L’unità della lingua

Caro Romano, l'Europa ha cinquanta anni ma, secondo me, non li dimostra. Lorenzo Valla, letterato del Quattrocento, sosteneva che la prima condizione per una federazione o una unione di Stati o di nazioni fosse l'unità della lingua, come le successive esperienze storiche hanno confermato. Ad oggi l'Europa ha conquistato, e neppure unanimemente, l'unità monetaria che di solito è l'ultima a comparire nei processi di riunificazione nazionale. Per anni, nella mia lunga carriera di cineasta, ho inseguito il sogno di un cinema europeo. Dal 1952 ho promosso coproduzioni con Francia, Germania e Spagna, una sola volta con la più difficile Gran Bretagna. Quasi tutti i tentativi si rivelarono fallimentari.
I prodotti così realizzati ebbero, in genere, successo solo nel Paese partecipante con ruolo maggioritario, a causa della profonda diversità nella cultura e nel costume di ogni singolo Paese; diversità che neppure un linguaggio ecumenico come quello cinematografico riuscì a colmare. Alla dilagante retorica di un europeismo impossibile, non crede che sarebbe più pragmaticamente utile un patto ferreo di reciproca solidarietà tra nazioni autonome e indipendenti?

Turi Vasile

popolate da analfabeti, la lingua comune era il latino o quella parlata dalle élites nazionali di ogni singolo Paese.
Oggi, come ha ricordato Alberto Ronchey nel Corriere del 27 marzo, è l’«angloatlantico ».Un«patto di reciproca solidarietà tra nazioni autonome e indipendenti» potrebbe forse assicurare la felice convivenza degli Stati europei, ma esporrebbe ciascuno di essi al rischio di essere schiacciato dalle grandi potenze continentali che dominano la scena internazionale.

Sergio Romano
Corriere della sera, 29 marzo 2007

 
   
 
I critici di Israele: un coro a molte voci

Nella sua risposta a un lettore intitolata «America e Israele: come ammirarli e criticarli», una sua frase mi lascia molto perplesso: «Ho l'impressione che (...) uno Stato europeo, composto dall'avanguardia più dinamica e intraprendente dell'ebraismo, abbia maggiori responsabilità del mondo da poco decolonizzato che lo circonda». Con questa frase, lei glissa abilmente sul fatto che «il mondo (...) che lo circonda» non vuole altro che la distruzione dello Stato di Israele. La responsabilità primaria di ogni entità vivente è verso se stessa, è la sopravvivenza. Ma lei aggiunge la sua voce (subdolamente, devo dire) al coro che condanna Israele per il fatto che vuole sopravvivere, che si difende, che deve per forza occuparsi principalmente di non sparire.
Aggiungo: l'Arabia Saudita, che è strapiena di petroldollari, non ha essa una qualche «responsabilità del mondo da poco decolonizzato che lo circonda»? O può limitarsi a fomentare il terrorismo?

Daniel Gold, dangold@stny.rr.com

Caro Gold, non esiste il «coro che condanna Israele». Fra quanti disapprovano la politica dello Stato ebraico esistono posizioni diverse, ora fortemente critiche, ora esplicitamente ostili, ora ispirate da preoccupazioni e riserve di varia natura. Quando ho ricevuto la sua lettera avevo appena finito di leggere un articolo di George Soros, pubblicato dal Financial Times, in cui l'autore sostiene, con argomenti molto convincenti, che il boicottaggio dei ministri di Hamas nel nuovo governo palestinese è un errore. Soros è un ricco finanziere ebreo di origine ungherese, divenuto in questi ultimi anni il maggiore benefattore privato di istituzioni accademiche e associazioni civili nell'Europa ex comunista, e non può essere accusato di antisionismo. Anche lui farebbe parte del coro? E farebbe parte del coro quella stampa israeliana che non ha mai smesso di segnalare le discriminazioni inflitte dal governo israeliano alla popolazione palestinese o, più recentemente, il modo in cui furono condotte le operazioni militari nella guerra libanese della scorsa estate? Vengo al punto della sua lettera in cui lei sostiene che il mondo arabo circostante «non vuole altro che la distruzione dello Stato di Israele». Fu questa effettivamente la posizione dei Paesi arabi sino alla guerra del Kippur nell'ottobre 1973. In quel periodo Israele poté contare sulla comprensione e sul sostegno di gran parte dell'Europa occidentale e delle Americhe. Ma sarebbe assurdo ignorare che fra il nostro punto di vista e quello degli arabi esisteva una sostanziale differenza. Noi assistevamo con simpatia alla costruzione dello Stato d'Israele perché eravamo stati diretti testimoni delle persecuzioni che gli ebrei avevano subito durante buona parte del secolo. Gli arabi non avevano in quelle vicende alcuna responsabilità e non capivano perché il debito dell'umanità verso gli ebrei dovesse venire pagato proprio da coloro che non avevano collaborato al loro sterminio. Dopo il 1973 la situazione è andata progressivamente cambiando. Vi sono stati gli accordi di Camp David del settembre 1978 fra il presidente egiziano Anwar Al Sadat e il Primo ministro israeliano Menachem Begin. Vi è stata la grande conferenza di Madrid dell'ottobre 1991 a cui hanno partecipato, insieme agli israeliani, gli Stati arabi della regione e una delegazione palestinese. Vi sono stati gli accordi del governo di Gerusalemme con Giordania e Marocco per lo stabilimento di rapporti diplomatici. E vi è stato infine il piano saudita del 2002, approvato dalla Lega Araba, che comporta l'implicito riconoscimento dello Stato israeliano. Nella sua lettera lei accenna criticamente alle responsabilità dell'Arabia Saudita verso il mondo arabo. Sappiamo che il regno dei Saud è stato per molti anni un Giano bifronte: custode dell'ortodossia islamica da un lato e partner politico-economico degli Stati Uniti dall'altro. Ma in questi ultimi tempi, dalla proposta del 2002 alla recente mediazione per la costituzione di un governo palestinese di unità nazionale e al recente vertice della Lega Araba, ha adottato una linea prudente e responsabile. Credo che Israele dovrebbe prestare maggiore attenzione ai segnali che vengono dall'Arabia Saudita.

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 marzo 2007

 
   
 

Il debito pubblico

Caro Romano, perché non distribuire il tesoretto fiscale a tutti gli italiani, riducendo il debito pubblico? Lo Stato pagherebbe meno per interessi e di conseguenza avrebbe bisogno di minori tasse. Che cosa ne pensa?

Virgilio Avato

Penso che lei abbia ragione e mi auguro che la sua proposta venga letta dal ministro dell'Economia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 marzo 2007

 
   
 
Le conferenze per la pace tra ipocrisia e idealismo

Rileggendo "Nicola e Alessandra" di Robert K.Massie, mi sono ricordata che - poco più di un secolo fa (1898) - lo zar Nicola II di Russia lanciò al mondo un appello per il disarmo e la pace universale. Alla Conferenza per la pace che ne segui a L'Aja (1899), la proposta russa di fermare la corsa agli armamenti non ebbe seguito, ma in tale occasione furono poste le basi - se non sbaglio - per la Corte Internazionale di Giustizia. Non le pare singolare che questo appello per la pace venne proprio da un autocrate come Nicola II, poi definito "il sanguinario" oppure "il martire di Ekaterinburg", a seconda dei pulpiti?

Natalie Paav

Cara Signora, la proposta di Nicola II per la grande conferenza internazionale che si tenne all'Aja nel 1899 porta la data del 24 agosto 1898 e coincide con una fase della storia russa caratterizzata da uno straordinario sviluppo economico. Dopo avere messo a posto i conti dell'Impero, il ministro delle Finanze Sergej Vitte creò le condizioni per la nascita dell'industria pesante e lanciò un ambizioso programma di costruzioni ferroviarie che avrebbe avuto per effetto, tra l'altro, la realizzazione della grande Transiberiana da Pietroburgo a Vladivostok. In dieci anni, dal 1895 al 1905, la rete ferroviaria raddoppiò. Occorrevano ingenti capitali, naturalmente. Ma l'accorta politica di Vitte e i buoni tassi d'interesse garantiti dal Tesoro russo assicurarono il successo dei prestiti emessi in quegli anni, soprattutto sul mercato francese. Fino alla guerra russo-giapponese del 1905 l'economia russa fu, con quella italiana, la più dinamica e promettente delle economie mondiali. Ma questo grande impegno economico assorbì risorse finanziarie che l'Impero, negli anni precedenti, aveva dedicato alle forze armate. Nella proposta di Nicola II vi era quindi un calcolo. Occorreva evitare, per quanto possibile, che la Russia, in quel cruciale momento del suo sviluppo economico, venisse impegnata in costose operazioni militari. Si trattò quindi di una iniziativa dettata da considerazioni di opportunità e convenienza. Ma la stessa accusa potrebbe essere mossa ad altri governi. Il presidente americano Theodor Roosevelt propose la seconda conferenza della pace, che si tenne all'Aja nel 1907. Ma nove anni prima aveva partecipato come sottosegretario e come combattente alla guerra ispano-americana. Il governo britannico accolse l'invito e propose, durante la seconda conferenza, una generale riduzione degli armamenti. Ma lo fece nel tentativo di bloccare o almeno rallentare i piani del governo di Berlino per la costruzione di una grande flotta di tedesca. Nei negoziati per il disarmo gli Stati più entusiasti sono generalmente quelli che sono rimasti indietro nella corsa agli armamenti e cercano di ridurre con un accordo internazionale la potenza dei loro concorrenti. Non appena hanno colmato il divario, la loro posizione, generalmente, diventa meno conciliante. Dietro il pacifismo si nasconde, insieme a molta ipocrisia, l'interesse nazionale. Ne avemmo una prova quando il governo sovietico, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sostenne entusiasticamente il movimento di Stoccolma per la pace e mobilitò, per ingrossarne le file, i militanti di tutti i partiti comunisti dell'Europa occidentale. Era preoccupato dal programma atomico americano e sperava di mettere così qualche bastone nelle ruote del Pentagono. Questo non significa tuttavia che le conferenze dell'Aja siano state inutili. Furono l'espressione di un sentimento che si era diffuso in Europa negli ultimi decenni del secolo e che aveva ispirato ad Alfred Nobel sul letto di morte (scomparve a San Remo nel 1896) la decisione di consacrare la sua intera fortuna (due milioni di sterline di allora) alla istituzione di alcuni grandi premi fra cui quello per la pace. Nate in questo clima, le conferenze dell'Aja permisero la firma di convenzioni che possono considerarsi le pietre di fondazione delle maggiori istituzioni internazionali del XX secolo, dalla Società delle Nazioni all'Onu. Anche l'ipocrisia dell'interesse nazionale può produrre qualche buon risultato.

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 marzo 2007

 
   
 

Scoperte discutibili

Caro Romano, chiedo un suo parere in merito ad uno dei tanti fenomeni di degrado culturale cui siamo costretti ad assistere: mi riferisco (anche se non pretendo di dire niente di nuovo) all'indifferenza dei media verso le cose serie e al risalto che viene dato a operazioni a dir poco discutibili. Così, di tanto in tanto, qualcuno si studia di colonizzare l'antichità, ricorrendo a qualche amena rivisitazione di Omero, letteraria o filmica, oppure scoprendo continenti sommersi in qualche mito antico, secondo i codici del mito che gli specialisti si sforzano da secoli di decrittare. Di recente, per esempio, i giornali hanno giudicato meritevole di nota la notizia dell'identificazione del "vero" palazzo di Ulisse;ma ancora più inquietante è apprendere che scavi archeologici saranno organizzati per la ricerca della verità, per provare che il palazzo di Ulisse era a Paliki (Cefalonia) e non a Itaca, come se Omero fosse una guida del Touring. C'è da giurare, a questo punto, che la scoperta del primo coccio di ceramica "micenea " (in Grecia è più facile trovare ceramica di questo tipo che funghi) diventerà la prova inconfutabile della bontà di un'ipotesi a così alto rischio. Ma perché per avere diritto allo statuto di notizia la ricerca scientifica deve scendere in basso? Le cose serie sono tanto noiose e non interessano a tal punto nessuno? Quando si vede usare Omero o Platone come fonte geo-topografica o storica viene di pensare a quanti, come Moses Finley o Pierre Vidal-Naquet, si staranno rivoltando nella tomba.

Emanuele Greco, Roma

Emanuele Greco, direttore della Scuola archeologica di Atene, ha perfettamente ragione. Ma potrebbe forse consolarsi apprendendo dalla lettura dei giornali che qualcuno, negli scorsi giorni, ha proclamato al mondo la scoperta della tomba di Gesù.

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 marzo 2007

 
   
 
Quando parla di politica l'intellettuale non è un oracolo

Io non conosco Diego Marani come scrittore e quindi non sono in grado di avere un'opinione sulle sue qualità artistiche o professionali. Rispetto la sua idea ( Corriere, 16 marzo) ma non la condivido.
Gli intellettuali non hanno esattamente le stesse responsabilità civili di tutti gli altri cittadini.
Chi ha un talento ha il dovere di restituire qualche cosa agli altri! Gli scrittori in modo particolare (assieme ai cineasti, credo) sono interpreti di un'arte che è al tempo stesso alta e divulgativa. Capace di dare molto in termini di sensibilità e nel contempo di essere diffusa. Gli scrittori leggono la realtà in modo inconsueto e tale da segnare con l'emozione un ricordo e una comprensione fuori dal comune. Le faccio un esempio: quando preparavo l'esame di Storia contemporanea con Romain Rainero, il professore fece una lezione facendo venire, da Palermo credo, un professore di Lettere che attraverso la lettura e la segnalazione di alcuni classici raccontò la storia che stavamo studiando in modo indimenticabile!

Filippo Massimi

Caro Massimi, il ruolo dell'intellettuale come confessore dell'anima nazionale, tutore delle coscienze, predicatore e ispiratore, appartiene all'epoca romantica e trova la sua prima grande espressione nei moti rivoluzionari dell'Ottocento. In alcuni Paesi (la Russia ad esempio) l'intellighenzia divenne allora una grande cattedra morale a cui molti rendevano omaggi liturgici. Più tardi, all'epoca dei partiti di massa e delle nuove religioni ideologiche, l'intellettuale divenne «organico» e decorò la sua parte politica con il lustro delle sue opere e la notorietà del suo nome. I partiti ne hanno fatto largo uso, non soltanto nei regimi autoritari o totalitari; e gli intellettuali hanno avuto in cambio cattedre, prebende, stipendi, premi e onori. Credo che occorra anzitutto fare una distinzione fra coloro che si esprimono su una materia che rientra nei loro studi e quanti affrontano questioni su cui non possono rivendicare una particolare competenza. Mi è difficile capire perché un buon narratore o un buon regista dovrebbero essere in grado di illuminare i loro concittadini e aiutarli a fare buone scelte di vita politica e sociale. Accade spesso, del resto, che tra le opinioni politiche di un intellettuale e il campo in cui esercita il suo talento non vi sia alcun rapporto. Roberto Rossellini arrivò alla realizzazione di «Roma città aperta» subito dopo avere girato alcuni film, nello stesso stile, sulle forze armate italiane durante la Seconda guerra mondiale. Luchino Visconti credette di essere comunista, ma fece raffinati film borghesi, più adatti agli spettatori della Scala che agli elettori di Sesto San Giovanni. Picasso disegnò la colomba della pace e divenne un simbolo della cultura comunista, ma dipinse quadri che suscitavano la disapprovazione della dirigenza sovietica e persino, all'epoca di Togliatti, del partito comunista italiano. Salvatore Quasimodo fu, a mio avviso, uno dei migliori poeti italiani del Novecento. Ma i suoi versi, quando cercò di rendere omaggio al Pci e all'Urss, scesero di parecchi gradini nella scala della qualità. Quando leggo lettere aperte, manifesti e proclami firmati da uno stuolo di scrittori e artisti, mi chiedo perché i loro sentimenti e le loro convinzioni dovrebbero avere maggiore peso di quelli di un comune cittadino elettore. Aggiunga a tutto questo, caro Massimi, che molti intellettuali sono narcisisti, volubili, assetati di pubblica visibilità e inclini a passare rapidamente da un campo all'altro. In un articolo pubblicato dal Corriere del 26 marzo Pierluigi Battista ha raccontato il caso di José Saramago, grande scrittore portoghese. Un anno fa, quando un giornale danese pubblicò alcune vignette satiriche sull'Islam e Maometto, Saramago rimproverò l'irresponsabilità degli autori dei disegni. Più recentemente, in occasione della pubblicazione di un libro blasfemo e sboccato su Gesù, ha deplorato in nome della libertà di espressione le reazioni di coloro che avevano osato protestare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 aprile 2007

 
   
 
L’arte di Beppe Grillo e i comici in politica

Ho letto una sua intervista al Magazine del Corriere della Sera. Su un punto non mi trovo d’accordo con lei, e cioè sul fatto che il comico Beppe Grillo non rappresenti un elemento di novità, perché «solletica il qualunquismo del disprezzo della politica». Ora, se mai vi fu in Italia un elemento che impedì il funzionamento del sistema politico, questi furono i partiti politici (e, checché se ne dica, lo sono tuttora). La «partitocrazia» infatti si esemplifica nel nostro Paese in molti modi, dalla ignobile corsa alle poltrone al dispendioso quanto inutile finanziamento pubblico dei partiti fino al fatto di 25 parlamentari condannati in via definitiva. Ora, di fronte a fatti del genere, io credo che la disaffezione dell’«uomo della strada» verso la politica e i partiti venga da sé, e certo un elemento come Grillo, seppur abbia la tendenza a scadere nel populismo e nella demagogia, offra ai cittadini un ottimo network dal quale attingere informazioni che spesso i giornali e le tv non riportano, con il quale il cittadino può difendersi dagli attentati ai suoi interessi. Come è stato detto a proposito dei generali e della guerra, «la politica è un fatto troppo serio per essere lasciata ai politici».

Daniel Canola, Este (Pd)

Caro Canola,
il caso degli attori, dei comici e dei teatranti che «scendono in campo» non è nuovo. In Italia, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, vi fu l’avventura politica di Guglielmo Giannini, autore di commedie e film, personaggio brillante del mondo dello spettacolo, fondatore di un movimento politico (L’Uomo qualunque) che ottenne 30 seggi all’Assemblea costituente, e direttore di un giornale che vendeva ogni giorno 800.000 copie. Recentemente i casi più interessanti sono quelli di Dario Fo, Nanni Moretti e Roberto Benigni. Il primo è un autore- attore, nella tradizione della commedia dell’arte, e ha una forte caratterizzazione ideologica.
Il secondo è un regista «engagé» con un forte talento cinematografico, maha avuto per qualche tempo un ruolo di primo piano nel movimento dei girotondi. Il terzo è un attore regista che dedica alla satira politica soltanto una parte del suo lavoro.
Il fenomeno non è soltanto italiano.
In Francia, negli ultimi decenni, vi furono almeno due casi particolarmente interessanti. Il primo è quello di un «divo» dei cabaret parigini, Michel Gérard Joseph Colucci, meglio noto con il nome di Coluche, che fu per alcune settimane candidato alle elezioni presidenziali del 1981. Il secondo è quello di Yves Montand, chansonnier e attore di grande successo, ma tentato dalla politica e, negli anni Ottanta, candidato virtuale, per qualche tempo, alla presidenza della Repubblica.
Incidentalmente, caro Canola, sia Coluche che Montand hanno origini italiane.
Ma in questa galleria di comici politici Beppe Grillo è un caso particolare. I suoi spettacoli di massa e il suo sito hanno fatto di lui quello che gli inglesi definirebbero un «one man party», un partito composto da un uomo solo. È diventato il leader di una opposizione inedita che esprime tutto il malumore del Paese contro la sua classe politica e non può essere classificata né destra né sinistra.
Per molti aspetti è la reincarnazione moderna di Pasquino, la statua romana vicino a piazza Navona, dove gli spiriti polemici e beffardi della capitale pontificia lasciavano ogni mattina pungenti epigrammi contro i cardinali e i loro cortigiani.
Non ho nulla da obiettare, caro Canola, al suo giudizio sulla partitocrazia e non credo che la vita pubblica debba essere riservata ai professionisti allevati nelle segreterie delle grandi forze politiche.
Se Silvio Berlusconi può scendere in campo e utilizzare le sue doti di impresario per diventare protagonista della vita del suo Paese, perché Beppe Grillo non dovrebbe essere libero di fare altrettanto?
Vi è tuttavia un rischio che nel caso di Grillo mi sembra particolarmente evidente. Quando il comico si occupa di politica con gli strumenti del suo mestiere e non aspira a misurarsi con il giudizio degli elettori, il suo inevitabile obiettivo è quello di ogni spettacolo: divertire. Non può argomentare, accettare la dialettica del contraddittorio, analizzare vantaggi e svantaggi, alternare denunce e proposte. Deve risvegliare quei sentimenti di derisione, beffa e sarcasmo che tutti abbiamo in un angolo della nostra mente. E deve misurare l’effetto delle sue parole, in ultima analisi, dalla quantità degli applausi ricevuti.
Ecco perché non credo che l’arte di Beppe Grillo serva a risolvere i problemi del Paese.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 aprile 2007

 
   
 

Armamenti nucleari

Caro Romano, a proposito della presenza sul territorio italiano di ordigni nucleari americani, segnalo un interessante rapporto di Hans M. Kristensen del ¡ìNatural Resources Defense Council¡í di Washington, pubblicato nel 2005 e dedicato agli armamenti nucleari in Europa.
Dal rapporto si rileva come nel nostro Paese siano stoccati ben 90 ordigni nucleari a gravitazione della tipologia B-61: 50 dislocati presso la base americana di Aviano e 40 presso la base del 6¢ª Stormo dell'Aeronautica Militare di Ghedi. In particolare, si fa notare come Ghedi sia l'unica base non americana in Europa a detenere piu di 20 ordigni, essendo in quel luogo stati trasferiti i 20 ordigni detenuti fino al 1993 nel dismesso deposito nucleare presso la base di Rimini.

Sergio Carrara, Dalmine (Bg)

Il Natural ResourcesDefense Council è un «trust di cervelli » che studia con serietà le questioni nucleari. Ma, attenzione: il rapporto è stato diffuso agli inizi del 2005 e rispecchia la situazione dell’anno precedente. È possibile che da allora siano intervenuti alcuni mutamenti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 aprile 2007

 
   
 
Giuliano, l'imperatore che restaurò il paganesimo

Ho letto commenti secondo cui Ratzinger avrebbe paragonato l'Europa a Giuliano l'Apostata.
Sarebbe un bel complimento. Quel nipote di Costantino era un sovrano mite e tollerante verso tutte le credenze, che morì in battaglia.
Certamente diffidò della nuova religione che arrivava dalla Galilea con seguaci che si abbandonavano al fanatismo e fece di tutto per restituire alla fede pagana i fasti di un tempo senza riuscirci. Non perseguitò i cristiani, cosa che non impedì ai suoi detrattori di calunniarlo sino ai giorni nostri. La nuova Europa lo ha tra i suoi ispiratori: di questo potremmo solo essere fieri.

Filippo Testa

Caro Testa, la definizione di «apostata», che il cristianesimo ha incollato al nome di Giuliano, è certamente ingiusta. Fu un filosofo, un generale, un tenace riformatore, un restauratore della paganità e per molti aspetti una delle personalità più affascinanti del mondo antico. Fu anche un personaggio drammatico, segnato dall'ambiguità della sua vita e dall'ambivalenza della sua carriera politica e militare. Era figlio del fratellastro di Costantino, l'imperatore che riconobbe il primato del cristianesimo sugli altri culti dell'impero, ma ne rovesciò la politica religiosa. Perdette il padre in una sorta di epurazione diretta dall'imperatore Costanzo II, ma dovette a quest'ultimo la vita, un tranquillo esilio in Cappadocia e più tardi una brillante carriera politico-militare. Fu educato secondo i principi della religione cristiana e fu ordinato «lettore» delle Sacre Scritture. Ma si «convertì» al paganesimo e dedicò buona parte della sua vita alla restaurazione degli antichi culti. Fu condottiero di eserciti e vincitore di memorabili battaglie, soprattutto contro le tribù franche e germaniche, ma preferì considerarsi filosofo e coltivò l'amicizia dei più intelligenti pensatori neoplatonici del suo tempo. Gli inizi della sua politica pagana coincidono con la conquista del trono imperiale. Giuliano era sul Reno con il suo esercito quando Costanzo, geloso dei suoi successi e della sua popolarità, gli ordinò di mandare in Oriente una parte delle sue truppe. Ma i soldati si ammutinarono e lo proclamarono Augusto. Pochi mesi dopo, mentre Giuliano marciava verso Costantinopoli, la morte di Costanzo gli spianò la strada e gli dette il potere. Come lei osserva, caro Testa, la restaurazione del paganesimo avvenne senza persecuzioni nell'ambito di una politica che garantiva tolleranza per tutti i culti dell'impero. Ma Giuliano privò le chiese dei sussidi statali, restituì la terra confiscata ai templi pagani, nominò sacerdoti pagani nelle province imperiali, antepose i pagani ai cristiani nella distribuzione delle cariche pubbliche. Gli aspetti più visibilmente partigiani della sua politica furono due: la maggiore severità di cui dette prova verso i cristiani in occasione di qualsiasi disordine confessionale, e l'ordine con cui vietò ai maestri cristiani l'insegnamento dei classici. Morì nel marzo 363. Era ad Antiochia in Siria quando decise di marciare contro i persiani. Vi furono battaglie fortunate nelle quali Giuliano dette prova del suo coraggio. Ma nei pressi di Ctesifone, la città babilonese sul Tigri che era allora capitale dell'impero persiano, fu ferito a morte durante un piccolo scontro e morì. Si racconta che abbia trascorso gli ultimi momenti della sua vita parlando di filosofia con i pensatori neoplatonici che portava con sé durante le sue spedizioni. Aveva 32 anni. Non so se possa essere considerato, come lei scrive, «ispiratore della nuova Europa». Ma la sua vita, le sue passioni e le sue contraddizioni appartengono alla nostra storia e dimostrano quanto numerose e intrecciate siano le radici dell'Europa.

Sergio Romano
Corriere della sera, 04 aprile 2007

 
   
 

Le riflessioni di Fassino su Aldo Moro
Le radici negate
di Sergio Romano

Nel corso di una intervista televisiva sulla vicenda afghana di Daniele Mastrogiacomo, Piero Fassino ha detto che la ragione di Stato non può giustificare il sacrificio di una vita umana e che anche nel caso Moro sarebbe stato opportuno trattare con i rapitori. Il segretario dei Ds era nel mezzo di un teorema e voleva probabilmente spiegare le ragioni per cui la trattativa con i Talebani sembri oggi la più realistica e saggia delle vie d'uscita. Non sembra che Fassino sia contrario a tutte le guerre, indiscriminatamente. A Giovanni Minoli, se ho bene interpretato le sue parole, ha detto che in guerra le opzioni sono due: o si vince o si fa la pace con il nemico. Qualcuno potrebbe obiettare che la guerra contro i talebani è ancora in corso, che alcuni alleati dell'Italia la stanno facendo con l'intenzione di vincerla e che il consiglio di trattare con il nemico, soprattutto se viene dall'esponente di un Paese che non ha neppure accennato a combatterla, potrebbe risvegliare nell'opinione internazionale il ricordo ironico e infastidito di altri momenti di storia italiana. Ma forse è meglio tralasciare questo punto e parlare piuttosto del modo in cui Fassino ha riletto la tragica storia dello statista democristiano.

Anche quella naturalmente era una guerra. Fassino non può ignorare che in ogni guerra anomala, condotta contro una forza rivoluzionaria o un movimento di liberazione, il primo obiettivo del nemico è quello di essere riconosciuto. Le Brigate rosse non volevano denaro (il pagamento di una somma le avrebbe declassate al rango di una organizzazione criminale). Volevano acquisire la legittimità del nemico combattente e fregiarsene agli occhi del Paese per la fase successiva della loro strategia rivoluzionaria. Ritiene dunque Fassino che la battaglia per la legittimità, nel 1978, dovesse considerarsi perduta e che il sacrificio di una vita in quelle circostanze fosse assurdo? O ritiene che la perdita di una vita sia sempre e comunque da evitare?

In ambedue i casi la posizione del segretario dei Ds è totalmente diversa da quella del partito a cui apparteneva in quegli anni. Nulla di nuovo. Viviamo in un'epoca in cui è ormai facile chiedere perdono per gli errori e i peccati commessi dai propri antenati. Lo ha fatto Giovanni Paolo II per i «misfatti» della Chiesa cattolica. Lo ha fatto la regina Elisabetta per i massacri dell'esercito britannico in India. Lo hanno fatto gli uomini politici americani per il trattamento riservato agli indiani. Lo fa ora implicitamente Piero Fassino per la linea politica adottata da Enrico Berlinguer nel caso Moro. Tutti parlano delle proprie radici, delle proprie tradizioni e della necessità di preservarle, ma queste confessioni e questi «mea culpa» non possono che rimettere in discussione l'identità storica di una nazione, di un partito, di una chiesa. D'altra parte non servono a una migliore lettura della storia. Servono a chi li pronuncia per sbarazzarsi di un fardello ingombrante e avanzare più leggero verso gli obiettivi che gli sembrano in quel momento desiderabili.

Fassino ritiene che invitare i talebani a una conferenza internazionale sia il modo migliore per aiutare il governo Prodi a uscire senza troppi danni dall'imbroglio afghano. E non esita, trascinato dalla logica della sua strategia, a riscrivere la storia del caso Moro. Mi rendo conto delle sue difficoltà e non discuto qui le sue intenzioni. Ma non credo che possa spingersi, per finalità legate alla situazione di oggi, sino a rimettere in discussione il modo in cui la Dc e il Pci affrontarono uno dei momenti più difficili della storia nazionale.
Corriere della sera, 01 aprile 2007

 
   
 

La visita di Prodi nella terra di Lula
Le ambizioni del Brasile
di Sergio Romano

Durante il suo viaggio in Brasile il presidente del Consiglio renderà certamente omaggio nei suoi discorsi ai molti italo- brasiliani (almeno 18 milioni, secondo alcune stime) che hanno contribuito a creare questo straordinario Paese. Spero che non esageri e passi rapidamente a occuparsi di altre cose. Per la società che li ha accolti i nostri vecchi concittadini non sono italo-brasiliani. Sono brasiliani d'origine italiana e, soprattutto, la prova vivente, fra altre, che nelle città e nelle campagne del Brasile la parola crogiolo (il melting pot degli Stati Uniti) non è una espressione vuota. Non appena mette piede su questa terra il visitatore straniero è colpito dalla naturalezza con cui i brasiliani vivono nella loro pelle. A dispetto delle molte origini non hanno né rimpianti né nostalgie. Sono una nazione, sono fieri del loro Paese, sono convinti di avere di fronte a sé un grande futuro. Quanto più rapidamente il presidente del Consiglio chiuderà il capitolo retorico dell'emigrazione e affronterà problemi di comune interesse, tanto più gioverà ai rapporti italo-brasiliani e alla politica estera italiana.
Romano Prodi scoprirà un Paese ambizioso. L'economia potrebbe andare meglio, ma il prodotto interno lordo ha pur sempre registrato negli ultimi anni, secondo stime recenti dell'Istat brasiliano, una crescita del 3%. Il debito pubblico si aggira intorno al 45%. L'avanzo primario è stato, sin dall'inizio della presidenza Lula, superiore al 4% e permette la progressiva riduzione del debito. Vi sono ombre e fattori di debolezza: l'economia sommersa (60% della forza lavoro secondo il Financial Times), l'insufficienza degli investimenti stranieri, il peso eccessivo della burocrazia, la mediocre politica dell'educazione, le 700 favelas che incombono sulla Città di Rio con la loro esplosiva miscela di povertà, disperazione e droga. Ma il presidente Lula ha annunciato un piano di lavori pubblici che dovrebbe attirare capitali stranieri e migliorare sensibilmente comunicazioni e trasporti.
Prodi scoprirà altresì che il Brasile ha i sogni e le ambizioni di una grande potenza. Se posso azzardare un consiglio, non parli con i suoi ospiti di America Latina. Da quando il Messico e gran parte del Centro America sono entrati nell'orbita degli Stati Uniti, il campo da gioco del Brasile si chiama America del Sud. E' qui che il Paese intende imporsi come leader. Il problema maggiore, naturalmente, è rappresentato dal populismo di Hugo Chávez e dai successi che il paracadutista venezuelano ha raccolto in questi ultimi anni in Argentina, Bolivia, Ecuador, Perù, per non parlare del fraterno rapporto con Castro e dell'ossigeno con cui ha rimesso in piedi la traballante economia cubana. Mentre Lula riceveva Bush in Brasile e discuteva con lui una grande iniziativa comune per la produzione di etanolo su scala continentale, Chávez visitava Buenos Aires e lanciava rabbiose accuse contro la politica energetica brasiliana.
Ma il Brasile non si scompone. Lula ha vecchi rapporti con Chávez, nati negli anni in cui il presidente brasiliano incarnava l'ala radicale del socialismo latino-americano e sembra convinto di potere controllare le intemperanze del suo vecchio amico. Ha invitato il Venezuela nel Mercosur (l'organizzazione costituita da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay sul modello adattato e diluito del Mercato comune) e vorrebbe allargarlo alla Bolivia.
Non approva il nuovo statalismo venezuelano e lo stile autoritario della politica di Chávez, ma sembra riconoscergli il merito di avere messo all'ordine del giorno le grandi piaghe sociali del continente e di avere tenuto la testa alta di fronte agli aspetti più tracotanti della politica degli Stati Uniti. Queste manifestazioni di simpatia per la sinistra del continente, d'altro canto, non sembrano pregiudicare i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Dopo avere constatato che la metà meridionale del continente gli stava scappando di mano, Bush ha reso omaggio con un viaggio ufficiale alle dimensioni e al ruolo del Brasile nella regione. L'ambivalenza è una carta che la diplomazia brasiliana ha saputo giocare in questi mesi con particolare abilità.
Questo non significa tuttavia che le ambizioni del Brasile siano limitate alla metà meridionale del continente americano. Il Paese ha rapporti sempre più importanti con la Cina e si presenta all'Africa come una nazione con sangue africano, un cugino che ha fatto carriera al di là dell'Atlantico. Se la conversazione cadrà sul problema del Consiglio di sicurezza, Prodi scoprirà che il Brasile chiede un seggio permanente come potenza mondiale,
non regionale. E non speri che l'esistenza di una forte comunità di origine italiana induca Brasilia a tenere conto delle aspettative e dei progetti italiani per la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Quando il problema verrà in discussione il Brasile sarà nel campo della Germania, del Giappone e dell'India: i Paesi che non si accontenteranno, secondo la formula italiana, di essere soltanto semipermanenti.
Corriere della sera, 26 marzo 2007

 
   
 

Il governo e la nuova legge elettorale
Un percorso minato
di Sergio Romano

Una delle maggiori difficoltà di Romano Prodi, sin dalla formazione del governo, è stata quella di non potere organizzare la propria agenda, se non parzialmente, secondo le proprie preferenze. Ha dovuto impegnarsi quasi immediatamente nell'estenuante redazione della legge Finanziaria. Ha dovuto affrontare il problema della missione militare in Afghanistan perché occorreva rinnovare l'impegno finanziario e perché la lettera di sei ambasciatori gli chiedeva di chiarire la posizione del governo. E' stato costretto a occuparsi della base Usa di Vicenza perché gli americani, impazienti e sospettosi, gli chiedevano una prova di lealtà. Dovrà affrontare la riforma del sistema previdenziale perché glielo chiedono la Commissione di Bruxelles e le maggiori istituzioni finanziarie del mondo, pubbliche e private. E dovrà sciogliere il nodo della Tav prima della fine di settembre perché questa è la scadenza imposta dall'Unione Europea per la concessione dei finanziamenti.
Oggi, dopo la fiducia della Camera e la fine, forse più formale che sostanziale, della crisi scoppiata negli scorsi giorni, il premier ha un'altra priorità, imposta dall'alto (in questo caso il Quirinale) che non apparteneva al pacchetto dei suoi progetti: la riforma della legge elettorale. Chiediamoci perché questo tema non facesse parte del suo programma e capiremo meglio perché possa rappresentare, per le sorti del suo governo, una minaccia.
E' probabile che molti in Parlamento, dopo l'esperienza delle ultime elezioni, siano d'accordo sull'opportunità di una nuova legge che salvi il bipolarismo, riduca il numero dei partiti politici e dia risultati certi per il governo del Paese. Ma chi è favorevole a una tale legge vive nel proprio campo accanto a parlamentari che non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai vantaggi, per la sopravvivenza, di quella con cui abbiamo votato negli scorsi mesi. Occorre quindi una larga convergenza di persone appartenenti ai due campi. Occorre che i «bipolaristi» del centrosinistra e quelli del centrodestra uniscano le forze per imporre il loro disegno ai proporzionalisti dei rispettivi schieramenti. Occorre, insomma, una «larga intesa».
Suppongo che a Prodi questa strada non piacesse per tre ragioni. In primo luogo perché è inevitabilmente destinata a spaccare la sua maggioranza e a trasferire in Consiglio dei ministri i dissensi fra coloro che dovrebbero aiutarlo a governare. In secondo luogo perché richiede la collaborazione dell'opposizione e gli toglie di mano l'argomento della diversità e della discontinuità con cui ha cercato di cementare la sua traballante coalizione contro il «pericolo Berlusconi». E in terzo luogo, infine, perché l'approvazione di una nuova legge elettorale rende inevitabilmente «vecchio» il Parlamento eletto con la legge precedente e offre buoni argomenti a chi desidera la fine della legislatura.
Sono queste le ragioni per cui Prodi avrebbe preferito parlare d'altro. Ma il presidente della Repubblica ritiene che il cambiamento della legge sia una delle maggiori esigenze del momento e ha caricato il governo, nel rinviarlo alle Camere, di una nuova responsabilità. Il cammino di Prodi si è fatto quindi, se possibile, ancora più stretto e complicato. Deve affrontare temi su cui la sua maggioranza è divisa e deve lavorare per una legge elettorale che potrebbe rendere queste divisioni ancora più evidenti. E vivrà d'ora in poi sotto la spada di Damocle di un argomento che suona più o meno così: se la riforma della legge elettorale è una priorità e questo governo non riesce a farla, occorre cambiare governo.
Corriere della sera, 03 marzo 2007

 
   
 
Kemal, il leader turco che voltò le spalle all'Asia

Mi piacerebbe leggere un suo parere sulla figura di Kemal A tatürk. Un uomo che in un Paese dalle forti radici musulmane come la Turchia era riuscito a creare, presumo in modo non indolore, uno Stato laico e autonomo: rispettoso delle fedi senza essere confessionale. Considerando invece che qui da noi la politica, non importa di quale colore, risulta nel bene e nel male, sempre condizionata dalle pressioni temporali dei vescovi.

Filippo Testa

Caro Testa, non credo che Mustafa Kemal, noto come Kemal Atatürk dal 1934 (l'anno in cui la Grande Assemblea turca approvò una legge sull'anagrafe che introdusse l'uso dei cognomi) abbia avuto un concetto liberale della tolleranza. Il suo laicismo fu imposto dall'alto, con stile autoritario, e ispira ancora oggi ai magistrati turchi sentenze sull'uso del velo che sembrerebbero esagerate persino in Paesi, come la Francia, dove sono state adottate misure restrittive. Ma fu certamente un coraggioso soldato, un geniale modernizzatore e il fondatore della Turchia moderna. Nacque a Salonicco nel 1881, negli anni in cui la città greca era, con Smirne e Istanbul, il centro più brillante e cosmopolita dell'Impero Ottomano. Entrò all'Accademia militare, divenne membro del Comitato Unione Progresso (l'associazione dei "Giovani Turchi"), partecipò al movimento rivoluzionario del 1908 e fu tra gli ufficiali che entrarono a Costantinopoli, nel luglio di quell'anno, per chiedere al Sultano il ripristino della costituzione del 1876.Daallora combatté su tutti i fronti dell'Impero: a Tobruk contro gli italiani nel 1911, ad Adrianopoli contro i bulgari nel 1912, a Gallipoli contro gli inglesi e gli australiani nel 1915, nel Caucaso contro i russi nel 1916, in Siria e in Palestina contro l'esercito britannico di Allenby nel 1917. Quando fu firmato l'armistizio di Mudros, Kemal venne trasferito a Istanbul nel ministero della Guerra e assistette dalla capitale al disfacimento dell'Impero, al collasso dell'amministrazione, all'occupazione dell'Anatolia: i francesi nel vilayet di Adana, gli inglesi in quelli di Marache e Aintab, gli italiani a Konya e Antalya, i greci a Smirne, i commissari delle potenze vincitrici a Istanbul (il nostro era Carlo Sforza), le flotte alleate nel Bosforo. Fu quello il momento in cui il Gazi (veterano, in turco) ebbe un soprassalto di fierezza e divenne protagonista di un grande risorgimento nazionale. S'installò a Samsun, sul Mar Nero, come ispettore dell'esercito. Avrebbe dovuto presiedere alla sua dissoluzione, ma fece esattamente il contrario e divenne ben presto un nuovo potere, contrapposto a quello del Sultano che regnava pigramente a Istanbul. E mentre si batteva per la liberazione del territorio nazionale, convocava ad Angora (oggi Ankara) una Grande Assemblea da cui riceveva, dopo la vittoria contro i greci, il comando supremo delle forze armate. A Losanna, un anno dopo, le grandi potenze accettarono di cancellare alcune delle clausole punitive del Trattato di Sèvres e riconobbero l'esistenza di un nuovo Stato turco. Kemal, nel frattempo, aveva abolito il sultanato e creato le premesse per la proclamazione della Repubblica il 29 ottobre 1923. Da quel momento il passo delle riforme divenne straordinariamente rapido. Fu abolito il califfato. Fu riconosciuta l'eguaglianza tra i sessi. Furono vietati il fez e il velo. Vennero adottati l'alfabeto latino e il calendario gregoriano. Fu abolita la legge islamica e furono scritti nuovi codici, ispirati da quelli in vigore nei maggiori Stati occidentali (il codice di commercio venne ricavato in buona parte da quello italiano). Fu interamente rinnovata la pubblica istruzione e incoraggiata l'agricoltura, vennero estesi i trasporti e favorite le zone industriali. Un grande storico inglese, Arnold Toynbee, disse di Kemal che era stato uno dei maggiori modernizzatori della storia. Un intelligente diplomatico italiano che conobbe bene la Turchia di quegli anni, Renato Bova Scoppa, scrisse in un libro del 1933 che Kemal aveva fatto una rivoluzione contro il fanatismo dell'Islam, l'epicureismo bizantino, "il sottile veleno dell'Asia". Voleva che la Turchia voltasse le spalle al continente asiatico e offrisse "la fronte e l'anima alla luce che viene dall'Europa ". Il fatto che un Primo ministro musulmano, oggi, voglia portare il suo Paese nell'Unione europea, dimostra che Kemal ha vinto.

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 aprile 2007

 
   
 
Formazione degli imam italiani: una proposta

Per nulla originale la proposta del ministro Amato di permettere solo a imam certificati di predicare in Italia. Mi domando: chi li certificherà? Quale competenza abbiamo per poter giudicare un predicatore islamico e potergli dare il patentino per dirigere una moschea?
Si rischia in questo modo di ritrovarsi con la stessa situazione presente in Cina dove esiste una chiesa clandestina riconosciuta dal Vaticano e un'altra ufficiale con vescovi di nomina governativa: due religioni in aperta antitesi tra loro.
In Cina i vescovi cattolici fedeli al Papa vengono perseguitati, incarcerati e a volte anche torturati.
Agli imam che ora predicano la guerra santa a casa nostra sarà proibito predicare, ma questi si metteranno a ridere e continueranno a svolgere la stessa attività in nome di Allah e sempre nel suo nome, violare ogni norma o legge italiana. A questa teoanarchia noi risponderemo con inutili fogli di via e accompagnamenti alla frontiera che avranno l'effetto di tenere il fomentatore di istinti terroristici fuori dai piedi appena lo spazio di alcuni giorni.

Candido Munopano

Caro Munopano, l'imam non è né un parroco né un vescovo. Come il rabbino è un «impiegato» della sua comunità e i suoi servizi sono pagati da coloro che lo hanno assunto. Il confronto con la Cina e con le due Chiese cattoliche che esistono in quel Paese è quindi improprio. Forse il miglior modo di rispondere alle sue osservazioni è quello di riassumere una conversazione che ho avuto al Cairo, su questo argomento, con il Grande imam della università di Al Azhar, vale a dire della istituzione accademica che ha nel mondo musulmano un ruolo eminente e viene spesso descritta, con qualche esagerazione, «il Vaticano dell'Islam». Il Grande imam si chiama Mohamed Sayed Tantawi, è nato nel 1928, è dottore in esegesi coranica dell'Istituto religioso di Alessandria e ha alle sue spalle una lunga carriera accademica. Il palazzo in cui lavora riprende alcuni motivi tradizionali dell'architettura islamica e ha la forma di un leggio che si apre come le mani spalancate di un credente per accogliere il libro in cui è racchiusa tutta la sapienza dell'Islam. Quando l'imam di Al Azhar parla, il mondo musulmano ascolta attentamente. Quando rende pubblica una fatwa le sue parole hanno una influenza decisiva sul pensiero di parecchie centinaia di milioni di sunniti sparsi nel mondo. La conversazione è caduta anzitutto sugli egiziani che vivono in Italia e più generalmente in Europa. Tantawi mi ha detto che sono partiti per cercare lavoro, non diversamente dagli europei che vennero in Egitto, soprattutto dopo l'apertura del canale di Suez. Come tutti gli emigranti, ha aggiunto, hanno il diritto di essere trattati «adeguatamente», ma debbono obbedire alle leggi dello Stato che li ha accolti. Se non obbediscono alle leggi, il Paese che li ospita ha il diritto di giudicarli e punirli. Se sorgono questioni controverse hanno il diritto di tornare in patria. Ho spiegato al Grande imam che si era molto discusso in Italia del funzionamento della Consulta islamica (creata dal ministro Pisanu, oggi presieduta da Giuliano Amato) e della formazione degli imam che debbono svolgere le loro funzioni nelle nostre città. Sarebbe utile, per esempio, istituire in qualche nostra università, d'intesa con le autorità islamiche, un corso di formazione per imam italiani? Mi ha risposto che l'Italia ha accettato i musulmani sul suo territorio e deve fare quindi ciò che ritiene opportuno. «Se un imam si comporta male potete rimandarlo al suo Paese d'origine e trattenere quelli che giovano all'Italia». I corsi di formazione sono stati suggeriti dal Coreis (l'associazione che riunisce gli italiani di confessione musulmana) e mi sembrano una buona idea. È importante che gli imam parlino italiano, conoscano la Costituzione e le leggi della Repubblica, sappiano quali sono i limiti che le autorità religiose non debbono scavalcare. Ma i corsi non bastano. Occorre altresì che l'imam sia espressione della comunità di cui è il servitore, non l'agente delle fondazioni o dei governi stranieri che contribuiscono finanziariamente alla costruzione e al funzionamento di una moschea. Se le comunità musulmane non sono ancora in grado di assumere questo impegno, il governo italiano potrebbe intervenire con qualche contributo finanziario. Come lei sa, caro Munopano, esiste l'8 per mille, vale dire la regola che permette ai cittadini italiani di devolvere una piccola percentuale del loro reddito alla Chiesa di cui sono fedeli. La conclusione di un accordo con le comunità islamiche è stata resa sinora impossibile dalla mancanza di un interlocutore autorizzato ad assumerne la rappresentanza. Ma lo Stato italiano, in attesa di tempi migliori, potrebbe favorire la nascita di una fondazione italiana e attribuirle una somma corrispondente a un teorico 8 per mille, calcolato sul redditi dei musulmani che pagano le tasse in Italia. Gli imam, in tal caso, non dipenderebbero più da enti stranieri, ma dalla fondazione italiana che contribuisce alla costruzione delle moschee e paga i loro stipendi. Non è semplice, ma forse vale la pena di provare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 07 aprile 2007

 
   
 
Qualche argomento contro le «quote rosa»

A proposito delle «quote rosa» ovvero della riserva per legge di cariche elettive alle donne, vorrei osservare che, nonostante la benevolenza apparente del Parlamento, un provvedimento che imponesse di garantire posti al gentil sesso mi parrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, sebbene l'articolo 3 della Costituzione, che sancisce tale principio, sia ambiguo e perfino contraddittorio perché il primo comma (uguaglianza legale) non si concilia con il secondo (uguaglianza materiale). Comunque a me pare una verità di per sé evidente (Thomas Jefferson) che favorire le donne come tali costituisca una discriminazione appunto in base al sesso, perciò vietata dalla Costituzione due volte, in quanto attribuisce un vantaggio alle femmine e uno svantaggio ai maschi.
Aggiungo che le donne degne di questo nome non approvano affatto questa pseudoparificazione ottenuta mediante una protesi legislativa non solo indubbiamente incostituzionale, ma anche d'implicito significato maschilista e paternalista.

Pietro Di Muccio de Quattro - Roma

Caro Di Muccio de Quattro, le «quote rosa» sono una variante della politica che gli americani cominciarono a praticare parecchi anni fa sotto il nome di «affirmative action». Per superare la discriminazione di cui sono vittime alcune minoranze etniche (in particolare i neri), il governo degli Stati Uniti decise di favorire la loro carriera con qualche incentivo e qualche penalizzazione, soprattutto nei mestieri e nelle carriere che godono di benefici statali. Il settore in cui gli incentivi e le penalizzazioni vengono maggiormente praticati è naturalmente quello della educazione. L'operazione ha dato risultati buoni e cattivi. È accaduto che i neri e altre minoranze si scontrassero con minori ostacoli. Ma è accaduto altresì che alcune università, chiamate a esaminare candidature di docenti, scegliessero il professore di colore invece del bianco, anche se la qualità del primo era inferiore a quella del secondo. In Europa invece si è preferito applicare, soprattutto in politica, il metodo delle quote. Paradossalmente è un sistema che in altri tempi fu utilizzato con animo opposto: quello di impedire che certe minoranze fossero presenti, soprattutto nelle università, con percentuali «troppo» elevate. E' il caso dell'Impero zarista dove il numero degli ebrei nelle università statali fu soggetto a una sorta di calmiere. Ed è il caso dell'Urss che adottò lo stesso metodo per alcuni gruppi etnico- nazionali dell'Unione. Sono d'accodo con lei: il sistema delle quote rosa è certamente illiberale anche e soprattutto perché sovrimpone il criterio dell'equilibrio fra i generi a quello del merito. Ma esistono altre ragioni, più sostanziali. Le donne formano una categoria sociale particolare. Nelle società europee sono state spesso oggetto di una evidente discriminazione, anche giuridica. La famiglia è stata lungamente regolata dai principi della «patria potestà» e della trasmissione dei beni ai figli maschi. La donna ha avuto il diritto di voto soltanto nel Novecento. Le prime lauree femminili risalgono agli inizi del secolo scorso. E nel mondo dell'educazione vi furono anni, non molto lontani, in cui le insegnanti venivano relegate nelle aule delle scuole elementari. Ma la letteratura cortese le ha esaltate. Le monarchie non hanno esitato a collocarle sul trono. La Chiesa le ha santificate. Il culto mariano le ha nobilitate. La letteratura e l'arte ne hanno riconosciuto, anche se tardivamente, i talenti. Mi rendo conto che il loro potere, quando l'hanno conquistato, era troppo spesso il risultato della loro attrazione o della loro situazione familiare. Ma pochi contemporanei pensarono che Isabella di Castiglia, Elisabetta d'Inghilterra, Caterina de' Medici o Caterina di Russia fossero esseri inferiori. Vi è poi un'altra considerazione, caro Di Muccio, di cui occorre tenere conto. Il metodo delle «quote rosa» è fondato sul principio «femminista» che le donne vogliano, tutte o quasi, fare il mestiere degli uomini. E ignora il fatto che molto donne siano soprattutto desiderose di fare quelli per cui hanno una insostituibile vocazione naturale. Fare la madre è un mestiere. Educare i figli è un mestiere. Governare la famiglia è un mestiere. Pretendere che le donne facciano soltanto quelli è maschilismo. Supporre che quei mestieri siano meno importanti di una carriera politica o aziendale, è stupido.

Sergio Romano
Corriere della sera, 10 aprile 2007

 
   
 
Afghanistan: una tragedia ne nasconde un'altra

Ho letto la risposta di Fassino al suo editoriale che spiegava la liberazione di Mastrogiacomo, l'assassinio di Aldo Moro e la possibilità che un Governo ha nel trattare o meno con persone che usano come baratto la vita umana. Vorrei solo che Fassino leggesse uno stralcio di una lettera inviata da una persona che da anni lavora in Afghanistan. Magari qualcuno potrebbe cambiare idea. «Sul rapimento e la liberazione di Mastrogiacomo abbiamo letto molti pensieri, nessuno però che provenisse dal Paese dove è avvenuto il rapimento. Ero a Kabul quando è stato rapito e liberato, e chiedo, a titolo personale: perché un governo che deve occuparsi di decine di milioni di cittadini, alcuni dei quali sparsi per il mondo, si dedica a uno solo dei suoi figli in pericolo, mentre quello stesso giorno, come ogni giorno, altre vite sono pure in pericolo o si spengono nell'indifferenza, mentre urgenti bisogni collettivi aspettano? Quel figlio speciale è stato rapito mentre faceva il suo lavoro rispettando le norme di sicurezza raccomandate a chiunque sia in Afghanistan? Ha pensato a non mettere a rischio altre vite, oltre che la sua? Sapeva che chi ha scelto la via dell'imprudenza ha pagato a volte con la morte? Perché i suoi colleghi non hanno seguito quella strada pur avendo lo stesso diritto-dovere di informare? Ma qual è il prezzo pagato per Mastrogiacomo? Oltre al tempo del governo e ai lunghi giorni in cui un'ambasciata coraggiosa, sovraccarica e straordinariamente reattiva, che svolge un sottile lavoro diplomatico mentre si è improvvisamente trovata impastoiata dall'imperativo di salvare un giornalista. Quanto è costato questo giornalista, in moneta, in delicati equilibri infranti e in vite umane, già pagate o messe a repentaglio dalla sua liberazione? Quanti talebani vale un italiano? E quanti autisti, interpreti, insomma quanti afghani possono essere sacrificati all'informazione? Perché mentre molte organizzazioni umanitarie agiscono in silenzio, lasciando la politica a chi compete, il leader di una delle tante, di innegabile valore e dichiaratamente neutrale, parla pubblicamente di politica in modo non neutrale?».

Silvano Stoppa

Caro Stoppa, mi è parso che gli interrogativi del suo corrispondente a Kabul meritassero di essere pubblicati. Per quanto mi concerne mi limito a inserire in questo quadro una storia che i lettori italiani probabilmente non conoscono e che ho appreso leggendo un articolo di Kathleen McGowan (assistente dell'ambasciatore americano a Kabul dal 2003 al 2004), apparso nell'International Herald Tribune del 3 aprile sotto il titolo «A deal with the devil» (un patto col diavolo). Uno dei cinque prigionieri rilasciati dal governo afghano si chiama Abdul Latif Hakimi. Fra il 2004 e il 2005 viveva a Qetta, in Pakistan, e rilasciava dichiarazioni, come portavoce dei talebani, in cui annunciava trionfalmente le sanguinose operazioni condotte dai suoi confratelli in quel periodo. I pachistani si decisero ad arrestarlo, probabilmente su pressante invito del governo di Londra, nell'ottobre del 2005, quando Hakimi rivendicò le proprie responsabilità nell'assassinio di due civili britannici (uno di essi, aggiunge Kathleen McGowan, «era il mio fidanzato»). Hakimi sostenne che i due uomini erano stati uccisi per ordine del mullah Obaidullah Akhund, allora vicario del mullah Omar, leader dei talebani. L'interesse politico della vicenda, secondo Kathleen Mc- Gowan, è nello stato dei rapporti fra l'Afghanistan e il Pakistan. Il presidente Karzai sostiene pubblicamente (lo ha fatto anche in una recente intervista) che le zone tribali del Pakistan vengono utilizzate dai talebani per le loro operazioni al di là della frontiera afghana. Recentemente europei e americani hanno fatto pressioni sul generale Musharraf perché desse ordine di colpire i nuclei talebani che hanno trovato accoglienza nel suo Paese. Di tanto in tanto il governo pachistano arresta un guerrigliero terrorista e lo consegna agli afghani. È questa la ragione per cui Hakimi, qualche mese fa, finì in un carcere di Kabul. Ma ora, si chiede Kathleen McGowan, a quale segnale proveniente da Kabul dovrebbe dare retta il generale Musharraf? Dovrà prestare attenzione a coloro che gli chiedono di arrestare i talebani in Pakistan? O a coloro che li liberano per venire incontro alle richieste di un governo europeo che è in Afghanistan, almeno formalmente, per impedire che il Paese cada nuovamente nelle mani dei talebani?

Sergio Romano
Corriere della sera, 11 aprile 2007

 
   
 
Perché la fedeltà, in Italia, conta più del merito

Il «male oscuro» dell'Italia è la mancanza di meritocrazia.
Ovviamente, tranne eccezioni, la realtà è la seguente: Tizio è bravo, ma Caio è amico mio, quindi scelgo Caio. Questo sistema in voga da decenni, ha fatto sì che nella vita pubblica e in particolare nella vita politica, si sia verificata la legge di Gresham secondo la quale la moneta cattiva scaccia la buona dalla circolazione.
Un grande filosofo del diritto, Giorgio Del Vecchio, mi diceva a questo proposito che «i mediocri istintivamente si coalizzano contro chi non lo è»: la congiura dei mediocri.
Si tenga presente, a questo proposito che l'unico grande statista italiano, Alcide De Gasperi, quando morì, era già stato «fatto fuori» dal suo partito.

Ugo de Leone

Caro de Leone,
non credo che De Gasperi sia stato l’unico grande statista italiano. Ve ne furono di altri, da Cavour a Marco Minghetti, da Quintino Sella a Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi.Ma la sua osservazione sulla scarsa importanza del merito nella selezione di coloro che debbono occupare posti di responsabilità è purtroppo giusta. Il fenomeno non è recente.
La società italiana ha sempre avuto una struttura familiare e corporativa.Non penso soltanto alla famiglia naturale. Penso alle «famiglie» degli ordini professionali, delle categorie di mestiere, delle organizzazioni sindacali, del mondo accademico, delle grandi dinastie aziendali, delle piccole e medie imprese. In ciascuna di queste cellule della società italiana, piccole o grandi, la sopravvivenza del gruppo è assicurata dalla fedeltà, dalla lealtà, dall’amicizia, dalla solidarietà e dallo scambio di reciproci favori tra i suoi membri. Le professioni e i mestieri si trasmettono di padre in figlio. Le piccole aziende restano nell’ambito familiare e rinunciano spesso a crescere per non esporsi ai rischi della Borsa e del mercato.
Persino nelle grandi imprese il problema della successione familiare può divenire la principale preoccupazione del proprietario.
Gianni Agnelli fu un uomo moderno, aperto a tutte le innovazioni e correnti di opinione.
Mail suo maggiore desiderio, nell’ultima parte della sua vita, fu quello di trovare fra i congiunti un giovane che assicurasse la continuità del controllo familiare.
Anche in politica, caro de Leone, vale il principio della cooptazione. I giovani entrano nei partiti al modo in cui i cittadini staccano un biglietto numerato e si accomodano nella sala d’aspetto di un ufficio pubblico sino al momento in cui non verrà finalmente il loro turno.
Piuttosto che farsi avanti e tentare la sorte èmeglio portare borse, rendere servizi al leader, salire un gradino alla volta la scala del potere. È questa la ragione per cui la classe dirigente è in Italia generalmente più vecchia di quella di altre democrazie occidentali. Accade persino nelle primarie, vale a dire nella formula elettorale che fu concepita per cortocircuitare i meccanismi della cooptazione.
Perché nessun «giovane rampante» è uscito dai ranghi per presentarsi contro Prodi quando il leader dell’Ulivo decise di chiedere una investitura popolare? Perché i più accreditati protagonisti francesi delle prossime elezioni presidenziali sono cinquantenni e quelli delle ultime elezioni politiche italiane (anno più, anno meno) settantenni?
Il principale risultato di questa cultura familiare e corporativa è lo scarso dinamismo della società italiana. Le organizzazioni che non vogliono esporsi al vento della concorrenza cercano di conservare i loro privilegi, le loro sinecure, le norme legislative che delimitano e proteggono l’orto della loro attività.
Molti professori, ad esempio, sono contrari all’abolizione del valore legale del titolo di studio perché desiderano evitare che le università si facciano concorrenza. Ogni laureato, di conseguenza, si considera eguale agli altri e ritiene di avere egualmente diritto a un impiego, possibilmente pubblico.
Il guaio, caro de Leone, è che l’Italia non vive sotto una campana di vetro. Vive in un mondo in cui il criterio per selezionare i dirigenti di domani è quello del merito e dove corre di più, nella gara fra le nazioni, il Paese che lo applica con maggiore rigore.

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 aprile 2007

 
   
 
Il Pci nel caso Moro: pentimenti e ripensamenti

Ho letto il suo editoriale sul Corriere dell'1 aprile, in cui rimprovera a Piero Fassino di avere rinnegato le sue radici "sino a rimettere in discussione il modo in cui la Dc e il Pci affrontarono uno dei momenti più difficili della storia nazionale " ovvero rifiutando di negoziare la liberazione di Aldo Moro da parte delle Br. Curiosa la preoccupazione, da parte sua e del Corriere, di salvaguardare le radici (comuniste) di Fassino, ma i problemi posti dal suo ragionamento sono ben altri. 1. Lei premette che "in ogni guerra anomala, condotta contro una forza rivoluzionaria o un movimento di liberazione, il primo obiettivo del nemico è di essere riconosciuto". Non so da quale casistica lei tragga questa bizzarra convinzione. Ad esempio, i rivoluzionari francesi del 1789 o l'Fln algerino avrebbero, rispettivamente, tratto la loro legittimazione dall'assalto alla Bastiglia e dall'attacco alle truppe occupanti l'Algeria e non, piuttosto, da qualche forma di riconoscimento ufficiale da parte del potere costituito? O lei pensa che il giuridicismo italiano sia forte al punto di permeare persino le Br? 2. Nel caso di un rapimento, sono in discussione due schemi di valori e di comportamento: prevale la ragion di Stato o, invece, quella della vita umana, in quel preciso momento sottoposta a ricatto? In occasione del rapimento di Moro, Piero Fassino (o, piuttosto, il Pci, di cui egli era giovane dirigente), privilegiò la prima. Oggi il caso Mastrogiacomo lo spinge a rivedere la sua posizione, scegliendo la seconda. Da parte mia ritengo che la scelta di allora, da parte del Pci, fosse obbligata perché a sua volta sottoposto ad un ricatto tutto politico. Se esso avesse scelto diversamente, sarebbe stato accusato di contiguità nei confronti delle Br, pur avendo la sinistra a sua volta subito diverse perdite. Ma, come noto, gli esami, in quanto strumentali, non finiscono mai. Bisogna risalire alla scissione di Livorno per comprendere le ragioni che impedirono al Pci di adottare la linea di comportamento prescelta in quella occasione dal Psi. L'unico invito che mi sento di rivolgere a Fassino è quello di proseguire il suo ragionamento, fino a riflettere sulla decisione con cui fu spezzata l'unità storica del socialismo, così facilitando l'avvento del fascismo in Italia. 3. A lei e al Corriere di oggi consiglierei prudenza, nella celebrazione postuma del così detto partito della fermezza che costò la vita ad Aldo Moro, ricordando il ruolo di punta che vi giocò il Corriere di allora, diretto da Di Bella e controllato da Tassan Din, successivamente risultati membri della Loggia P2.

Gian Giacomo Migone

Caro Migone, la sua lunga lettera contiene alcune riflessioni interessanti e merita di essere pubblicata integralmente. Ma prima di tentare una risposta debbo ricordare al lettore che lei è storico e professore dell'università di Torino, ma è stato altresì per qualche anno in politica come senatore eletto nella lista dei Ds per tre legislature e presidente della Commissione Affari esteri del Senato dal 1998 al 2001. Quando commenta le parole di Piero Fassino sul caso Moro e la linea del Pci durante quella tragica vicenda, lei parla dunque come studioso e contemporaneamente dall'interno di una famiglia politica che discende dal partito comunista. Mi sembra che nella sua lettera vi siano almeno quattro punti su cui lei mi invita implicitamente a replicare. Il primo punto concerne le finalità delle Brigate Rosse. A suo giudizio una forza rivoluzionaria e un movimento di liberazione non sarebbero mossi da aspirazioni giuridiche. Combattono con le armi di cui dispongono, vogliono assestare duri colpi allo Stato, disprezzano l'ordine che vogliono rovesciare e non gli chiedono benedizioni legali. È questa indubbiamente la linea che emerge dalle loro pubbliche dichiarazioni. Ma se il nemico non crolla su se stesso, come accadde della Repubblica russa nell'ottobre del 1917, il loro successo dipende dalla possibilità di essere accettati e riconosciuti come esponenti di forze che non possono essere trattate alla stregua di organizzazioni banditesche. Il Fronte nazionale di liberazione algerino cominciò a vincere quando il generale de Gaulle dichiarò che occorreva una "paix des braves", una pace dei guerrieri. L'Ira (Irish Republican Army) divenne un interlocutore, sia pure per il tramite di un partito amico (il Sinn Fein), quando Londra accettò di liberare i suoi prigionieri detenuti nelle carceri britanniche. Il secondo punto concerne il ricatto a cui il Pci, nel caso Moro, sarebbe stato soggetto. È vero. Se avessero adottato una linea morbida, i comunisti sarebbero stati accusati di avere con le Br un rapporto di simpatia, se non addirittura di connivenza. Ma lei, come storico, non può ignorare, caro Migone, che ogni decisione politica obbedisce a numerose motivazioni concorrenti. Al là di ogni legittima speculazione sui molti possibili moventi, gli studiosi si limiteranno a constatare che il Pci, in quel momento, ritenne la difesa dello Stato piu importante di qualsiasi altra considerazione. Il terzo punto infine concerne le ragioni per cui un gruppo di socialisti italiani (Bordiga, Gramsci, Terracini, Togliatti) lasciò il partito socialista nel gennaio 1921 per fondare a Livorno il Partito comunista d'Italia. È probabile che quella decisione abbia indebolito il fronte socialista e reso più difficile la lotta contro il movimento fascista. Ma nell'orizzonte del nuovo partito vi erano in quel momento altri fattori, considerati più importanti: la grande rivoluzione bolscevica, la nascita della Terza Internazionale a Mosca nel marzo del 1919, la nascita del partito comunista francese a Tours nel dicembre 1920. Non è necessario simpatizzare con gli ideali comunisti per rendersi conto dell'importanza che questi avvenimenti ebbero allora per la sinistra europea. Ultimo punto. Lei sembra pensare, caro Migone, che chiunque giustifichi la linea adottata nel 1978 da Andreotti, Cossiga, Berlinguer, La Malfa e Pecchioli, corra il rischio di identificarsi con la strategia della P2. Ma io ricordo che il Corriere in quel periodo si espresse soprattutto attraverso gli editoriali di Leo Valiani, e penso che possa andarne orgoglioso.

Sergio Romano
Corriere della sera, 13 aprile 2007

 
   
 

Intervista con l’ex ambasciatore Sergio Romano a cinquant’anni dai Patti di Roma
Un’Europa un po’ indebolita ma ancora ricca di sogni
I sei fondatori hanno perduto parte del loro ruolo
L’idea iniziale di un’unità politica si è diluita ma non è evaporata
Il gran rifiuto della Costituzione deve ancora essere davvero compreso
A differenza degli Usa Bruxelles non pensa di risolvere problemi con la guerra

Il 25 marzo 1957, Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Olanda e Repubblica Federale tedesca, subito ribattezzati “I magnifici sei”, siglarono i trattati di Roma, il primo assetto economico e politico per un’Europa unita e in pace dopo secoli di guerre intestine. Ma cinquant’anni dopo, qual è la situazione che è derivata da quella storica giornata? Ne discutiamo con l’europeista e storico Sergio Romano, saggista ed editorialista del Corriere della Sera.
Cos’è rimasto in piedi dell’idea iniziale della comunità europea, cinquant’anni dopo i trattati di Roma?
«Si è diluita, ma non è evaporata l’idea degli Stati Uniti d’Europa che in qualche modo era il progetto forte all’origine dei trattati di Roma. Il progetto politico esiste ancora e si continua a parlare della necessità di una politica estera europea, di una politica militare europea e di un ministro degli esteri europeo che era previsto dalla Costituzione, anche se quel progetto, meno sentito da una parte importante della società europea, è diventato minoritario».
Quali progetti sono stati realizzati?
«I successi sul piano economico e finanziario sono stati straordinari. Soltanto il sentimento di pessimismo diffuso di questi ultimi anni può nascondere l’importanza di quello che è stato realizzato: una moneta unica, una politica agricola comune, molto criticata ma straordinariamente federale, molto più di quanto non lo fosse la politica agricola degli Stati Uniti durante buona parte dell’Ottocento. Gli stessi americani sono arrivati alla moneta unica, nel senso del dollaro con lo stesso valore per tutti gli stati della federazione, soltanto agli inizi del Novecento».
Non è preoccupante, quindi, che l’Euro non sia stato adottato da tutti gli stati europei?
«Non lo trovo preoccupante e, anzi, mi sembra importante che si vada delineando all’interno dell’Unione Europea, soprattutto dopo l’allargamento, un gruppo che si distingue per la sua maggiore volontà unitaria. L’allargamento ha completamento cambiato le dimensioni, ma anche la natura stessa dell’Unione Europea perché sono entrati paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca che non condividono minimamente il progetto ideale originale, fortemente indebolito con il passare degli anni, ma che sopravvive. Questi nuovi hanno un’altra storia, un’altra cultura, vengono da altri orizzonti».
Questo gruppo ristretto riuscirà comunque a integrarsi con gli altri paesi?
«È fortemente motivato a farlo dal fatto che non si può avere una moneta comune se non si procede contemporaneamente sulla strada di una maggiore integrazione economica e finanziaria».
Il rifiuto della Costituzione da parte di alcuni paesi, come va valutato?
«Il dramma non è che la Costituzione non sia amata da un certo numero di Paesi come la Polonia, perché se il diniego fosse arrivato soltanto da quei Paesi che non condividono i princìpi originali dell’integrazione europea, almeno avremmo un po’ di chiarezza. Purtroppo il diniego è arrivato da due paesi fondatori, dalla Francia e dai Paesi Bassi, e quel diniego è stato superficialmente interpretato come euroscetticismo. Certo, in quel diniego c’era anche molto euroscetticismo, ma c’erano anche tanti altri ingredienti».
Quali?
«Prima di tutto il timore che questa Europa fosse poco sociale. Non c’è dubbio che in una gran parte della società francese la preoccupazione esisteva, e quel diniego è stato anche una reazione negativa all’eccessivo allargamento dell’Unione interpretato come libertà di circolazione per fasce di popoli non necessariamente vicini a noi per tradizione storica e culturale. Quel diniego è molto ambiguo e non è facilmente interpretabile, ma è grave perché viene da due paesi fondatori. È qui la crisi dell’Europa».
Quale ruolo hanno oggi i sei Paesi fondatori nell’ambito della comunità europea allargata?
«In questo momento i sei paesi fondatori hanno un ruolo molto modesto. Sarei portato a dire che non ne hanno alcuno. Perché questo gruppo non è tale se non esiste la Francia che è il paese fondatore per eccellenza ed è l’autore di quasi tutte le maggiori iniziative europeiste prese dall’inizio degli anni Cinquanta in poi. Senza la Francia non saremmo quello che siamo e non avremmo quello che abbiamo. Il fatto che in questo momento la Francia sia del tutto irrilevante nel gruppo dei sei, rende il gruppo inesistente».
Perché la Francia è irrilevante?
«Perché è il luogo in cui c’è stato un referendum con le interpretazioni contraddittorie che sappiamo, e in questo momento è in piena campagna elettorale. Siccome nessuno ha capito bene quale sia la natura del no francese alla Costituzione, i candidati si tengono molto sulle generali ed evitano di prendere una decisione netta sul tema dell’Europa perché temono di giocarsi la partita elettorale. Chiunque sia eletto alla presidenza della repubblica dovrà però prendere atto del ruolo della Francia nell’Unione Europea alla quale non può voltare le spalle, e se vuole conservare un ruolo eminente dovrà essere propositiva».
Che peso ha l’Europa in campo politico internazionale?
«L’Europa non ha alcun peso nella politica internazionale anche a causa dell’allargamento, ma non soltanto. In questi ultimi tempi l’Europa si è spaccata due volte sui grandi temi di politica internazionale. E la spaccatura è stata così evidente da rendere del tutto impossibile una linea di politica internazionale comune».
In cosa consistono le spaccature?
«Ci siamo spaccati sui rapporti con gli Stati Uniti nel 2003 al momento dello scoppio della guerra irachena alla quale alcuni paesi erano contrari. Adesso c’è una spaccatura sui rapporti con la Russia, ancora una volta provocata da una iniziativa americana».
Quale?
«Gli americani vogliono installare missili e antimissili in Polonia e un radar nella Repubblica Ceca. La Polonia e la Repubblica Ceca sono d’accordo, ma la Germania no. Gli altri stanno un po’ zitti perché stavolta oltre ai rapporti con gli Stati Uniti, sono in gioco anche quelli con la Russia. Se l’Unione Europea accetta di ospitare sul proprio territorio missili e antimissili americani, la giustificazione secondo cui quegli armamenti sono installati lì per colpa dell’Iran è difficilmente credibile e la Russia potrebbe congetturare».
Ma perché la Russia non entra a far parte dell’Europa?
«La Russia non ha nessuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità. Chi entra nell’Europa, deve sapere che questa adesione comporta la progressiva rinuncia alla propria sovranità. Ogni volta che passa una legge a Bruxelles perdiamo un pezzettino autonomia. La Russia ha un’altra storia, una dimensione continentale, un altro sentimento della sua identità e non ha mai partecipato al progetto europeo come i paesi dell’Europa Occidentale. Quando Berlusconi diceva vogliamo i russi nell’Unione Europea, Putin sorrideva perché lo prendeva per un complimento da salotto».
Perché la Germania si oppone ai missili in Polonia?
«La Germania sa che l’Unione Europea deve avere con la Russia un buon rapporto perché è una grande potenza con la quale ritiene utile e opportuno andare d’accordo per ragioni politiche ed economiche. La Russia è un grande mercato e un grande fornitore di energia, ed è nostro interesse che ci guadagni; non eccessivamente, ma quanto più la Russia cresce, tanto più crescono le nostre possibilità di concorrere alla crescita della sua economia. Il concetto dei rapporti eurorussi è condiviso dall’Italia e da molti altri Paesi; non lo condivide la Polonia assieme a quei paesi che abbiamo recentemente acquisito perché hanno un forte pregiudizio antirusso nella loro identità».
Qual è la politica estera dell’Europa nei confronti della guerra in Iraq e del terrorismo islamico?
«Con il terrorismo islamico, l’Europa ha una linea molto diversa da quella degli Stati Uniti che ritengono la lotta contro il terrorismo islamico una guerra che ha prodotto alcuni risultati disastrosi fra cui il conflitto iracheno. Noi pensiamo che il terrorismo islamico non vada confuso, né con l’Islam in generale, né con la linea politica dei maggiori paesi musulmani, e occorre stare molto attenti ed evitare che questo fenomeno sia interpretato e percepito nell’Islam come una guerra contro di loro. Con l’Islam l’Europa ha una linea che gioca molto di più sulla funzione delle polizie, dei servizi di intelligence, sul monitoraggio dei circuiti finanziari. È una linea che ha dato dei risultati: basta vedere il numero di complotti sventati, i processi nel corso di questi ultimi anni dopo Madrid e Londra».
Quanto l’Iran preoccupa l’Europa?
«Sull’Iran, l’Europa, per un certo momento ha avuto una linea diversa da quella degli Stati Uniti. Adesso mi pare che l’Europa si sia molto avvicinata alla linea americana, ma anche gli americani si sono avvicinati alla linea europea perché per molto tempo erano del tutto contrari persino all’ipotesi di indirizzare delle proposte all’Iran. Pur di ottenere che l’America entrasse in questo ordine di idee, l’Europa si è avvicinata all’America e ha adottato una linea più rigorosa di quella che aveva precedentemente. Però una linea iraniana l’Europa ce l’ha».
Quali obiettivi deve raggiungere l’Europa a breve?
«La prossima scadenza è anche la cosa più urgente da fare: rimettere la costituzione in dirittura d’arrivo. Non il testo sottoposto a referendum in Francia e in Olanda, dal quale probabilmente bisognerà estrarre le regole di lavoro, prevedere maggiori poteri al Parlamento e la modifica del sistema di voto rispetto al trattato di Nizza. Questi sono gli obiettivi della presidenza tedesca e il problema passerà certamente alla presidenza portoghese».
Secondo lei, è giusto festeggiare questo cinquantenario?
«Che sia giusto festeggiarlo mi sembra evidente. Il clima pessimistico ed euroscettico di questi ultimi anni ha un po’ offuscando la ricorrenza. Un grande settimanale americano ha elencato tutti i vantaggi che la società europea ha ricavato da questo processo di integrazione. Sono tanti, e tutti importanti».
MessaggieroVeneto 27 marzo 2007

 
   
 

La commistione degli interessi
di Sergio Romano

Dopo il ritiro di At&t dalla partita per l'acquisto di Telecom il quadro è cambiato. Ma il mutamento di proprietà rimane all'ordine del giorno. E diventa ancora più interessante, in questa nuova situazione, il modo in cui l'Unità di ieri, con un articolo di Rinaldo Gianola, ha riferito e commentato la possibilità che Silvio Berlusconi e Roberto Colaninno si mettano d'accordo, con la benedizione di Mediobanca, per conservare l'azienda all'Italia. Il tono è quello leggero di un giornalista che ha raccolto notizie interessanti e le comunica ai lettori con un pizzico di distaccata ironia. Vi sono alcuni passaggi sul conflitto di interessi di Berlusconi e sulle possibili ricadute politiche di una tale operazione, ma trattati con la levità e il garbo di chi preferisce concentrare la sua attenzione su una delle tante vicende che rendono la vita sorprendente.
Suppongo che qualche vecchio lettore dell'Unità abbia sbarrato gli occhi leggendo questo articolo nel suo quotidiano preferito mentre Berlusconi approvava il pugno di ferro con cui Vladimir Putin ha disperso i manifestanti di Mosca e San Pietroburgo. Quando il leader di Forza Italia approfittò di una conferenza stampa a Roma per difendere la politica cecena del presidente russo, tutta la sinistra commentò le sue parole con indignazione. Come ricorda l'autore dell'articolo, Colaninno è l'imprenditore che acquistò Telecom con l'approvazione di Palazzo Chigi quando il presidente del Consiglio era Massimo D'Alema. Mentre Berlusconi è il leader politico a cui la sinistra ha attribuito quasi tutte le sventure della politica italiana dell'ultimo decennio. Ma nell'articolo non vi sono né riprovazione né indignazione. Qualcuno si sarà chiesto se non stia apparendo all'orizzonte un compromesso storico tra finanza rossa e finanza azzurra, non meno importante di quello che Enrico Berlinguer annunciò dalle colonne di
Rinascita dopo il colpo di Stato cileno del settembre 1973.
Non sono in grado di prevedere l'esito di questa iniziativa, soprattutto in un momento in cui il ritiro dalla partita di At&t crea la possibilità di scenari diversi. Realistica o meno, l'ipotesi riferita dall'Unità e il modo in cui è stata presentata dal giornale di Antonio Gramsci suggeriscono tuttavia almeno due riflessioni.
In primo luogo, Telecom deve restare italiana e questo obiettivo è più importante di qualsiasi altra considerazione. Nazionalismo economico? Desiderio di conservare al Paese uno dei pochi «campioni» che gli sono rimasti? Forse, ma soltanto in parte. Al fondo del problema esiste un'altra ragione. Il mondo della politica (governo, partiti, sindacati) vuole interlocutori nazionali perché teme, con ragione, che i proprietari stranieri rifiuterebbero di giocare la partita con le regole a cui siamo abituati. Si ridurrebbe drasticamente lo spazio per i salvataggi, la cassa integrazione, i pensionamenti anticipati, i tavoli sindacali con la partecipazione del governo. Le grandi aziende devono restare italiane perché con gli italiani si tratta e, prima o dopo, ci si mette d'accordo. Con gli altri è più difficile.
In secondo luogo non bisogna mai prestare troppa attenzione ai sanguinosi insulti e alle terribili accuse che gli opposti schieramenti italiani si scambiano al di sopra del fossato che li divide. Quel fossato, in realtà, è un rigagnolo che può essere attraversato in un senso o nell'altro senza rossore e imbarazzi non appena le circostanze e gli interessi suggeriscono un cambiamento di fronte. Non vorrei che qualcuno definisse questo stile «realista». Il realismo è una virtù seria che occorre praticare con un forte rigore morale. Questo è soltanto una forma di opportunismo o, peggio, di scetticismo disincantato e amorale.
Corriere della sera, 17 aprile 2007

 
   
 
Una proposta dimenticata per liberare Moro

Poiché si stanno moltiplicando i richiami alla tragica vicenda Moro, può forse valere la pena di rendere noto un altro ricordo di cui purtroppo sono l'ultimo ad avere memoria.
All'epoca ero uno degli «esterni» eletto senatore con la Dc. Durante la prigionia di Moro tra i Dc si discuteva se trattare o no: un giorno mi venne un'idea. Se i brigatisti chiedono un atto politico per rilasciare il prigioniero, quale atto politico maggiore, senza entrare in trattativa, della promessa di dimissioni di tutti i parlamentari democristiani in carica, cui ovviamente sarebbero subentrati altrettanti candidati non eletti, in cambio della liberazione di Moro? A me pareva che oltre alla salvezza di Moro un atto del genere avrebbe implicato un forte ricambio nella classe dirigente, salutare per il Paese. Ne parlai con Andreatta, che condivise la mia idea, e poi con il presidente dei senatori Dc Bartolomei. Questi mi disse che poteva essere una soluzione e mi invitò a parlarne con l'onorevole Piccoli Presidente dei deputati Dc. Quando lo feci, una domenica mattina mentre passeggiavamo a Monte Mario, Piccoli si arrabbiò e mi diede dell'irresponsabile.
Ho voluto rammentare questo episodio a convalida della tesi che non tutta la Dc era compatta sulla non trattativa e che esponenti di primo piano, come Bartolomei e Andreatta, erano disponibili a sacrifici personali per salvare Moro.

Franco A. Grassini

Caro Grassini, come l'assassinio di Kennedy a Dallas, l'attentato contro Giovanni Paolo II in piazza San Pietro e l'attentato alle Torri gemelle, anche il rapimento e l'«esecuzione» di Aldo Moro sono eventi che ogni contemporaneo porta scolpiti nel proprio calendario personale. Ricordiamo con precisione dove eravamo e ciò che facevamo nel momento in cui le radio cominciarono a dare notizia del rapimento, e ricordiamo con altrettanta precisione dove e come apprendemmo la notizia della morte.
Ricordo bene che i cinquantacinque giorni della prigionia del leader democristiano furono un lungo dormiveglia e assomigliarono per molti aspetti al copione di un «dramma dell'assurdo». Ciascuno di noi si alzava, andava al lavoro, aveva appuntamenti, trattava gli affari del giorno, sedeva a tavola con la famiglia o con gli amici, leggeva i giornali, andava al cinema o a teatro. Ma nessuno di noi, soprattutto se viveva nella Roma pubblica dei ministeri, del Parlamento, dei partiti e dei giornali, riusciva a cacciare dalla mente il pensiero di Moro. Ricordo una colazione al ministero degli Esteri presieduta da Arnaldo Forlani in onore di una personalità straniera. Si parlò di tutto fuorché del rapimento. Ma di tanto in tanto la conversazione si spegneva di colpo ed era seguita da qualche minuto di imbarazzante silenzio durante il quale tutti, probabilmente, cominciavano a rigirarsi per la testa i pezzi del rebus. Non mi sorprende quindi che anche lei, come molti altri, abbia tentato di escogitare una soluzione. E non mi sorprende che alcuni uomini politici abbiano ascoltato la sua proposta con attenzione. Capivano i suoi sentimenti, non osavano raffreddare il suo entusiasmo e avevano, come lei, la speranza che una buona idea permettesse di superare il dilemma (trattare o no) di cui il governo era prigioniero.
Ma temo che l'onorevole Flaminio Piccoli avesse ragione quando respinse bruscamente la sua proposta. La dimissione collettiva dei parlamentari presentava almeno due grandi inconvenienti. In primo luogo avrebbe inceppato per un certo periodo il funzionamento delle Camere e creato un pericoloso vuoto di potere. In secondo luogo avrebbe lanciato al Paese e ai rapitori un messaggio ambiguo, difficilmente decifrabile. Lei sostiene che le dimissioni avrebbero avuto per effetto il ricambio della classe dirigente democristiana. Ma il gesto, in tal caso, sarebbe stato interpretato come un'ammissione di impotenza e avrebbe offerto ai rapitori l'occasione per affermare che l'armata democristiana stava gettando le armi e abbassando le braccia. Qualcuno avrebbe detto che quello era l'8 settembre della Dc. E qualcun altro avrebbe osservato cinicamente, ma con una punta di ragione, che non si capiva perché i subentranti fossero meglio dei dimissionari.
In realtà, caro Grassini, il rebus, che tutti allora cercammo di risolvere, non esisteva. Il governo aveva di fronte a sé una sola strada: dimostrare ai rapitori che non avrebbe ceduto al loro ricatto. E dovette percorrerla sino in fondo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 aprile 2007

 
   
 

La grande speranza

Caro Romano, di recente è scomparso Luigi Romersa. Consigliere militare di Mussolini e corrispondente durante il periodo bellico prima per l'Ente Stampa, poi per il Messaggero, Romersa approdò al Corriere nel gennaio 1944 in piena Repubblica Sociale. Nel suo libro «Le armi segrete di Hitler» uscito nel 2005 con Mursia, l'autore ricostruisce la vicenda di un suo viaggio a Rugen, nel Mar Baltico, per assistere a una prova della «bomba disgregatrice» che avrebbe potuto capovolgere le sorti della guerra e della disfatta dell'Asse che si andava ormai profilando. Al ritorno dal suo viaggio l'allora tenente Romersa mise al corrente Mussolini, allorché il 29 ottobre 1944 il Duce lo ricevette a Gargnano, come risulta dall'annotazione autografa che compare dal registro delle udienze. Queste clamorose «rivelazioni», apparse in quel tempo anche sul quotidiano di via Solferino vennero tuttavia considerate un «bluff» mettendo in dubbio quanto egli aveva sostenuto di aver visto a proposito delle armi segrete mentre si sarebbe affidato pressoché esclusivamente agli uomini della Propaganda Staffel. Qual è la sua opinione, anche alla luce dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, di certe deviazioni strategiche da parte delle forze di George Patton verso la Baviera e dell'apparizione nel dopoguerra dei primi «dischi volanti»?

Gianni Fossati

Le «armi segrete» furono la grande speranza di Mussolini e di Hitler soprattutto nell'ultima fase della guerra. Sappiamo ora che le ricerche per la costruzione di un ordigno atomico procedettero con lentezza, dubbi, esitazioni. Ma sappiamo che i progressi in campo missilistico ebbero grande importanza e furono il capitale a cui attinsero liberamente dopo la guerra, grazie alla collaborazione degli scienziati tedeschi di Peenemünde, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 aprile 2007

 
   
 
La presa di Roma e la fine del potere temporale

A proposito della presa di Roma mi sorge un dubbio. La Roma dei Papi non era forse, a tutti gli effetti, uno Stato sovrano?
Quale fu il presupposto legale per un vero e proprio atto di guerra? La storia che ho studiato a scuola mi ha rappresentato questo atto come un passo avanti della civiltà.
Come la sconfitta di un residuo medievale e oscurantista.
Ora, alla luce di quanto succede ai nostri giorni, mi domando come sarebbe giudicato un atto del genere.

Massimo Magnani

Caro Magnani,
il diritto internazionale (come del resto il diritto nazionale) non è un sistema di principi eterni e immutabili. È un insieme di norme che riflettono i valori e le esigenze di una particolare fase storica. Quando firmarono i trattati di Westfalia, nel 1648, le potenze che avevano partecipato alla Guerra dei Trent’anni stabilirono che la religione ufficiale di uno Stato sarebbe stata quella del suo sovrano e definirono tale principio con l’espressione «cuius regio eius religio». Questa norma, che ci sembrerebbe oggi arbitraria e illiberale, ebbe il grande merito di mettere fine alle guerre di religione che avevano insanguinato l’Europa sin dall’epoca della grande Riforma protestante. E quella che noi definiremmo oggi una manifestazione d’intolleranza inaugurò un’epoca di relativa tolleranza spianando la strada a un’altra fase storica in cui gli Stati avrebbero gradualmente perduto la loro originaria connotazione confessionale e sarebbero divenuti laici.
Nel 1870, quando il regno d’Italia conquistò Roma e cancellò dalla carta politica d’Europa gli Stati della Chiesa, lo spirito del tempo esigeva la nascita degli Stati nazionali. Dietro questo grande movimento ideologico vi erano anche esigenze concrete. La borghesia voleva uno spazio più grande in cui realizzare, agli albori della rivoluzione industriale, le sue iniziative. Voleva regole liberali che le consentissero di partecipare alla vita pubblica e di influire per quanto possibile sulla politica dei governi. Voleva un mercato nazionale in cui le norme sulla proprietà e sullo scambio dei beni rispondessero alla sua vocazione e al suo dinamismo.
È questa la ragione per cui l’Italia unita, nel suo primo decennio, creò una moneta unica, fissò per l’intera penisola una sola tariffa commerciale, introdusse nel mercato nazionale, privatizzandoli, i beni della Chiesa e quelli demaniali degli Stati preunitari.
Quale avrebbe potuto essere, in una Europa ispirata da questi principi, il posto dello Stato pontificio? Dopo il fallimento del tentativo riformatore di Pio IX, all’inizio del suo papato, Roma si ripiegò su se stessa e divenne, nella società internazionale, una sorta di residuo archeologico. Aveva un sovrano assoluto che era stato proclamato infallibile per le pronunce ex cathedra in materia di fede e di costume. Aveva un corpo di leggi (una sorta di sharia) che assimilava i precetti religiosi agli obblighi civili.
Era proprietaria di beni che venivano amministrati con criteri antiquati e pesavano come una mano morta sulla economia della penisola. La breccia di Porta Pia fu soltanto lo strumento a cui la Storia (o la Provvidenza) aveva affidato il compito di proclamare la fine dello Stato temporale. Qualche anno dopo cominciò a farsi strada anche al vertice della Santa Sede la convinzione che quell’evento fosse stato, per la missione della Chiesa nel mondo, una liberazione.

Sergio Romano
Corriere della sera, 18 aprile 2007

 
   
 

Nazionalismo e spirito nazionale: l’operazione Ciampi

Nel suo articolo, Sergio Luzzatto solleva una questione intrigante: la riaffermazione del nazionalismo francese per iniziativa dei due maggiori protagonisti delle presidenziali in quel Paese. Posso chiederle che differenza trova fra questo revival nazionalistico e quello che l’ex presidente Ciampi fece affermare durante il suo settennato? Quello francese contribuì alla bocciatura del Trattato per la Costituzione europea. Che cosa sarebbe successo se anche in Italia quel documento fosse stato sottoposto a referendum?

Gianfranco Pintore

Caro Pintore,
rispondo alle sue domande, anzitutto, osservando che il nazionalismo dei maggiori Paesi europei è oggi alquanto diverso da quello del passato. Non esprime spirito di conquista, non è aggressivo e imperiale, non è motivato dal sentimento di una superiore missione nazionale, come fu quello della Gran Bretagna, della Francia, dell’Italia e della Germania sino alla seconda guerra mondiale.
Ed è quindi molto diverso da quello che ancora distingue una buona parte della società degli Stati Uniti.È un nazionalismo difensivo, diffidente, timoroso, diretto contro tutto ciò che può rimettere in discussione le tranquille certezze della nostra vita quotidiana: gli immigrati, la globalizzazione, il capitale straniero, la modernità, la nuova scienza, i prodotti geneticamente modificati.
Nelle elezioni politiche degli ultimi vent’anni questo nazionalismo pavido, astioso e regressivo è stato generalmente catturato dai partiti di estrema destra e, per certi aspetti, dai movimenti della sinistra post-marxista. In Francia, nel primo turno delle elezioni presidenziali di cinque anni fa, regalò il secondo posto a Jean-Marie Le Pen, leader del Fronte Nazionale, e costrinse buona parte della sinistra a votare nel secondo turno per Jacques Chirac o, come avrebbe detto Indro Montanelli, a «turarsi il naso ». È questa la ragione per cui Nicolas Sarkozy propone la creazione di un «ministero dell’Identità nazionale» e Ségolène Royal dichiara che ogni francese dovrebbe custodire nella propria casa un tricolore. Non credo che si facciano illusioni napoleoniche o giacobine sul ruolo della Francia nel mondo del terzo millennio.
Vogliono semplicemente dimostrare ai nazionalisti regressivi del loro Paese che non sono insensibili alle loro paure. Vogliono impedire che la loro festa elettorale venga turbata da Jean-Marie Le Pen, terzo incomodo delle presidenziali francesi.
Il «nazionalismo» di Carlo Azeglio Ciampi fu alquanto diverso.
Ciampi arrivò al Quirinale in una situazione caratterizzata da due fattori. In primo luogo il Parlamento stava modificando la costituzione per tentare un esperimento federalista che avrebbe inevitabilmente allargato, almeno in una prima fase, la distanza economica e culturale che separa il Nord dal Sud. In secondo luogo, il bipolarismo veniva vissuto e praticato da noi comeuna guerra civile fredda. Anziché unirsi in un sistema politico che garantiva a tutti la prospettiva dell’alternanza, gli italiani stavano ripescando nella soffitta dei loro ricordi tutte le antinomie che avevano spaccato il Paese nel corso della sua storia: Nord e Sud, fascismo e antifascismo, resistenza e Salò, comunismo e anticomunismo, guelfi e ghibellini.
Preoccupato dalla piega che stava prendendo la politica italiana, Ciampi cercò di restaurare non tanto il nazionalismo, quanto il sentimento nazionale. Gli strumenti e gli argomenti di cui si servì furono risorgimentali: la Resistenza come ultima «Guerra d’Indipendenza», il tricolore, l’inno di Mameli, la parata del 2 giugno, gli omaggi al Milite ignoto.
E cercò di convincere i suoi connazionali che tutti i combattenti della Seconda guerra mondiale, anche quando erano in campi opposti, avevano nel cuore la stessa patria. Le confesso che questa battaglia di Ciampi mi sembrò un po’ retorica e, comunque, perduta in partenza.
Ma non potei impedirmi di ammirare il modo in cui questo vecchio signore, affiancato da Arrigo Levi (credo che fra i due vi fosse una perfetta sintonia), stava facendo lezione di patriottismo ai suoi connazionali.
Aggiunga a tutto questo, caro Pintore, che Ciampi fu sempre convinto, anche quando cantava l’inno di Mameli, che il futuro dell’Italia fosse nell’Europa unita.
Non so che cosa sarebbe uscito dalle urne se la costituzione europea fosse stata sottoposta a un referendum. Ma so che Ciampi avrebbe abbandonato il suo abituale riserbo per chiederci di votare sì.

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 aprile 2007

 
   
 
La Polonia dei gemelli, voce stonata d’Europa

Risulta quanto meno di pessimo gusto l’atteggiamento della stampa polacca che ha dipinto il cancelliere tedesco Angela Merkel come fosse Hitler, perché vuole trattare con Putin sulla difesa antimissile Usa. D’accordo che i polacchi evochino ancora con raccapriccio il patto Molotov-Ribbentrop, con le terribili conseguenze che ne derivarono.
Ma il passo compiuto da Angela Merkel nulla ha a che vedere con i fantasmi del passato. Esso invece si segnala, a mio parere, come un gesto di avveduto pragmatismo politico che, da una parte, mira a placare le legittime preoccupazioni della Russia e, dall'altra, ad alleggerire la tensione che, proprio per tali motivi, si è creata fra la Russia, appunto, e gli Stati Uniti d’America.

Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
anch’io credo che le reazioni di Angela Merkel e di altri ministri tedeschi siano perfettamente giustificate. L’intesa fra gli Stati Uniti e la Polonia dei gemelli Kaczynski per l’installazione di una postazione antimissilistica americana sul territorio polacco è un triplice sgarbo. È uno sgarbo alla Russia, che ha qualche buona ragione per sentirsi minacciata dall’iniziativa. È uno sgarbo alla Nato, che su questa iniziativa non è stata neppure consultata. Ed è infine uno sgarbo all’Unione europea, perché non tiene alcun conto delle ripercussioni di una tale iniziativa sulla sicurezza dell’intero continente. Conosciamo gli argomenti americani.
Sappiamo che Washington descrive questa postazione antimissilistica come l’anello necessario di una «linea Maginot » costruita nell’aria contro un’eventuale bordata di missili iraniani. Ma anche gli Stati Uniti, cortocircuitando la Nato e l’Unione europea, hanno confermato che lo stile della presidenza Bush resta schiettamente unilaterale.
Il guaio, caro Milanesi, è che la vicenda della base anti- missilistica è soltanto uno dei molti segnali negativi che la Polonia dei gemelli ha lanciato in questi ultimi tempi. Il più recente è una legge che viene definita «lustracja», parola dotta del linguaggio liturgico che significa lavacro, purificazione, epurazione e anche, per usare un termine del linguaggio stalinista, «purghe». Come ha scritto Sandro Scabello nel Corriere dell’11 aprile e come ha ricordato più recentemente Piero Ostellino, entro la metà di maggio insegnanti, avvocati, presidi, funzionari pubblici, giornalisti, dirigenti delle case editrici e proprietari di tv e giornali, nati prima dell’agosto 1972, dovranno dichiarare ufficialmente se in passato sono stati reclutati dai servizi segreti. Il governo chiede in tal modo una pubblica «confessione» a circa 700.000 persone, molte delle quali furono costrette, prima di un viaggio all’estero, a firmare una lettera con cui prendevano impegni generici che non ebbero, nella maggior parte dei casi, alcun seguito. Ma questa legge vendicativa prevede che ogni dichiarazione venga verificata dall’Istituto della memoria nazionale (dove sono depositati gli archivi dei Servizi polacchi) e che ogni omissione o menzogna verrà punita con la sospensione dalla professione per dieci anni.Èbizzarro che il governo di un Paese appassionatamente democratico adotti ora, quasi vent’anni dopo la caduta del muro, strumenti polizieschi che ricordano la Santa Inquisizione, le purghe staliniane, la «caccia alle streghe» del senatore McCarthy e i pubblici «mea culpa» della rivoluzione culturale cinese.
Esiste poi un altro segnale, particolarmente negativo per le sorti dell’Unione europea.
Quando Angela Merkel, negli scorsi mesi, ha cercato di rimettere in moto la macchina inceppata della costituzione europea, uno dei principali ostacoli sulla sua strada è stata la Polonia. I gemelli non vogliono sentir parlare di costituzione perché il testo bocciato da francesi e olandesi,maratificato da diciotto membri dell’Unione, prevede un sistema di voto poco gradito ai polacchi: la maggioranza degli Stati purché i sì rappresentino almeno il 60% della popolazione europea. Lech e Jaroslaw Kaczynski preferiscono l’assurdo sistema del Trattato di Nizza che attribuisce a Polonia e Spagna un voto ponderato pari a 27 punti, contro i 29 di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia: una formula che permette a Varsavia di esercitare, in un largo numero di casi possibili, un diritto di veto.
È un atteggiamento che dimostra quanto poco interessi a questa Polonia il buon funzionamento dell’Unione.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 aprile 2007

 
   
 
Israele nella Nato: per ora, meglio di no

Più di una volta, anche nel recente passato, si è affacciata l'ipotesi di un ingresso di Israele nella Nato: un'ipotesi sicuramente suggestiva e che sembra uscita, per certi versi, da un romanzo di fantapolitica. Eppure, nonostante le molte e oggettive difficoltà, potrebbe essere interessante valutare gli effetti di una tale eventualità. L'ingresso di Israele nell'Alleanza atlantica potrebbe avere, infatti, un effetto di stabilizzazione sull'intera area, alla luce del fatto che, anche a questo Paese, verrebbero applicate le clausole di mutua difesa già previste nei trattati della Nato; eventuali aggressori sarebbero scoraggiati dall'intervenire, con il risultato di generare una maggiore sicurezza e le nazioni europee stesse si troverebbero più coinvolte. Ovviamente i problemi, le controindicazioni e i pericoli non mancherebbero, in particolare per l'irrisolta questione palestinese, ma se la contrarietà a una tale opzione fosse soltanto di natura ideologica e non già dettata da ragioni pratiche, allora non sarebbe uno sbaglio rinunciarvi a priori?

Giovanni Martinelli

Caro Martinelli, al vertice della Nato in Lettonia, pochi mesi fa, il presidente Bush ha lasciato comprendere che gli Stati Uniti sarebbero favorevoli all'ingresso nell'Alleanza dell'Ucraina e della Georgia. Qualcuno sostiene addirittura che occorrerebbe spalancare le porte alle democrazie dell'Estremo Oriente e dell'Oceania: Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda. È inevitabile di questo passo che anche il problema dell'adesione di Israele finisca, prima o dopo, all'ordine del giorno. È una buona idea? A me sembra di no, per due ragioni. La prima è d'ordine generale. Con la fine della guerra fredda e il collasso dell'Urss, la Nato ha perduto la sua missione originaria ed è, da allora, alla ricerca di un ruolo. Durante le guerre balcaniche sembrò che stesse divenendo una grande organizzazione per la sicurezza collettiva del continente europeo. A Pratica di Mare, dove nacque nel maggio 2002 il Consiglio Nato- Russia, pensammo che questa tendenza, grazie alla collaborazione con Mosca, si sarebbe rafforzata. Ma al tempo stesso avemmo l'impressione che gli americani preferissero agire da soli, senza ricorrere ai meccanismi di un'alleanza che dava agli alleati troppa voce in capitolo. Da allora la Nato è diventata il tappabuchi degli Stati Uniti e viene chiamata in causa soltanto quando Washington si accorge di avere commesso un errore o ha bisogno di aiuto. È accaduto in Afghanistan e sarebbe accaduto anche in Iraq se qualche Paese, per fortuna, non avesse avanzato riserve e obiezioni. Nonostante queste ambiguità, gli Stati Uniti continuano a promuoverne l'allargamento, soprattutto verso est, e finiscono per dare a questa tendenza una evidente connotazione anti-russa. Può darsi che questa politica risponda agli interessi dell'America, ma non credo che risponda agli interessi dell'Europa. Mi rendo conto che nessuno, neppure la Francia (che è tuttora membro del Patto Atlantico, ma uscì dall'organizzazione militare integrata nell'aprile 1966), vedrebbe oggi con favore lo scioglimento dell'Alleanza. Ma temo che nuovi allargamenti renderebbero ancora più pasticciato e confuso il problema della identità e delle funzioni dell'organizzazione. Vengo alla seconda ragione. Anche se poco corrispondente alle esigenze del mondo d'oggi, la Nato è pur sempre l'organizzazione militare di un patto in cui l'articolo 5 stabilisce che una guerra contro uno è una guerra contro tutti e che ogni Paese deve assistere con le proprie forze armate il socio aggredito. È bene quindi che questa regola valga per Paesi che hanno, per quanto possibile, gli stessi interessi e gli stessi potenziali nemici. Se Israele facesse parte della Nato, noi dovremmo essere in sintonia con il governo di Gerusalemme. Dovremmo approvare la continua occupazione dei territori conquistati durante la guerra del 1967. Dovremmo approvare la politica degli insediamenti e la continua erosione del territorio palestinese. Dovremmo approvare il muro e il suo tracciato. Dovremmo approvare la politica unilaterale di Sharon verso l'autorità palestinese, solo parzialmente corretta dal suo successore. Dovremmo modificare i nostri rapporti con il mondo arabo-musulmano. E non dovremmo sorprenderci se Israele ci chiedesse di schierarci al suo fianco contro gli Hezbollah nell'eventualità di un nuovo conflitto. Ecco perché possiamo essere amici di Israele e simpatizzare con la sua difficile situazione, ma non sino al punto di stringere con il suo governo un'alleanza politico-militare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 21 aprile 2007

 
   
 
Morte delle preferenze, rinascita dei «partiti chiesa»

A proposito della nuova legge elettorale, ammetto di essere un lettore frettoloso ma non ho capito se le nuove proposte prevedono il ritorno delle preferenze. Non vorrei che l'auspicata convergenza si realizzasse proprio nel negare nuovamente ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Trovo inaccettabile che pochi capi di partito possano decidere la composizione del prossimo parlamento.
Trovo poi debole la scusa che tanto anche prima (con i collegi sicuri) avveniva lo stesso. Insomma, invece di rafforzare il potere di scelta dei cittadini, lo si è annullato per legge!
Vorrei sapere chi fra i leader attuali è pro e chi è contro le preferenze.

Umberto Salvatore

Caro Salvatore,
alla sua ultima domanda non saprei dare una risposta precisa.
Vi sono uomini politici favorevoli a un sistema maggioritario, possibilmente a due turni, che restituisca agli elettori il diritto di scegliere l’uomo o la donna da cui vogliono essere rappresentati in Parlamento.
Mala loro voce è sommersa da chi lavora tenacemente a impedire che questo accada. Per comprendere la fermezza con cui i partiti sembrano essere tutti d’accordo sulla prospettiva delle liste bloccate, occorre tornare ai due avvenimenti che hanno maggiormente influenzato l’evoluzione del sistema politico italiano agli inizi degli anni Novanta: gli scandali di Tangentopoli e l’ingresso di Silvio Berlusconi in politica.
I due avvenimenti ebbero l’effetto di ridurre considerevolmente le dimensioni dei partiti e la loro presa sulla società nazionale. Le inchieste giudiziarie di Mani pulite colpirono i loro vertici, ruppero i legami di convenienza che avevano stretto con alcuni istituti bancari, portarono alla luce i debiti che avevano accumulato, li costrinsero a vendere le loro sedi e a ridimensionare drasticamente le loro strutture.
L’arrivo di Berlusconi ebbe l’effetto di introdurre nella partita un giocatore nuovo, Forza Italia, completamente diverso dai «partiti chiesa» che avevano occupato la società italiana nei decenni precedenti con le loro parrocchie, i loro sacrestani, i loro fedeli, le loro liturgie congressuali.
Sul metodo con cui vennero condotte le inchieste e sull’opportunità di un leader nazionale afflitto da un enorme conflitto d’interessi, era lecito avere opinioni diverse. Ma il colpo dato ai partiti politici mi sembrò uno dei non molti aspetti positivi di quella turbolenta stagione. Ricordo che Norberto Bobbio definì Forza Italia un «partito di plastica ».Male confesso, caro Salvatore, che un partito di plastica mi sembrò preferibile a quei partiti di ferro e cemento che erano tutti per molti aspetti, come disse Giuliano Amato nel 1993 al momento delle sue dimissioni dalla presidenza del Consiglio, lontani eredi del partito fascista.
Da allora i partiti hanno silenziosamente e pazientemente lavorato alla propria restaurazione.
Hanno creato un nuovo sistema di finanziamento pubblico basato sul generoso rimborso delle spese elettorali. Hanno ottenuto che il Parlamento finanziasse la loro mediocre stampa. Hanno ricostruito le strutture, le gerarchie, le clientele. Ed ecco che, grazie alla legge elettorale approvata prima delle ultime elezioni, si vedono improvvisamente forniti di uno strumento ancora più importante di quelli di cui si erano serviti nei decenni della Prima Repubblica: il diritto di esercitare, con la composizione delle liste, un potere di vita e di morte sulla sorte di chiunque voglia fare vita politica.
Come ha scritto Michele Ainis in un articolo apparso ne La Stampa del 13 aprile, la scelta, oggi, «è tutta nelle mani dei partiti perché si esercita non prima bensì dopo la tornata elettorale, che diventa quindi un rito senza la partecipazione dei fedeli, una messa senza eucaristia».
L’aspetto più paradossale della vicenda è che il responsabile di questo regalo ai partiti è Silvio Berlusconi. L’uomo che aveva maggiormente contribuito all’evoluzione del sistema politico italiano e quello che ha maggiormente contribuito alla restaurazione dell’ «antico regime».

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 aprile 2007

 
   
 
Gli italiani in Egitto e il sistema delle capitolazioni

Nella sua risposta circa la formazione degli imam italiani, lei ricorda una conversazione avvenuta con il Grande imam del Cairo sugli egiziani che vivono in Italia e più generalmente in Europa.
Tantawi le disse che «sono partiti per cercare lavoro, non diversamente dagli europei che vennero in Egitto, soprattutto dopo l'apertura del canale di Suez.
Come tutti gli emigranti, hanno il diritto di essere trattati "adeguatamente", ma debbono obbedire alle leggi dello Stato che li ha accolti.
Se non obbediscono alle leggi, il Paese che li ospita ha il diritto di giudicarli e punirli». Mi pare però di ricordare che grazie alle «capitolazioni» (che Angelo Caroli, nel suo libro omonimo pubblicato a Trieste nel 1874 definì «mostruosità giuridiche intese a privare una nazione civile del diritto di esercitare giustizia sui sudditi esteri che in essa vi dimorano a beneficio dei consoli dei rispettivi Stati di questi ultimi»), gli occidentali erano sottoposti alla legge del rispettivo Paese di provenienza e non pagavano le tasse dovute, a differenza dei cittadini egiziani. Questo stato di cose continuò fino all'avvento di Nasser in Egitto e si concluse con le nazionalizzazioni e la cacciata degli stranieri, più o meno come in Libia. Sa dirmi qualcosa di più?

Diego Kuzmin, Gorizia

Caro Kuzmin, le capitolazioni sono per molti aspetti una invenzione italiana. I primi a ottenerle, sulla costa meridionale del Mediterraneo, furono i pisani nel 1173, seguiti dai veneziani verso la metà del Quattrocento, dai fiorentini verso la fine del secolo, dai francesi e dai catalani rispettivamente nel 1507 e nel 1517. Il sistema venne formalizzato nel 1535 grazie a un accordo di Francesco I re di Francia con il Sultano Solimano il Magnifico. E quell'accordo franco-ottomano finì per ispirare tutti i trattati che vennero successivamente stipulati dalla Sublime Porta (come venne chiamato per molti secoli il governo di Costantinopoli) con l'Inghilterra, l'Olanda, la Russia, la Prussia, la Spagna, il Piemonte e altri Stati.
In un bel libro apparso recentemente presso l'editore Bruno Mondadori («Oltre il mito. L'Egitto degli italiani 1917-1947»), una studiosa dell'università di Firenze, Marta Petricioli, scrive che «le capitolazioni erano un privilegio riconosciuto agli stranieri nei Paesi non cristiani e traevano origine da un lato dai vantaggi reciproci che derivavano dalle relazioni civili o commerciali, e dall'altro dalla necessità di appianare le difficoltà che provenivano dalle profonde differenze di religione, leggi e costumi». Petricioli ricorda che le loro principali caratteristiche furono: «L'inviolabilità del domicilio, con la sola restrizione dei casi di assoluta necessità nei quali era permesso alle autorità di penetrarvi, con l'assistenza dei consoli o dei loro delegati. Il diritto degli stranieri di non essere giudicati in materia civile, commerciale e penale da giudici ottomani, ma dai propri giudici consolari che applicavano la legge nazionale. La proibizione di esigere tasse dagli stranieri». Molto più tardi, nel 1876, questi privilegi furono mitigati dall'istituzione di tribunali misti, competenti per le materie civili e commerciali.
Furono «mostruosità giuridiche»? In realtà rispecchiarono per molti secoli, prima del colonialismo, una mentalità di origine feudale comune ai Paesi, anche europei, in cui il sovrano riconosceva statuti di maggiore o minore autonomia alle diverse comunità etniche e religiose. Non dimentichi, caro Kuzmin, che nell'Europa d'Ancien Régime esistevano i tribunali ecclesiastici e che i protestanti francesi furono, sino alla revoca dell'Editto di Nantes nel 1685, uno Stato nello Stato. Non dimentichi che nell'Impero Ottomano certe comunità religiose (gli ebrei ad esempio) erano esentate dal servizio militare, e che persino i ghetti di certe città europee potevano considerarsi, entro certi limiti, comunità autogestite. Ne è prova il rammarico con cui alcuni rabbini piemontesi accolsero nel 1848 la revoca delle Interdizioni israelitiche.
In Egitto la morte delle capitolazioni non dovette attendere l'arrivo di Nasser. Petricioli ricorda che quando il Paese ottenne l'indipendenza nel 1936, il suo vecchio padrone (la Gran Bretagna) «riconobbe l'incompatibilità delle capitolazioni con il nuovo status del Paese». A Montreux, l'anno seguente, fu stipulato un accordo internazionale che ne previde l'abolizione dopo un periodo transitorio di dodici anni durante il quale sarebbero sopravvissute «in forma attenuata per permettere agli stranieri di passare senza scosse al nuovo regime di sovranità giudiziaria egiziana». Si spensero definitivamente nell'ottobre 1949 quando la comunità italiana si era ormai considerevolmente assottigliata. Ma alla fine degli anni Trenta, quando cominciò il declino di questa antica istituzione, gli italiani in Egitto erano ancora circa 50.000.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 aprile 2007

 
   
 
Ideali del comunismo e meriti della borghesia

Quando si parla di comunismo la stereotipia è d'obbligo.
Quando parlate di comunismo voi borghesi che vi siete affermati nella società sappiamo già quello che direte. Se siete di buon umore vi lasciate andare a qualche espressione di comprensione per gli ideali di qualcuno (il riconoscimento di idealismo quando non nuoce a nessuno lo si può accordare con munificenza come Vittorio Emanuele III offriva un sigaro o una croce di cavaliere). Ma facendo ben intendere che quella è un’utopia verso la quale la troppa benevolenza guasta.
Ho diverse biografie di Stalin: di Adam B. Ulam, di Souvarine, di Gianni Rocca, dei Medvedev e di Lilly Marcou. La tendenza generale è quella di descrivere un pazzo criminale, assetato di potere. Malgrado fosse diventato intoccabile, secondo costoro, viveva odiando il prossimo e cercando di eliminare chiunque potesse metterlo in ombra. Ma sarà stato proprio così? O fa comodo a certe persone fiaccare la volontà di chi non si rassegna al dominio del denaro? Certamente quelle persone in un regime comunista non si sarebbero realizzate; perciò devono fare il lavaggio del cervello agli altri. Capisco che l’appartenenza a una certa etnia può non far vedere a lei di buon occhio chi non favoriva certi arricchimenti, ma non è immaginabile che in 29 anni il signore di cui parlo abbia soltanto provveduto a far ammazzare Zinoviev, Kamenev, Bucharin e Trotzski, ecc., fare la strage di Katyn e così via discorrendo. Nient'altro.
Nessuno ha beneficiato di un diverso sistema sociale e quelli che non la pensano come voi li considerate pazzi furiosi. Alla fine, dopo averlo ripetuto tante volte, vi siete convinti anche voi per cui credo che siate in fondo in buona fede.
Ho conosciuto l’Albania quando era vivo Enver Hoxha: potrei enumerare la serenità della vita ed altri vantaggi che rendono vivibile l’esistenza; ora hanno distrutto tutto e la mafia domina. Possibile che non esista altro che il danaro per voi? Possibile che rispettiate solo Bill Gates e Berlusconi e disprezziate i poveri?

Leone Faravelli

Caro Faravelli,
per la pagina di questa rubrica, la sua lettera è un po’ troppo lunga. Ma l’eccezione, in questo caso, era d’obbligo. Se l’avessi accorciata lei avrebbe potuto considerarsi vittima di una censura borghese e io avrei ai suoi occhi, oltre a quelli già elencati, un difetto in più.
Ho conosciuto personalmente Adam Ulam e Roy Medvedev.
Il primo fu uno studioso di origine polacca (era nato a Leopoli dopo la Grande guerra), stimato professore dell’Università di Harvard e direttore di un eccellente Centro di studi russi di cui fui ospite per una conferenza tra il crollo del muro di Berlino e la disintegrazione dell’Urss. Il secondo è un personaggio intelligente e singolare: coraggioso dissidente all’epoca di Brezhnev, osservatore attento della perestrojka e molto critico della Russia di Boris Eltsin dopo il crollo del sistema sovietico.
Se il primo fosse rimasto in Polonia e il secondo avesse dato prova di maggiore ortodossia, ambedue avrebbero fatto in epoca comunista una brillante carriera e avrebbero goduto di tutti i privilegi che i regimi dell’eguaglianza riservavano alle loro élite. Non credo quindi che lei possa imputare a questi critici dello stalinismo miopia, insensibilità sociale o interessi venali. Molti di essi, del resto, non hanno esitato a riconoscere che vi era nella mente di Stalin un grande disegno politico e che egli seppe risvegliare nei russi, in alcuni momenti, straordinarie energie.
Su un punto tuttavia, caro Faravelli, lei ha colto nel segno.
Confesso di essere borghese e, per più, soddisfatto di questa mia caratteristica. La borghesia non è una «etnia», come lei sembra sostenere. È una classe aperta, pronta ad accettare nuovi membri, quali che siano le loro origini sociali, nazionali e razziali.Èun ceto che ha introdotto nelle società europee, insieme ai criteri del merito, il gusto del lavoro, del guadagno e dell’iniziativa.
So che è capace di molti errori e storture: ingordigia, corruzione, nepotismo. E so che la borghesia italiana, per ragioni storiche, è meno severa con se stessa di quella di altre democrazie europee. Ma la borghesia sa correggere i propri difetti, rimediare ai propri errori, imporre a se stessa nuove regole.
Un’ultima confessione, caro Faravelli. Il fatto che Berlusconi sia politicamente discutibile e contestabile non toglie nulla alle sue qualità di imprenditore.
E il fatto che Bill Gates abbia spesso ceduto a tentazioni monopolistiche non può cancellare l’intuizione, il coraggio e la generosità di cui ha dato prova nella sua vita.
Come lei sa, Marx ammirava la borghesia e riconosceva l’importanza della sua rivoluzione.
Scommetto che al vecchio Karl questi due personaggi sarebbero piaciuti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 aprile 2007

 
   
 

I plebisciti

Caro Romano, ho letto la sua risposta sui plebisciti indetti dopo il 1859 per accogliere le popolazioni acquisite dopo la «liberazione » per l'unificazione del Regno d'Italia. Sono un dilettante nella conoscenza storica e mi era sfuggita la celebrazione del plebiscito dopo la «conquista» dell'attuale Trentino-Sudtirolo, già appartenuto all'Austria-Ungheria.
Forse potrebbe aiutarmi a ricordare: quando sarebbe stato celebrato il plebiscito per ottenere il parere delle popolazioni sull'appartenenza al regno d'Italia?
E quale esito ha avuto?

Giorgio Pisetta, Trento

I plebisciti appartengono alla fase risorgimentale della storia nazionale e furono giustificati dalla creazione di uno Stato nuovo. Un plebiscito per le province di Trento e Bolzano, dopo la fine della Grande guerra, sarebbe stato giusto e avrebbe registrato probabilmente un voto positivo a Trento (dove De Gasperi avrebbe raccomandato il sì). Ma il no avrebbe prevalso a Bolzano, e il governo italiano preferì evitare un rischio che nulla in quel momento gli imponeva di correre.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 aprile 2007

 
   
 
La difesa del francese fa comodo anche a noi

In riferimento a quanto lei ha scritto circa la predominanza della lingua inglese, mi chiedo come mai in Italia fino a pochi anni fa nelle scuole si trascurasse lo studio della lingua inglese.
Mi sono diplomato nel 1989 e a scuola ho studiato come lingua straniera solo francese. Viaggiando in Europa mi sono accorto che i giovani di altri Paesi europei conoscevano l'inglese per averlo studiato a scuola, a differenza di molti della mia generazione.
Personalmente ho dovuto studiare l'inglese in altro modo. A questo proposito, presumo che all'estero non vi siano tanti corsi di inglese come da noi.

Cesare Scotti

Caro Scotti, alla fine della Seconda guerra mondiale la lingua straniera maggiormente studiata nelle scuole medie italiane era il francese. Questa era, sin dal Settecento, la lingua più diffusa nella borghesia, nel mondo degli affari, fra gli intellettuali. Quando terminò il conflitto e si riaprirono le frontiere, Parigi divenne nuovamente il principale punto di riferimento internazionale della nostra cultura, la città dove si scoprivano i nuovi talenti letterari e artistici, dove nascevano le mode. Un editore, Valentino Bompiani, tradusse e pubblicò rapidamente tutto ciò che era stato scritto in Francia negli anni precedenti. Leggevamo Gide, Cocteau, Claudel, Camus, Sartre, Montherlant, Giono, Anouilh, Salacrou, e andavamo a teatro per vedere le loro commedie. Milano, in particolare, divenne ancora una volta, come era stata sin dalla seconda metà del Settecento, la più francofila delle città italiane. Quando Paul Claudel apparve alla Scala per la prima rappresentazione della «Giovanna d'Arco al rogo»,tratta da un suo testo con la musica di un compositore svizzero, Arthur Honegger, fu accolto trionfalmente. Quando Louis Jouvet rappresentò al Teatro Nuovo «L'école des femmes», la sala era piena di persone che erano in grado di comprendere e di apprezzare l'eleganza e l'ironia del testo di Molière. Si costituì in quegli anni una associazione letteraria, Les Amis de la France, che raccolse subito molte adesioni. Era naturale, in queste circostanze, che gli insegnanti di lingue straniere, nelle scuole italiane, fossero principalmente francesisti. All'inizio degli anni Ottanta, mentre i genitori già chiedevano insistentemente che ai loro figli venisse insegnato l'inglese, ve n'erano ancora, se non sbaglio, circa duemila. Fu questa probabilmente la ragione per cui il francese sopravvisse nell'insegnamento scolastico in una fase in cui l'egemonia culturale della Francia nella cultura europea andava declinando. Le segnalo tuttavia, caro Scotti, che vi è almeno un settore della cultura in cui il francese dà prova di una forte capacità di resistenza. Mentre la Commissione di Bruxelles e le maggiori organizzazioni internazionali tengono buona parte delle loro riunioni in inglese, il francese è ancora la lingua di lavoro della Corte europea di giustizia, il tribunale di Lussemburgo che è per molti aspetti una sorta di Corte costituzionale europea. Questa felice eccezione ha spinto un vecchio accademico di Francia, Maurice Druon, a lanciare una campagna per ottenere che il francese venga riconosciuto come la lingua prevalente per i documenti legali dell'Unione. A Bruxelles, recentemente, ha detto: «L'italiano è la lingua della canzone, il tedesco è la lingua della filosofia, l'inglese va benissimo per la poesia, ma il francese è la lingua della precisione». E ha motivato la sua richiesta ricordando che il francese è figlio di una grande lingua giuridica, il latino, e che in francese è stato scritto il Codice Napoleonico. Anche se la definizione dell'italiano assomiglia a una battuta del festival di Sanremo, Druon non ha torto. L'adozione del francese come lingua legale dell'Unione ci salverebbe dall'invasione strisciante del diritto anglo-americano nella cultura giuridica dell'Unione. Se non possiamo fare concorrenza ai nostri cugini d'Oltralpe, cerchiamo almeno di difendere, grazie a un'altra lingua latina, la tradizione storica del diritto romano.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 aprile 2007

 
   
 
Quando l'America è governata da una diarchia

Nancy Pelosi, democratica, speaker della Camera statunitense, terza carica istituzionale del Paese, è andata in Siria per una serie di incontri di natura politica (in primis con il presidente Assad), suscitando le ire di George Bush. L'episodio offre l'immagine di un Paese (gli Usa) estremamente diviso e, soprattutto, di una classe politica che in campo internazionale si muove in modo confuso e disordinato, vorrei dire «all'italiana». Mi aiuta ad interpretare meglio questa vicenda?

Marco Peserico

Caro Peserico, per capire il rapporto fra George W. Bush e Nancy Pelosi occorre partire da una parola del vocabolario politico che ha un significato diverso sulle due sponde dell'Atlantico. La parola è «governo». In tutte le maggiori democrazie europee, governo significa esecutivo, vale a dire Consiglio dei ministri o gabinetto. Ma negli Stati Uniti significa «presidente e Congresso», vale a dire l'azione congiunta del capo dello Stato e del Parlamento o, come direbbero i costituzionalisti, di due poteri concorrenti. Nel campo della politica estera, ad esempio, i costituenti vollero che persino la nomina di un ambasciatore dipendesse dal parere vincolante del Senato. Ne avemmo una dimostrazione pratica quando Bush volle inviare all'Onu un rappresentante permanente (John Bolton), sgradito al Congresso. Per aggirare l'ostacolo si valse della facoltà concessa al capo dello Stato di nominare Bolton nel corso di un «recess», vale a dire durante una fase di interruzione delle sedute parlamentari. Ma la nomina doveva considerarsi provvisoria e soggetta all'approvazione del Senato, non appena la Camera alta avesse ripreso i suoi lavori. Quando venne quel momento e Bush capì che la nomina sarebbe stata respinta, Bolton dovette dimettersi. Oggi, dopo la vittoria dei democratici alle ultime elezioni di mezzo termine, esiste negli Stati Uniti, anche se Bush e il suo vicepresidente Dick Cheney non lo ammetteranno mai, una sorta di diarchia. Qualcuno ha sostenuto che questo rapporto dialettico, e talvolta litigioso, fra due alte cariche dello Stato non dovrebbe incidere sulla politica estera degli Stati Uniti e sull'immagine del Paese all'estero. Ma ciò che Bush e Cheney rimproverano oggi a Nancy Pelosi è accaduto a parti rovesciate verso la fine degli anni Novanta, quando la politica filocinese di Bill Clinton si scontrava con quella dei repubblicani che al Congresso, allora, avevano la maggioranza. Nancy Pelosi, inoltre, può oggi sostenere che le sue iniziative diplomatiche sono conformi allo spirito e alla lettera di una diversa politica estera americana, suggerita da un «Gruppo di studi» che fu costituito grazie all'iniziativa di un membro della Camera dei rappresentanti, Frank Wolf, con la collaborazione di quattro grandi istituti: l'«United States Institute for Peace», il «James A. Baker III Institute for Public Policy» della Rice University, il «Center for the Study of the Presidency» e il «Center for Strategic and International Studies». Fu deciso che il gruppo avrebbe avuto due presidenti: un repubblicano, James A. Baker, già segretario di Stato all'epoca della prima Guerra del Golfo, e un democratico, Lee H. Hamilton, già presidente della Commissione Affari esteri della Camera dei rappresentanti. Fu deciso che sarebbe stato composto da otto membri, tutti molto noti nella vita pubblica americana per i loro incarichi precedenti: un ex segretario della Difesa, un ex segretario di Stato, un ex direttore della Cia, un ex Procuratore generale, un ex giudice costituzionale, un ex governatore, un ex senatore, un ex Chief of Staff (segretario generale) della Casa Bianca. Il gruppo iniziò i suoi lavori con una cerimonia ufficiale in Campidoglio nel marzo del 2006, e le 96 pagine del suo rapporto, presentato alla fine dell'anno scorso, contengono, insieme a una dettagliata analisi della situazione irachena, alcune raccomandazioni, fra cui la graduale riduzione del coinvolgimento militare americano, un maggiore sforzo per la soluzione della questione palestinese, l'apertura di conversazioni con la Siria e con l'Iran. Quel rapporto non ebbe alcun effetto sulla politica irachena e mediorientale della Casa bianca. Ma permette a Nancy Pelosi di affermare che le sue iniziative sono ispirate da un testo «bipartisan». È possibile quindi che gli Stati Uniti abbiano sino alla fine del mandato di Bush due politiche estere: quella della Casa Bianca e quella che Nancy Pelosi cercherà di perseguire ispirandosi alle conclusioni del rapporto presieduto da Baker e Hamilton.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 aprile 2007

 
   
 

Accuse contro Hanefi

Caro Romano, le autorità di Kabul hanno reso note le accuse contro il signor Hanefi. «Si tratta di un reato che mette a rischio la sicurezza nazionale — hanno spiegato alla nostra diplomazia — e per il nostro ordinamento in questi casi non è prevista l'assistenza di un legale». In altre parole: io scelgo l'accusa. In base all'accusa scelta non hai diritto a un avvocato. Senza avvocato ti processo, e guarda caso si dimostra che l'accusa era fondata, per cui ho fatto bene a non darti un avvocato. Chiedo se questa concezione della procedura penale sia un residuo del regime talebano, o una trovata di quello che sosteniamo con i nostri soldati.

Guido Ricci

Le sue osservazioni sono giuste. Ma le ricordo che il trattamento
riservato dalla presidenza Bush ai terroristi e ai prigionieri di guerra afghani non era, soprattutto prima dell'intervento della Corte Suprema, troppo diverso. Talebana anche l'America?

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 aprile 2007

 
   
 
I massacri armeni e la nascita della Turchia moderna

Ho letto la sua risposta su Mustafa Kemal Atatürk.
Sono turco di nascita e non posso che inorgoglirmi per la sua analisi di un grande uomo di Stato. Volevo osservare che il codice civile turco è fedele al codice civile svizzero, mentre quello penale al codice italiano «beccariano» (parliamo degli anni '20-30). In secondo luogo Toynbee, che da novello giornalista nel 1915 collaborò all'estensione del «Blue Book», quando parla di Atatürk, in un libro scritto nel 1926, ne fa, quasi per scusarsi, un grande elogio e afferma che «ha scelto la via difficile proclamando la repubblica. Se si fosse dichiarato sultano, tutto sarebbe stato più facile per lui e per la società». Però oggi, probabilmente, la Turchia sarebbe come l'Iran.
E ora vorrei fare una domanda riguardo a una decisione di Atatürk che, secondo me, fu all'epoca utilissima per tagliare i ponti con un impero secolare. Ma oggi, pensando al terrorismo internazionale che trova facile preda tra i mal governati, mi chiedo: se il califfato non fosse stato abolito le cose sarebbero andate diversamente? Una guida spirituale e autorevole avrebbe potuto evitare o circoscrivere certi avvenimenti?

Erkin Bute

Caro Bute, la sua lettera mi permette di tornare sull'argomento e di rispondere a quanti mi hanno scritto, negli scorsi giorni, per chiedermi se il giudizio positivo su Atatürk non debba essere rivisto alla luce delle responsabilità dei Giovani Turchi nei massacri armeni del 1915. Lo farò spiegando ai lettori che cosa sia il Blue Book, di cui lei parla nella sua lettera, e perché il giudizio di Arnold Toynbee sul fondatore della Repubblica turca sia così importante. Nel 1916 il governo britannico decise di promuovere una ricerca sui massacri armeni dell'anno precedente e ne affidò l'incarico a una delle più eminenti personalità liberali del mondo accademico e politico: il visconte James Bryce, giurista, insegnante di diritto civile a Oxford, autore di opere memorabili sul «Commonwealth americano», sul Sacro Romano Impero, sulle moderne democrazie, ma anche ambasciatore a Washington e più volte ministro. Bryce associò al suo lavoro Arnold Toynbee, un giovane storico (era nato nel 1889) che avrebbe cominciato a pubblicare, poco meno di vent'anni dopo, il suo monumentale «Uno Studio della Storia» in 12 volumi. Il lavoro sul Blue Book fu in gran parte suo. Fu lui che consultò le fonti, interpellò i consoli e le missioni straniere operanti allora in Turchia, raccolse le dichiarazioni di numerosi testimoni tedeschi, italiani, danesi, svedesi, norvegesi, greci, curdi e americani. Presentato al Parlamento britannico, il rapporto Bryce-Toynbee venne pubblicato sotto il titolo «Il trattamento degli armeni nell'Impero Ottomano 1915-1916» e divenne da allora il testo di riferimento per tutti gli studiosi di quella vicenda. Ma il lavoro sui massacri non impedì a Toynbee di essere negli anni seguenti uno dei maggiori estimatori di Atatürk e lo studioso che dette una interpretazione molto originale dell'importanza della sua impresa. In una serie di conferenze radiofoniche pronunciate nel 1952 su «Il mondo e l'Occidente», Toynbee spiegò la ragione per cui i riformatori, negli ultimi decenni dell'Impero Ottomano, erano stati soprattutto militari. Avevano visitato i Paesi europei, avevano constatato di persona la potenza dei loro eserciti e delle loro flotte, la ricchezza dei loro arsenali, l'intelligenza degli stati maggiori, l'addestramento delle truppe. E molti di essi si erano convinti che l'imitazione dell'Occidente in questo campo sarebbe bastata a impedire la scomparsa di un Impero malato. Dietro questo atteggiamento si nascondeva un errore di giudizio. Era assurdo pensare che l'ascesa dell'Europa nel mondo dipendesse semplicemente dalla sua forza militare. Le armi, e la tecnologia che le aveva rese possibili, erano soltanto la punta dell'iceberg. Dietro di esse vi erano le grandi rivoluzioni politiche, scientifiche, economiche e culturali che avevano progressivamente trasformato le istituzioni e le società dell'Europa. Atatürk lo capì e decise che la salvezza del suo Paese, dopo la sconfitta, sarebbe stata possibile soltanto se la Turchia, con un prodigioso sforzo di volontà, avesse interamente trasformato se stessa. Realizzò questa impresa tra il 1922 e il 1928, ricorda Toynbee, con l'emancipazione femminile, l'introduzione dell'alfabeto latino e la creazione di uno Stato laico. Ecco perché Atatürk può essere considerato un grande europeo. Lei vorrebbe sapere, caro Bute, se la conservazione del Califfato (l'istituzione politico- religiosa che aveva caratterizzato la umma islamica sin dalle origini) non avrebbe frenato e controllato i movimenti dell'islamismo radicale che ricorrono oggi all'arma del terrorismo. Comprendo le ragioni del suo dubbio. Se a Istanbul, oggi, il capo dello Stato turco fosse al tempo stesso califfo, Osama Bin Laden non potrebbe aspirare alla carica. Ma l'autorità morale e spirituale del Sultano nel mondo musulmano era legata alla vastità dell'Impero, padrone di terre che si affacciavano su quattro mari: il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Rosso e l'Oceano Indiano. Oggi la situazione è completamente diversa. Aggiunga a questo che la vera originalità della Turchia d'oggi è quella di essere, nonostante la presenza di un partito islamico al governo e i suoi gruppuscoli fanatici, il più laico degli Stati musulmani.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 aprile 2007

 
   
 

L'opinione attribuita

Caro Romano, ho l'impressione che il grande e intramontabile filosofo tedesco Karl Marx «si stia voltando nella tomba» a proposito della sua battuta finale in risposta al comunista.

Francesco Postorino

Lei si riferisce a una risposta in cui dicevo che Silvio Berlusconi e Bill Gates sarebbero piaciuti a Karl Marx. Ha ragione. Non bisognerebbe mai attribuire opinioni a persone che non sono più in grado di replicare e smentire. Ma credo che Marx, dopo avere constatato quale uso i regimi comunisti hanno fatto delle sue teorie, abbia comunque molte altre ragioni per voltarsi e rivoltarsi nella sua tomba.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 aprile 2007

 
   
 
Come e perché Jaruzelski divenne comunista

L'articolo di Piero Ostellino («Il caso Jaruzelski-Polonia, la nuova inquisizione») ha risvegliato in me la curiosità sull'uomo che tanta parte ha avuto nelle vicende del suo Paese. Ho letto che la sua era una famiglia di quella szlachta polacca tanto nobile e fiera, quanto povera e drammaticamente legata al nazionalismo antirusso.
Ricordo che era originario dei territori orientali oggetto dell'accordo Molotov-Ribbentrop; in gioventù aveva militato in movimenti di estrema destra e fu deportato dai sovietici con i suoi familiari. Mi piacerebbe saperne qualcosa di più.

Raffaello Campani

Caro Campani, nel 1992, dopo la fine della sua carriera politica e militare, il generale Wojciech Jaruzelski pubblicò un libro di memorie che apparve in italiano presso Rizzoli sotto il titolo «Un così lungo cammino». Se lei riuscirà a trovarlo in qualche libreria di seconda mano, scoprirà che i primi capitoli sono molto interessanti. Raccontano la storia di un ragazzo che aveva 16 anni allo scoppio della seconda guerra mondiale ed era cresciuto nel piccolo feudo appartenente a una vecchia famiglia di quella aristocrazia rurale (la Szlachta) che aveva avuto un ruolo importante, anche se non sempre positivo, nella storia della nazione polacca. Il nonno aveva partecipato ai movimenti anti-russi della seconda metà dell'Ottocento, il padre aveva combattuto contro i bolscevichi nell'esercito della nuova Polonia durante la guerra del 1920-21, la madre era una donna piccola, intelligente e amorevole che appare nell'album di famiglia con grandi occhi scuri, lineamenti armoniosi e un lungo collo coperto da un nastro di velluto.
Costretta alla fuga dalla travolgente avanzata delle colonne motorizzate tedesche, la famiglia si era rifugiata nei territori occupati dall'Armata rossa in Bielorussia e in Lituania. Vi rimase sino a quando alcuni poliziotti dell'Nkgb, nel 1941, bussarono alla porta della casa dove avevano trovato accoglienza, con un mandato d'arresto per il padre e un ordine di trasferimento per l'intera famiglia. Non avevano altra colpa fuorché quella di essere «borghesi», ma ebbero la fortuna, a differenza degli ufficiali uccisi a Katyn, di salvare la vita. Il padre uscì di prigione dopo qualche mese e ritrovò la famiglia in Siberia, ma morì poco dopo dei mali contratti in prigionia. Come altri giovani polacchi, il figlio Wojciech fu arruolato nelle formazioni dell'esercito polacco che si stavano costituendo in territorio sovietico. Avrebbe potuto appartenere alla divisione del generale Anders, attraversare il Medio Oriente, approdare in Italia e risalire la penisola fino a Montecassino, dove i polacchi combatterono una delle loro più eroiche battaglie. Ma il caso volle che le truppe di Anders, quando Wojciech raggiunse la zona di reclutamento, si fossero già trasferite in Iran e che il giovane venisse assegnato ad altre formazioni, destinate a combattere sul fronte occidentale, in Polonia e in Germania. Come scrisse un giorno Albert Speer, basta lo scatto d'uno scambio perché il treno della vita cominci a correre in un'altra direzione. Se Jaruzelski avesse combattuto al seguito di Anders e non fosse caduto di fronte alla grande abbazia, sarebbe rimasto in Europa occidentale, sarebbe divenuto italiano o inglese, avrebbe forse appartenuto ai nuclei dell'opposizione democratica che si organizzarono contro il regime sovietico della loro patria. Ma il caso volle che arrivasse in Polonia come liberatore e che, sedotto dalla vita militare e dagli ideali socialisti, decidesse due anni dopo di iscriversi al partito comunista.
Fu veramente comunista? Alla fine delle sue memorie vi è il testo del lungo dialogo che egli ebbe, dopo il crollo del regime, con Adam Michnik, esponente di Solidarnosc e fondatore del quotidiano Gazeta Wyborcza. I due avevano appartenuto a campi opposti e l'intellettuale non poteva dimenticare che il generale aveva sottoposto il Paese, nel 1981, al duro regime della legge marziale. Jaruzelski si difese, come in altre occasioni, sostenendo che quella decisione risparmiò alla Polonia l'intervento militare sovietico. È un dialogo aspro, fatto di accuse reciproche. Ma è la conversazione di due polacchi, uniti dall'amore per il loro Paese e che hanno gli occhi rivolti al futuro della nazione. A giudicare dalle dichiarazioni vendicative del premier Jaroslaw Kaczynski (Jaruzelski «ha le mani grondanti di sangue») un dialogo del genere sarebbe alquanto difficile nella Polonia dei gemelli.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 aprile 2007

 
   
 
Il dramma del Darfur e gli italiani in Sudan

Mi piacerebbe capire perché fra le tante guerre che affliggono il mondo nessuno (o quasi) parla mai del Sudan, di quello che avviene tra il nord nazionalista, arabo e islamico e il Sud nero e cristiano. Mi piacerebbe sapere perché l’Onu non interviene definitivamente per fermare la sistematica violazione dei diritti umani che ogni giorno caratterizza la vita nel Darfur.
Mi piacerebbe comprendere perché l’Italia, nel giro di qualche mese, sia riuscita a mandare circa duemila persone nel Libano per salvaguardare il confine con Israele mentre nel Sudan sono presenti soltanto 6 italiani a supporto della Ue.

Silvano Stoppa

Caro Stoppa,
temo che la risposta più semplice alle sue domande sul Sudan e sul dramma del Darfur stia in una sola parola: petrolio. Dal primo sfruttamento dei giacimenti scoperti nella regione dieci anni fa, il Sudan è diventato il terzo esportatore di greggio dell’Africa. Il suo governo islamico osserva e fa osservare scrupolosamente la legge coranica,maha aperto le sue porte agli investitori stranieri e li tratta con spregiudicata liberalità.
Si calcola che il prodotto interno lordo crescerà, durante il 2007, dell’11% e che vi siano almeno 4 miliardi di dollari in sala d’attesa, pronti a essere investiti in modernissimi alberghi, grattacieli per uffici, grandi centri commerciali e imprese di varia natura.
Qualcuno sostiene che il Sudan potrebbe diventare in breve tempo il Dubai dell’Africa. La previsione è forse esagerata, ma il volto di Khartum sta rapidamente cambiando. Ancora qualche anno fa la città era un grande borgo polveroso bruciato dal sole.
Oggi ha un volto moderno dominato da un enorme albergo disegnato nella forma di una vela e costruito con denaro libico.
Questo non significa che la comunità internazionale abbia dimenticato le responsabilità del governo sudanese nella vicenda del Darfur dove sono morte negli ultimi quattro anni non meno di duecentomila persone. Mentre i ministri dell’Unione Europea, nelle loro riunioni, continuano a chiedersi che cosa fare, gli Stati Uniti premono affinché il governo di Khartum permetta l’aumento dei caschi blu nel sud del Paese e minacciano nuove sanzioni, oltre a quelle adottate a suo tempo per i rapporti del governo sudanese con Osama bin Laden. Ma il Sudan, in questi ultimi tempi, ha trovato all’Onu un potente avvocato difensore, la Cina, più interessata ai propri rifornimenti petroliferi che alla tutela dei diritti umani delle popolazioni cristiane e animiste nel sud del Paese. Sembra tuttavia che la situazione stia cambiando. La Cina tiene al petrolio del Sudan,ma ha compreso che l’eccessivo realismo rischia d’intaccare la sua immagine internazionale alla vigilia dei giochi olimpici che ospiterà nel 2008.
Lei si chiede, caro Stoppa, perché il governo italiano non si sia maggiormente impegnato a favore del Darfur. Non credo che un governo europeo, se la questione non verrà anzitutto affrontata e risolta al Consiglio di sicurezza, possa fare da solo qualcosa di utile.
Ma la sua domanda mi è giunta insieme a un libro molto interessante e per molti aspetti commovente sulla nostra presenza in Sudan nel corso dei secoli. S’intitola «Italiani in Sudan. Le storie » ed è stato pubblicato da una casa editrice romana (Desiderio &Aspel). Gli autori sono l’attuale ambasciatore d’Italia a Khartum, Lorenzo Angeloni, e un medico e funzionario dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Guido Sabatinelli.Unaltro diplomatico, Claudio Pacifico, già ambasciatore in Sudan alla fine degli anni Novanta, ha scritto una lunga e documentata prefazione.
Una giovane studiosa di problemi africani all’università di Roma, Silvia Chiarelli, ha curato l’edizione.
Ciò che unisce queste quattro persone è un grande amore per il Paese e una insaziabile curiosità per i molti italiani — patrioti in esilio, avventurieri, mercanti, medici, archeologi, soldati e missionari—che hanno navigato lungo le sponde del Nilo e attraversato queste terre, soprattutto nell’Ottocento. Alcuni, come Romolo Gessi, Giovanni Miani e Carlo Piaggia, hanno lasciato importanti diari e memorie di viaggio.
Molti finirono in queste terre, spesso tragicamente, la loro vita.
Nella sua prefazione Pacifico ricorda che il diario di Miani si conclude con queste parole, scritte senza punteggiatura con l’ultimo respiro: «Non ho più carta da scrivere sono afflitto dai dolori al petto ho fatto scavare una fossa per seppellirmi i miei servi mi baciano le mani dicendomi Dio voglia che tu non muoia addio tante belle speranze sogni della mia vita addio Italia per la cui libertà ho anch’io combattuto».

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 aprile 2007

 
   
 

L’obbligo di iscrizione

Caro Romano, in Francia, come negli Stati Uniti d’America, il singolo elettore avente diritto non è automaticamente iscritto nelle liste elettorali. A differenza dell’Italia in cui ciascuno lo è nel proprio comune di residenza al compimento del diciottesimo anno di età, in questi due Paesi, ma presumo anche in altri, la volontà di avvalersi del fondamentale diritto democratico deve venire volontariamente espressa.
Al di là del certo «risparmio» economico che se ne deriva, visto che una cosa è organizzare la distribuzione dei seggi per una percentuale inferiore e un’altra è farlo sul cento per cento dei maggiorenni, è sulla espressa manifestazione d’intenzione al voto richiesta da questi Stati ai propri cittadini che vorrei conoscere la sua opinione. Comportamentalmente e concettualmente qual è la differenza? Qual è stata in Italia l’evoluzione del diritto al voto considerato che, se non erro, a fine Ottocento questo era condizionato dal censo e dal grado di istruzione? Ma soprattutto, perché da noi questa sorta di responsabilizzazione al voto del cittadino non viene «insegnata»?

Mario Taliani

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la nuova classe politica ritenne che il voto fosse, oltre che un diritto, un dovere e decise, con una legge, che sarebbe stato «obbligatorio». Quella legge, revocata qualche anno fa, funzionò sino a quando la crisi dei partiti e la delusione per certi aspetti della politica italiana crearono il fenomeno dell’assenteismo. Credo che gli elettori, come in Francia, andranno più numerosi alle urne quando saranno attratti dalla personalità dei candidati e avranno la sensazione di poter modificare con il loro voto il corso delle cose.

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 maggio 2007

 
   
 
Quando i giornalisti boicottano invece di scrivere

La Nuj, il sindacato della stampa britannica, si è espressa per il boicottaggio economico di Israele per la sua politica verso i palestinesi. Mi chiedo perché una simile presa di posizione sia inconcepibile in Italia. È troppo potente la lobby ebraica in Italia, oppure i giornalisti italiani non sono altrettanto liberi e autonomi come gli inglesi?

Antonio Ferrin

Caro Ferrin, prima di rispondere alla sua domanda, ricordo i fatti. Nella sua riunione del 13 aprile il sindacato della stampa Britannica (Nuj, National Union of Journalists, circa 40.000 soci) ha votato due mozioni. Nella prima, approvata a larga maggioranza, la Nuj condanna Israele per il «barbaro comportamento (in inglese, savage behaviour) verso i civili palestinesi sulla scia della sconfitta inflitta dagli Hezbollah alle forze israeliane». Nella seconda (approvata da 66 voti contro 54) chiede per le esportazioni israeliane un boicottaggio simile a quello adottato verso il Sud Africa all'epoca dell'apartheid e invita il Trades Union Congress (la federazione dei sindacati britannici) a intervenire presso il governo di Londra affinché adotti sanzioni. Per la cronaca, il congresso ha adottato altre mozioni con cui condanna il campo di Guantanamo (la base cubana dove gli Stati Uniti detengono alcune centinaia di prigionieri), e manifesta il suo sostegno al presidente venezuelano Hugo Chavez. Suppongo che sia chiaro, a questo punto, con quali schemi politici e ideologici la maggioranza degli iscritti al sindacato britannico della stampa giudichi i principali avvenimenti internazionali.
Non è questo, tuttavia, il motivo per cui mi auguro che i giornalisti italiani non seguano l'esempio dei loro colleghi al di là della Manica. Le ragioni sostanziali sono due.
In primo luogo spero che sia finita l'epoca in cui i sindacati funzionavano da cinghia di trasmissione di un partito o di una ideologia e impiegavano una parte del loro tempo a incrociare le braccia contro regimi «anti democratici» o a boicottare lo scarico di merci provenienti da Paesi sgraditi. Queste forme di lotta politica appartengono alla fase ideologica della storia europea e mi sembrano oggi del tutto anacronistiche. Un sindacato è forte quando lascia la politica ai partiti, non chiede ai suoi soci un impegno politico e ne difende gli interessi cercando di negoziare col datore di lavoro le migliori condizioni possibili. Ciò che maggiormente mi ha sorpreso in questa vicenda britannica è che la condanna di Israele sia avvenuta in un Paese dove Margaret Thatcher e Tony Blair, con stili e metodi alquanto diversi, hanno considerevolmente ridotto l'influenza politica dei sindacati nella vita nazionale. Blair, in particolare, è riuscito a impedire che le Trade Unions condizionassero con i loro voti bloccati l'esito dei congressi del partito. Ma non è riuscito a impedire, a quanto pare, che il mito del sindacato militante resistesse tenacemente proprio là dove è particolarmente inopportuno.
È l'inopportunità, per l'appunto, il secondo motivo delle mie critiche. Il maggior problema di un giornalista è quello di affermare la propria indipendenza, garantire al lettore l'affidabilità del proprio lavoro, dimostrare quotidianamente che è perfettamente in grado di separare le proprie opinioni e i propri sentimenti dalla fedele descrizione dei fatti di cui è testimone. So che molti giornalisti non rispondono a questi criteri e che alcuni di essi mettono deliberatamente la loro penna al servizio di un disegno politico. Ma spero che siano una minoranza. E mi chiedo come un sindacato possa prendere posizioni che sono palesemente in contraddizione con l'etica del mestiere che dovrebbe tutelare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 maggio 2007