invece l'immagine di un Paese generoso (maggior contribuente dell'Unione) e seriamente impegnato nella costruzione dell'Europa unita e in questo ostacolato, oltre che da Francia e Gran Bretagna, da una Polonia egoista, populista e antieuropea, immagine che mal si concilia con quella storica di un Paese (la Polonia), eterna vittima delle mire di Russia e Germania. Non vorrei che qualcuno trovasse in tale descrizione dei fatti qualche giustificazione alle aggressioni subite in passato dai polacchi.
Adriano Ponti
Caro Ponti, non credo che nazionalismo, razzismo, militarismo siano «tare storiche» della Germania, e mi spiace che lei abbia avuto, leggendomi, una diversa impressione. La tesi nacque durante la Grande guerra, quando i servizi di propaganda degli Alleati costruirono l'immagine di una Germania naturalmente e fisiologicamente bellicosa, tracotante, aggressiva. E riapparve durante la Seconda guerra mondiale, quando la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, per le finalità del conflitto, non esitarono a rappresentare Hitler come l'ultima incarnazione di un tradizionale, secolare militarismo tedesco. In realtà la Germania ha avuto, nel corso della sua storia, molti volti. Nel Settecento il mondo tedesco, con l'eccezione della Prussia, era una costellazione di libere città e piccoli Stati, pigramente governati da duchi, granduchi, margravi, grandi elettori, re e principi vescovi. Le città e le campagne erano popolate da borghesi e aristocratici colti e civili. Le università e i teatri erano modelli di fervore intellettuale e fantasia creativa. Quando Madame de Staël visitò la Germania con Benjamin Constant, alla fine del 1803, fu straordinariamente colpita dalla ricchezza e dalla vivacità della sua poesia, della sua musica, della sua letteratura, dei suoi studi storici e filosofici. Il libro che nacque da quel viaggio rivelò all'Europa una società nuova e laboriosa, pervasa da spirito di libertà e sentimento nazionale. Insieme alla guerriglia spagnola contro la dominazione francese e ai fermenti italiani degli anni seguenti, l'insurrezione antinapoleonica dei tedeschi nel 1813 fu l'avvenimento che maggiormente contribuì a preparare la «primavera dei popoli» nel 1848 e i risorgimenti nazionali dei decenni successivi. La guerra prussiana contro la Francia, nel 1870, tenne a battesimo un grande Stato animato da forti ambizioni in Europa e nel mondo. Ma non sarebbe giusto dimenticare che Bismarck, finché rimase al potere, seppe controllare e frenare gli spiriti imperiali del Secondo Reich. E sarebbe giusto ricordare che anche la Gran Bretagna, la Francia, la Russia, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Italia ebbero tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, sia pure su scala diversa, una politica imperiale. All'origine della Grande guerra non vi furono soltanto le eccessive reazioni dei due Imperi centrali all'attentato di Sarajevo, ma anche una tragica sequenza di pregiudizi, percezioni sbagliate, errori di calcolo, tutte rotelle di un diabolico ingranaggio a cui ogni Paese dette la propria spinta. La mala pianta di Hitler spuntò su un terreno coltivato dall'arroganza con cui le potenze vincitrici e gli Stati di Versailles trattarono la Germania sconfitta. La feroce brutalità di Hitler contro la Polonia nel settembre del 1939 cancellò il ricordo di certi discutibili aspetti della politica del governo di Varsavia negli anni precedenti. Fu generalmente dimenticato ad esempio che anche la Polonia aveva partecipato allo smembramento della Cecoslovacchia quando nell'ottobre del '39, dopo qualche scontro alla frontiera, si impadronì della regione di Teschen dove i polacchi, su una popolazione di 240.000 persone, erano circa 100.000. I tedeschi ebbero certamente le responsabilità maggiori, ma nessuno, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, aveva il diritto di scagliare la prima pietra.
Sergio Romano
Corriere della sera, 16 maggio 2007 |
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I cinque punti
Caro Romano, per una strana coincidenza leggevo una pagina della biografia di Bonhoeffer di Bethge in cui si citano «i cinque punti per la pace proposti dal papa nel Natale 1939» (pag.789). La lettera di Gianni Fossati e la sua risposta non fanno riferimento a questa presa di posizione di Pacelli che, non nel 1939 (era stato eletto il 2 marzo 1939, e il 24 agosto diffondeva il radiomessaggio «Un'ora grave» rivolto ai governi e ai popoli per evitare la guerra), ma nel Natale del 1940, rivolgendosi al Collegio dei Cardinali e alla Prelatura Romana, oltre a rivendicare di aver potuto «consolare, con l'assistenza morale e spirituale dei nostri rappresentanti o con l'obolo dei nostri sussidi, ingente numero di profughi, di espatriati, di emigranti, anche fra quelli di stirpe semitica», invocava al primo dei cinque punti per la pace «La vittoria sull' odio, che oggi divide i popoli; la rinuncia quindi a sistemi ed a pratiche, da cui esso riceve sempre nuovo alimento. È invero al presente in taluni Paesi una propaganda senza freno e che non rifugge da manifeste alterazioni della verità mostra, giorno per giorno e quasi ora per ora, alla pubblica opinione le Nazioni avversarie in una luce falsata e oltraggiosa». Non pensa che fosse facile leggere dietro le righe una posizione tutt'altro che pro-nazista? I cinque punti del Papa insieme ad altri cinque punti di una lettera pubblicata del Cardinale Hinsley apparsa nel Times
il 21 dicembre 1940, apparvero (cito Bethge) «nel 1941 in ogni dichiarazione delle Chiese inglesi sul problema della pace». Che ne pensa?
Laura Sanna
Penso che il processo a Pacelli sia, oltre che ingiusto, storicamente sbagliato. Non tiene alcun conto delle circostanze in cui gli uomini pubblici dovettero affrontare la tragedia della guerra e finisce per trasmettere alle nuove generazioni una versione sommaria e schematica del passato.
Sergio Romano
Corriere della sera, 16 maggio 2007 |
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La tragedia dei cetnici nella Jugoslavia in guerra
Ho letto con interesse la sua risposta in merito alla Seconda guerra mondiale in Jugoslavia. Parla degli italiani, dei tedeschi, dei partigiani di Tito e dei cetnici di Mihailovic.
Potrebbe darmi qualche informazione in merito a questi ultimi? Chi erano e da che parte stavano?
Anche recentemente ho sentito parlare di loro, ma vorrei farmene un'idea più precisa.
Giovanni De Padova
Caro De Padova, esiste da qualche mese un interessante libro di Stefano Fabei sui «Cetnici nella Seconda guerra mondiale». È pubblicato da una casa editrice di Gorizia (la Libreria Editrice Goriziana), fondata alcuni anni fa da un libraio della città, Adriano Ossola, e divenuta da allora uno dei maggiori centri editoriali europei per le vicende politiche e militari dell'Europa centrale, danubiana e balcanica fra Ottocento e Novecento. Nel libro di Fabei lei troverà un'ampia documentazione su questa formazione militare che si costituì nella Jugoslavia occupata dopo il blitzkrieg tedesco della primavera del 1941 e sulla sua tragica fine.
Cetnico, prima dell'inizio delle ostilità, era il nome di un movimento jugoslavo che si proponeva di perpetuare il ricordo delle bande armate (in serbo ceti) sorte spontaneamente all'epoca della dominazione ottomana. L'organizzazione aveva il patronato dello stato maggiore ed era addestrata a condurre operazioni di guerriglia contro le forze d'occupazione nell'eventualità di un nuovo conflitto. Fu così che dopo la capitolazione dell'esercito monarchico jugoslavo, nell'aprile del 1941, un colonnello, Draza Mihailovic, riunì 26 ufficiali, li portò con sé sull'altopiano di Ravna Gora, nella Serbia occidentale, e cominciò a costituire formazioni militari composte prevalentemente da volontari serbi. Vi furono subito contatti e, per un certo periodo, rapporti di collaborazione con le formazioni che Tito stava riunendo nell'intero Paese. Ma fu evidente, sin dai primi mesi dell'occupazione, che fra i cetnici di Mihailovic e i partigiani di Tito vi erano divergenze tattiche e strategiche. Mihailovic voleva mettere a segno qualche operazione contro gli occupanti, ma era frenato dal timore di scatenare crudeli azioni di rappresaglia contro la popolazione civile; mentre Tito pensava che le rappresaglie avrebbero attizzato il fuoco della resistenza. Mihailovic era serbo e interessato soprattutto al progetto di una «Grande Serbia», destinata a un ruolo egemone sull'intera penisola; mentre Tito predicava una dottrina a cui avrebbero potuto aderire, indifferentemente, serbi, croati, sloveni, macedoni e altre minoranze della vecchia Jugoslavia. Mihailovic era monarchico e voleva presidiare una parte del territorio per il giorno in cui la dinastia sarebbe tornata dall'esilio; mentre Tito voleva la rivoluzione e l'instaurazione di uno Stato comunista. Le divergenze divennero ancora maggiori quando la feroce politica anti-serba del regime croato di Ante Pavelic indusse Mihailovic a stringere rapporti di collaborazione con chiunque gli permettesse di proteggere i suoi connazionali.
Collaborò soprattutto con gli italiani e finì per combattere gli ustascia di Pavelic e le formazioni di Tito più di quanto non avesse combattuto contro le forze d'occupazione. Fu quello il momento in cui la Gran Bretagna smise di considerarlo un utile alleato nella lotta contro le potenze dell'Asse e puntò ogni sua carta sul maresciallo Tito.
Alla fine della guerra Mihailovic, caduto nelle mani dei partigiani, fu considerato, inevitabilmente, un traditore. Durante il suo processo, iniziato nel giugno 1946, si difese con un discorso sobrio e coraggioso in cui raccontò la storia della propria vita e cercò di spiegare quali e quante difficoltà avesse incontrato sulla sua strada durante i terribili anni della guerra. Fu ascoltato con rispetto, ma condannato a morte e fucilato con altre dieci «traditori» all'alba del 17 luglio.
Sergio Romano
Corriere della sera, 19 maggio 2007 |
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La politica in trasferta: viaggi utili e meno utili
Il nostro sembra essere l’unico Paese dove il presidente del Consiglio, nonostante la situazione critica in cui versa la politica e la nazione, passa buona parte del proprio tempo in visite all’estero, non solo, ma lo imitano ministri, presidenti del Parlamento, deputati e senatori, sempre accompagnati dalle loro corti. Come mai?
Vito Reale
Caro Reale,
non credo che l’Italia sia l’unico Paese in cui il presidente del Consiglio va frequentemente all’estero per incontrare i leader di altre nazioni. E non credo che la situazione italiana sia così critica da suggerirgli di restare a casa. Siamo ancora, nonostante la stagnazione degli ultimi anni, un grande Paese esportatore.
Siamo membri dell’Unione europea, della Nato, di molte altre organizzazioni internazionali e, in questo momento, del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Viviamo in un mondo sempre più interdipendente.
Siamo ai confini di una regione da cui vengono minacce - terrorismo, droga, contrabbando, immigrazione clandestina - che nessun Paese può pretendere di affrontare da solo, con i soli mezzi di cui dispone. Se noi abbiamo bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di noi, è utile che il presidente del Consiglio stabilisca rapporti personali con i principali leader nazionali. Spiegherà l’Italia agli stranieri e capirà meglio, alla fine del viaggio, quali siano gli interessi e le intenzioni dei suoi interlocutori. È vero che le delegazioni al seguito, negli ultimi anni, sono diventate sempre più affollate e che i presidenti del Consiglio cedono spesso alla tentazione di portare con sé i «loro cari», come disse Giulio Andreotti di coloro che accompagnarono Bettino Craxi in Cina, negli anni in cui il leader socialista era presidente del Consiglio.Mavi sono casi (la Cina, l’India e la Russia, per esempio) in cui è utile che il capo del governo porti con sé una buona rappresentanza dell’industria nazionale.
Mi è più difficile invece capire i viaggi ufficiali all’estero di persone che hanno cariche istituzionali importanti, ma non sono membri del governo.
Il presidente della Camera Fausto Bertinotti è andato recentemente in Israele, nei territori occupati della Palestina e in Egitto. A Gerusalemme ha incontrato gli israeliani di origine italiana che hanno approfittato del colloquio per rimproverare al suo partito e, più generalmente, alla sinistra italiana un pregiudizio «antisionista».ARamallah ha incontrato i rappresentanti dell’autorità palestinese che non sono stati interamente soddisfatti, a quanto pare, delle sue parole. È probabile che Bertinotti abbia cercato di dimostrare agli uni e agli altri che la pace diverrà possibile soltanto quando israeliani e palestinesi faranno un maggiore sforzo per comprendere le loro rispettive posizioni.
Ma non sarà questo purtroppo il risultato della sua visita.
Temo che il viaggio e le dichiarazioni del presidente della Camera avranno avuto soprattutto l’effetto di confondere le idee dei suoi interlocutori.
I quali si stanno probabilmente chiedendo in questo momento chi sia responsabile della politica estera italiana. Il presidente del Consiglio? Il ministro degli Esteri? Il presidente della Camera e gli altri leader del centro-sinistra che decideranno nei prossimi mesi di fare viaggi all’estero?
Qualcuno, in Medio Oriente, vorrebbe probabilmente sapere se l’Italia non abbia per caso una politica estera collegiale, decisa da una sorta di Politburo del centro-sinistra.
Qualche lettore potrebbe osservare che anche il presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha fatto recentemente un viaggio in Medio Oriente. Ma l’America ha un sistema politico in cui il governo è costituito dal concorso di due poteri distinti, la presidenza e il Congresso, che possono assumere posizioni diverse. Mentre l’Italia ha un sistema politico in cui il Parlamento delega al governo, con un voto di fiducia, le prerogative del potere esecutivo e si riserva di vigilare sul modo in cui le esercita.
Ma non ha titolo per rappresentare all’estero la politica dello Stato italiano.
Sergio Romano
Corriere della sera, 20 maggio 2007 |
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Il Concordato del ’33
Caro Romano, per il decennale dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio 1939 Pio XI aveva preparato un discorso accusatorio contro il nazismo e il fascismo, certamente noto e condiviso dal Segretario di Stato, Eugenio Pacelli, come ha giustamente rilevato il lettore Sebastiano Caronni Orsenigo. E d è proprio questo il problema.
Se fosse stato pronunciato da Papa Ratti (deceduto il giorno prima), la responsabilità del discorso sarebbe ricaduta interamente su di lui, lasciando al segretario di Stato la possibilità di riparare, diplomaticamente, alle prevedibili reazioni di Hitler e Mussolini. Morto Pio XI, il discorso non poteva essere divulgato poiché Pacelli (e la storia successiva lo confermerà anche a costo di gravi accuse) era convinto che il muro contro muro nei confronti di Hitler e Mussolini avrebbe provocato nefandezze maggiori di quante già ne stavano avvenendo.
Per questo, nonostante le reiterate violazioni, non aveva mai voluto revocare il Concordato del luglio 1933 con la Germania, certissimo che solo la diplomazia potesse limitare i danni, anche se ingentissimi e catastrofici.
Sergio De Benedetti, Roma
È vero. Il Concordato non fu mai concepito dalla Santa Sede come un trattato di amicizia con la Germania nazista.Come nunzio, segretario di Stato e papa, Pacelli fu sempre convinto che esso avrebbe fornito alla Santa Sede qualche appiglio giuridico per contrastare certe iniziative del Reich, tutelare le gerarchie ecclesiastiche in Germania, proteggere i fedeli e le loro associazioni.
Sergio Romano
Corriere della sera, 20 maggio 2007 |
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Per favore, basta parlare male dell’Europa
Quante cerimonie, quante chiacchiere, quanta ipocrisia sul 50° anniversario dell¡¯Unita europea. A fianco di qualche innegabile vantaggio, perche nessuno ha il coraggio di sottolineare anche i tanti aspetti negativi?
Le spese astronomiche di funzionamento, la scarsa utilita politica del sistema, la creazione di tante inutili figure lautamente retribuite, i rimborsi economici a tanti personaggi, la possibilita di parcheggio dorato per politici caduti in disgrazia. Tutte cose che dalle mie parti chiamano ¡ìgreppia¡í, cioe mangiatoia.
Giuseppe Zaccaria
Caro Zaccaria,
potrei risponderle che i dipendenti della Commissione europea sono meno numerosi degli impiegati del municipio di Rotterdam e che lo stipendio dei parlamentari europei è stato per molto tempo fissato dall’Italia a un livello considerevolmente superiore a quello dei rappresentanti di altri Paesi dell’Unione. Ma preferisco raccontarle come la rivista Time, nelle scorse settimane, ha riassunto i vantaggi dell’integrazione europea. Il settimanale americano ha elencato 20 benefici. Non tutti forse le sembreranno importanti o significativi.Mavale la pena di riassumerli il più schematicamente possibile.
1) I Trattati europei hanno regalato al continente quasi sessant’anni di pace.
2) La politica agricola comune ha protetto e preservato, insieme agli interessi degli agricoltori, il paesaggio dell’Europa.
3) I regolamenti del 1997 hanno autorizzato le singole compagnie aeree nazionali a gestire le proprie rotte in partenza dal territorio degli altri Stati membri e hanno creato nei cieli una maggiore concorrenza.
4) Paesi come l’Irlanda sono miracolosamente emersi dalla loro secolare arretratezza economica.
5) Il Trattato di Schengen, firmato a Lussemburgo nel 1985, permette di attraversare senza passaporto le frontiere degli Stati firmatari.
6) L’adozione di standard comuni per la telefonia mobile ha unificato le comunicazioni del continente e permesso ai fabbricanti di telefoni cellulari di contare sull’esistenza di un grande mercato integrato.
7) La libertà di circolazione ha favorito il movimento delle persone da un Paese all’altro e ha esteso a tutti i lavoratori la garanzia di alcuni diritti fondamentali.
8) Molte regioni meno avanzate hanno potuto contare, per i loro programmi di sviluppo, sui fondi speciali dell’Unione.
9) Il Cern (l’organizzazione europea per la ricerca nucleare) guida il mondo nel campo della fisica delle particelle.
L’inventore del World Wide Web, Tim Berners Lee, era un ricercatore del Cern.
10) L’euro, oggi la moneta di 315 milioni di europei, ha acceso sui prezzi i riflettori della trasparenza e contribuito alla creazione di un mercato unico.
11) L’Airbus ha sfidato l’industria aeronautica americana e, nonostante le sue recenti disavventure, imposto ai mercati dell’aria le regole della concorrenza.
12) Il calcio è ormai uno sport europeo e la Champions League è diventata il campionato del continente.
13) Il programma di studi Erasmus ha permesso a un milione e mezzo di studenti di passare liberamente, per il completamento dei loro studi, dalla università d’origine a quella di un altro Paese.
14) L’Unione europea ha fornito inesauribili spunti di critica e derisione alla stampa britannica e permette ai tabloid di raccontare, per la delizia dei loro elettori, storie divertenti e quasi sempre inverosimili.
15) Da quando, nel 1985, l’Europa ha adottato come inno nazionale il quarto movimento della Nona sinfonia di Beethoven, i ragazzi delle scuole medie hanno almeno una prima idea di quel che è la musica classica.
16) Le direttive di Bruxelles sulla balneazione hanno pulito il 95% delle spiagge europee, e le regoli comuni sulla protezione dell’ambiente hanno eliminato parecchi dei veleni che stavano intossicando i nostri Paesi.
17) Le regole dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare ci proteggono dalle manipolazioni, dalla mucca pazza, da altre epidemie animali e dagli alimenti malsani.
18) Senza la continua spinta dell’Europa non sarebbe neppure possibile parlare di una politica climatica per l’intero pianeta.
19) I burocrati di Bruxelles hanno contributo a fare della città in cui lavorano una delle più attraenti in Europa.
20) L’Unione europea ha allargato a Est le frontiere della democrazia e del libero mercato.
Lei potrebbe obiettare, caro Zaccaria, che questi benefici, in molti casi, non si sono estesi all’Italia.
Manon lo dica a Bruxelles.
Lo dica ai governi italiani.
Sergio Romano
Corriere della sera, 21 maggio 2007
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George Washington e l'isolazionismo americano
Le pongo una domanda, all'impatto, antipatica.
Riguarda l'intervento degli Usa nella seconda guerra mondiale. Da un lato concordo sul fatto che, a posteriori, non possiamo che essere grati agli Usa per il loro intervento; dall'altro ho una perplessità quando guardo le date di tale intervento e quelle di inizio della guerra. La Polonia è stata invasa l'1 settembre del 1939, l'attacco sul fronte occidentale è stato scatenato nel maggio del '40, quello alla Unione Sovietica nel giugno del '41. Tuttavia solo nel dicembre del '41, e solo dopo l'attacco di Pearl Harbor, gli Usa decidono di entrare attivamente in guerra. Cioè dopo due anni e due mesi dall'inizio dei vari massacri in Europa. Ora, io assumo pure che prima della entrata in guerra ci sia stato, da parte degli Usa, un massiccio aiuto ai Paesi di mezzo mondo per contrastare l'avanzata dell'Asse ma quanto e cosa sarebbero stati disposti ad aspettare gli Usa se non fossero stati «tirati» in guerra dall'attacco giapponese?
Potremmo dire che la felicità per la fine del conflitto ha fatto dimenticare una certa ignavia ed egoismo iniziali da parte del Liberatore, il quale è entrato in guerra solo quando colpito direttamente?
Mauro Ricci
Caro Ricci, nel 1796, alla fine del suo secondo mandato, George Washington si congedò dalla nazione con un famoso indirizzo in cui elencò i criteri che l'America avrebbe dovuto seguire per mantenere la propria unità, irrobustire l'indipendenza e assicurare a se stessa il miglior futuro possibile. Quando toccò, verso la fine del messaggio, il tema della politica estera, scrisse: «Per quanto concerne le relazioni con le nazioni straniere, la principale regola a cui dovremmo attenerci è quella di estendere i nostri rapporti commerciali, ma di avere con esse il minor numero possibile di legami politici. Dobbiamo osservare in buona fede gli impegni già presi, ma non dobbiamo andare oltre. L'Europa ha interessi che non hanno alcun rapporto, se non remoto, con i nostri. Deve impegnarsi in frequenti controversie che sono estranee alle nostre preoccupazioni. Saremmo quindi poco saggi se ci lasciassimo coinvolgere da legami artificiali nelle normali vicissitudini della sua politica o nelle normali combinazioni e collisioni delle loro amicizie e inimicizie. La nostra condizione di Paese distante e distaccato ci suggerisce un corso diverso e ci permette di perseguirlo (...). Perché rinunciare ai vantaggi di questa particolare situazione? Perché dovremmo abbandonare la nostra terra per impegnarci in terra straniera? Perché dovremmo invischiare la nostra pace e la nostra prosperità nella rete delle ambizioni, delle rivalità, degli interessi, degli umori o dei capricci europei?». Washington non predicava la neutralità come bene assoluto, non escludeva la possibilità di nuove guerre ed era probabilmente ispirato soprattutto dal timore che la giovane nazione potesse mettere in pericolo, con intempestive avventure straniere, la sua recente indipendenza. Ma il suo indirizzo d'addio divenne col tempo il vangelo dell'isolazionismo americano, il sacro testo a cui ricorsero tutti gli uomini politici che cercarono di opporsi all'ingresso degli Stati Uniti nella prima e nella seconda guerra mondiale. Roosevelt, che fu collaboratore di Wilson all'epoca della Grande guerra, ne era perfettamente consapevole. Sapeva che il conflitto scatenato da Hitler avrebbe avuto inevitabili ripercussioni sugli interessi americani e non esitò a fare rapidamente una scelta di campo fornendo alla Gran Bretagna aiuti importanti. Ma dovette tener conto degli isolazionisti che erano numerosi e potevano contare sul consenso di buona parte della società americana. Fu soltanto dopo la sua terza elezione alla presidenza, nel novembre 1940, che poté presentare al Congresso il Lend-Lease Act, una legge che lo autorizzava a rifornire di beni e servizi i Paesi che egli considerava vitali per la difesa degli Stati Uniti. La legge fu adottata nel marzo 1941. Nove mesi dopo, l'8 dicembre, l'azione giapponese a Pearl Harbor modificò bruscamente i sentimenti della pubblica opinione americana e dette al presidente l'occasione di agire. Ma è bene ricordare che Roosevelt dichiarò guerra soltanto al Giappone. Furono i tedeschi e gli italiani che dichiararono guerra all'America l'11 dicembre 1941.
Sergio Romano
Corriere della sera, 23 maggio 2007 |
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Turchia: gli islamici al potere e i laici in piazza
Mentre in Turchia un milione e mezzo di persone scende in piazza per chiedere che lo Stato resti laico, in Italia altrettante scendono in piazza per chiedere che diventi integralista. Una bella lezione dalla Turchia!
Luca Salivi
Caro Salivi, non credo che i manifestanti del Giorno della famiglia fossero tutti integralisti e temo che la situazione turca non possa essere giudicata ricorrendo alla contrapposizione tra piazza San Giovanni e Piazza Navona. Per comprendere ciò che sta accadendo in Turchia occorre ricordare che anche in questo Paese, come in tutti gli Stati musulmani fra il Marocco e la Malaysia, è in corso dagli anni Ottanta un impetuoso revival religioso. I laici si sono opposti in vario modo,mahanno dovuto generalmente riconoscere che questo revival corrisponde a sentimenti profondi delle masse nazionali e non può essere trattato con gli strumenti della repressione politica. L'Egitto di Hosni Mubarak, per esempio, non autorizza la formazione di partiti confessionali, ma ha dovuto tollerare, alle ultime elezioni politiche, l'ingresso di 88 deputati della Fratellanza musulmana nel Parlamento nazionale. Il caso più interessante, anche per l'importanza del Paese nell'universo musulmano, è quello della Turchia. Lo Stato creato da Kemal Atatürk alla fine della Grande guerra è rigorosamente laico, e i principi del fondatore sono stati inflessibilmente difesi in passato dalle Forze Armate. Quando, negli anni Ottanta, si costituì il partito del Benessere, fondato dall'islamico Necmettin Erbakan, i militari permisero dapprima che formasse un governo con il Partito della giusta via, diretto dalla signora Tansu Ciller, ma intervennero pesantemente un anno dopo per costringerlo a dimettersi. E il partito di Erbakan venne disciolto. Ma dalle sue ceneri, nel 2000, nacque un nuovo partito islamico, Giustizia e Progresso, diretto da Recep Tayyip Erdogan, che vinse le elezioni del novembre 2002. Vi sarebbe stata forse un'altra prova di forza con il vertice delle Forze Armate, se la situazione nel frattempo non fosse stata alquanto diversa da quella della fine degli anni Novanta.La Turchia desiderava entrare nell'Unione Europea e i militari non ignoravano che un altro putsch, nello stile del precedente, avrebbe definitivamente pregiudicato la candidatura del Paese a Bruxelles. Una volta al potere, d'altro canto, il partito di Erdogan dette prova di molto buon senso e accantonò le componenti più confessionali del suo programma originario. Fra i militari e gli islamici venne così tacitamente stipulato, per usare una espressione italiana, un "compromesso storico ": ai laici, oltre al controllo dell'esercito, la presidenza della Repubblica, agli islamici il governo. Bene o male questa tregua ha retto sino al momento in cui Erdogan, avvicinandosi la fine del mandato presidenziale, ha deciso che Giustizia e Progresso avrebbe candidato uno dei suoi leader più europeisti (il ministro degli Esteri Abdullah Gul) alla presidenza della Repubblica. I militari hanno annunciato la loro opposizione, la Corte costituzionale ha annullato la prima elezione di Gul in Parlamento per mancanza del quorum, e il Premier Erdogan ha replicato con una legge che prevede l'elezione popolare del capo dello Stato. Alla sua mossa, forse azzardata e inopportuna, i laici hanno reagito con manifestazioni che mi sono parse altrettanto integraliste di certi atteggiamenti islamici. Siamo quindi a un braccio di ferro che si protrarrà probabilmente, salvo imprevisti, sino alle elezioni politiche del 22 luglio, quando conosceremo il giudizio dell'elettorato su ciò che è accaduto nelle scorse settimane. Sin d'ora tuttavia è giusto riconoscere che la Turchia si sta comportando come una democrazia e che i due campi-quello dei laici e quello degli islamici-sembrano essere animati da uno stesso desiderio: entrare in Europa.
Sergio Romano
Corriere della sera, 24 maggio 2007 |
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Lo spagnolo, lingua alla conquista del mondo
Vedo che lei ritorna frequentemente nelle sue risposte sull’importanza dell’inglese e del francese come lingue di comunicazione internazionale. Ma ho l’impressione che dimentichi la fondamentale importanza dello spagnolo e la sua straordinaria diffusione negli ultimi decenni. A Cartagena, la città della Colombia in cui abito, si è tenuto circa due mesi fa il Quarto Congresso internazionale della lingua spagnola organizzato dalla Real Academia Española de la Lengua con la partecipazione dei rappresentanti delle ventidue accademie che svolgono per lo spagnolo una funzione simile a quella dell’Académie de Franc per il francese.
Secondo le ultime statistiche lo spagnolo è parlato oggi da oltre 400 milioni di persone. Non sembra quindi anche a lei che questa lingua meriti un po’ più di attenzione?
Juan Carlos Ortega, Cartagena (Colombia)
Caro Ortega,
sul pacchetto di un corso linguistico allegato qualche tempo fa al Corriere eal Sole 24 Ore, leggo che lo spagnolo è l’«idioma mas hablado en el mundo». Suppongo che in questa definizione vi sia un po’ di enfasi retorica e di patriottismo letterario. Ma è certamente vero che il grande sviluppo della Spagna dopo la fine del franchismo, il successo della letteratura latino-americana e le vicende politiche dell’America Latina negli ultimi decenni hanno ridato lustro a una lingua che aveva perduto una parte della sua popolarità.
Ho letto che la Real Academia di Madrid ha festeggiato il congresso di Cartagena con la pubblicazione straordinaria (un milione di copie) di «Cento anni di solitudine», e che del capolavoro di Gabriel Garcia Marquez esisterebbero nel mondo cento milioni di copie: 50 legali e 50 illegali pubblicate da pirati dell’editoria.
Qualcuno potrebbe osservare che l’importanza internazionale di una lingua non dipende dal numero di coloro che la parlano sin dalla nascita, ma da quello di coloro che se ne servono, più o meno bene, per viaggiare, commerciare, studiare.
Se è questo il criterio da adottare, l’inglese continua a guidare la classifica con parecchi punti di vantaggio. Esistono tuttavia alcuni fattori che hanno considerevolmente modificato a favore dello spagnolo il quadro linguistico del mondo.
Il primo di essi è la sua crescente diffusione, come seconda lingua, nelle scuole europee e canadesi. Il secondo è rappresentato dalla immigrazione ispanica negli Stati Uniti. Gli ispanici sarebbero oggi circa 50 milioni e si stanno comportando in un modo alquanto diverso da quello dei migranti provenienti da altre parti del mondo. Anziché affrettarsi ad apprendere l’inglese, continuano imperterriti a parlare spagnolo.
Le autorità federali e locali, che in altri tempi avrebbero scoraggiato questa abitudine, si sono adattati. Vi sono città in cui gli avvisi e le istruzioni sono bilingui. Vi sono scuole e stazioni televisive in cui la lingua dominante è lo spagnolo.
Vi sono case editrici specializzate nella pubblicazione di libri e giornali in lingua spagnola.
In un articolo pubblicato dal Financial Times, Angel Gurría- Quintana ricorda che Bill Clinton, quando era alla Casa Bianca, dichiarò di essere probabilmente uno degli ultimi uomini politici americani che sarebbe giunto alla sua carica senza conoscere la lingua spagnola.
Intendeva dire che nessuno, prima o dopo, avrebbe potuto governare gli Stati Uniti ignorando la lingua di Cervantes.
Manemmeno lui, probabilmente, pensava che la profezia si sarebbe avverata così rapidamente.
Il suo successore, George W.Bush, se la cava abbastanza bene e ha trasmesso un messaggio televisivo in spagnolo per celebrare il «Cinque Maggio», una festa tradizionale molto amata dai messicani.Eil fratello Jeb, per molto tempo governatore della Florida, ha fatto le sue campagne elettorali passando agilmente dall’inglese allo spagnolo. La prospettiva di un Paese bilingue preoccupa e infastidisce tutti coloro per cui gli Stati Uniti debbono restare una nazione di lingua inglese.
Ma gli uomini politici sanno che esiste ormai un elettorato di lingua spagnola, dalla Florida alla California, da New York al Texas, e che la sua conquista merita qualche strappo alla grande tradizione linguistica americana.
Sergio Romano
Corriere della sera, 26 maggio 2007 |
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Ufficiali di Nassiriya
Caro Romano, due generali e un colonnello saranno rinviati a giudizio perché nel 2003 non si erano prontamente predisposti in armi per difendere la base di Nassiriya. Ma all’epoca il nostro protocollo non prevedeva l'invio di armi per la difesa delle basi, e la sinistra di allora l’avrebbe comunque permesso!
Per caso la magistratura vuole punire GdF, carabinieri ecc.
per il problema «Visco»?
Graziella Paoli, Milano
Credo che questo sia semplicemente l’ultimo episodio di una tendenza della magistratura, ormai diffusa in Europa, ad avviare azioni giudiziarie per vicende accadute al di fuori del territorio nazionale su cui si constata, prima o dopo, che le sue possibilità d’intervento e giudizio sono limitate.
Sarei sorpreso, d’altro canto, se il ministero della Difesa non avesse già fatto la sua indagine. Se questa indagine esiste e il ministero non ha ritenuto di punire i tre ufficiali, il ministro della Difesa avrebbe potuto difenderli pubblicamente.
Anziché ripetere la solita formula («ho fiducia nella giustizia») avrebbe potuto dire: «Ho fiducia nei miei generali e andrò in tribunale a difenderli».
Sergio Romano
Corriere della sera, 26 maggio 2007 |
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Il Papa in Brasile e le religioni indigene
In merito alla cristianizzazione delle Americhe, Benedetto XVI avrebbe pronunciato la frase seguente: «L'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò in nessun momento un'alienazione delle culture precolombiane né fu l'imposizione di una cultura straniera». Io sono contrario all'incriminazione di chi nega l'Olocausto, poiché ritengo facoltà di ciascuno rivelare la propria ignoranza o stupidità o — addirittura — malafede.
Ma mi pare che in questo caso il Santo Padre abbia esagerato. Pare anche a lei?
Luigi Lunari
Caro Lunari, in una corrispondenza da Aparecida, apparsa nel Corriere
del 14 maggio, Luigi Accattoli ha scritto che le parole da lei citate sono state indirizzate da Benedetto XVI ai vescovi latino-americani nel discorso in cui ha parlato di «ideologie indigeniste oggi emergenti» e ha definito «regresso» l'«utopia» da loro perseguita di «tornare a dare vita alle religioni precolombiane». Suppongo che il Papa, in quella occasione, pensasse in particolare ai riti indigeni che hanno accompagnato l'insediamento di alcuni presidenti eletti negli scorsi mesi come Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador. Queste liturgie sono state artificiosamente riesumate dai nuovi caudillos nazional-populisti del continente e hanno un valore politico piuttosto che religioso. Comprendo che il Papa provi di fronte a tali spettacoli sentimenti di fastidio e qualche preoccupazione. Ma le sue parole hanno provocato scalpore e lo hanno costretto a fare, dopo il suo ritorno a Roma, un piccolo passo indietro che non sembra modificare, tuttavia, lo spirito delle sue dichiarazioni originarie. Avremo quindi, molto probabilmente, altre discussioni e polemiche, nello stile di quelle provocate dal discorso di Ratisbona.
Gli storici avranno buon gioco, infatti, nel ricordare che la colonizzazione spagnola delle Indie fu realizzata con grande brutalità e che il maggiore cronista di quella vicenda fu un coraggioso domenicano spagnolo. Quando arrivò nelle Americhe con Cristoforo Colombo, in occasione del suo secondo viaggio, Bartolomé de Las Casas andava a prendere possesso di terre acquistate dalla famiglia. Ma la predica di un domenicano sulle atrocità commesse dai colonizzatori cambiò la sua vita. Si spogliò dei suoi beni, dette la libertà agli indigeni che lavoravano nelle sue terre, entrò nell'ordine dei domenicani e divenne più tardi vescovo di Chiapas in Messico, una regione oggi conosciuta soprattutto per il movimento rivoluzionario guidato dal subcomandante Marcos. Las Casas era già noto allora come l'«Apostolo degli Indios», ma divenne famoso quando inviò a Carlo V, nel 1532, una «Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie» in cui denunciò i soprusi e le violenze dei conquistatori. La relazione suscitò scandalo e indignazione, ma una commissione convocata dal re non poté smantellare le accuse del vescovo domenicano. Dopo altre polemiche Las Casas riuscì finalmente a ottenere che alcune leggi venissero modificate.
In ultima analisi, quindi, la Chiesa può andare orgogliosa del modo in cui un suo vescovo assunse la protezione degli indigeni e divenne il loro avvocato difensore. Suppongo che Giovanni Paolo II, nelle stesse circostanze, avrebbe ricordato questo episodio. Ma Benedetto XVI ha un altro temperamento, un'altra formazione culturale, un'altra politica ecclesiastica. Discutibili o meno, le sue parole a Aparecida dicono al mondo che la Chiesa, durante il suo pontificato, ha smesso di chiedere perdono.
Sergio Romano
Corriere della sera, 27 maggio 2007 |
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L'uso improprio
Nel linguaggio corrente dei mezzi di comunicazione e della politica si è affermato da tempo un uso improprio della parola laico con significato molto diverso, e spesso antitetico, a quello originario della parola greca da cui deriva, che designa «uno del popolo» e che veniva utilizzato per distinguere le persone del popolo che non appartenevano al clero. Oggi invece la parola laico viene adoperata, anche da esponenti del mondo della cultura, con il senso di non credente, agnostico o ateo e, non di rado, con il significato spregiativo di anticlericale. Si tratta di un uso distorto del termine laico, che sminuisce il valore ampio e positivo di questa parola.
Pietro Nemo
La parola laico ha conservato il suo antico significato in inglese dove «layman» designa una persona che, pur non essendo ateo o miscredente, non appartiene a un ordine sacerdotale. Ma può anche designare coloro che si esprimono su una particolare materia o disciplina (medicina, diritto) senza appartenere all'ordine di coloro che rivendicano in proposito una competenza professionale. Ma nelle lingue dei maggiori Paesi cattolici (Francia, Italia e Spagna) la parola ha ormai una sfumatura anticonfessionale e indica chiunque cerchi di contrastare il ruolo dominante della Chiesa nella società e nella cultura. E' normale che una parola assuma significati diversi in Paesi che hanno fatto diverse esperienze storiche.
Sergio Romano
Corriere della sera, 27 maggio 2007 |
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Alta Slesia, terra contesa da tedeschi e polacchi
Il lettore Vettor parla nella sua lettera di «territori polacchi» di Pomerania e Slesia. Mi piacerebbe che spiegasse la complessa e tormentata vicenda di questi territori che possono essere definiti «polacchi» nel senso che attualmente sono compresi nei confini dello Stato polacco, ma che hanno alle spalle una storia che è anche tedesca.
Personalmente ritengo che la Germania non abbia nessuna pretesa nei confronti di Pomerania e Slesia, anzi si guardi bene dal farlo per non far rivivere antichi spettri.
Sbaglio?
Marisa Mazzi
Cara signora Mazzi, posso cercare di raccontare ciò che accadde nell'Alta Slesia (allora parte della Germania, ma abitata da tedeschi e polacchi) alla fine della Grande Guerra. I vincitori decisero che la popolazione avrebbe avuto il diritto di scegliere e promossero un referendum che si tenne il 20 marzo 1921 in presenza di una Commissione interalleata. I risultati furono favorevoli alla Germania che ebbe 717.122 voti contro 483.154 per la Polonia. Ma i polacchi sostennero che la vittoria tedesca era stata ottenuta grazie all'arrivo nella regione su treni speciali, alla vigilia del voto, di 195.000 emigrati, e inscenarono una sorta di insurrezione, guidata da un ex minatore. I tedeschi reagirono mettendo in campo i «corpi franchi» che avevano lungamente combattuto nel Baltico dopo la fine del conflitto. Il presidente francese Aristide Briand riuscì a inviare quella che viene ora chiamata, nel linguaggio dell'Onu, una «forza d'interposizione» e la Società delle Nazioni, investita del problema, emise una sentenza salomonica: la parte settentrionale e occidentale della regione sarebbe andata alla Germania e il Sud alla Polonia. La zona industriale delle miniere e delle fabbriche, vale a dire il boccone più appetitoso dell'intera regione, fu divisa in due, con grande insoddisfazione degli uni e degli altri. Questa è la cronaca degli eventi quale risulta, tra l'altro, dalla «Storia delle relazioni internazionali dal 1919 ai nostri giorni» di Jean-Baptiste Duroselle. Ma noi abbiamo la fortuna di avere una testimonianza di prima mano scritta da un giovane laureato dell'Università Bocconi, Gino Capograndi, che fu allora nell'Alta Slesia insieme alla Commissione interalleata. La lettera, indirizzata al direttore dell'università, fu scritta da Königshütte pochi giorni dopo l'arrivo della forza alleata d'interposizione. Potrà essere letta interamente in una raccolta di lettere scritte da bocconiani nel corso del Novecento, che verrà pubblicata nelle prossime settimane dalla casa editrice Egea a cura di Marzio Achille Romani («La formazione di una classe dirigente»). Il documento di Capograndi è un atto d'accusa contro i polacchi e potrebbe essere giudicato parziale. Ma questa descrizione degli eventi merita di essere letta: «I polacchi, approfittando della simpatia e, probabilmente, dell'appoggio francese, si sono ribellati, hanno occupato militarmente tutto il bacino industriale, commettendo orrori di ogni specie e cercano ora di far valere il fatto compiuto e di forzare con ciò, sempre con l'appoggio dei francesi, la decisione sull'avvenire di questa regione. D'altra parte i tedeschi, vedendo che la Commissione interalleata era impotente a ristabilire l'ordine ed a proteggere le loro vite e i loro beni, si sono anch'essi armati e organizzati e hanno incominciato per conto loro un'opera di polizia e di nettoyage. Abbiamo avuto una vera e propria guerra fra tedeschi e polacchi, guerra che sembra ora finita mediante la creazione di una zona neutra intermedia occupata da truppe alleate». Rispondo ora al quesito dell'ultima parte della sua lettera. Lei ha ragione, cara signora, quando osserva che la nuova Germania non avanza alcuna rivendicazione sui territori perduti alla fine della Seconda guerra mondiale. Lo riconosce anche il presidente polacco Lech Kaczynski in una intervista pubblicata da La Stampa del 10 maggio. Ma dice di essere preoccupato dai «duecento processi in corso per la restituzione dei beni (domande di riparazioni finanziarie depositate dall'associazione degli espulsi tedeschi, cacciati dai territori attribuiti alla Polonia dopo il 1945)». È un contenzioso simile per certi aspetti a quello dei profughi istriani, cacciati dalla Slovenia e dalla Croazia prima del 1947, e non giustifica certi toni nazional-populisti della Polonia negli scorsi mesi.
Sergio Romano
Corriere della sera, 29 maggio 2007 |
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Saladino, il guerriero che rispettava i cristiani
Nella prima puntata delle sue «Lettere Siriane», pubblicata sul Corriere della Sera del 12 maggio, lei ha scritto: «Nella maggiore moschea di Aleppo una tomba conserva la testa di Zaccaria, padre di Giovanni. Il quartiere cristiano della città è una sorta di compendio della storia del cristianesimo, una vetrina di reperti religiosi dove si allineano, a breve distanza l'una dall'altra, le chiese degli ortodossi, degli assiri, dei caldei, degli armeni, dei melchiti, dei maroniti. Il "feroce Saladino", sepolto nel recinto della grande moschea, e San Simeone stilita, il cui santuario sorge a qualche decina di chilometri dalla città accanto alle valli abitate dai curdi, sono egualmente presenti nell'albero genealogico del Paese».
Si deve allora intendere che il Mausoleo di Saladino si trova ad Aleppo?
Antonio Mancasi
Caro Mancasi, avrei dovuto specificare che il mausoleo di Salah al Din è nel recinto della grande Moschea di Damasco. Ma la sua lettera e la correzione mi permettono di aggiungere qualche parola a quell'articolo e di spiegare perché questa tomba abbia tanta importanza nella storia dei rapporti fra l'Occidente e il mondo islamico.
Il Saladino, come venne chiamato dagli occidentali, non fu arabo, ma curdo. Nacque nel 1138 a Tikrit, la regione di Saddam Hussein, e morì a Damasco nel 1193. Fu un grande guerriero e un geniale fondatore di Stati. Conquistò l'Egitto, la Siria e l'Arabia. Si proclamò Sultano, instaurò a Damasco l'impero degli Ayyubidi e di lì marciò contro i crociati impadronendosi di Aleppo, San Giovanni d'Acri, Jaffa, Beirut, Ascalona. Ma quando entrò a Gerusalemme nel 1183 rispettò i vinti e lasciò che accedessero liberamente ai Luoghi santi. Per i musulmani fu l'uomo che restaurò l'influenza dei sunniti nella regione e creò un grande Stato arabo, dall'Egitto alla Siria. Per i cristiani fu un nemico cavalleresco e generoso che trattò i suoi avversari molto meglio di quanto i crociati non avessero trattato i musulmani e gli ebrei quando si erano impadroniti di Gerusalemme. Nelle storie dei cronisti europei dell'epoca il Saladino è quasi sempre descritto con rispetto e ammirazione.
È questa la regione per cui nel suo mausoleo, a Damasco, vi sono due tombe. La prima, in legno di noce, con decorazioni che risalgono all'epoca degli Ayyubidi, è quella in cui riposano le spoglie del Sultano. La seconda, in marmo con volute barocche, è quella che fu donata al Sultano ottomano Abdul Hamid II da Guglielmo II, imperatore di Germania, durante la sua visita in Medio Oriente nel 1898. Il Kaiser aveva molte ambizioni. Voleva stringere rapporti speciali con l'impero turco, promuovere la costruzione di una grande ferrovia da Berlino a Bagdad, contrastare la politica britannica nel mondo arabo. Per meglio raggiungere questi obiettivi prese due iniziative culturali: celebrò la memoria di Saladino collocando nella sua tomba un sarcofago di gusto occidentale e onorò la cristianità promuovendo a Gerusalemme la costruzione di una cattedrale luterana.
Vent'anni dopo, nel 1918, il sogno imperiale del Secondo Reich svanì di fronte all'esercito britannico del generale Allenby e ai guerrieri beduini di Feisal, figlio dello sceriffo della Mecca. Ma il primo gesto di Lawrence d'Arabia, quando entrò a Damasco il 16 ottobre di quell'anno, fu di rendere omaggio alla tomba del Saladino. Due anni dopo il grande guerriero dell'Islam ricevette una nuova visita, molto meno deferente. Fu quella del generale Henri Gouraud, comandante delle truppe francesi. Dopo avere sconfitto le milizie siriane e preso possesso di Damasco, anche il generale volle visitare la tomba. Si racconta che dette un calcio al sarcofago e disse ad alta voce: «Svegliati Saladino, siamo tornati». E aggiunse, a quanto pare, che la sua vittoria era la rivincita della croce sulla mezzaluna. Un pessimo modo per iniziare quel protettorato francese sulla Siria che continuò sino alla Seconda guerra mondiale.
Sergio Romano
Corriere della sera, 31 maggio 2007 |
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Politica ed economia nella Siria di Assad
Il dittatore ereditario siriano Bashar Al Assad è stato rieletto con il 97,62% dei voti. Suppongo che il restante 2,38% sia ricercato dalla polizia segreta. Nei giorni scorsi, in alcuni suoi articoli, lei aveva tracciato un quadro sostanzialmente positivo della Siria, sottolineandone il carattere «laico», che lasciava alquanto perplessi.
Non può essere l'eventuale tasso di laicità presente in Siria a migliorarne l'immagine. La Germania nazista o l'Unione Sovietica erano laicissime, se è per questo. La Siria resta un cupo Paese sotto il tallone feroce di una banda di aguzzini. Sarebbe interessante qualche sua ulteriore considerazione.
Dante D'Alessandro
Caro D'Alessandro, se «laico», quando la parola è usata a proposito di un sistema politico, significa che lo Stato non ha una connotazione confessionale e permette la pluralità dei culti religiosi sul proprio territorio, il confronto con il Terzo Reich e con l'Urss è improprio.
Il regime nazista perseguitò molte sette protestanti e avrebbe trattato cattolici e luterani con lo stesso rigore se non avesse avuto il timore di perdere il consenso di una larga parte della società tedesca. Ma avrebbe certamente instaurato nel Paese, se avesse vinto la guerra, un paganesimo statale di cui si cominciarono a intravedere le caratteristiche in certe liturgie di regime. Quanto all'Urss, è impossibile definire laico un regime che sterminò gran parte del clero ortodosso, costrinse i fedeli a condurre una esistenza catacombale, distrusse migliaia di chiese (fra cui quella di Cristo Salvatore, costruita a Mosca con le piccole offerte volontarie di parecchi milioni di fedeli per celebrare la vittoria contro Napoleone) e restituì qualche brandello di libertà alla Chiesa ortodossa soltanto quando ne ebbe bisogno per unificare la nazione contro la Germania nel 1941. La Siria, invece, è certamente laica. Ne chieda conferma alle gerarchie delle chiese cristiane presenti sul suo territorio, a cominciare dal nunzio della Santa Sede a Damasco.
Resta naturalmente il problema delle libertà politiche. Quando Bashar Al Assad, nel 2000, assunse la guida del partito Baath e la presidenza dello Stato, le sue dichiarazioni dettero l'impressione che il giovane medico londinese, richiamato in patria dalla morte del fratello maggiore e del padre, avrebbe cercato di allentare i rigori della vigilanza poliziesca e promuovere una maggiore partecipazione popolare alla vita politica. La speranza fu di breve durata. È possibile che il giovane Assad si sia scontrato con le resistenze dei servizi, degli apparati di partito e di tutti coloro che vedevano nel riformismo del giovane leader una minaccia ai loro interessi. Ma occorre altresì ricordare che la Siria divenne presto, agli occhi della presidenza americana, uno «Stato canaglia», colpevole di collusioni con l'Iran, con gli Hezbollah in Libano, con Hamas in Palestina, e bersaglio di continui ammonimenti. Quando Bush, nel dicembre del 2003, adottò un certo numero di sanzioni firmando il «Syrian Acountability and Lebanese Sovereignty Act», fu chiaro che gli Stati Uniti avevano un obiettivo, il cambiamento del regime a Damasco, e che l'avrebbero perseguito, secondo una loro antica consuetudine, finanziando i movimenti di opposizione. La prima reazione di un regime autoritario, quando una grande potenza ostile ricorre a questi mezzi, è quella di rafforzare i controlli polizieschi, ridurre drasticamente le libertà dell'opposizione, trattare ogni dissidente come un potenziale agente nemico. È ciò che ha fatto Putin quando gli avvenimenti ucraini del dicembre 2004 gli dettero la sensazione che gli Stati Uniti, utilizzando alcune organizzazioni non governative, stessero pesantemente interferendo nelle vicende politiche di un Paese che la Russia considera parte della propria storia e una delicata marca di frontiera.
Altri avvenimenti, negli anni seguenti, hanno complicato ulteriormente il quadro dei rapporti della Siria con gli Stati Uniti e l'Unione europea: l'assassinio dell'ex premier libanese Rafik Hariri, le grandi dimostrazioni popolari contro la presenza militare della Siria in Libano, il ritiro delle forze siriane dalla valle della Bekaa, dove si erano precedentemente raggruppate. È certamente possibile che i servizi siriani siano stati coinvolti nel caso Hariri. Ma non credo che le grandi dimostrazioni antisiriane di Beirut fossero espressione di una matura democrazia libanese e che il ritiro dei siriani, a giudicare da ciò che è accaduto negli scorsi mesi, abbia giovato alla stabilità del Paese.
A questo quadro aggiungo, caro D'Alessandro, tre considerazioni. Osservo in primo luogo che la brusca interruzione delle riforme politiche non ha impedito la continuazione di quelle economiche, e che la Siria sta quindi seguendo un percorso simile a quello della Cina. Osservo poi che il governo israeliano sembra essersi reso conto, finalmente, dell'utilità di negoziare direttamente con la Siria la fine del conflitto. E osservo infine che la Siria è tutto fuorché un «cupo Paese». Un dissidente di Damasco mi ha parlato in termini negativi del modo in cui gli oligarchi del regime «fanno i loro affari», ma ha aggiunto che vi sono nella società siriana larghi margini di libertà personale di cui non sarebbe giusto trascurare l'importanza.
Sergio Romano
Corriere della sera, 02 giugno 2007 |
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Scelta del presidente
Caro Romano, gli Stati Uniti hanno il privilegio di designare, tramite il presidente, il vertice della Banca mondiale.
Mi pare una prerogativa ormai anacronistica, a sessant'anni dalla fine della guerra e con nuovi protagonisti che si affacciano sulla scena economico-politica planetaria. Come porre termine a questa assurdità? E il suo perdurare non sarà in qualche modo legato al fatto che i pacifici Stati Uniti d'America, col 5% della popolazione mondiale, totalizzano da soli il 55 per cento delle spese militari annuali di tutto il pianeta?
Daniele Borlenghi, Milano
Alcuni commentatori, negli scorsi giorni, hanno sostenuto con buoni argomenti l'opportunità di modificare la formula che ha consentito agli americani di scegliere il presidente della Banca mondiale e agli europei quello del Fondo monetario. Se vi sarà un cambiamento, quindi, concernerà anche l'Europa. Ma non sarà facile convincere gli americani, chiunque sia alla Casa Bianca. Sono i maggiori azionisti della Banca mondiale e non intendono rinunciare ai diritti che ne derivano.
Sergio Romano
Corriere della sera, 02 giugno 2007 |
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Politica e affari nella vita pubblica americana
In una recente intervista Rifkin ha spiegato che la differenza tra i politici italiani e quelli anglosassoni consiste nel fatto che gli italiani fanno i soldi mentre sono in politica, gli anglosassoni dopo. Ecco perché la nostra classe politica è così mediocre, tutta mirata alla permanenza piuttosto che a creare statisti lungimiranti e di qualità che nel nostro sistema sarebbero «frullati» in mezza giornata. La logica conseguenza di questo stato di cose sono i parlamentari che abbiamo.
Mauro Sabellico
Caro Sabellico, per i lettori che non hanno familiarità con il suo nome, Jeremy Rifkin è un economista americano, nato nel 1943, che esordì durante gli anni Sessanta e Settanta con una campagna pacifista contro la guerra del Vietnam e divenne noto più tardi, anche in Italia, per i suoi saggi sul modo in cui le nuove tecnologie stanno modificando le società contemporanee. Uno dei suoi libri più recenti, fra quelli tradotti in italiano, è «Il sogno europeo. Comel’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano» (Mondadori, 2004).Èun intellettuale «europeista », quindi poco gradito alla corrente neoconservatrice della vita pubblica degli Stati Uniti, e il suo giudizio, probabilmente, verrebbe giudicato da molti americani eccessivamente severo.Macredo che abbia colto nel segno. Pochi giorni fa qualche giornale ha pubblicato notizie sul ritiro dalla vita pubblica di alcun alti funzionari delle maggiori amministrazioni degli Stati Uniti. Sono uomini di Bush, scelti all’inizio della sua presidenza. Ma il secondo mandato volge alla fine, il prossimo inquilino della Casa Bianca potrebbe essere Hillary Clinton o Barak Obama, e molti collaboratori del presidente hanno deciso che è giunto il momento di trasmigrare verso banche d’affari, uffici di consulenza o istituzioni accademiche. Nulla di nuovo. Il passaggio dal pubblico al privato e viceversa è una delle caratteristiche della classe dirigente degli Stati Uniti. Il vicepresidente Dick Cheney è stato nel corso della sua vita collaboratore di Richard Nixon, capo di gabinetto del suo successore Gerald Ford, deputato alla Camera dei rappresentanti per una decina d’anni, segretario della Difesa all’epoca della presidenza di George Bush sr. e della Guerra del Golfo. Ma nel 1995, due anni dopo l’elezione di Bill Clinton, ecco che Cheney diventa presidente e amministratore delegato di Halliburton, un colosso industriale creato agli inizi del Novecento e molto attivo in settori (infrastrutture, logistica, impianti petroliferi) in cui uno stretto rapporto con i poteri pubblici è inevitabile. Sembra che abbia definitivamente scelto gli affari, ma cinque anni dopo il giovane Bush gli offre la vicepresidenza e lo porta con sé alla Casa Bianca. In questi anni Cheney non è stato un semplice «numero due».Haguidato i «falchi» dell’amministrazione, ha ispirato la politica presidenziale inMedioOriente e ha avuto una parte decisiva in tutte le vicende irachene, dal dibattito che ha preceduto l’inizio della guerra alle fasi più recenti della guerra civile. Le sue scelte politico- militari sono discutibili,ma legittime. Ha suscitato sospetti e critiche, tuttavia, il fatto che Halliburton sia divenuta, sin dal primo giorno della guerra, uno dei maggiori appaltatori delle opere realizzate in Iraq e il principale fornitore dei servizi logistici necessari alle forze d’occupazione. Quando è stata accusata di avere guadagnato, a spese dello Stato, somme eccessive, molti si sono chiesti se Cheney non abbia avuto uno spregiudicato occhio di riguardo per l’azienda di cui era stato amministratore delegato. Ma a queste critiche Cheney avrebbe potuto rispondere che molti altri uomini politici hanno un’azienda nel loro passato o nel loro futuro. Bush sr. è stato un buon presidente degli Stati Uniti, ma ha sempre avuto rapporti molto stretti con i petrolieri americani e ha lungamente lavorato, dopo la fine della sua presidenza, per il gruppo Carlyle, un enorme fondo d’investimenti che gestisce un portafoglio del valore di circa 50 miliardi di dollari. Non sono molti, nella vita pubblica americana, quelli che possono scagliare la prima pietra. Non dimentichi tuttavia, caro Sabellico, che questi rapporti incestuosi tra la politica e gli affari hanno prodotto in molti casi effetti positivi. Gli Stati Uniti non sarebbero riusciti a creare in breve tempo, durante la Seconda guerra mondiale, una straordinaria macchina militare, se non avessero reclutato i loro colonnelli e i loro generali nel mondo degli affari, nelle università e nei laboratori scientifici.
Sergio Romano
Corriere della sera, 01 giugno 2007 |
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Papa Roncalli e il comunismo: la grande svolta
Papa Giovanni Paolo II è senz'altro il pontefice più amato e acclamato tra quelli che siano mai saliti al trono di Pietro: questo per ragioni umane, ecclesiastiche e diplomatiche, prima fra tutte la spallata vincente al comunismo. Un altro grande Papa, che la gente ricorda con piacere, è Giovanni XXIII, l'ormai famoso Papa buono, un uomo di Dio, che parlava la lingua del popolo come fosse ancora un semplice sacerdote di Sotto il Monte. Non tutti però sanno o ricordano che monsignor Angelo Roncalli era un buon diplomatico, che passò vent'anni in Oriente tra Bulgaria, Grecia e Turchia, vivendo in prima persona la vicinanza con l'Urss. Forse proprio per questo motivo lavorò per iniziare un colloquio con l'Est (favorito anche dalla destalinizzazione), facendo nascere nuovi rapporti con questi Paesi. Durante la crisi dei missili a Cuba Giovanni XXIII inviò a Kruscev una lettera da amico, pubblicata dalla Pravda, incui lo pregava di mostrare al mondo quanto per l'Urss fosse importante la pace mondiale, come del resto lo era per gli altri. Nel 1963 il Politburo liberò Giuseppe Slipyi, il metropolita di Leopoli da 18 anni in carcere, segnando un grande punto per distendere i rapporti tra Città del Vaticano e Mosca. È quindi a mio avviso giusto ricordare Giovanni XXIII non solo con l'aggettivo «buono», ma anche come diplomatico.
Martino Salomoni
Caro Salomoni, il papato di Giovanni XXIII fu breve. Il Patriarca di Venezia venne eletto il 28 ottobre 1958 e morì il 3 giugno 1963. Ma in meno di cinque anni fece almeno quattro cose che ebbero un'influenza determinante sulla Chiesa e sulla situazione internazionale. Convocò un Concilio Vaticano che non fu meno importante, per molti aspetti, di quello organizzato a Trento nel 1544 per il rinnovamento del cattolicesimo. Aggiornò con l'enciclica «Mater Magistra» la dottrina sociale della Chiesa. Definì con un'altra enciclica («Pacem in terris») una nuova concezione della società internazionale. Rivide e corresse l'atteggiamento della Santa Sede verso il comunismo. La lunga esperienza diplomatica in Oriente e a Parigi gli fu certamente di grande aiuto. Mentre Pacelli rimase sempre fedele, anche dopo la morte di Stalin, agli schemi della fase più aspra della guerra fredda, papa Roncalli capì, durante il suo pontificato, che alcuni grandi avvenimenti stavano cambiando il quadro della situazione internazionale. La crisi di Suez nel 1956 e l'indipendenza algerina nel 1962 dimostravano che l'era del colonialismo era definitivamente tramontata. L'insurrezione ungherese e la repressione sovietica dimostravano che i due blocchi non avrebbero interferito nelle rispettive sfere d'influenza. L'incontro fra Kennedy e Kruscev a Vienna nel giugno 1961 dimostrava che le due maggiori potenze erano disposte ad accettare almeno in parte le regole della convivenza pacifica. E la crisi dei missili cubani, un anno dopo, dimostrava che anche la situazione più pericolosa poteva essere affrontata e risolta con le armi della diplomazia. In una situazione ormai alquanto diversa da quella dell'immediato dopoguerra, la Chiesa, secondo Roncalli, avrebbe svolto la sua missione nel mondo soltanto se avesse saputo adattarsi alle nuove circostanze. Alla condanna esplicita e incondizionata del comunismo, subentrò così un atteggiamento più sfumato e pragmatico. Nella «Pacem in terris» Roncalli scrisse che occorreva distinguere gli insegnamenti filosofici dai movimenti politici e sociali che ne derivavano. Mentre gli insegnamenti rimangono immutati, i movimenti sono condizionati dalle vicende storiche e possono subire cambiamenti di natura profonda. Non è tutto. Roncalli si spinse sino ad affermare che tali movimenti, quando interpretano le legittime aspirazioni della natura umana, possono contenere elementi positivi, degni di approvazione. Il senso delle sue parole era chiaro: una cosa è il marxismo-leninismo, un'altra, del tutto diversa, l'Unione Sovietica. Mentre la teoria è fondamentalmente sbagliata, il Paese è una complessa realtà storica composta da uomini che non sono mai né completamente buoni, né completamente cattivi. Perché il dialogo cominciasse occorreva tuttavia che l'«altro» dimostrasse di condividere questa impostazione. Il segnale venne quando il direttore delle Izvestija, il giornale del governo sovietico, richiese un'udienza papale. Si chiamava Aleksej Agiubei, era il genero di Kruscev e venne ricevuto con sua moglie. Mentre papa Pacelli aveva scomunicato gli elettori comunisti con una decisione che aveva fortemente diviso il cattolicesimo italiano, papa Roncalli non esitava ad accettare un messaggero del successore di Stalin. Questa fu certamente, caro Salomoni, una importante operazione diplomatica. Ma i diplomatici sono generalmente più prudenti e sospettosi di quanto Giovanni XXIII sia stato, soprattutto nell'ultima fase della sua vita. Nel modo in cui Roncalli fece in breve tempo la sua Ostpolitik vi furono entusiasmo, audacia, persino temerarietà: qualità rare nei diplomatici, ma spesso presenti in uomini di grande fede e forte carattere.
Sergio Romano
Corriere della sera, 03 giugno 2007 |
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La Jugoslavia e la tragica estate del 1995
Sono passati 12 anni da quel 4 agosto 1995 quando vennero espulsi dalla Croazia 250.000 serbi e uccisi 2.500 in attacchi criminali, un triste anniversario che la comunità internazionale, troppo impegnata in altre questioni, preferisce non commemorare. Mentre per altre ricorrenze dell'ultima «guerra balcanica» si sono scritti articoli ed editoriali, per l'espulsione di questi inermi cittadini sembra che nessuno voglia ricordare.
L'operazione di «pulizia etnica» compiuta dal 4 al 26 agosto 1995 non appare degna di essere menzionata neppure nelle pagine più interne dei giornali.
A ricordare quei giorni rimangono solamente i protagonisti di quella tragedia compiuta nella più totale indifferenza della società civile europea.
La «brillante operazione», come venne presentata allora, portò, secondo una stima minimale, all'uccisione di 1.909 serbi di cui 1.500 civili. Se è vero che la ragione non è mai da una sola parte e per esprimere un giudizio il più possibile pacato è necessario approfondire le posizioni di entrambi i contendenti, è anche vero che ancora oggi rimane una sorta di ostracismo culturale e politico nei confronti della Serbia che, è bene non dimenticarlo, vanta profondi legami storici e culturali con la nostra nazione. Solo in questi giorni il Governo croato ha ammesso «in guerra ci sono stati anche quelli che non hanno lottato per la Croazia, ma per se stessi, e che hanno distrutto anche ciò che non andava distrutto. Chi ha violato le leggi di guerra deve essere chiamato a risponderne». Ridiamo alla Serbia la sua dignità di essere una parte integrante dell'Europa, una dignità non solo che le spetta storicamente ma che sarebbe vergognoso negarle.
Marco Baratto, Associazione Culturale Euromeditteranea Mulazzano (Lo)
Caro Baratto, potrei risponderle che l'offensiva dell'agosto 1995 contro la Krajna e la Slavonia (le regioni croate abitate da forti e antichi insediamenti serbi) cominciò tre settimane dopo il massacro di Srebrenica in cui perdettero la vita poco meno di 8.000 musulmani bosniaci. La spietata pulizia etnica del generale Mladic finì per attenuare la percezione di ciò che le truppe croate avrebbero fatto, di lì a poco, alle popolazioni serbe. Ma sarebbe una risposta superficiale e ingiusta. Ciò che maggiormente mi colpì in quelle vicende e, più tardi, in quelle del Kosovo, fu il giudizio sommario della pubblica opinione occidentale. Processata «per direttissima» e condannata a furor di popolo, la Serbia divenne da quel momento il principale responsabile delle guerre balcaniche, e le sue colpe furono una sorta di attenuante per chiunque, in quegli anni, avesse dato prova della stessa brutale violenza. So che non è possibile giustificare la ferocia dell'uno con la ferocia dell'altro. Ma sarebbe stato utile ricordare le persecuzioni contro i serbi nella grande Croazia di Ante Pavelic durante la seconda guerra mondiale, e la facilità con cui i tedeschi, negli stessi anni, avevano reclutato reggimenti di Ss bosniache per la lotta contro i partigiani di Tito. Nessuno di questi eventi avrebbe potuto giustificare la ferocia dei serbo-bosniaci. Ma il loro ricordo avrebbe permesso di comprendere perché la società serba abbia rifiutato per molto tempo di credere al massacro di Srebrenica e si sia considerata ingiustamente punita da una sorta di congiura occidentale. Mentre il nostro orizzonte era interamente occupato dallo spettacolo di quanto era accaduto intorno a quella città verso la metà di luglio del 1995, i serbi avevano altri ricordi e altre cicatrici. Non capimmo che i loro uomini politici dovevano dibattersi con grande imbarazzo fra perentori ultimatum occidentali e i sentimenti di un popolo che si considerava calunniato e offeso. Avremmo dovuto dare prova di sensibilità politica e ci lasciammo invece rappresentare a Belgrado da un accigliato procuratore, Carla Del Ponte, che sembrava animato, durante le sue visite alla capitale serba, da una sorta di furia giudiziaria. In questa rappresentazione schematica delle responsabilità balcaniche finì per essere dimenticata una circostanza non priva d'interesse. Le truppe croate che scatenarono l'operazione Tempesta erano state equipaggiate e armate da società private americane con l'approvazione di Washington. Suppongo che la presidenza Clinton non avesse messo in conto la brutale pulizia etnica realizzata dai croati durante quell'operazione; un'altra prova di quanto fosse modesta la conoscenza che gli americani avevano della storia dei Balcani.
Sergio Romano
Corriere della sera, 04 giugno 2007 |
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Battaglia d'Algeri : la tortura per battere il terrorismo
Ho potuto vedere di recente (quando uscì ero troppo giovane) «La battaglia di Algeri» di Gillo Pontecorvo.
Bello dal punto di vista formale, mi lascia molti dubbi. Quanto è aderente ai fatti? E che cosa voleva dire Pontecorvo? Non mi meraviglia troppo che a fine anni Cinquanta perfino la Francia potesse chiudere un occhio sulla tortura.
Pontecorvo mi pare ambiguo: da un lato sembra simpatizzare con i terroristi, ma poi sembra voler dire che solo la mobilitazione generale di popolo ha successo. Il film uscì alla vigilia degli anni di piombo. In Francia il film fu vietato. Si dice che il governo di Algeri ne fosse stato il committente, ma che se ne fosse pentito. Lo stato attuale dell'Algeria non è certo consolante.
Carlo Semenza
Caro Semenza, Pontecorvo fece un bel film anche e soprattutto perché capì quanto fosse difficile distribuire note di merito e demerito nella rappresentazione di una delle più drammatiche vicende della seconda metà del Novecento. La sua ambiguità riflette quella degli eventi e di tutti i protagonisti, ora nobili e generosi, ora crudeli e spietati, ora capaci di suscitare simpatia, ora d'ispirare orrore e disgusto. Benché realizzato da un regista progressista e anticolonialista, il film dimostra che la guerra d'Algeria non fu una semplice guerra coloniale, come quelle che i grandi imperi avevano fatto nei decenni precedenti per la conquista o la riconquista di un territorio a cui attribuivano una grande importanza strategica o economica.
La Francia aveva fatto dell'Algeria una «seconda sponda», parte integrante del suo territorio nazionale, e l'aveva gestita con una amministrazione (prefetti, vice prefetti, gendarmeria, polizia, giustizia ordinaria e amministrativa) che era l'esatta replica del sistema amministrativo metropolitano. Il Paese conquistato nel 1830 non era soltanto una colonia, sfruttata da un piccolo ceto di proprietari europei. Vi si erano installati gruppi di emigrati prevalentemente francesi, ma anche spagnoli e italiani, che avevano trasformato l'agricoltura della fascia costiera, creato aziende, aperto negozi e botteghe artigianali. Nel 1954, quando cominciò l'insurrezione, i pieds-noirs, come venivano abitualmente chiamati in Francia, erano circa un milione e non avevano alcuna intenzione di abbandonare la loro «patria». Per molto tempo poterono contare sul totale appoggio della classe politica nazionale, delle istituzioni repubblicane, dell'esercito. Persino uomini politici della sinistra come Pierre Mendès- France, primo ministro dal giugno del 1954 al febbraio del 1955, e François Mitterrand, ministro degli Interni nel suo governo e responsabile delle prime misure adottate per stroncare l'insurrezione, erano convinti, all'inizio, che ogni cedimento sarebbe stato inopportuno e ingiustificato. Alla Camera, il 12 novembre 1954, il futuro presidente della Repubblica dichiarò: «Non ammetto trattative con i nemici della patria. La sola trattativa è la guerra». Il clima politico francese cominciò a cambiare quando apparve in Francia, con la prefazione di Jean- Paul Sartre, un piccolo libro intitolato «La question» in cui Henry Alleg, direttore di un giornale d'opposizione soppresso ad Algeri nel 1955, raccontò la storia del suo arresto e delle torture a cui era stato assoggettato. Il libro venne subito proibito, ma vendette in pochi giorni 70.000 copie, fu tradotto da molti editori stranieri (in Italia da Einaudi) e suscitò un angoscioso dibattito nazionale a cui parteciparono grandi intellettuali come Raymond Aron e François Mauriac. I fautori della guerra, tuttavia, ebbero il sopravvento e credettero di avere trovato nel generale De Gaulle l'uomo che avrebbe continuato il conflitto sino alla vittoria. Commisero un errore. Quattro anni dopo, nel 1962, il generale si rese conto che la guerra stava distruggendo la fibra morale della Francia e paralizzando la sua politica internazionale. Ma dovette fare i conti, per qualche tempo ancora, con la componente più irriducibile delle forze armate e dei coloni. Gli otto anni che intercorrono fra lo scoppio dell'insurrezione e gli accordi del 1962, con cui l'Algeria ebbe finalmente la sua indipendenza, furono uno dei periodi più drammatici della storia francese.
Fu la tortura, quindi, il baco che entrò nella coscienza dei francesi e cominciò a rodere il sentimento della loro sicurezza. Sul modo in cui la tortura venne praticata in Algeria esiste da poco in Italia un libro, apparso presso la Libreria editrice goriziana con il titolo «La battaglia d'Algeri dei servizi speciali francesi». L'autore è un generale a riposo, Paul Aussaresses, responsabile dei servizi segreti accanto al generale Massu negli anni in cui questi esercitava contemporaneamente poteri civili e militari. Quando apparve in Francia nel 2001, il libro suscitò grande scandalo per il tono freddo e spavaldo con cui Aussaresses giustificava la tortura e le esecuzioni sommarie. Era convinto che i suoi metodi fossero i soli capaci di contrastare la strategia terroristica del nemico e di salvare il maggior numero possibile di vite umane. Suppongo che questa freddezza, cinquant'anni dopo, possa apparire spietata e inumana. Ma a me sembra che questo libro sia un'utile lettura per chi voglia cercare di comprendere il clima e i sentimenti di allora anziché giudicare dall'alto di una astratta cattedra umanitaria.
Sergio Romano
Corriere della sera, 05 giugno 2007 |
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I Radicali e la Rai
Caro Romano, il Giornale Radio ci ha informato che prosegue l’occupazione «non violenta» di alcuni uffici della Rai da parte dei Radicali. Cosa significa «non violenta »? In quegli uffici ci sarà ben stata gente che svolgeva un lavoro. Ora, se l’occupazione consente di continuare il lavoro, che razza di occupazione è: forse la solita pagliacciata radicale? Se invece lo impedisce, la si può definire in tutta certezza «occupazione violenta »!
Alessandro Lori, Rovio (Svizzera)
Forse è bene dire una volta per tutte che l’occupazione di un luogo pubblico o privato, anche quando non provoca danni e disordini, è sempre violenza.
Sergio Romano
Corriere della sera, 06 giugno 2007 |
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Con la spada e la croce alla conquista dello Stato
Mi incuriosisce il fatto che le religioni possano essere esportate e introdotte con la forza. Il Sud America cattolico ne è un esempio, come anche le coste africane dove l'Islam florido di oggi è stato portato dagli schiavisti di due secoli fa. Sono portato a pensare che una componente sociale intima come la fede non possa essere introdotta con la forza e le uccisioni, invece... E poi, perché questa nuova fede si mantiene nel tempo e non decade come succede per le ideologie politiche?
Massimo Serventi
Caro Serventi, quasi tutte le grandi conversioni al Cristianesimo avvennero grazie a un'accorta alleanza fra gli interessi della Chiesa e quelli di un ambizioso uomo di Stato. Dopo la fine dell'Impero d'Occidente, la Chiesa si dedicò all'evangelizzazione dei territori che erano rimasti al di là dei confini romani. Mentre i monaci celti operavano in Irlanda, quelli inviati da Gregorio Magno introdussero la fede cristiana e la cultura latina presso gli anglosassoni e raggiunsero in breve risultati straordinari. Ma non avrebbero ottenuto tali successi se non fossero riusciti a convincere il padrone di un territorio che il passaggio alla cristianità gli avrebbe garantito i favori di Dio e avrebbe reso il suo regno più facilmente governabile. Il sovrano sarebbe stato incoronato con le solenni liturgie della fede cristiana, sarebbe stato «unto dal Signore», avrebbe potuto esigere obbedienza esercitando un potere che era stato benedetto dalla grazia divina. Nella storia degli Stati moderni il monoteismo cristiano (ma anche quello musulmano) fu percepito come un fattore di modernizzazione e razionalità sociale. Al battesimo del re seguiva generalmente il battesimo collettivo dei suoi sudditi.
In Europa orientale, dove i monaci greci diffusero i riti e gli insegnamenti del Cristianesimo greco, il caso più singolare fu quello di Vladimiro principe di Kiev. Decise che il suo Paese si sarebbe convertito al monoteismo, ma si chiese quale fosse, fra le principali religioni presenti sul territorio dell'Europa, quella più adatta ai suoi sudditi. Convocò alla sua corte un certo numero di preti, rabbini, ulema, ebbe con loro alcune conversazioni e giunse alla conclusione che la scelta migliore fosse il Cristianesimo. Gli piacquero lo splendore dei riti, la magnificenza degli arredi sacerdotali, e, perché no, la tolleranza dell'alcol, così severamente bandito dalle regole musulmane. Ai rabbini disse che il loro Dio era troppo vendicativo per piacere al suo popolo e agli ulema che la proibizione delle bevande alcoliche non sarebbe mai stata accettata nelle sue terre. Vi furono quindi anni in cui era sufficiente, per convertire una nazione, convertire il suo re, e in cui la lealtà alla Chiesa era garantita dal potere del sovrano. La situazione cambiò quando la Riforma predicata da Lutero divise i popoli e costrinse i re a scegliere. Se governa «per grazia di Dio», un sovrano non può permettere che la dottrina religiosa da cui deriva il suo potere possa piacere a una parte della sua nazione e spiacere all'altra. Mentre i protestanti, per la Chiesa di Roma, erano eretici, per i re cattolici erano potenziali dissidenti. Qualcuno scelse di continuare a essere cattolico e perseguitò i protestanti. Qualcuno passò al protestantesimo e perseguitò i cattolici. Più tardi, verso la metà del Seicento, i Trattati di Westfalia decisero che la religione di uno Stato sarebbe stata quella del suo principe. Alcune fra le più importanti migrazioni europee (gli ugonotti francesi in Germania, i nonconformisti inglesi nell'America del Nord) furono religiose. Erano uomini e donne che non volevano conformarsi alla regola imposta dal loro sovrano e cercavano altrove la libertà di culto che era stata loro negata in patria. Come vede, caro Serventi, la forza e il potere hanno quasi sempre avuto nella storia dell'apostolato religioso una importanza determinante.
Sergio Romano
Corriere della sera, 07 giugno 2007 |
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I presidenti americani in Italia: applausi e fischi
L'imminente arrivo a Roma di George W. Bush mi fa venire in mente un’altra visita romana di un presidente degli Stati Uniti d’America: quella di Kennedy. Ricordo il mare di gente ai lati del corteo scoperto che dall'aereoporto Leonardo Da Vinci si avvicinava al centro in un bagno di folla davvero memorabile. Oggi il mondo e l’America sono profondamente cambiati: si blindano cieli e terra per paura di gesti clamorosi contro chi ormai non rappresenta più quella difesa della libertà che noi percepivamo come nostra quando si pronunciava il nome di un Paese amico e alleato.
Corrado Stillo
Caro Stillo,
John F. Kennedy passò due giorni in Italia il 1° e il 2 luglio 1963. Andò a Napoli, dove incontrò gli ufficiali della base della Nato, fu a Roma, dove ebbe un colloquio con il presidente Segni al Quirinale, e concluse la visita in Vaticano dove fu ricevuto da Paolo VI, eletto al papato il 21 giugno dopo la morte di Giovanni XXIII. Come lei ricorda, l'accoglienza della popolazione fu molto cordiale e in alcuni momenti entusiastica.
M ail tempo rende spesso il passato meno cupo e minaccioso del presente. Altri viaggi italiani di presidenti americani, negli anni seguenti, furono molto meno sereni.
Quando Lyndon Johnson, alla fine del 1967, decise di visitare l'Italia, il clima era alquanto diverso. I primi moti studenteschi e la guerra del Vietnam avevano creato un "partito antiamericano" che sarebbe divenuto, negli anni seguenti, sempre più agguerrito. Fu deciso che Johnson si sarebbe spostato in elicottero e che l'incontro con Giuseppe Saragat, Aldo Moro e Amintore Fanfani avrebbe avuto luogo nella casina reale di Castel Porziano, divenuta ormai la "residenza secondaria" del presidente della Repubblica. L'elicottero atterrò in una radura illuminata dai riflettori e Johnson, circondato dagli uomini del "secret service", salì rapidamente su un'automobile che lo portò in pochi minuti di fronte alla casina in cui Saragat amava passare i suoi finesettimana. Anche la visita in Vaticano, subito dopo, ebbe luogo in elicottero. Si trattò, del resto, di una visita brevissima.
Johnson veniva da un giro asiatico durante il quale aveva fatto soste in Australia, in Thailandia e nella base di Cam Rhan Bay in Vietnam dove aveva decorato alcuni generali e ammiragli, fra cui il generale Westmoreland, comandante delle truppe americane in Indocina.
Dopo l'udienza papale salì a bordo di Air One e rientrò negli Stati Uniti.
La visita di Richard Nixon, poco più di anno dopo, fu ancora più complicata. Johnson aveva deciso di farsi da parte, alla fine del mandato, e le elezioni presidenziali del novembre 1968 furono vinte dal leader repubblicano che nel 1960 era uscito sconfitto dalla gara elettorale con John F. Kennedy.
Quando Nixon arrivò in Italia nel febbraio del 1969, il clima era, secondo alcuni osservatori, prerivoluzionario: scuole e universita occupate, scioperi locali e generali, una rumorosa contestazione di fronte alla Scala in dicembre, continue agitazioni nel mondo cattolico e un governo, come al solito, traballante.
Il presidente del Consiglio era un democristiano, Mariano Rumor, ma il ministro degli Esteri era Pietro Nenni.
Qualche anno prima, per facilitare la nascita dei primi governi di centrosinistra, il leader socialista aveva annunciato all'America, con un articolo su Foreign Affairs, la conversione del Psi all'Alleanza Atlantica.
Ma la guerra del Vietnam e le pressioni della sinistra massimalista lo mettevano ora in grande imbarazzo. A giudicare dalle memorie di Rumor, la questione più seriamente dibattuta fra Saragat e il presidente del Consiglio fu quella del luogo in cui Nixon avrebbe incontrato il governo italiano: a Palazzo Chigi o al Quirinale, "blindato" da una linea Maginot di forze dell'ordine? Fu scelto Palazzo Chigi per evitare che Nixon avesse l'impressione di essere in una capitale dove il governo non riusciva nemmeno a ricevere un ospite straniero a casa sua. Ma Kissinger non ebbe torto quando scrisse nelle sue "Memorie" che la visita terminò comunque all'aeroporto, non appena i fotografi poterono testimoniare che "gli Stati Uniti prendevano sul serio l'Italia" e che "i leader italiani venivano consultati".
Sergio Romano
Corriere della sera, 08 giugno 2007 |
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Ardito Desio e il petrolio nella Libia italiana
La lettura dell'articolo di Dino Messina (Corriere, 23 maggio) sul saggio di Mauro Canali «Mussolini e il petrolio iracheno», potrebbe avere fatto sorgere nei lettori, così come in me, una legittima domanda: durante il Ventennio, in territorio italiano e in Libia (la quarta sponda) furono effettuate ricerche petrolifere? Stante la piena consapevolezza dell’importanza economica e strategica del problema per l’Italia, così dipendente dall'estero per gran parte delle materie prime? Inoltre, le grandi compagnie petrolifere straniere furono mai interessate a ricerche in quella Libia rivelatasi sotto Gheddafi grande produttrice ed esportatrice di prodotti petroliferi? Oppure ne furono impedite da Mussolini per principi di carattere protezionistico-autarchico?
Emanuele Nicosia
Caro Nicosia,
le ricerche risalgono alla prima metà degli anni Trenta e sono in buon parte il risultato della tenacia di uno straordinario viaggiatore ed esploratore.
Si chiamava Ardito Desio, era nato a Palmanova nel 1897, aveva fatto la Grande guerra nel corpo degli Alpini, studiato scienze naturali a Firenze e fondato l’Istituto di Geologia dell’Università di Milano.
Avrebbe potuto accontentarsi di una brillante carriera accademica con qualche interessante ricerca sul campo. Ma era letteralmente incapace di stare fermo. Durante la sua vita organizzò una quindicina di spedizioni scientifiche e fu il primo a mettere piede sulla cimadel K2, la seconda vetta del mondo. Più tardi, nel 1990, fece costruire una piramide di acciaio, alluminio e vetro, la riempì di strumentazioni scientifiche e la collocò sotto la cima dell’Everest a quota 5050 m. Quando il Rotary di Milano lo festeggiò al Circolo della Stampa verso la metà degli anni Novanta, era ancora perfettamente capace di raccontare i suoi viaggi con passione e fantasia.
Morì nel dicembre del 2001, all’età di 104 anni.
Il suo primo viaggio in Libia ebbe luogo nel 1926. Fece i rilevamenti necessari per la pubblicazione di una grande carta geologica del Paese, scoprì importanti riserve d’acque e, nel 1932, giacimenti di potassio nell’oasi di Marada. Fu quella l’occasione in cui constatò la presenza del petrolio.Ne informò Mussolini, che gli chiese di continuare l’esplorazione, e lavorò da quel momento con l’Agip. Fu preparato un programma triennale di ricerche che venne messo in opera nel 1938, e furono scavati diciotto pozzi da cui venne estratto qualche modesto campione di petrolio. Ma la guerra interruppe le operazioni.
Dopo la fine del conflitto l’Italia sperò di poter conservare almeno una parte del territorio libico, ma gli alleati si accordarono per la creazione di un regno che nacque nel dicembre 1951 sotto la guida di Mohammed Idris Al Mahdi, leader dei Senussi. In uno studio storico su Enrico Mattei, apparso qualche anno fa presso le edizioni Giuffré, Giovanni Buccianti sostiene che la politica libica della Gran Bretagna, dopo la fine del conflitto, fu continuamente ispirata da considerazioni petrolifere. È certamente possibile. Ma occorre ricordare che il petrolio trovato da Desio era al di sotto dei duemila metri e, con le tecnologie di allora, difficilmente utilizzabile.Lasituazione cambiò quando la grande industria petrolifera americana mise a punto tecniche di perforazione che permettevano di scendere a maggiori profondità.
Il petrolio libico divenne una risorsa del Paese, quindi, soltanto nel giugno 1959 quando la società americana Esso confermò la presenza di importanti giacimenti a Zeltan in Cirenaica, vale a dire in luoghi dove Desio aveva fatto le sue prime scoperte. La produzione cominciò nei mesi seguenti, sulla base di contratti che assicuravano al governo libico il 50%dei profitti, e crebbe a passi da gigante: 900.000 tonnellate nel 1961, 40,9 milioni nel 1964, 58,5 nel 1965, 72,3 nel 1966. L’Italia ne compra parecchio (circa 500.000 barili al giorno) perché presenta, soprattutto per noi, almeno due grandi vantaggi: ha un basso tenore di zolfo ed è vicino alle nostre coste. Sarebbe stato utile poterne disporre quando eravamo ancora in Libia. Ma le condizioni per l’estrazione allora non esistevano, e ogni rimpianto sarebbe fuori luogo.
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 giugno 2007 |
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Perché Putin ha deciso di dire no agli Usa
Non c'è dubbio che alcune scelte e alcuni atteggiamenti dall'attuale amministrazione americana siano stati a dir poco discutibili: l'abbandono unilaterale del trattato Abm (che limitava i sistemi anti-missili balistici) siglato con l'Urss, il conseguente sviluppo di un nuovo sistema di difesa missilistico e, infine, la scelta di schierarne una sua parte in Europa, hanno finito con l'alimentare un clima di tensione con la Russia. E tuttavia occorre notare come la stessa reazione russa appaia, tutto sommato, sproporzionata; la rinuncia al trattato Cfe, che limita gli armamenti convenzionali in Europa, e le vibrate denunce dell'inizio di una nuova corsa al riarmo sembrano eccessive di fronte al numero limitato di sistemi che saranno schierati in Polonia e Repubblica Ceca: ben poca cosa di fronte al gran numero di missili balistici ancora in dotazione alla Russia. Quanto di queste critiche risponde più a ragioni di politica interna e, soprattutto, la reazione del presidente Putin non potrebbe essere più che altro dettata dal ricordo di quanto avvenne negli anni 80 con la presidenza Reagan, quando un progetto simile (quello noto come «guerre stellari») determinò il crollo dell'Urss per la sua incapacità di sostenere un tale sforzo tecnologico e finanziario?
Giovanni Martinelli
Caro Martinelli, lei è un buon osservatore di questioni militari e ha quindi una naturale tendenza a sottolineare la loro importanza nella evoluzione politica di una grande potenza. Altri, invece, sostengono l'importanza dei fattori etico-politici e sono convinti che la crisi dell'Urss, durante gli anni 80, sia dovuta principalmente all'influenza di Giovanni Paolo II sulle società cattoliche dell'Europa centrorientale e in particolare su quella polacca. Io ho sempre avuto l'impressione che i fattori determinanti siano stati altri. La crisi dello Stato comunista fu provocata in buona parte dal fallimento delle riforme con cui Kruscev sperò di mantenere le grandi promesse che il sistema sovietico aveva fatto ai russi e al mondo sin dalla rivoluzione d'Ottobre. Il momento della resa dei conti fu ritardato dalla «manna» del petrolio, che riempì le casse dello Stato durante buona parte degli anni 70, e da un sistema poliziesco che era in grado di reprimere qualsiasi manifestazione di dissenso. E divenne inevitabile, paradossalmente, quando la caduta del prezzo del petrolio (1986) e il tentativo riformatore di Gorbaciov aprirono alcune brecce nel sistema sovietico. Fu la perestrojka, ancor più di Reagan e Giovanni Paolo II, che indebolì il regime dall'interno. Vale per l'Urss, insomma, ciò che Tocqueville scrisse a proposito dei cambiamenti di regime: «Quando ha lungamente accettato l'oppressione senza protestare e scopre improvvisamente che il potere ha allentato i suoi vincoli, il popolo insorge in armi contro di esso». Nel caso dell'Urss non vi fu insurrezione armata, ma una moltitudine di cedimenti e scricchiolii. È certamente vero che l'Iniziativa Strategica di Difesa (come venne chiamato il programma americano degli anni 80 per la creazione nello spazio di una grande barriera antimissilistica) preoccupò enormemente i sovietici. Si resero conto che i progressi fatti dall'America con l'introduzione dei calcolatori veloci avevano enormemente aumentato il ritardo tecnologico dell'Urss, e temettero che gli Stati Uniti, dopo avere conquistato l'invulnerabilità, sarebbero stati liberi di colpire impunemente, con un «primo colpo» decisivo, il loro Paese. Non dimentichi tuttavia, caro Martinelli, che lo scudo si rivelò costosissimo e che i primi esperimenti dettero risultati mediocri. Se non avesse perduto fiducia in se stesso, il regime sovietico avrebbe potuto affrontare la crisi e, forse, superarla. Oggi la situazione è in buona parte diversa. I sistemi antimissilistici che l'America si appresta a installare in Polonia potrebbero effettivamente ridurre considerevolmente la capacità offensiva dei missili russi. Ma la Russia disporrebbe pur sempre di altri mezzi (bombardieri, missili montati su sottomarini nucleari) per reagire a un eventuale attacco americano. La reazione di Mosca è giustificata in questo caso anche da altri fattori. In primo luogo gli americani hanno allargato le frontiere della Nato sino a incorporare, insieme ai Paesi del Patto di Varsavia, tre Stati (Estonia, Lettonia e Lituania) che appartenevano all'Urss. E la frontiera militare tra la Russia e l'Occidente corre oggi all'interno del vecchio territorio sovietico. In secondo luogo la presidenza Bush predica democrazia al mondo, auspica cambiamenti di regime, finanzia le associazioni dei dissenzienti. Dopo la rivoluzione delle rose e quella arancione, Putin teme che il suo Paese sia il prossimo bersaglio nella lista di quelli che l'America intende convertire. E ha deciso di dire no oggi piuttosto che domani, quando potrebbe essere troppo tardi.
Sergio Romano
Corriere della sera, 10 giugno 2007 |
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Il caso Ruggiero e la politica europea di Berlusconi
Lei ricorderà certamente il nome di Renato Ruggiero, ministro degli Esteri del secondo governo Berlusconi. Avrei, a proposito di quella vicenda, qualche domanda da porle. Che cosa fece il ministro suddetto di così grave da provocare la reazione sdegnata dell'opposizione di sinistra che chiese e ottenne le sue dimissioni? Come mai oggi, il ministro Visco, a parti invertite, invece non dà le dimissioni? Perché per chiedere e ottenere le dimissioni di qualcuno bisogna avere l'«arte delle grida»? O c'è una ragione che ignoro?
Gaetano Definis
Caro Definis, Ruggiero non si dimise, agli inizi del 2002, perché spinto a farlo dalla «reazione sdegnata dell'opposizione di sinistra». Si dimise perché si accorse che la sua politica europea non era condivisa da una parte importante del governo di cui faceva parte. Quella vicenda fu interessante e merita di essere rievocata. Quando Berlusconi, dopo la vittoria elettorale del 2001, lo chiamò al ministero degli Esteri, Renato Ruggiero aveva alle sue spalle molte esperienze. Era stato diplomatico, rappresentante dell'Italia a Bruxelles, segretario generale della Farnesina, ministro del Commercio estero nei governi di Bettino Craxi e Giuseppe Goria, vicepresidente della Fiat, direttore generale dell'Organizzazione mondiale del commercio e, infine, vicepresidente di uno dei maggiori gruppi bancari internazionali. Era stato quindi, a seconda delle circostanze, funzionario nazionale e internazionale, ministro, manager, banchiere. Ma sempre, in ogni occasione, dichiaratamente e appassionatamente europeista. Si disse allora che il suo nome era stato suggerito a Berlusconi da Gianni Agnelli e Henry Kissinger, durante una conversazione a Roma, come quello della persona che avrebbe meglio garantito la continuità europea e atlantica della politica estera italiana. Fu questa, credo, la ragione per cui Ruggiero accettò. Quando entrò alla Farnesina dovette pensare che Berlusconi, dopo averlo nominato, lo avrebbe sostenuto. Fu chiaro tuttavia, nel giro di pochi mesi, che il presidente del Consiglio non avrebbe speso molte parole per difendere il suo ministro degli Esteri dalle frecciate antieuropee che provenivano dalla Lega, da una parte di Alleanza nazionale e persino da alcuni esponenti di Forza Italia come Antonio Martino e Giulio Tremonti, rispettivamente ministro della Difesa e ministro dell'Economia. Vi furono alcuni incidenti, ma la goccia che fece traboccare il vaso della pazienza di Ruggiero fu probabilmente il modo in cui alcuni ministri e rappresentanti dei partiti di governo cominciarono a svilire e a schernire l'euro nel momento stesso della sua introduzione. Quando ebbe l'impressione che la deriva antieuropea di una parte della maggioranza avrebbe pregiudicato la credibilità della sua diplomazia, il ministro degli Esteri dette una intervista a Sergio Rizzo del Corriere in cui espose con chiarezza le ambiguità e le contraddizioni del governo. Credo che il senso e lo scopo dell'intervista fossero contenuti in una risposta all'intervistatore verso la fine del colloquio. Quando Rizzo gli chiese quale fosse la posizione del presidente del Consiglio in materia d'Europa, Ruggiero disse: «Per il momento non ha avuto modo di esprimersi molto sui principi generali, ma quello che ha detto dimostra una inclinazione europeista». Con questo «beneficio del dubbio» Ruggiero sperava forse di indurre Berlusconi a prendere partito e a chiarire una volta per tutte la linea europea della politica estera italiana. Il chiarimento non ebbe luogo, o non fu soddisfacente, e Ruggiero decise di andarsene. Fece bene. Era stato chiamato a rappresentare la continuità della politica estera italiana e aveva capito che non avrebbe avuto l'autorità per farlo. Come vede, caro Definis, il caso Ruggiero e il caso Visco sono completamente diversi. Potrebbe esservi una analogia invece fra il dilemma di Ruggiero e quello che dovrebbe affrontare il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa il giorno in cui si accorgesse di non poter fare la politica economica e finanziaria per cui è stato chiamato a far parte del governo Prodi.
Sergio Romano
Corriere della sera, 11 giugno 2007 |
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La sede diplomatica
Caro Romano, torno da un viaggio in Namibia durante il quale ho avuto modo di conoscere abbastanza bene il Paese. Si tratta di un territorio grande tre volte l'Italia, ricchissimo di risorse minerarie, abitato da poco più di due milioni di abitanti, il 7% dei quali è di razza bianca, boeri e tedeschi in prevalenza. L'indipendenza dal Sud Africa è recentissima, 17 anni appena. II Paese cresce a ritmo sostenuto nello sviluppo civile ed economico.
L'Italia è largamente conosciuta e apprezzata per il gioco del calcio, meno per altre possibilità di introduzione culturale ed economica pur in fieri diffusamente esistenti. Ora è stato deciso di chiudere definitivamente la nostra ambasciata lasciando così, come si fa in Mongolia, il Paese privo di ogni nostra presenza diplomatica.
Questi volontari abbandoni, queste rinunce a essere presenti nei Paesi emergenti del mondo dove la nostra storia e la nostra intraprendenza potrebbero bene testimoniare di noi, sono una forma di masochismo. E dimostrano nel concreto quanto poco conti la retorica delle parole con la quale siamo abituati a nutrirci.
Nino Del Bianco, Milano
È certamente importante che l'Italia sia presente nei Paesi emergenti. Ma soltanto se può permettersi di avere rappresentanze attrezzate, in grado di svolgere le loro funzioni. Se i mezzi disponibili non glielo permettono è meglio non suscitare aspettative a cui non è possibile dare una risposta. Negli anni delle vacche magre, quando occorreva tagliare la spesa pubblica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno esitato a ridurre drasticamente i loro uffici consolari e culturali all'estero.
Sergio Romano
Corriere della sera, 11 giugno 2007 |
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Debito pubblico: una palla al piede dell'Italia
Il governatore Draghi, nelle sue considerazioni di fine maggio, ha fornito un dato interessante, sconosciuto ai più: il debito pubblico pesava per il 32% sul Pil nel 1964, il 121% nel 1994; dal 1994 al 2004 è diminuito del 18% per poi risalire un poco in questi ultimi anni. Il ministro Padoa-Schioppa ha detto al Corriere: "Se noi avessimo un debito pubblico dell'80% del Pil, avremmo da spendere circa 20 miliardi l'anno in meno per il servizio al debito. Con una cifra così avremmo già decongestionato il Nord, in un Paese che si muove a fatica da Torino a Venezia, avremmo finanziato le infrastrutture giuste e avremmo messo a punto degli ammortizzatori sociali a livello delle grandi socialdemocrazie del Nord. E assicuro che il rapporto tra cittadino e Stato sarebbe cambiato". Due considerazioni: nel valutare la Prima Repubblica, da qualcuno compianta, si dovrebbe ricordare il dato fornito da Draghi, che non ha bisogno di commenti; nel Paese, inoltre, c'è poca consapevolezza, a mio parere, sulle conseguenze che comporta l'onere del debito pubblico: un giornale come il Corriere dovrebbe farsi carico di spiegarlo ai suoi lettori, con qualche articolo e qualche inchiesta, in coerenza tra l'altro con l'iniziativa intrapresa recentemente a Milano in occasione del forum internazionale fatto con l'università Bocconi.
Marco Peserico
Caro Peserico, anch'io sono stato colpito dalle parole con cui il ministro Tommaso Padoa-Schioppa ha concluso la sua intervista al Corriere del 6 giugno.Eanch'io ho avuto l'impressione che il problema del debito pubblico italiano non sia più al centro dell'attenzione. I giornali lo hanno ricordato frequentemente nel corso degli ultimi anni e molti economisti ne hanno sottolineato l'importanza. Mail dibattito sull'economia e sulle finanze del Paese si concentra sul tasso di crescita, sul disavanzo, sulla riforma del sistema previdenziale e sulla pressione fiscale. Pochi ricordano che il governo non può cominciare a scrivere il bilancio dello Stato, ogni anno, senza inserire subito fra i passivi una enorme somma destinata al servizio del debito, vale a dire al pagamento degli interessi dovuti ai titolari di buoni del Tesoro. E pochi sembrano rendersi conto di ciò che l'Italia avrebbe potuto fare della propria ricchezza se fosse riuscita a liberarsi da questa servitù. Una missione impossibile? Nel 1992, quando firmammo il trattato di Maastricht, l'Italia aveva un debito pubblico, calcolato in percentuale sul prodotto interno lordo, inferiore a quello del Belgio che toccò il 137,9% nel 1993. Eravamo entrambi, quindi, molto al di sopra del limite (60%) fissato dai parametri del Trattato per i Paesi che intendevano adottare, alla fine del decennio, la moneta unica. Ma il Belgio s'impegnò in una politica di risanamento dei conti pubblici che produsse in dieci anni risultati considerevoli. Il debito scese al 127% nel 1996, al 119,6% nel 1998, al 109,1% nel 2000, al 94,3% nel 2004 e all'87,7% nel 2006. Noi invece riuscimmo a ridurre considerevolmente il disavanzo, ma la diminuzione del debito si rivelò sin dall'inizio un'operazione molto più lenta. Quando era ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi sostenne che l'obiettivo sarebbe stato gradualmente raggiunto soltanto se il Paese fosse riuscito ad avere ogni anno un avanzo primario (ciò che resta in bilancio dopo il pagamento degli interessi del debito) pari al 5%del Pil.Manegli anni del governo Berlusconi l'avanzo primario andò gradualmente riducendosi. Dovremmo quindi parlare maggiormente del nostro debito pubblico. Ma dovremmo anche chiederci, contemporaneamente, perché ciò che è possibile in Belgio sia così difficile in Italia. Giungeremo probabilmente alla conclusione che il problema non è economico, mapolitico. Abbiamoun Primo ministro che ha meno poteri dei suoi maggiori colleghi europei ed è quindi incapace d'imporre una coerente linea di politica economico-finanziaria. Abbiamo governi di coalizione in cui ogni partito tira la coperta dalla sua parte e minaccia di andarsene se il bilancio non tiene conto delle sue particolari esigenze. Abbiamo una democrazia costosa e sprecona che preferisce distribuire gratifiche e prebende anziché richiamare tutti al dovere della sobrietà. E preferiamo vivere alla giornata lasciando in eredità ai figli i problemi che non abbiamo voluto affrontare.
Sergio Romano
Corriere della sera, 12 giugno 2007 |
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Il grande arcobaleno liberale di Mario Pannunzio
Ho appreso dai giornali che esiste a Torino un Centro Pannunzio, dedicato alla memoria di un giornalista che, tra l'altro, fu fondatore e direttore del Mondo.
E ho appreso contemporaneamente che questo centro è stato lungamente presieduto da Alda Croce, la figlia maggiore di Benedetto Croce. Vi furono dunque, fra il filosofo e Pannunzio, rapporti di affinità intellettuale? Vi fu una collaborazione tra Croce e Pannunzio all'epoca del Mondo?
Alessandra Custode - Napoli
Cara signora, il liberalismo europeo ha almeno due anime. In Inghilterra, dove nasce e si afferma, ha una spiccata componente libertaria e liberista, con un forte accento sul problema delle libertà civili, dei diritti umani, dell'emancipazione sociale. Ma il suo retroterra è rappresentato dalla «middle class», vale a dire da gruppi sociali che si identificano con i suoi ideali politici, ma hanno al tempo stesso forti interessi economici. È questa la ragione per cui ogni partito liberale è inevitabilmente diviso in due correnti. La prima è libertaria, sempre pronta alle grandi battaglie civili e alle campagne internazionali che hanno caratterizzato la storia europea fra Ottocento e Novecento. L'altra è la sua anima moderata, conservatrice e borghese, attenta ad altre considerazioni e motivazioni. Il duro lavoro dell'industria e del commercio ha insegnato a questa seconda anima che una buona società è sempre necessariamente gerarchica e meritocratica. Non è vero che gli uomini siano eguali per intelligenza, intraprendenza, coraggio. Un sistema politico che disconosce questa differenza e privilegia l'egualitarismo è un cattivo sistema politico. La disciplina, la gerarchia, l'ordine, la selezione non sono soltanto gretti strumenti di difesa sociale. Sono anche virtù o, come usa dire, con parola troppo usata, valori. La migliore borghesia è dura, talvolta spietata. Ma è tale anzitutto con se stessa.
Nel 1947 queste due anime del liberalismo italiano si scontrarono duramente e prevalse, in seno al partito, l'anima moderata. È questo il momento di massima litigiosità della classe dirigente liberale, quello in cui essa perde malauguratamente, agli occhi del Paese, buona parte della sua originaria autorità. Ed è anche il momento in cui Mario Pannunzio, sino ad allora direttore di Risorgimento liberale, decise di abbandonare il partito. Mentre Benedetto Croce, pur rappresentando una categoria a sé, era sostanzialmente un liberale conservatore, Pannunzio era un liberale di sinistra, non voleva condividere le scelte dei moderati e preferì andarsene per collaborare con altri alla creazione del Partito radicale. Se il seguito della vita di Mario Pannunzio fosse stato esclusivamente la logica conseguenza di tale sua decisione, potrei fermarmi qui. Ma il seguito, in realtà, fu una singolare correzione di quella scelta.
La correzione è per l'appunto Il Mondo, fondato nel 1949. Chi si attendeva un settimanale della sinistra liberale, nello stile della decisione presa da Pannunzio due anni prima, dovette esserne deluso. Il suo fondatore seppe alloggiare sotto la stessa testata tutte le diverse sfumature del liberalismo. È sufficiente dare un'occhiata alla lista dei collaboratori. Vi sono i liberali di sinistra come Ernesto Rossi, Nicola Chiaromonte, Leopoldo Piccardi, Nicolò Carandini. Vi sono i liberisti, come Luigi Einaudi e lo stesso Ernesto Rossi. Vi sono Croce e i crociani, come Vittorio De Caprariis, Francesco Compagna, Carlo Antoni. Vi sono i liberal- conservatori come Panfilo Gentile. Vi sono i liberal-socialisti e i vecchi azionisti come Aldo Garosci, Ugo La Malfa, Guido Calogero, Ferruccio Parri. Tutto il miglior liberalismo italiano, con le sue diverse opinioni e sensibilità, è presente nelle sue colonne.
Questo non significa che il settimanale fosse eclettico, antologico e agnostico. L'ispirazione fondamentale fu quella del liberalismo di sinistra. Lo si desume dall'atteggiamento critico che il settimanale assunse nel 1960, all'epoca della crisi del governo Tambroni (un monocolore democristiano sostenuto dal Movimento sociale italiano) e dal favore con cui accompagnò l'apertura a sinistra negli anni seguenti. Lo si desume da certi giudizi negativi, spesso discutibili e ingiusti, sullo storico Giacchino Volpe e sul generale de Gaulle. Lo si desume dalla convinzione, tipica di una certa intellighenzia progressista europea, che il fascismo fosse sempre e comunque un male peggiore del comunismo. Ma il ruolo di Pannunzio alla testa del giornale consistette nel permettere che le diverse anime del liberalismo italiano convivessero all'interno di una stessa cornice giornalistica. Fu lui in quegli anni, per molti aspetti, il vero partito liberale italiano: un partito che non poteva governare una società di massa nella fase delle sue grandi trasformazioni, ma era in grado di fornire al dibattito politico il contributo della sua intelligenza, della sua autonomia intellettuale e del suo stile.
Sergio Romano
Corriere della sera, 13 giugno 2007 |
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Unione Sovietica: arsenali pieni e negozi vuoti
Quando si è vecchi (ho compiuto 82 anni) si vive quasi sempre di ricordi, e fra i miei non possono mancare quelli, intramontabili, sull’ultima guerra mondiale: l’aggressione alla Polonia fino alla sconfitta della Germania e i tanti interrogativi sugli errori strategici di Hitler. Ma risalendo a epoca più recente, vi è un interrogativo a cui non ho mai trovato risposta alcuna. Perché l’Urss e gli Stati Uniti, fino alla fine della guerra fredda, si accanirono a produrre migliaia di bombe atomiche e i relativi missili, quando sarebbero bastati a ciascuno dei due poche decine di questi ordigni per riuscire a distruggersi a vicenda?
In particolare le domando: perché l’Unione Sovietica privilegiò la produzione di materiale bellico trascurando quella dei beni di consumo per il popolo? Non è questo che ha portato l’Urss al tracollo economico e quindi al tracollo del comunismo?
Armando Antonietti
Caro Antonietti,
nella sua lettera vi sono almeno due domande. La prima è quella che anch’io ho fatto più volte ame stesso quando ho dovuto occuparmi di problemi militari alla Nato nella seconda metà degli anni Ottanta. Il maggior problema all’ordine del giorno era allora la installazione di nuovi missili con testate multiple - gli SS20 - nel territori occidentali dell’Unione Sovietica. I missili avevano una gittata intermedia ed erano perfettamente in grado di colpire, con maggiore precisione dei loro predecessori, tutte le principali città dell’Europa occidentale. In teoria sarebbe stato possibile sostenere che quelle armi non avrebbero modificato complessivamente l’equilibrio militare fra i due blocchi. Se l’Urss avesse lanciato un missile contro Londra o Roma, gli Stati Uniti avrebbero potuto rispondere con il potente arsenale nucleare di cui già disponevano (missili intercontinentali, missili montati su sottomarini nucleari, bombardieri) e distruggere gran parte del territorio sovietico.
Maera matematicamente sicuro che lo avrebbero fatto? Non avrebbe potuto prevalere a Washington, in quel momento, la convinzione che la sorte di una città europea non giustificava un conflitto planetario in cui anche l’America, inevitabilmente, avrebbe subito enormi distruzioni?
Esisteva quindi la possibilità che gli SS20 creassero una frattura tra sicurezza europea e sicurezza americana. Questo rischio fu definito, nel gergo dell’Alleanza atlantica, «decoupling» e indusse alcuni leader europei, fra cui il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt e il presidente del Consiglio italiano Francesco Cossiga, a sostenere che la sola risposta efficace alla mossa sovietica sarebbe stata l’installazione di missili americani di eguale gittata in alcuni Paesi europei dell’Alleanza atlantica.
Le decisione fu presa nel Consiglio atlantico del dicembre del 1979 e i Paesi designati ad accogliere le nuove postazioni americane furono il Belgio, la Germania, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi e l’Italia. Le industrie degli Stati Uniti si misero al lavoro per fabbricare iCruise e iPershing che sarebbero stati pronti soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta. Grazie all’accordo fra il presidente Reagan e Gorbaciov, verso la fine del decennio, i missili non vennero mai installati.Masin dal dicembre 1979 fu chiaro a Mosca che l’Urss non avrebbe potuto isolare e ricattare l’Europa.
Come vede, caro Antonietti, l’aumento delle testate nucleari fu anche il risultato del progresso tecnologico nel campo dei vettori e del modo in cui le mosse strategiche di un blocco vennero percepite dall’altro.
Alla sua seconda domanda - perché i sovietici riempirono gli arsenali invece dei negozi - rispondo che verso la fine dell’era Breznev la dirigenza dell’Urss cominciò a preoccuparsi dei bisogni del cittadino consumatore. Furono aumentate le importazioni di beni alimentari e furono stipulati contratti con aziende europee (molte di esse italiane) per la fabbricazione di scarpe, elettrodomestici, materiale sanitario per l’edilizia, macchine per confezioni e imballaggio. Vi fu qualche miglioramento, ma la macchina arrugginita del Gosplan (l’Ufficio centrale per la programmazione), la mancanza di un efficace sistema di distribuzione e gli incurabili vizi dell’economia dirigistica dimostrarono che il comunismo era capace di costruire missili e satelliti, ma non di dare una ragionevole risposta alle esigenze della popolazione.
Sergio Romano
Corriere della sera, 14 giugno 2007 |
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Le promesse di Bush
Caro Romano,
durante la recente visita di Bush in Europa mi hanno molto colpito le sue dichiarazioni secondo le quali l’Albania dovrebbe entrare nell’Ue e il Kosovo dovrebbe ottenere l'indipendenza dalla Serbia.
Ma, soprattutto, sono rimasto meravigliato dall'assenza di reazioni da parte dell'Europa, la quale non brilla certo per iniziative politiche che vadano al di là di speculazioni finanziarie organizzate periodicamente dalla Banca centrale europea.
Quella del presidente degli Usa è stata a mio avviso una chiara ingerenza. Ma neppure i media ne hanno dato conto più di tanto, forse preoccupati di muovere una qualsivoglia critica alla visita. Che ne pensa?
Franco Cagliari - Mantova
Bush è venuto in Europa per rinfrescare un’immagine alquanto appannata e si è comportato come un leader in cerca di consensi. È quasi inevitabile che un uomo politico affaticato dagli insuccessi dimostri la propria gratitudine, quando è accolto con particolare calore, facendo qualche generosa promessa che, comunque, non dipende interamente da lui mantenere. Sono impegni presi nell’entusiasmo di una giornata festiva. Domani, comunque, è un altro giorno.
Sergio Romano
Corriere della sera, 14 giugno 2007 |
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I tempi della politica
Caro Romano, esiste una spiegazione logica e plausibile sul fatto che da noi in Italia dobbiamo votare in due giorni, mentre negli altri Paesi ne basta uno solo?
Giorgio Gentili
No. Ma conferma che in
Italia, per un qualsiasi provvedimento legislativo o amministrativo, occorre almeno il doppio del tempo necessario negli altri Paesi dell’Unione europea.
Sergio Romano
Corriere della sera, 15 giugno 2007 |
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