La nuova società è multietica
È vero che la legge sulla convivenza ha ragioni ideologiche, ma si adegua al nostro tempo.

di SERGIO ROMANO
In una lettera al direttore del Corriere della sera sul disegno di legge del governo per le coppie di fatto, Gianfranco Fini riconosce che esistono altre forme di convivenza, diverse dal matrimonio. Ma ritiene che il problema dei reciproci diritti e doveri potesse venire affrontato e risolto «con interventi specifici e mirati a colmare la lacuna legislativa, come del resto si è fatto per oltre un secolo». È stata invece proposta una legge, secondo Fini, perché una parte della coalizione di governo intendeva creare «una sostanziale equiparazione tra la famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza». E conclude: «L'unica spiegazione possibile è che il governo abbia voluto, anche a costo di scontentare l'Udeur, presentare una legge dal forte valore ideologico e simbolico, prevista nel programma, ma gradita solo a chi confonde la laicità delle istituzioni (che è un valore!), con uno stantio laicismo anticlericale».
Credo che Fini abbia ragione quando sostiene che la legge ha una motivazione ideologica ed è stata fermamente voluta da chi voleva segnare un punto nella sua vecchia guerra di religione contro la Chiesa cattolica. Sono queste probabilmente le intenzioni della Rosa nel pugno, dei Verdi, di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani e di una parte non piccola dei Ds. Ma credo che Fini abbia torto quando sembra ridurre la legge sulle coppie di fatto a una semplice questione ideologica.
Ho l'impressione che dietro l'ideologia vi sia una parte della società italiana che vuole uscire dalla clandestinità in cui ha vissuto in questi ultimi anni. Il Sessantotto ha liberalizzato i costumi degli europei e ha reso accettabili situazioni che la generazione precedente avrebbe considerato peccaminose o socialmente scorrette.
Le società si sono adeguate anche nel linguaggio. Le parole compagno e compagna hanno smesso di avere un significato politico e sono state usate per definire un rapporto paramatrimoniale. Gli americani hanno inventato appellativi nuovi. Per evitare categorie antiche, ormai scorrette, una donna non è più «mrs» o «miss», vale dire signora o signorina, ma «ms». Il nuovo congiunto non è più moglie, marito, amante, concubina (gli ultimi due sono termini ottocenteschi, carichi di significati licenziosi), ma fidanzato o, secondo una formula burocratica che è stata di moda negli Stati Uniti per qualche tempo, il «significant other», l'altro significativo.
Ma le istituzioni ufficiali offerte dagli stati alla società per la regolarizzazione delle sue nuove esigenze sono rimaste fondamentalmente due: il matrimonio civile e il matrimonio religioso, ambedue caratterizzati da una forte dose di ufficialità e solennità e, nonostante l'esistenza del divorzio, da una certa durata nel tempo.
Restavano scoperte invece tutte le altre unioni che la liberalizzazione dei costumi rendeva possibile: uomo e uomo, donna e donna, e naturalmente uomo e donna ogniqualvolta la coppia non intende prendere eccessivi impegni per il futuro. Per queste persone occorreva quindi inventare un terzo matrimonio più flessibile, facile a farsi e a disfarsi, in cui i congiunti sono ufficiali di stato civile o sacerdoti di se stessi. Molti paesi si sono già adeguati e ora, con qualche difficoltà in più, tocca all'Italia.
Capisco le reazioni della Chiesa. Questo terzo matrimonio intacca il concetto tradizionale di famiglia e indebolisce una istituzione a cui la Chiesa attribuisce il compito di trasmettere, da una generazione all'altra, il suo insegnamento.
Capisco le reazioni dei partiti cattolici, sempre attenti alla dottrina e alla politica della Chiesa.
Capisco Fini, erede di una famiglia politica che ha fermamente creduto nella necessità dello stato etico, vale a dire di uno stato educatore che insegna e impone valori morali. Ma credo che uno stato liberale debba tener conto delle esigenze della società e, nei limiti del possibile, soddisfarle. Dovrà contemperare esigenze diverse, impedire che la nuova legge divida il corpo sociale, pesare attentamente le sue ricadute, evitare che la soddisfazione degli uni diventi scandalo per gli altri. Ma se una società diventa progressivamente multietica, che cosa può fare uno stato liberale se non prenderne atto?
Panorama, 22 febbraio 2007, pag.17

 
   
 

«SAREMO MODERNI?» È IL TITOLO DEL LIBRO DELL'EX-AMBASCIATORE, PUBBLICATO ANCHE IN FRANCIA
Romano: «L'Italia è cresciuta ma il governo non lo sa»
Basta vedere la finanziaria: una legge ritagliata sulla situazione del Paese nel 2003

di Mario Cervi
Saremo moderni? Sergio Romano pone questo interrogativo nel titolo d'un suo libro che in Italia viene pubblicato da Longanesi, e che contemporaneamente vede la luce in Francia. Così com'è concepito il saggio, che raccoglie note settimanali dell'autore durante il 2006, ha per primi destinatari proprio i lettori francesi. «Non ho abbellito il ritratto dell'Italia - scrive Romano nella postfazione - perché sarebbe stato inutile e controproducente. Ho semplicemente cercato di rendere l'Italia più comprensibile raccontando gli avvenimenti di un anno cruciale nel momento stesso in cui essi si verificavano. Commenti ragionati e legati alla cronaca.
Saremo moderni? Non mi pare che alla fine delle fini Sergio Romano, osservatore senza indulgenze e senza illusioni, offra una risposta certa. Ma proprio in una delle ultime pagine sottolinea la distanza che separa il Paese reale dal Paese ufficiale. Annota infatti malinconicamente, occupandosi della criticatissima «finanziaria»: «Il governo non ha capito l'evoluzione del Paese, ha scritto una legge ritagliata sulla situazione del 2003 invece che su quella del 2006 e ha colpito la parte del Paese che vedeva finalmente a portata di mano i frutti del lavoro silenzioso dei mesi precedenti. Romano Prodi e il suo ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, potrebbero essersi sbagliati d'anno».
Sono tanti i temi che Romano affronta o sfiora nella sua carrellata. Ho citato un giudizio negativo, e non è l'unico, sul governo Prodi. Potrei citarne altri molto severi nei confronti di Silvio Berlusconi. Ciò che soprattutto risulta evidente quando si ripercorrano gli avvenimenti italiani è la loro ripetitività. C'è sempre uno ieri quasi uguale all'oggi. Francesco Caruso ha di recente fatto parlare di sé per essere intervenuto nelle polemiche provocate dall'uccisione del poliziotto Filippo Raciti a Catania. L'ha fatto, il Caruso, con la consueta sicumera, ribadendo la sua ostilità alle forze dell'ordine.
Sergio Romano non usa mezzi termini nel definire la strategia carusiana: «La sua specialità consiste in quello che la stampa chiama esproprio proletario: si presenta in un grande magazzino accompagnato da un certo numero di facinorosi e chiede di negoziare contratti speciali per la vendita di certi prodotti. Il direttore del supermercato, calcolando i guasti che l'edificio potrebbe subire se il commando di Francesco Caruso passasse all'azione, in genere preferisce cedere. In fondo questa formula non è che la versione progressista della pratica della protezione ampiamente usata dalla mafia». Senonché il Caruso - i francesi l'apprenderanno con qualche stupore - è stato candidato alla Camera da Fausto Bertinotti, e alla Camera è regolarmente approdato: come era inevitabile in un sistema che delega alla collocazione in lista - ossia alle segreterie di partito - la sorte degli aspiranti parlamentari. Osserva Romano che è un dilemma angoscioso, questo degli estremisti, per l'Ulivo. Aggiunge per equilibrare le colpe che anche Berlusconi s'era alleato, per far numero, con Pino Rauti (rilevo soltanto che il peso di Rauti è infinitesimo rispetto al peso di Rifondazione comunista).
Sempre a proposito d'attualità. «Se il calcio è una droga nazionale, la soppressione inattesa della dose domenicale può presentare seri pericoli per l'ordine pubblico del Paese. Nel momento dell'agonia di Giovanni Paolo II il ministro dell'Interno era preoccupato. Che cosa avrebbe dovuto fare se la morte del papa fosse stata annunciata la domenica pomeriggio? Sarebbe stato prudente interrompere tutte le partite di campionato? Quanti poliziotti avrebbe dovuto mobilitare?». La tragedia del povero Raciti era di là da venire, ma Romano già intravedeva certo sottofondo inquietante del calcio, tra Moggi e Raciti.
il Giornale, 14 febbraio 2007, pag.34

 
   
 

La Nato e la Russia insieme: un progetto fallito

Lo stesso presidente Putin nel suo criticato intervento a Monaco, ha citato il nostro responsabile della Difesa per contestare che il multilateralismo dell'Onu è una cosa, quello della Nato e dell'Ue sono un'altra, da lui ovviamente non accettabile. Poi c'è stato un chiarimento con il ministro Parisi ma proprio queste sono la percezione e la preoccupazione in Russia delle decisioni dell'Alleanza atlantica, dell'Ue o semplicemente americane, come quest'ultima d'impiantare, in Polonia e nella Repubblica Ceca, sistemi missilistici contro il terrorismo. Quest'anno si celebrerà a San Pietroburgo il decennale dell'"atto" che ha reso possibile l'attuale consiglio Nato-Russia a frequenza mensile. Se non ci si arriverà con qualche idea nuova, capace di coinvolgere l'"anima russa", si aprirà un'altra stagione fredda nei rapporti internazionali e si faranno passi indietro, non certo avanti. Lei stesso, parlando de "Le basi americane in Italia, ieri e oggi", ha posto l'interrogativo se "contribuiscano alla sicurezza dell'Italia". Come non essere certi che analogo dubbio si ponga in Russia, constatando quanto sia diffuso un sentimento "antirusso" specie in Paesi già appartenenti al Patto di Varsavia. Perché non favorire, invece, una effettiva integrazione aprendo un dibattito sulla convenienza di recuperare il "patriottismo russo", cosa ben diversa da quello condannato dalla storia "sovietico"? Si riuscirebbe forse a identificare quella mitica "nuova frontiera", evocata da un presidente ancora compianto come Kennedy, proprio nella terra che ha sconfitto prima Napoleone e poi Hitler. Ecco che pensare a un "generale russo" quale comandante supremo delle forze alleate in Europa con un "segretario generale americano", non sarebbe più un'utopia ma un modo per ricominciare a pensare alto e grande.

Gen. Gianalfonso d'Avossa

Caro D'Avossa, lo scambio di battute tra Putin e Parisi mi è stato fatto notare anche da una lettrice, Adriana Marrè. Questa risposta vale dunque per entrambi. Il Consiglio permanente Nato- Russia fu effettivamente creato nel 1997. Ma una data ancora più importante fu quella del 28 maggio 2002 quando Bush, Putin e i capi di Stato o di governo di tutti i Paesi dell'Alleanza si riunirono a Pratica di Mare e firmarono la dichiarazione di Roma. Fu in quella occasione, dopo gli attentati dell'11 settembre, che venne deciso di trasformare il Consiglio in "un meccanismo per consultazione, costruzione del consenso, cooperazione, decisioni e azioni congiunte per gli Stati membri e la Russia su una larga gamma di questioni di sicurezza nella regione Euro-Atlantica". Avemmo allora l'impressione che si fosse costituta una nuova Nato, in cui i caratteri dell'alleanza originaria, creata contro la minaccia sovietica, sarebbero progressivamente scomparsi per lasciare il posto a una grande organizzazione destinata a perseguire la sicurezza collettiva dell'intera Europa e delle regioni turbolente che la circondano. Ma quelle promesse non si sono realizzate. Anziché lavorare per la graduale trasformazione della Nato, gli Stati Uniti hanno preferito adottare due linee apparentemente contraddittorie, ma perfettamente conformi alla visione del mondo concepita negli ambienti neo-conservatori di Washington. Daun lato hanno conservato e accentuato le caratteristiche della Nato come alleanza politico-militare in cui l'America avrebbe continuato ad avere una posizione dominante. Hanno voluto "annettere " alla Nato tre repubbliche ex sovietiche: Estonia, Lettonia, Lituania. Hanno direttamente o indirettamente sostenuto i movimenti democratici in Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia: iniziative apparentemente encomiabili, ma destinate a infastidire la Russia. Hanno creato nuove basi nei Balcani e deciso di spostare in Bulgaria una parte delle loro installazioni tedesche. Hanno annunciato la creazione in Polonia e nella Repubblica Ceca di basi antimissilistiche. E il vice presidente Dick Cheney ha fatto nella primavera del 2006 un viaggio in Europa durante il quale ha contemporaneamente criticato la Russia e auspicato l'allargamento della Nato ad altri Paesi. Maal tempo stesso gli americani hanno fatto le loro guerre unilateralmente, senza sottoporre piani, progetti e modalità di esecuzione al Consiglio Atlantico di Bruxelles. Franco Venturini ha ragione quando scrive (Corriere del 12 febbraio) che Putin teme un colpo di mano degli Stati Uniti contro l'Iran. Non sappiamo se un attacco americano contro le centrali nucleari iraniane sia effettivamente nella mente di Bush. Ma sappiamo che il segretario generale della Nato ne sarà informato, se mai accadrà, mentre i missili americani saranno già in viaggio verso l'obiettivo. Temo che per le sue speranze, caro D'Avossa, occorra attendere tempi migliori.

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 febbraio 2007

 
   
 

Il successore ideale

Caro Romano, nella lettera "Ottobre 22: il mistero di un decreto non firmato" lei scrive che il successore ideale di Bonomi era Giolitti, ma don Sturzo si oppose. Sembra però che poi abbia negato questa sua opposizione. Lo fece perché si rese conto che così facendo aveva aperto al fascismo? E, nei successivi momenti decisivi culminati nell'ottobre del '22, quale è stata la sua posizione?

Renato Malgaroli

In un libro pubblicato a New York nel 1926 Sturzo scrisse che l'opposizione dei popolari al ritorno di Giolitti fu decisa in piena autonomia dal gruppo parlamentare del partito.

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 febbraio 2007

 
   
 

Il bisticcio italo-croato fra paure e malintesi

Mi piacerebbe conoscere la sua posizione sulla crisi tra Roma e Zagabria, dopo il discorso del presidente Napolitano in occasione del 10 febbraio. Mi riferisco in particolare al fatto che il presidente croato abbia tirato fuori il trattato di Osimo del 1975, senza che da parte nostra sia mai stato nominato in questi giorni. Sembrerebbe quasi che la Croazia voglia mettere le mani avanti per non cadere.

Antonello Leone

Caro Leone, noi italiani conosciamo bene le ragioni per cui il presidente ha ricordato con accenti così forti e commossi la tragedia delle foibe. Parlava a un gruppo di esuli e discendenti delle vittime che si sono sentiti per molti anni isolati e ignorati. Voleva convincerli che il Paese non ha dimenticato la loro tragedia. Ed è probabile che la sua particolare posizione (un ex comunista al vertice dello Stato) lo abbia indotto a mettere nel discorso un particolare calore e a dire qualche parola più del necessario. Ma non possiamo pretendere che altri, al di là della frontiera, leggano le sue affermazioni («disegno annessionistico slavo», «furia sanguinaria», «pulizia etnica») con lo stesso animo con cui sono state accolte in Italia. Si metta per un momento, caro Leone, nei panni di Stipe Mesic, presidente della Croazia. È capo di uno Stato che ha ereditato, dopo la disintegrazione della Jugoslavia, una parte dei territori perduti dall'Italia e apprende dalla lettura dei giornali che il suo dirimpettaio, al Quirinale, considera quella vicenda una tragedia nazionale. È vero che nelle parole di Giorgio Napolitano non vi sono propositi revanscisti e che il Trattato di Osimo non è mai stato menzionato. Ma la Croazia aspira a far parte dell'Unione europea e sa che la nostra posizione, nelle fasi più delicate del negoziato, potrebbe essere determinante. È possibile che il governo di Roma aspetti la Croazia al varco per avanzare qualche richiesta territoriale? Noi conosciamo i nostri governanti e sappiamo che questa ipotesi è poco realistica. Ma è possibile che Zagabria abbia questo timore e che le parole di Napolitano lo abbiano rafforzato. La prima dichiarazione di Mesic sarebbe servita per l'appunto ad allertare l'Europa e a far capire che la Croazia non avrebbe accettato di rimettere in discussione i confini della Seconda guerra mondiale. Si comprende meglio in tal modo perché il governo sloveno, come ha spiegato Mara Gergolet nel Corriere del 17 febbraio, abbia deciso di protestare con una lettera verosimilmente più pacata, trasmessa a Roma per le vie diplomatiche. La Slovenia fa già parte dell'Unione europea e ha meno preoccupazioni. La seconda dichiarazione croata è arrivata quando Stipe Mesic si è accorto di avere esagerato e Massimo D'Alema, nel suo colloquio con l'ambasciatore di Croazia a Roma, ha probabilmente rassicurato Zagabria sulle intenzioni del governo. A questo punto ciascuno ha detto la sua e il caso è chiuso. Ma anche dai casi chiusi si possono ricavare utili lezioni. Io ne trarrei due. In primo luogo è bene ricordare che certe dichiarazioni fatte in casa, per consumo interno, possono dar luogo, quando sono lette da un altro Paese, a interpretazioni diverse. In secondo luogo il caso conferma che i giorni della memoria sono strumenti delicati di cui si è fatto in Italia e altrove un uso eccessivo. Contrariamente alle idee correnti, un sovraccarico di passato può complicare i rapporti internazionali e rendere più difficile la progettazione del futuro.

Sergio Romano
Corriere della sera, 21 febbraio 2007

 
   
 
Quando la Chiesa tentò di scomunicare i comunisti

Ho letto un articolo di Vittorio Messori in tema di scomuniche ma non si parla di quella del 1949 da parte della Chiesa nei confronti dei comunisti a opera del Sant'Uffizio. Vorrei sapere se la scomunica è ancora vigente o quando è stata ritirata.

Filippo Cammelli

Caro Cammelli, le scomuniche furono in realtà due. La prima è nel decreto con cui il Sant'Uffizio, il 1° luglio 1949, vietò ai cattolici, sotto pena di sanzioni sino alla scomunica, l'adesione ai partiti comunisti e persino la «collaborazione» con partiti o movimenti d'ispirazione comunista. La seconda, più specifica, porta la data del 30 giugno 1950 e concerne tutti coloro che attentavano al legittimo esercizio dell'autorità ecclesiastica. In ambedue i casi, ma soprattutto nel secondo, la Chiesa romana reagì alla politica anticattolica dei regimi satelliti. A Praga, nel giugno 1949, il governo, ormai interamente controllato dai comunisti, aveva spodestato l'arcivescovo Beran creando un Comitato di azione cattolica che avrebbe diretto da quel momento gli affari della Chiesa cecoslovacca. A Budapest, dopo una prova di forza con la gerarchia cattolica ungherese, il cardinal Josef Mindszenty era stato arrestato, processato e condannato all'ergastolo. Fu questo il clima in cui la Chiesa decise di usare l'arma della scomunica. Pio XII era convinto che Francia e Italia (ma soprattutto l'Italia) corressero il rischio di una sovversione comunista e volle dire ai battezzati, in termini ultimativi, che non avevano il diritto di essere contemporaneamente cattolici e comunisti. Era un segnale diretto principalmente alle madri, alle mogli e alle sorelle di coloro che militavano nel Pci o ne fiancheggiavano l'azione. Quando fece una visita a Pio XII, dopo lo scoppio della guerra di Corea, l'ambasciatore di Francia presso la Santa Sede Vladimir d'Ormesson ebbe la sensazione che il pericolo comunista fosse la preoccupazione dominante del Papa. Siamo, ripeto, nel momento più teso e aspro della guerra fredda. Nei tre anni precedenti i segnali di pericolo erano stati numerosi. I partiti comunisti si erano impadroniti del potere in tutti i Paesi occupati dall'Armata Rossa. I nuovi governi avevano incarcerato e processato quasi tutti i leader dell'opposizione democratica. L'Urss aveva interrotto i collegamenti di Berlino con la Germania occidentale e stretto d'assedio la città. E non vi era Paese comunista in cui la Chiesa non fosse considerata un nemico dello Stato. È probabile che Pio XII abbia rivisto nella sua immaginazione con angoscia le giornate rivoluzionarie del 1919 quando il vescovo Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera, aveva assistito alla creazione di una effimera repubblica dei soviet. Ma il Papa non tenne conto del fatto che le proporzioni del fenomeno comunista in Francia e in Italia rendevano impossibile l'applicazione della scomunica. Alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 il Fronte democratico popolare, composto da socialisti e comunisti, era stato sconfitto dalla Democrazia cristiana, ma aveva pur sempre avuto, per la Camera dei deputati, 8.137.047 voti. Tutti coloro che avevano votato per il Fronte rientravano in teoria nella categoria prevista dal decreto del Sant'Uffizio. Ma era possibile procedere a una sorta di scomunica collettiva di una parte così importante della società italiana? Dopo essersi accorta del dissenso e del danno che quella decisione avrebbe comportato per l'unità dei cattolici italiani, la Chiesa finì per annebbiare il decreto con alcune dotte distinzioni canoniche e lo lasciò dormire negli archivi del Sant'Uffizio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 febbraio 2007

 
   
 

Sovranità territoriale

Caro Romano, ho partecipato alla sfilata di Vicenza. Non sono né radicale né pacifista. La questione di Vicenza è per me questione di sovranità nazionale. Nel mio Paese solo il mio esercito o uno, la Nato, su cui il mio governo può esercitare autorità può portare armi. Non mi sento sicuro quando eserciti stranieri dispongono di armi di enorme potenziale nel mio Paese e non devono renderne conto al governo che io ho eletto. Eppure questa ragione la vedo deridere un po' da tutti, dalla destra e dalla sinistra, come se fosse segno di ideologismo e infantilismo un po' utopico. Lei che cosa ne pensa?

Carlo Geneletti - Bergamo

Penso che lei, in linea di principio, abbia ragione. E penso che avrebbe ancora più ragione se desiderasse vedere sul territorio nazionale le forze di un esercito europeo.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 febbraio 2007

 
   
 

Iraq, dove è impossibile separare religione e politica

Nella risposta "Guerra civile in Iraq: ma l'America non lo ammette", lei sintetizza le inascoltate raccomandazioni di importanti Istituti di politica internazionale. Ragionamenti e considerazioni condivisibili. Ma, quello che manca nell'esame della situazione che si è venuta a creare in Iraq, sono le ragioni della continua carneficina fra sunniti e sciiti. La vendetta per l'attentato alla moschea di Samara, per quanto gravissimo, non ci aiuta a capire questa terribile inarrestabile ondata di autodistruzione di un popolo. Si tratta veramente di una guerra in nome di una diversa storia religiosa? Che rapporti ha questa carneficina con l'improvvida guerra? Nella storia dei popoli vi sono casi analoghi? Se si guarda al recente passato, vi sono state le elezioni nelle quali hanno prevalso gli sciiti. È questa la ragione? Sono potenze estranee al Paese che fomentano l'odio e i massacri?

Renato Malgaroli

Caro Malgaroli, la rottura fra sciiti e sunniti risale alle guerre di successione che scoppiarono nell'Islam sin dal settimo secolo d.C. Furono simili per molti aspetti a quelle che si combatterono in alcuni Stati europei quando due rami della stessa famiglia regnante rivendicavano il diritto al trono.Maebbero carattere religioso perché il titolo di legittimità era la discendenza dal profeta Maometto. Più che guerre fra due cugini, egualmente desiderosi di conquistare il regno, furono quindi guerre fra un papa e un antipapa. So che questa spiegazione apparirà a molti approssimativa e sembrerà tenere in poco conto le ragioni della fede che animava i seguaci dei due partiti. Ma non sono né storico delle religioni né esperto di teologia, e temo che lei dovrà accontentarsi di questi cenni sommari. Chi desidera approfondire la questione potrà sempre consultare la voce "Scia", a firma di Wilfred Madelung nell'ottavo volume dell'Enciclopedia delle religioni, ideata a diretta da un grande studioso romeno, Mircea Eliade, ora pubblicata in Italia dalla Jaca Book. Posso cercare di dare una risposta invece alla sua domanda sulla natura del conflitto che oppone oggi sunniti e sciiti nell'Iraq del dopo Saddam. È politico o religioso? Non credo che il problema sia fondamentalmente diverso da quello delle guerre che hanno coinvolto la cristianità: la Chiesa contro gli eretici, i cattolici contro gli ortodossi, i cattolici contro i protestanti, i luterani contro gli anabattisti. L'intreccio fra politica e religione forma, in ciascuno di questi conflitti, una matassa inestricabile. Quando vivono sullo stesso territorio o all'interno di uno stesso Stato due comunità religiose possono diventare nemiche per ragioni molto terrene, soprattutto quando il governo tende a favorire una di esse a danno dell'altra. La distribuzione degli impieghi e degli incarichi, la concessione delle commesse e il finanziamento dei lavori pubblici possono dare luogo a discriminazioni in cui il fattore religioso viene spesso rivendicato come motivo di legittimità o usato come giustificazione. Gli arabi sunniti rappresentano grosso modo soltanto il 20% della popolazione irachena, ma sono stati per molti anni il gruppo dominante e hanno spesso trattato gli sciiti (circa il 60% della popolazione) con grande durezza. Esiste una spiegazione, naturalmente. A differenza dei curdi e degli sciiti, i sunniti erano il gruppo etnico-religioso maggiormente interessato alla sopravvivenza di uno Stato iracheno e quindi il più adatto a governarlo dal centro. Ma i brutali metodi di Saddam hanno allargato e inasprito il conflitto, sempre latente, con sciiti e curdi. La situazione si è rovesciata quando gli americani, per conquistare l'Iraq e programmarne l'evoluzione politica, si sono appoggiati su sciiti e curdi a cui sono andate quasi tutte le leve del potere. Aggiunga a questo, caro Malgaroli, che i maggiori giacimenti di petrolio sono concentrati nelle regioni in cui i sunniti sono minoranza, e non dimentichi che Al Qaeda ha colto l'occasione per attizzare il fuoco dell'ostilità fra i due gruppi. Ma il fattore di maggiore instabilità, soprattutto in questi ultimi tempi, è stato l'apparizione nella regione del maggiore Stato sciita, l'Iran, oggi alleato del governo sciita di Bagdad. Questo è un altro risultato della guerra irachena che Washington non aveva previsto. Con il loro intervento militare in Iraq, gli Stati Uniti hanno comprensibilmente irritato e preoccupato gli iraniani.Mali hanno sbarazzati di due nemici (il regime di Saddam Hussein e quello dei talebani a Kabul) e hanno offerto allo Stato degli Ayatollah la possibilità di esercitare una considerevole influenza a Bagdad. Insomma Bush ha installato in Iraq un governo che è diventato amico dei suoi nemici. Peggio di così non poteva fare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 febbraio 2007

 
   
 

L'elezione diretta

Caro Romano, i cittadini italiani non hanno la possibilità si scegliere il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio dei ministri, i membri del Parlamento emi chiedo: una democrazia occidentale che non riesce ad eleggere nessuno che razza di democrazia è?

Francesca Zucco

Vi sono altre democrazie in cui gli elettori non scelgono né il capo dello Stato né il capo del governo.Mave ne sono poche in cui, oltre a non poter eleggere direttamente almeno una delle due massime cariche dello Stato, siano per di più tenuti a scegliere fra liste composte esclusivamente di persone designate dai segretari di partito.

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 febbraio 2007

 
   
 

Come è nata sul Baltico una città russo-tedesca

Sto organizzando un viaggio a San Pietroburgo via terra. Vorrei passare per Kaliningrad (Königsberg), l’enclave russa nell’Unione Europea. Che cosa pensa di questa stranezza geopolitica?

Natalie Paav

Cara Signora,
sono stato a Kaliningrad qualche mese fa e posso dirle che trovera una simpatica citta, un porto abbastanza attivo, un contado ricco di campi coltivati e di piccoli boschi, una bella costa, cittadine che si affacciano sulBaltico e attraggono i turisti con la grazia borghese dell' epoca tedesca. Ma nel capoluogo, ribattezzato in onore di Michail Ivanovic Kalinin, esponente bolscevico della prima ora, lei trovera poche tracce di Konigsberg, la citta fondata nel 1255 da Ottokar II, re di Boemia, e conquistata piu tardi dai cavalieri teutonici. Vi e ancora la vecchia cattedrale luterana, in corso di restauro, la tomba di Immanuel Kant appoggiata all' esterno dell' abside, una statua del filosofo di fronte all' universita, costruita dopo la guerra in stile sovietico, un pezzo del vecchio castello e qualche avanzo architettonico di non grande importanza.
Peccato. Quando Kant vi passeggiava ogni giorno con una puntualita che permetteva ai suoi concittadini di regolare i loro orologi sui passi del filosofo, Konigsberg era una ricca e bella citta di mercanti, armatori e borghesi illuminati: uno dei molti gioielli urbani che i tedeschi avevano costruito sulle sponde del Mar Baltico, da Lubecca a Tallinn. Ma la battaglia scatenata dall' Armata Rossa nel gennaio del 1945 distrusse buona parte della citta, e cio che resto in piedi venne eliminato dagli occupanti quando decisero di cancellare ogni segno dell' antica presenza prussiana.
L' annessione segno il punto piu avanzato della espansione sovietica nel Baltico verso occidente.
Ma il distretto di Kaliningrad confinava allora con una repubblica sovietica, la Lituania, ed era quindi unito all' Urss da una continuita territoriale.
Oggi, dopo la disgregazione dello Stato sovietico e la riapparizione dello Stato lituano, fagocitato dai sovietici nel 1940, Kalingingrad e un' enclave russa all' interno dell' Unione Europea. Una stranezza geopolitica, come lei osserva nella sua lettera? Posso soltanto dirle che Vladimir Putin, con una mossa azzardata ma intelligente, ha deciso di celebrare il 750¢ª anniversario della fondazione di Konigsberg convocando nel 2005, in una cittadina balneare accanto a Kaliningrad, un vertice franco-russo- tedesco con la presenza di Jacques Chirac e Gerhard Schroder. Per il cancelliere tedesco dovette trattarsi di una esperienza sgradevole, ma non pote negare questo favore all' amico Putin e si trasse d' imbarazzo dichiarando nel corso di una conferenza stampa che i tedeschi, pur non intendendo rimettere in discussione i risultati della guerra, non avrebbero mai cancellato dalla loro memoria il nome di Konigsberg.
Qualcuno si chiese se Putin non avesse commesso un madornale errore di gusto. Ma il presidente russo si era proposto alcuni obiettivi. In primo luogo voleva far sapere al mondo che la Russia non avrebbe mai rinunciato a quel pezzo di territorio conquistato durante la Grande guerra patriottica.
In secondo luogo voleva che il cancelliere tedesco, con la sua presenza, riconoscesse il fatto compiuto.Ein terzo luogo, infine, voleva fare di Kaliningrad e del suo distretto la piu europea delle province russe. Da allora, incoraggiata da Putin, Kaliningrad ha cominciato a ripulirsi della sua immagine tristemente comunista e a divenire russo- tedesca. E da poco terminata la ricostruzione di una porta delle vecchie mura.Equasi terminato il restauro della grande cattedrale luterana. Qualcuno pensa di ricostruire il vecchio castello. Vi sono piccoli musei dedicati alla storia del borgo medioevale, alle sue mura, alla civilta del Baltico, alla cultura domestica della Prussia orientale.
Evi e una Casa russo-tedesca dove si organizzano programmi musicali per bambini e pantomime ispirate dai racconti del barone di Munchhausen.
Ancora un particolare che aggiungera al suo viaggio una nota italiana. I tram di cui si servira per visitare Kaliningrad giravano per Milano prima che il sindaco Albertini e l' assessore alla Cultura Salvatore Carrubba ne facessero dono alla nuova Konigsberg.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 febbraio 2007

 
   
 

Le ragioni dei critici

Caro Romano,
da lungo tempo si ascoltano analisi impietose sulla gestione della guerra in Iraq. Per ribaltare parzialmente le accuse anche da lei mosse all’amministrazione americana, mi soffermo su un discorso di metodo. Vilfredo Pareto diceva che da 20 cause scaturiscono 80 effetti, da qui l’estrema difficoltà di prevederli tutti e 80. Ricerche sperimentali mostrano chiaramente come chi critica le decisioni prese da altri sostiene spesso che «io lo sapevo dall'inizio »: è, banalizzando, il classico discorso del lunedì al bar dello sport, che verte su scelte «chiaramente» sbagliate dell’allenatore della squadra perdente. A posteriori è facilissimo analizzare cause ed effetti, trovare nessi e spiegazioni di eventi. Ex ante un po’ meno. Ed è per questo che esistono molti più storici che profeti.

Massimo Bassetti

Pareto aveva ragione, ma vi furono Paesi, governi, commentatori e osservatori che spiegarono le ragioni per cui la guerra avrebbe prodotto probabilmente effetti disastrosi. Non crede che abbiano il diritto di dire, anche se non è elegante, «avevo ragione»?

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 febbraio 2007

 
   
 
L'esperanto contro l'inglese: una battaglia perduta

Dal 1° gennaio l'Unione Europea ha 23 lingue ufficiali, dopo l'ingresso di Bulgaria e Romania e l'introduzione del gaelico.
In realtà l'inglese acquista terreno in ogni campo della vita economica e sociale.
In Europa e nel mondo si è affermata una situazione di tale predominio di alcune lingue (soprattutto dell'inglese) e culture su tutte le altre da pregiudicarne la vita stessa. Non pensa sia necessario uno stimolo innovativo verso un'Europa degli europei e non degli anglo-americani? Non crede che gli anglofoni siano privilegiati in più settori, primo fra tutti quello professionale? Per l'Unione Europea è necessaria una lingua neutrale e che non sia «materna» di alcun popolo!
Ho letto alcuni articoli sull'esperanto e sul valore e l'importanza che può avere come lingua internazionale.
Ritengo che l'esperanto potrebbe offrire agli uomini lo strumento per raccogliere il maggior numero di informazioni possibili.

Arianna Screpanti

Cara Signora, potrei sottoscrivere senza difficoltà tutte le sue parole. È vero che la diffusione dell'inglese sta progressivamente riducendo lo spazio e l'influenza delle altre lingue. Un secolo fa la borghesia europea sceglieva una lingua straniera, per l'educazione dei propri figli, sulla base di molte considerazioni: interessi culturali, orientamenti professionali, considerazioni geografiche. Oggi tutti ritengono che basti, per viaggiare e fare affari, conoscere l'inglese. Lei ha perfettamente ragione quando osserva che questo conferisce agli anglofoni, all'inizio della corsa, un grande vantaggio. Noi dobbiamo tradurre, cercare faticosamente la parola giusta, prestare grande attenzione alle sfumature e ai sottintesi del nostro interlocutore inglese o americano; lui deve semplicemente esprimersi nel linguaggio che gli è naturale. E lei ha colto un aspetto importante della questione quando osserva che questo vantaggio iniziale non sollecita gli anglofoni allo studio di altre lingue. Persino gli studiosi inglesi, americani, canadesi e australiani ritengono cha sia ormai sufficiente, per la loro carriera, conoscere esclusivamente l'inglese. Ne abbiamo una conferma quando, sfogliando il libro di uno storico anglosassone, constatiamo che la bibliografia si compone spesso soltanto di testi pubblicati in inglese. Un libro pubblicato in un'altra lingua ha quindi meno possibilità di essere conosciuto, citato e apprezzato.
Dovremmo quindi cercare di spezzare il monopolio dell'anglofonia ricorrendo all'esperanto? Le lingue sono organismi vivi che reagiscono all'evoluzione della società e dell'economia creando con grande spontaneità le parole necessarie per stare al passo con i tempi. Non è facile riprodurre questa spontaneità artificialmente sotto la campana di vetro di un laboratorio linguistico. Gli ebrei riuscirono e resuscitare e a modernizzare l'antico ebraico perché erano pochi, vivevano in un piccolo territorio e avevano una forte motivazione ideale. L'esperanto, nonostante il generoso sforzo dei suoi partigiani, è una lingua artificiale in cui il tasso di accrescimento lessicale è fortemente limitato dal piccolo numero di coloro che la parlano. Temo che la battaglia dell'esperanto sarebbe una battaglia perduta. Questo non significa che l'inglese sia fatalmente destinato a dominare il mondo. Vi sono due interessanti fenomeni che occorrerà seguire con attenzione nei prossimi anni. In primo luogo, lo spagnolo è diventato, soprattutto durante la seconda metà del Novecento, una lingua internazionale e gli Stati Uniti potrebbero essere, fra mezzo secolo, un Paese bilingue. In secondo luogo, la diffusione dell'inglese in tutti i continenti sta creando una moltitudine di varianti locali, fortemente influenzate dalla cultura, dal gergo e dagli accenti del Paese in cui è parlato. Come il latino generò un certo numero di lingue «volgari», così potrebbe accadere domani per la lingua inglese. E gli stessi inglesi, quando dovranno andare in India o in Kenya, potrebbero vedersi costretti a imparare una lingua alquanto diversa da quella che hanno appreso nelle loro famiglie e nelle loro scuole.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 febbraio 2007

 
   
 

Diversità nelle pene

Caro Romano, i brigatisti che rapirono e uccisero Aldo Moro hanno avuto pene medie di 15-17 anni. Oggi persone che si macchiano di delitti orrendi vengono condannate a 10-20 anni. Al contrario i «terroristi» sudtirolesi degli anni Sessanta, che salvo qualche eccezione fecero soltanto saltare dei tralicci, hanno avuto pene più dure e talvolta perfino l'ergastolo. La questione è tornata d'attualità negli ultimi mesi perché Vienna si è rivolta al presidente Napolitano invocando la grazia. Questa sarebbe l'occasione adatta per riparlare di una pagina di storia italiana dimenticata. Mi piacerebbe sapere il suo parere in proposito.

Alessandro Michelucci - Firenze

Credo che lei abbia ragione. Non dovremmo applicare al terrorismo tirolese regole più severe di quelle che abbiamo applicato al terrorismo di casa nostra.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 febbraio 2007

 
   
 

Senato: mistero di un'astensione che significa "no"

Da dove deriva la strana situazione del Senato per cui nelle votazioni l'astensione equivale a un voto contrario? Rispetto a qualsiasi questione si può essere favorevoli, contrari o astenuti (cioè né favorevoli né contrari). Al Senato invece non è così. Il governo ha avuto 158 voti a favore e 136 contrari: questo è ciò che politicamente conta. Se gli astenuti fossero stati veramente tali, non ci sarebbe stata una crisi di governo.

Claudio Groppetti, Cavaglio d'Agogna (No)

Caro Groppetti, l'articolo 64 della Carta costituzionale dice che "le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale ". Ma lo stesso articolo dice altresì che "ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti". Fra il regolamento della Camera e quello del Senato esiste tuttavia una importante differenza. Alla Camera, come ha spiegato Francesco Cossiga in una intervista alla radio del Sole 24 Ore, gli astenuti riducono il quorum. Al Senato invece il quorum, anche se alcuni senatori decidono di partecipare al voto con una astensione, resta invariato. Con il risultato che la battaglia, alla Camera, è un confronto tra i sì e i no; mentre al Senato la maggioranza, come ricorda Cossiga, si raggiunge superando di almeno un voto la metà di coloro che sono presenti in Aula al momento della votazione. È una anomalia? Per Andrea Manzella che ha dedicato all'argomento un interessante articolo nella Repubblica del 24 febbraio, è "un non senso, una bizzarria, che è vecchia come la Repubblica perché il Senato ha sempre rifiutato, per immotivata pigrizia, di correggerla e la Corte costituzionale, nel 1984, si dichiarò pilatescamente impotente a farlo". Sull'opportunità di correggere questa normadel regolamento, Manzella non ha dubbi: "È giusto che chi si astiene - cioè chi non vuole prendere posizione né da una parte né dall'altra - venga considerato eguale a chi vota contro?". Credo che Manzella abbia ragione e che questa curiosa norma del regolamento del Senato andrebbe modificata. Ma,attenzione.Non commettiamo l'errore di pensare che il risultato del voto al Senato, quando il governo decise di dimettersi, sarebbe stato necessariamente diverso. Chi si astiene conosce perfettamente il regolamento e gli astenuti dell'Udc sapevano quindi che il loro voto avrebbe messo in pericolo l'esistenza del governo. Hanno preferito adottare la formula dell'astensione perché volevano distinguersi dai partiti della Casa della Libertà, sottolineare la loro differenza, far capire che erano contrari al governo, ma per ragioni diverse da quelle dei loro ex alleati. Nella prassi del Senato l'astensione è divenuta una variante del no, il mezzo a cui si vuole affidare un particolare messaggio. È certamente possibile convenire con Manzella sulla opportunità di cambiare la norma. Ma che cosa avrebbero fatto i senatori dell'Udc se l'astensione avesse avuto il senso e gli effetti della Camera dei deputati? Avrebbero votato per il governo? Sarebbero usciti dall'Aula? O si sarebbero rassegnati a votare esplicitamente no, come era verosimilmente nelle loro intenzioni?

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 marzo 2007

 
   
 
1944: come l'Italia sconfitta schiuse la porta all'Urss

Ho letto la risposta sul viaggio di De Gasperi negli Usa. Senza nulla togliere a un grande uomo di Stato come De Gasperi (addirittura potremmo dire che fu un grande uomo di due Stati), non crede che i giochi fossero già stati fatti nei mesi immediatamente successivi alla conquista della penisola, quando nella Commissione di controllo gli occidentali misero in secondo piano i sovietici, creando il cosiddetto «precedente italiano»? In sostanza l'esclusione del Pci risalirebbe a due anni prima, con l'«esclusione» di Vyshinskij. Lei che cosa ne pensa?

Andrea Speronello

Caro Speronello, dopo l'armistizio l'Italia fu soggetta a una Commissione di controllo, ed è certamente vero che inglesi e americani tennero i sovietici fuori della porta. La guerra non era ancora finita, ma i futuri vincitori, pur continuando a combattere, pensavano già agli equilibri del dopoguerra e alle loro rispettive zone d'influenza. Gli Alleati occidentali sapevano che l'Unione Sovietica avrebbe esercitato una forte influenza sulla penisola balcanica e non volevano che avesse voce in capitolo nella gestione degli affari italiani. Ma è utile ricordare che la porta chiusa dagli angloamericani venne socchiusa per l'Urss, se non aperta, proprio dal governo Badoglio e in particolare da un uomo che era, a tutti gli effetti, ministro degli Esteri. Si chiamava Renato Prunas, aveva rappresentato l'Italia a Lisbona ed era arrivato fortunosamente a Brindisi pochi giorni dopo la fuga del re da Roma. Ho già raccontato questa storia qualche anno fa parlando di un libro su Prunas scritto da Gian Luca Borzoni per l'editore Rubattino e la collana di studi diplomatici diretta da Luigi Vittorio Ferraris. Le cose andarono così.
Accanto alla Commissione di controllo, per dare una soddisfazione agli altri alleati, gli inglesi e gli americani avevano creato una Commissione consultiva di cui facevano parte, insieme all'Urss, anche i rappresentanti del Cln francese, la Grecia e la Jugoslavia. Vi erano quindi dei malcontenti su cui era possibile, entro certi limiti, fare leva. Prunas se ne rese conto e decise di chiedere un appuntamento con l'uomo che rappresentava l'Urss nel Comitato consultivo: Andrej Vyshinskij. Non so se Prunas avesse letto le sprezzanti arringhe con cui il suo interlocutore aveva mandato a morte, all'epoca delle grandi purghe, alcuni fra i maggiori protagonisti della Rivoluzione d'Ottobre. Quando riassunse in un memorandum per Badoglio il contenuto della conversazione, scrisse che gli era parso «serio, pacato, riflessivo». In un certo senso aveva ragione. Vyshinskij fu un camaleonte. Poteva essere un micidiale inquisitore, un diplomatico di buon senso e anche, per certi aspetti, un buon giurista. Quando feci una visita al procuratore generale dell'Urss, parecchi anni fa, vidi negli uffici della Procura una sua fotografia e appresi che i giovani magistrati sovietici continuavano a prepararsi su un manuale di procedura penale che era stato scritto dallo spietato pubblico ministero dei processi di Mosca.
Prunas propose che i due Paesi stringessero rapporti diplomatici e lasciò capire che l'Urss, in questo modo, avrebbe avuto, a dispetto degli anglo- americani, una stabile presenza in Italia. Vyshinskij ascoltò attentamente e promise che avrebbe riferito a Mosca. Parlarono anche di Togliatti. Un mese prima, il 9 dicembre, era giunta a Brindisi una lettera con cui il comunista italiano, «in nome proprio e del gruppo di emigrati antifascisti in Unione Sovietica», chiedeva l'aiuto di Badoglio «per risolvere la questione del ritorno in patria». Prunas capì che la richiesta conferiva una certa legittimità al governo del re e che l'arrivo di Togliatti avrebbe costretto gli altri partiti antifascisti ad ammorbidire la loro opposizione.
L'operazione Prunas richiese altri contatti, ma il 4 marzo 1944 un nuovo rappresentante sovietico, Aleksandr Bogomolov, chiese di vedere Badoglio e gli comunicò che il governo dell'Urss era disposto ad accogliere un rappresentante ufficiale italiano; non avrebbe avuto la qualifica di ambasciatore, ma sarebbe stato trattato, a tutti gli effetti, come un diplomatico. Gli anglo-americani si arrabbiarono, ma finirono per accettare realisticamente il fatto compiuto e, per non consegnare l'Italia all'influenza sovietica, cominciarono ad allargare le maglie che avevano imprigionato sino a quel momento il governo Badoglio. Prunas aveva realizzato un piccolo miracolo.
Con questa apertura all'Urss, Prunas continuò la politica di Giolitti nel primo decennio del Novecento, quando Nicola II venne a Racconigi per una visita ufficiale, e quella di Mussolini nel 1924, quando il governo fascista riconobbe la Russia bolscevica. E creò le condizioni per quella che avrebbero fatto i governi democristiani quando eravamo fedeli membri della Nato, ma lanciavamo segnali di amicizia verso l'Unione Sovietica. Come dicono i francesi, caro Speronello, più si cambia, più è la stessa cosa.

Sergio Romano
Corriere della sera, 02 marzo 2007

 
   
 
Per la base di Vicenza esisteva un'alternativa

Ho letto le sue considerazioni contrarie all'allargamento della base di Vicenza e le chiedo: perché Romano Prodi ha deciso in tal modo, sapendo di spaccare in due la maggioranza? Che cosa sarebbe successo se l'allargamento fosse stato negato? Il centrodestra avrebbe strepitato per l'«antiamericanismo» e il «comunismo» di Prodi, ma per il resto? Ci sarebbero state insanabili conseguenze diplomatiche con gli Usa?
Si sarebbe ribellata la parte moderata della maggioranza? Oppure che cos'altro?
Mario Manni

Leggendo il testo della testimonianza di Brzezinski di fronte al Senato Usa da lei riportato in un commento, mi sono chiesta: a chi avrebbero attribuito tali parole i nostri governanti, se non ne avessero conosciuto l'autore? Forse erano parole di estremisti della sinistra radicale, visceralmente antiamericani? Perché chi non apprezza la politica di distruzione del Medio Oriente e chiede la revisione degli accordi internazionali che legano Italia e Usa, deve essere tacciato di estremismo e antiamericanismo non soltanto dalla Cdl, ma anche da importanti esponenti governativi? Io non credo di esserlo, né di esserlo mai stata.

Adriana Marré

Cara Signora, caro Manni, le vostre lettere contengono una stessa domanda: è possibile dissentire dalla politica degli Stati Uniti o, come nel caso di Vicenza, rifiutare una loro richiesta, senza apparire antiamericani? Osservo anzitutto che non è possibile dire di no a un Paese alleato, soprattutto su una questione che concerne la sicurezza, senza spiegargliene le ragioni. Per evitare la crisi dei rapporti italo-americani, il governo avrebbe dovuto fare contemporaneamente due cose. Avrebbe dovuto dire a Washington, anzitutto, che i progetti del Pentagono per il raddoppio della base di Vicenza erano una buona occasione per mettere sul tavolo alcuni problemi da molto tempo trascurati: l'uso strategico delle basi, il loro numero, la loro dislocazione, lo statuto civile e penale dei militari americani, la partecipazione delle autorità italiane alle decisioni che possono comportare la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Gli accordi stipulati all'epoca della guerra fredda e la prassi di quegli anni sono certamente superati dalle nuove circostanze internazionali. Volete raddoppiare Vicenza? Parliamone.
Ma questa impostazione sarebbe stata credibile soltanto se il governo italiano avesse dato agli Stati Uniti, contemporaneamente, il sentimento che l'Italia non intendeva servirsi di un pretesto per assumere atteggiamenti neutralisti o dogmaticamente pacifisti. Avremmo potuto spiegare all'America che non siamo pronti a sottoscrivere tutte le sue iniziative militari, ma che intendiamo partecipare alle operazioni approvate dall'Onu, dal Consiglio Atlantico o dall'Unione europea. E avremmo potuto rafforzare questa impostazione dichiarando che eravamo pronti a fare la nostra parte in Afghanistan anche nelle zone in cui si combatte. Se avessimo agito e parlato con questo doppio registro, gli americani non avrebbero potuto sottrarsi al negoziato senza dare la sensazione di essere pregiudizialmente ostili al governo Prodi.
Ma il governo, purtroppo, non era in grado di adottare contemporaneamente questa duplice impostazione. Lo striminzito bilancio militare e il numero delle missioni all'estero hanno impoverito i nostri arsenali. Non potremmo combattere, in altre parole, nemmeno se ne avessimo l'intenzione. La sinistra radicale, d'altro canto, si oppone a qualsiasi discussione sulla politica militare del Paese che non si riduca alla elencazione di vecchi slogan pacifisti e terzaforzisti. La posizione presa dal governo sulla base di Vicenza è figlia di questi limiti e condizionamenti. Schiacciati fra la richiesta degli americani e i veti dell'estrema sinistra, Prodi, Parisi e D'Alema si sono tirati d'impiccio dichiarando che il governo non aveva margini di libertà perché era vincolato dalle decisioni del suo predecessore. E questo, per una coalizione che non cessa di rivendicare la discontinuità rispetto al passato, è un bel paradosso.

Sergio Romano
Corriere della sera, 03 marzo 2007

 
   
 
«Navi e poltrone»: un processo alla Marina

In una recente trasmissione televisiva dedicata alla figura dell'editore Leo Longanesi, ho sentito parlare di un libro da lui pubblicato nel 1952 dal titolo «Navi e Poltrone» che suscitò alla sua uscita roventi polemiche a causa delle tesi accusatorie dell'autore Antonino Trizzino nei confronti dei vertici della nostra Marina militare dopo l'attacco da parte degli inglesi alla flotta italiana nel golfo di Taranto nel 1940. Effettivamente ancora oggi, rileggendo quel libro, di cui le chiedo di ricostruire le vicende, si rimane sorpresi dalla evidente sopravvalutazione data dall'autore alle capacità belliche della nostra marina all'inizio del conflitto.

Sergio Carrara

Caro Carrara, Antonino Trizzino era stato ufficiale d'aviazione durante la guerra e ne era tornato con la profonda convinzione che i vertici delle forze armate fossero stati incapaci di preparare il Paese alle sfide del conflitto. Il suo libro non è soltanto una incalzante requisitoria contro la Marina. Nel primo capitolo, ad esempio, l'autore non risparmia critiche all'Aeronautica militare, colpevole di avere trascurato lo sviluppo e la fabbricazione dell'aerosiluro: la sola arma, secondo Trizzino, che avrebbe permesso all'Italia di contrastare nel Mediterraneo la potenza e l'esperienza della Home Fleet britannica.
Gran parte del libro, tuttavia, concerne la Marina e le grandi sconfitte subite dalla nostra flotta. Alcune delle pagine più avvincenti e polemiche sono quelle dedicate all'operazione degli aerosiluranti inglesi contro le navi di battaglia italiane nel Golfo di Taranto (novembre 1940), al bombardamento navale di Genova nel febbraio 1941, all'affondamento di sette piroscafi italiani nel novembre 1941, alla caduta di Pantelleria e Lampedusa nel giugno 1943. Trizzino ha uno stile secco e incisivo, ha lavorato sulle fonti disponibili e, soprattutto, non ha peli sulla lingua. Non sopravvaluta la potenza della flotta italiana e conosce i grandi meriti di quella britannica. Ma crede che il rapporto di forze rendesse possibile un migliore equilibrio e punta il dito contro il vertice della Marina.
Alcuni ammiragli sono esplicitamente accusati di codardia. Ma il capo d'accusa più grave è spionaggio e tradimento. L'autore non può fornire documenti e individuare precise responsabilità, ma è appassionatamente convinto che soltanto informazioni provenienti da Supermarina abbiano consentito agli inglesi di mettere a segno alcune delle loro operazioni più brillanti. E crede che soltanto l'ipotesi del tradimento possa spiegare la passività e la lentezza della nostra flotta in circostanze in cui un rapido intervento avrebbe potuto contrastare efficacemente i piani del nemico. La prova indiretta, sempre secondo Trizzino, è in un libro dell'ammiraglio Franco Maugeri, capo dell'Ufficio informazioni, apparso dopo la guerra e tradotto anche in inglese. Nel libro si legge tra l'altro questa frase: «L'inverno del 1942-43 trovò molti di noi, che speravano in una Italia libera di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo potuti liberare delle nostre catene se l'Asse fosse stata vittoriosa. (...) Più uno amava il proprio Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta sul campo di battaglia».
Il libro ebbe un grande successo e l'editore, Leo Longanesi, ne fece venti edizioni. Ma procurò a Trizzino parecchie querele per diffamazione e un processo per vilipendio della Marina militare, promosso dal ministero della Difesa, che si concluse il 5 dicembre 1953 alla Corte d'Assise di Milano con la condanna dell'imputato a due anni e quattro mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno per gli ammiragli querelanti. Ma l'autore si appellò contro la sentenza e fu assolto con un verdetto che riconosceva la sua buona fede e il suo desiderio di fare chiarezza su alcune pagine della storia nazionale. Se vorrà leggere l'intera sentenza, caro Carrara, troverà le sue 51 pagine in fondo alle ultime edizioni dei libro di Trizzino.

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 marzo 2007

 
   
 

Continua e discontinua

Caro Romano, in merito alle roventi polemiche sull'ampliamento della base americana di Vicenza vorrei fare presente di non avere ancora ben capito quali siano gli impegni internazionali citati dai fautori del progetto che vincolerebbero l'Italia a concedere tale raddoppio.
In effetti la base non rientra tra quelle Nato, nè serve per operazioni dell'Onu, ma è un avamposto di un singolo Paese straniero che verrà utilizzato dallo stesso per eventuali operazioni militari sulle quali Washington non chiederà certo il permesso a Roma. Lo stesso Silvio Berlusconi mi pare abbia confermato che si trattava di accordi esclusivamente verbali con il governo americano.
Mi piacerebbe sentire qualcuno che finalmente ammettesse che tutta l'operazione ha un rilevante risvolto economico per il territorio di Vicenza, l'occupazione e l'indotto e che soltanto su tali considerazioni si basa il sì dato dall'attuale governo.

Leonardo Annese

Sembra di comprendere che le intese furono verbali, non formali. Ma l'esistenza di queste intese (che Silvio Berlusconi non intendeva negare o ridimensionare) hanno permesso al governo Prodi di invocare gli obblighi della continuità: una decisione assai curiosa per un governo che aveva fatto della discontinuità una sorta di principio identitario.

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 marzo 2007

 
   
 
Carlo Alberto: le due personalità di un re romantico

Se a Vittorio Emanuele II va riconosciuto il merito di essere padre della patria, per suo padre Carlo Alberto c'è stato quasi l'oblio. Eppure il sovrano del piccolo Regno di Sardegna ebbe indubbiamente dei meriti. Fu un grande riformatore del piccolo Stato sabaudo, riordinò la burocrazia, abolì alcuni privilegi, fece costruire strade e monumenti rendendo Torino una vera capitale. Anche se in un primo momento fu ostile alla Giovine Italia reprimendo i rivoluzionari, intuì poi che era arrivato il momento di agire: proclamò lo Statuto albertino, non nascose che la sua ambizione era la riunificazione dell'Italia. Certo fu travolto dalla sconfitta di Novara nella prima guerra d'indipendenza, un'impresa un po' troppo improvvisata anche se il sovrano aveva avuto esperienze militari con l'esercito francese in Spagna. Ma a Carlo Alberto forse l'Italia avrebbe dovuto dedicare qualcosa di più. La penisola è piena di vie, piazze, monumenti intitolati a Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini, ma anche a molti componenti della famiglia Savoia. Ben poche tracce e memorie ci sono invece di questo sfortunato re, che sicuramente fu migliore di molti suoi successori.

Mauro Lupoli

Caro Lupoli, a qualche storico Carlo Alberto sembrò l'incarnazione moderna di Amleto, principe di Danimarca. Era ombroso, umorale, spesso malinconico. Un ambasciatore francese che ebbe occasione di conoscerlo e di frequentarlo, Amable- Guillaume Barante, lo descrisse con queste parole: "Carattere triste, sauvage, inquieto, diffidente, non cattivo, attende agli affari senza entusiasmo, come un fastidio (...), non vede nessuno, non va in nessun luogo; è un solitario chiuso nella cornice del cerimoniale (...) nulla di gioviale e di aperto ". I processi alla Giovine Italia di cui vi è cenno nella sua lettera (quindici condanne a morte, di cui dodici eseguite) risalgono a un anno, il 1833, in cui Carlo Alberto credeva, come l'imperatore Alessandro di Russia, che i re fossero "pastori di popolo", designati dalla Provvidenza divina per difendere i loro sudditi dalle tentazioni rivoluzionarie. Ma negli anni della sua giovinezza (era nato a Torino nel 1798) aveva vissuto in Francia e Svizzera, aveva frequentato ambienti liberali, aveva ammirato Napoleone, si era arruolato nel suo esercito, era divenuto conte dell'Impero e sottotenente in un reggimento di dragoni della Grande Armée. Quando tornò a Torino dopo la Restaurazione aveva quindi fama di principe liberale ed era considerato con grande sospetto dagli ambienti conservatori. I reazionari della corte sabauda non avevano torto. Gli amici di Carlo Alberto in quegli anni erano, fra gli altri, Cesare Balbo, che fonderà più tardi "Il Risorgimento", e Santorre di Santarosa che morirà a Sfacteria nel 1824 combattendo per l'indipendenza della Grecia. Nessuno fu sorpreso quindi allorché il giovane principe, durante i moti liberali del 1821, dimostrò simpatia per i congiurati e fu punito con una sorta di esilio. Ma nei mesi seguenti Carlo Alberto fece ammenda e chiese di andare a combattere i liberali spagnoli a Trocadero in Spagna nell'esercito dei Borbone di Francia. Il liberale era diventato reazionario e tale sarebbe stato, dopo essere salito al trono, per molti anni. Dietro queste oscillazioni fra liberalismo e reazione i suoi biografi intravedono il temperamento romantico di un uomo inquieto, impaziente, ambizioso, continuamente alla ricerca di una causa, di una missione, di un ruolo. Il nuovo cambiamento avvenne negli anni Quaranta quando Carlo Alberto cominciò ad adottare una linea anti-austriaca. Fu sedotto dal movimento neoguelfo, si avvicinò nuovamente agli ambienti liberali, ebbe l'impressione di poter prendere la guida di un movimento che avrebbe procurato gloria alla sua persona e alla sua famiglia. Non fu un re moderno, commise molti errori politici e militari, pensò alla dinastia più di quanto non pensasse alla nazione. Ma l'Italia deve a questo Amleto piemontese almeno tre gesti di cui può andare fiera. Carlo Alberto dette al Regno di Sardegna uno Statuto che diverrà nel 1861 la costituzione italiana. Andò in aiuto degli insorti milanesi dopo le cinque giornate rivoluzionarie del marzo. Tentò un'ultima battaglia contro gli austriaci a Novara e pagò la sconfitta rinunciando al trono con una dignitosa abdicazione. Fu questa la ragione per cui molti uomini del Risorgimento gli perdonarono i peccati del periodo reazionario. Ma preferirono elevare monumenti al figlio piuttosto che al padre.

Sergio Romano
Corriere della sera, 08 marzo 2007

 
   
 

"Sinistra radicale"

Caro Romano, perché per "sinistra radicale" si intende la sinistra massimalista, la sinistra alternativa? Storicamente la sinistra radicale è la sinistra borghese, liberale, socialdemocratica, filo occidentale, atlantica: esattamente il contrario di ciò che i media intendono col termine sinistra radicale. Sono cambiate le terminologie, o nell'era di internet sono state eccessivamente semplificate, distorcendone il significato?

Davide Ferrari, Milano

È vero. Per molto tempo in Francia e, per imitazione, in Italia, i Radicali sono stati il partito della borghesia progressista. Marco Pannella, che ha lavorato lungamente in Francia come giornalista, s'impadronì del nome e lo ha usato per un partito che assomiglia ai liberal americani molto più di quanto non assomigli ai radicali francesi. Ora la parola viene usata per definire partiti e movimenti che appartengono al filone massimalista e trotzkista della sinistra italiana. Quella che lei chiama distorsione è in realtà la naturale evoluzione semantica di una parola: un fenomeno molto interessante per linguisti, storici e politologi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 08 marzo 2007

 
   
 
America e Israele: come ammirarli e criticarli

Osservo che il suo relativismo si ferma ai confini di due Stati: Israele e gli Stati Uniti. È mai possibile che per essi valga l'assoluto che non facciano mai nulla di buono? O che mai ci si debba porre nei loro panni? Riguardo agli Stati Uniti, vi è un altro punto interessante. Lei non nasconde una certa nostalgia per i grandi imperi del passato: quello britannico e quello austro-ungarico, per esempio.
Se così è, capisco il suo sentimento e, in parte, lo condivido. A queste nostalgie aggiungerei forse quella per l'impero ottomano e, a volte, con mio vergognoso e un po' disperato cinismo, quella per l'impero sovietico. Lei è così sicuro che il tramonto dell'impero americano, forse il meno pesante tra tutti quelli appena citati, vada auspicato con tanta persistenza?
Un Sergio Romano del 2076 non ci scriverà da New York con la struggente nostalgia per quella cultura raffinata, vivacissima, multivocale e libera? Nonostante gli inevitabili neo-Sykes e neo-Picot (autori degli accordi con cui la Francia e la Gran Bretagna, durante la Grande guerra, si spartirono l'Impero ottomano, ndr)?

Enrico Arbarello

Caro Arbarello, se la sua lettera concernesse soltanto la mia persona, mi sarei limitato a ringraziarla privatamente per il garbo e la finezza delle sue osservazioni. Ma lei propone questioni di ordine generale che concernono storici e giornalisti, e merita quindi una risposta pubblica.
Lo storico può permettersi di guardare al passato con un sovrano distacco. Quello che doveva accadere è accaduto e nulla di ciò che è scritto oggi ha il potere di modificarlo. Non basta. Lo sguardo lungo di chi non è personalmente coinvolto nelle vicende narrate, permette di comprendere e, implicitamente, perdonare. Se dovessi scrivere una storia degli Stati Uniti e del movimento sionista, cercherei di trasmettere al lettore le virtù, i sacrifici, il coraggio, le straordinarie intuizioni di coloro che ne furono protagonisti e gli enormi ostacoli che dovettero sormontare.
Ma lo sguardo di un giornalista e di un commentatore dell'attualità sono diversi. Gli avvenimenti di cui è testimone non sono ancora congelati nella fissità del passato. Sono una materia che si agita sotto i suoi occhi e che può assumere, a seconda delle scelte non ancora fatte, forme molto diverse. Nel momento in cui osserva e cerca di spiegare, il commentatore che scrive sui giornali è costretto a formulare giudizi e previsioni. Da parecchi anni ormai ho l'impressione che Israele si sia comportato nella regione come un vaso di ferro tra vasi di coccio, che le sue guerre preventive siano state spesso controproducenti e che uno Stato europeo, composto dall'avanguardia più dinamica e intraprendente dell'ebraismo, abbia maggiori responsabilità del mondo da poco decolonizzato che lo circonda. Sbaglio? È possibile. Ma il motto «Israele vince le battaglie e rischia di perdere la guerra», non è mio. È stato detto e ripetuto da autorevoli commentatori israeliani.
Per gli Stati Uniti il problema è diverso. Ho sempre saputo che l'America, nella politica internazionale, è un «innocent abroad», un «innocente all'estero» come Mark Twain definì i turisti americani in Europa. Può essere contemporaneamente generosa, assennata, prepotente e imprudente. Negli anni della Guerra fredda si è macchiata di molte intemperanze e sciocchezze (si ricorda l'invasione di Grenada?), ma è stata costretta a tenere saggiamente conto dell'esistenza di un avversario temibile. Dopo la fine della Guerra fredda e il crollo dell'Urss, i freni si sono allentati. Clinton ha saputo barcamenarsi tra prove di forza e prove di saggezza. Il suo successore, aiutato dalla follia islamista, ha commesso la più clamorosa sequenza di errori mai accumulati da un presidente americano nel corso della sua amministrazione. E poiché saremo tutti costretti a vivere con le conseguenze di questi errori, mi permetto di dirlo.
Le debbo ancora una risposta sul sentimento di nostalgia per gli imperi del passato. È un sentimento naturale. Il passato è un terreno sicuro, senza sorprese, imprevisti, incidenti di percorso e tragiche emergenze, vale a dire esattamente il contrario del presente. La lettura di una cronaca medioevale, anche se barbara e sanguinosa, è infinitamente più rassicurante della prima pagina del nostro giornale quotidiano.

Sergio Romano
Corriere della sera, 09 marzo 2007

 
   
 
La Svizzera e il Terzo Reich tra prudenza e fermezza

Da cultore dilettante di storia avrei una domanda: a quanto ne so la Germania nazista non manifestò mai mire annessionistiche nei confronti della Svizzera, o almeno della sua parte germanofona.
La cosa mi ha sempre incuriosito in quanto uno dei cardini della politica estera hitleriana era la riunificazione in un solo Reich dei popoli di lingua tedesca: infatti prima dello scoppio della guerra ci furono l'annessione dell'Austria, poi dei Sudeti e del territorio lituano di Memel. Dubito che ciò sia dipeso da scrupoli di ordine morale nel violare la storica tradizione di neutralità della Confederazione elvetica. Se le cose stanno effettivamente in questi termini, quale ne fu secondo lei il motivo?

Luca Falzoni

Caro Falzoni, negli armadi dello Stato maggiore tedesco e di quello italiano esistevano certamente i piani per l'invasione della Svizzera e per la sua spartizione. Se ne avesse avuto le intenzioni, Hitler, nella primavera del 1940, avrebbe potuto dare ordine alle forze armate del Reich di occupare il territorio svizzero per attaccare la Francia da sud-est. Non lo fece, probabilmente, perché l'operazione non era strategicamente indispensabile e avrebbe sottratto alla guerra le forze necessarie al controllo di un altro Stato occupato. Ma la ragione principale, con ogni probabilità, fu il timore che l'operazione non sarebbe stata indolore. La Svizzera era una «nazione armata», composta da cittadini soldati che venivano periodicamente richiamati alle armi per corsi di addestramento e conservavano nelle loro case, per antica tradizione, il fucile ricevuto al momento del loro primo servizio militare. L'esercito della Confederazione avrebbe dovuto cedere agli occupanti buona parte del territorio nazionale, ma si sarebbe ritirato in un ridotto fortificato tra le montagne, nel centro del Paese, e avrebbe resistito. Non valeva la pena di aprire un altro fronte quando le vere priorità della politica hitleriana erano altre: la guerra contro la Gran Bretagna e, in prospettiva, quella contro l'Unione Sovietica.
Una volta superata la fase critica del 1940, la Germania dovette avere la sensazione che un Paese neutrale, nel mezzo dell'Europa, avrebbe presentato qualche vantaggio per l'economia del Reich, per i suoi operatori finanziari, per la sua diplomazia e per i suoi servizi d'informazione.
La Svizzera, dal canto suo, evitò di provocare la collera tedesca e si adattò a qualche accomodamento. Era circondata dalle potenze dell'Asse. Aveva bisogno d'importazioni per i consumi della sua popolazione e le esigenze della sua industria. Viveva di commercio e finanza. Poteva forse trattare i suoi vicini come potenziali nemici? Quando le fu chiesto di permettere che il suo territorio venisse attraversato da convogli ferroviari che collegavano la Germania all'Italia, dovette acconsentire. Quando la Banca centrale tedesca le inviò, per la necessità delle transazioni finanziarie, un certo numero di lingotti, li accolse nei suoi forzieri, anche perché non poteva sapere allora che in quei lingotti vi era l'oro strappato alle comunità ebraiche europee. Il suo stile e la sua linea politica seguirono l'evoluzione della guerra. Sino a quando non poté essere certa che la Germania avrebbe perduto la partita, dovette piegarsi ad alcune delle sue esigenze. Poi, quando fu chiaro che la disfatta del Reich era ormai all'orizzonte, raddrizzò la sua politica e fu più accogliente per coloro che cercavano rifugio nel suo territorio. Ma in ultima analisi dovette la sua indipendenza a se stessa e alla fermezza con cui avrebbe combattuto per salvaguardarla.

Sergio Romano
Corriere della sera, 10 marzo 2007

 
   
 
Potsdam, luglio 1945: Truman, Stalin e la bomba

Ho apprezzato molto il ciclo di «Correva l'anno» dedicato ai gerarchi nazisti processati a Norimberga.
E infatti le domande che vorrei porle sono concernenti quel periodo storico. Per quale motivo furono sganciate su Hiroshima e Nagasaki le prime bombe atomiche? Per salvare la vita a un milione di soldati americani durante il previsto sbarco nel Paese del Sol Levante? Per sperimentare le nuove armi costate molto denaro?
Oppure per frenare l'avanzata sovietica e quindi del comunismo in Estremo Oriente?

Fabio Desideri

Caro Desideri, secondo la versione preferita dal presidente Truman e dai suoi successori, l'arma atomica fu utilizzata per chiudere il più rapidamente possibile un conflitto che avrebbe verosimilmente comportato la morte, nei mesi seguenti, di parecchie decine di migliaia di soldati americani. La guerra era stata vinta in Europa, ma i giapponesi avrebbero difeso strenuamente, una ad una, le molte isole (più di mille) del loro grande arcipelago. Esisteva a Tokyo un «partito della diplomazia» che cominciò a lanciare verso Washington, nell'ultima fase dell'offensiva alleata contro la Germania, qualche messaggio di conciliazione. Nella sua «Storia delle relazioni internazionali 1918-1992», edita da Laterza, Ennio Di Nolfo ricorda un episodio poco noto: il messaggio di condoglianze che l'ammiraglio Kantaro Suzuki, da poco nominato Primo ministro, aveva indirizzato al popolo americano dalla radio di Tokyo dopo la morte del presidente Roosevelt, il 12 aprile. Ma Truman pretendeva che il Giappone si arrendesse senza condizioni e rafforzava in tal modo il partito di quella cerchia di militari giapponesi che volevano resistere a oltranza. Un rapporto del Dipartimento di Stato, in quel periodo, azzardò un calcolo dei soldati che sarebbero caduti nel corso dell'offensiva finale e giunse a conclusioni preoccupanti. La bomba atomica sembrò a molti in quel momento il mezzo migliore per chiudere la partita. Vi furono altre motivazioni? Non credo che esistano documenti (memorandum, diari, verbali di riunione) da cui risulti che Truman e i suoi collaboratori volevano usare la bomba per sperimentare gli effetti delle nuove armi e intimidire l'Unione Sovietica. Ma ogni ipotesi o illazione è naturalmente consentita. Era naturale che molti desiderassero mettere alla prova, «in corpore vivo», un ordigno che ormai esisteva. Ed era altrettanto naturale che, mentre i vincitori si apprestavano a discutere l'ordine mondiale del dopoguerra, gli Stati Uniti volessero dare un segno tangibile della potenza di cui disponevano.
Esiste a questo proposito un episodio abbastanza enigmatico che si svolse nel luglio del 1945 a Potsdam dove Truman, Churchill e Stalin stavano discutendo per l'appunto gli affari del mondo. Alla vigilia della prima riunione tripartita, Truman ricevette da Washington un telegramma così redatto: «Operato stamane. Diagnosi ancora incompleta, ma risultati appaiono soddisfacenti e superiori alle aspettative». Era la formula convenuta per comunicare al presidente l'esplosione della prima bomba atomica nel deserto del New Mexico.
Dopo altri telegrammi che confermavano il buon esito dell'esperimento, Truman decise di darne notizia a Stalin. Lo fece in termini generici alla fine della seduta pomeridiana del 24 luglio descrivendo la bomba come «una nuova arma di straordinaria ("unusual") capacità distruttiva». Stalin parve distratto e indifferente. Non chiese particolari e si limitò ad auspicare che gli americani ne avrebbero fatto «buon uso contro i giapponesi». Nessun testimone di quell'incontro riuscì a capire se quella noncuranza fosse finta o reale. Ora sappiamo che il dittatore sovietico era al corrente da qualche tempo delle ricerche americane. La prima bomba fu sganciata su Hiroshima il 6 agosto, quattro giorni dopo la fine dei colloqui, ma la nuova arma non fu più menzionata, a quanto pare, durante i lavori della conferenza di Potsdam

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 marzo 2007

 
   
 

L’acronimo «G.I.»

Caro Romano, mi è capitato più volte di trovare l’acronimo G.I. riferito a soldati americani, mi potrebbe spiegare per che cosa sta? Da solo non ho saputo trovare la risposta.

Patrizio Merisi

Le due lettere (G.I.) apparivano spesso sulle forniture militari ed erano diventate sinonimo degli standard applicati dalle Forze Armate per i beni (armi, uniformi, cibo in scatola) che venivano distribuiti ai soldati. Secondo i dizionari americani potrebbero significare «galvanized iron» (ferro galvanizzato), vale a dire l’espressione con cui venivano definiti negli inventari e nella contabilità, sin dall’Ottocento, i prodotti confezionati in lattine di metallo, o «government issue», distribuzione governativa. Il generale Colin Powell preferisce la seconda ipotesi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 marzo 2007

 
   
 

Termine improprio

Caro Romano, abbonda l’uso del termine «slavo» laddove ci si riferisce a un singolo popolo. Non si parla del «clero sloveno» o «croato», ma del «clero slavo».
Michiedo se sia così difficile parlare di sloveni, croati, serbi, bulgari, bosniaci, cechi, slovacchi, ecc.
ecc. Invece si tende sempre a parlare di «slavi», come se i vari popoli di origine slava fossero un’unica tribù prenazionale. Non lo reputo né corretto, né colto. Noi dell’ex- Jugoslavia vi chiamiamo «italiani », non «latini».

Dragana Blagojevic, Roma

Lei ha ragione. La definizione «slavo» fa il paio con quella di «latino» che gli americani applicano a tutti gli immigrati dell’America Latina. Ed è altrettanto sgradevole.

Sergio Romano
Corriere della sera, 13 marzo 2007

 
   
 
Fascismo, comunismo e la variante geografica

Il comunismo riappare sempre attraverso le frange estreme della sinistra come se questa fosse il brodo di coltura più adatto per una certa ideologia che fa della violenza l'unico mezzo per sovvertire il sistema. Alla luce di quanto di negativo, nel mondo e nel tempo, molta umanità ha dovuto subire e subisce a causa di tale ideologia (e mi riferisco alle purghe staliniane, ai gulag, ai milioni di morti in Polonia, ai fatti di Ungheria, ai diritti calpestati in Cina e a Cuba, ai tabù della resistenza e quant'altro di tremendo accade ancora nel mondo) mi domando: perché e che senso ha oggi continuare sempre a parlare solo di antifascismo e mai di anticomunismo? Ci sono persone e partiti che lo portano ancora come un fiore all'occhiello, come un distintivo. Che senso ha continuare a fare un rendiconto di ciò che il fascismo e il comunismo hanno prodotto, per giustificare sempre e comunque le loro efferatezze?

Gian Giacomo Carta

Caro Carta, nella sua lettera, come in molte altre giunte durante i «giorni della memoria», lei sembra registrare con sorpresa che fascismo e comunismo continuino a essere pesati e giudicati con diversi criteri di misura. Secondo la verità corrente, il fascismo sarebbe il male assoluto e il comunismo un male relativo, meritevole di qualche attenuante. Se lei ne chiedesse ragione a uno storico di formazione marxista, questi le risponderebbe che tra le due ideologie esiste una fondamentale differenza. Il fascismo è nazionalista, razzista, quindi convinto che una nazione o una razza abbiano il diritto di dominare le altre. Mentre il comunismo si propone un nobile ideale: il riscatto degli umili e l'eguaglianza degli esseri umani, quale che sia il colore della loro pelle e dei loro occhi. Lei potrebbe naturalmente replicare che il fascismo italiano fu infinitamente meno repressivo e crudele di qualsiasi regime comunista. Ma il suo interlocutore le risponderebbe con qualche giro di frase che nel comunismo la nobiltà dei fini non venne mai meno.
Ho sempre avuto l'impressione che questa spiegazione sia la versione aggiornata di una vecchia massima («il fine giustifica i mezzi») in cui qualcuno ha preteso di riassumere, molto sommariamente, il pensiero di Machiavelli. Ma la vera obiezione a tale forma di giustificazionismo è un'altra. E' un errore sostenere che i regimi comunisti non siano mai stati razzisti. In tutte le grandi rivoluzioni ispirate dal comunismo vi furono lunghe fasi in cui i membri dell'aristocrazia, della borghesia, del clero e della piccola proprietà terriera vennero trattati, indipendentemente dalle loro azioni e dalle loro singole responsabilità, come nemici del popolo, geneticamente diversi dal proletariato. E vi furono fasi in cui gli ebrei, nonostante molti di essi avessero aderito entusiasticamente al comunismo, vennero perseguitati come gruppo etnico e sociale. Accadde, di fatto, durante le grandi purghe staliniane della seconda metà degli anni Trenta e durante quelle dei Paesi satelliti all'inizio degli anni Cinquanta. E sarebbe accaduto se la morte di Stalin, nel marzo 1953, non avesse bruscamente interrotto quello che si preannunciava come un grande pogrom su scala nazionale.
Ma tutti questi argomenti non sembrano scalfire la convinzione, molto diffusa, che il fascismo, soprattutto nella sua versione tedesca, sia peggio del comunismo. Penso che questo si spieghi alla luce di due ragioni. In primo luogo il nemico delle democrazie, durante la Seconda guerra mondiale, è stato il fascismo, non il comunismo. È normale che i vincitori, alla fine di un duro conflitto, tendano a perpetuare la «damnatio» del vecchio nemico. Più tardi, durante la Guerra fredda, gli americani cercarono di rappresentare il comunismo come un nemico non meno minaccioso e insidioso del «nazifascismo». Ma le condizioni politiche erano diverse: non erano in guerra con l'Urss, avevano rapporti diplomatici con la Russia sovietica e con i suoi alleati, non potevano negare che la patria del comunismo fosse stata una valida alleata delle democrazie contro la Germania nazista.
Esiste poi una seconda ragione, forse più importante. Il giudizio su fascismo e comunismo dipende dal modo in cui i singoli popoli hanno percepito e vissuto gli effetti delle due maggiori ideologie del Novecento. Il nostro mondo, vale a dire l'Europa occidentale, ha fatto diretta esperienza dei regimi fascisti e non può dimenticare ciò che rappresentarono per la vita dei suoi popoli, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale. Ma ha conosciuto i regimi comunisti soltanto indirettamente, «per sentito dire», attraverso la narrazione dei profughi e i libri degli studiosi. Diverso, naturalmente, è il giudizio dei popoli che hanno conosciuto soltanto il comunismo o, come alcuni Paesi dell'Europa centro-orientale, entrambi. Forse sono questi ultimi i Paesi più affidabili, quelli in cui esiste una vera «par condicio».

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 marzo 2007

 
   
 

Storie di confino

Caro Romano, ricordo che mio nonno, di cittadinanza francese ma residente a Milano fin dall'infanzia, durante la 2ª Guerra Mondiale fu prima rinchiuso a San Vittore all'età di 70 anni) e poi mandato al confino in un paesino del Sud. Nei confronti degli stranieri residenti vi era una procedura standard o ogni caso veniva giudicato a sé?

Enrico Lehmann - Milano

La stessa sorte toccò agli italiani in Inghilterra. E una sorte ancora peggiore, per molti aspetti, toccò ai cittadini americani di origine giapponese negli Stati Uniti dopo Pearl Harbor.

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 marzo 2007

 
   
 
Basi Usa per la guerra al terrorismo? Meglio non averle

Nella sua risposta sulle basi americane in Italia, lei conclude con la domanda se tali basi contribuiscano alla nostra sicurezza. La risposta non è agevole, anche se occorre tenere presente che i velivoli dell'Aeronautica o le navi della VI flotta della Marina statunitensi proprio indifferenti a tale sicurezza non lo sono. Per completare il ragionamento, però, sarebbe più opportuno aggiungere un'ulteriore domanda: quando il nostro Paese sarà in grado di diventare un «produttore» di sicurezza e non un «consumatore»? L'Italia dedica, da fin troppo tempo, poca attenzione e poche risorse a questi temi; lo dimostra il fatto che le nostre Forze Armate sono diventate tra quelle che, in ambito Nato e Ue e in termini relativi, ricevono meno fondi, così pochi da essere costrette, a breve, a ridurre sensibilmente i propri organici e, di conseguenza, le proprie capacità operative e i propri impegni. E allora, se il nostro Paese vuole, veramente, ridurre o affrancarsi del tutto dalla presenza di basi straniere, se vuole acquistare maggior peso sulla scena internazionale, è giunta l'ora che si assuma in pieno le proprie responsabilità e che elabori, finalmente, politiche di sicurezza e di difesa adeguate e coerenti.

Giovanni Martinelli

Caro Martinelli, lei ha sollevato spesso su questa pagina il problema della politica militare italiana e lo fatto sempre con argomenti convincenti. È vero che l'Italia spende troppo poco per la propria sicurezza. Ed è particolarmente vero in un momento in cui tutti i governi italiani, di destra o di sinistra, ritengono utile promuovere l'immagine del Paese nella politica internazionale inviando missioni militari talora encomiabili, ma troppo numerose per i nostri mezzi. I pochi soldi di cui dispongono le forze armate vengono così impiegati per mantenere presenze militari che stanno divorando le risorse del bilancio e impoverendo l'arsenale del Paese. È giusto quindi sostenere, come lei fa nella sua lettera, che la difesa dell'Italia richiede un maggiore impegno finanziario.
Ma nel caso delle basi americane in Italia e in particolare di quella che gli Stati Uniti intendono raddoppiare a Vicenza, dovremmo chiederci anzitutto se questa presenza possa sopperire alle nostre carenze e garantirci una maggiore sicurezza. A questa domanda ho cercato di rispondere osservando che gran parte della strategia americana sembra essere dominata dalla necessità della «guerra al terrorismo». Abbiamo visto negli ultimi tempi come gli Stati Uniti concepiscano questa guerra. Hanno invaso l'Afghanistan come se l'operazione potesse esaurirsi nella eliminazione di un regime che aveva ospitato sul proprio territorio le milizie di Al Qaeda e hanno trascurato per molto tempo il problema della ricostruzione economica e civile del Paese. Con il risultato che il maggior problema oggi è la riconquista del territorio. Il caso iracheno è ancora più drammatico. Gli Stati Uniti hanno invaso il Paese con motivazioni infondate e con un contingente militare inadatto al controllo del territorio. E hanno suscitato una nuova guerra, molto più micidiale e sanguinosa. Se è questo l'uso che gli americani intendono fare delle loro basi dislocate nei cinque continenti, siamo davvero sicuri che la base di Vicenza possa garantire la nostra sicurezza? Molti si chiedono ormai da tempo se all'origine di questi errori non vi sia proprio il concetto di guerra al terrorismo. In un articolo apparso nell'International Herald Tribune del 9 febbraio, Joseph S. Nye jr., professore dell'università di Harvard e alto funzionario dell'amministrazione Clinton, ci ricorda che il maggior problema, nella lotta contro il terrorismo non è quello di sventare attentati e arrestare sospetti. La maggiore esigenza è quella di evitare che le organizzazioni terroristiche riempiano i vuoti dei militanti arrestati o uccisi con nuove reclute. L'espressione «guerra contro il terrorismo» ha fornito ai dirigenti delle organizzazioni islamiste l'occasione per affermare che l'America è in guerra contro l'Islam e che i giovani hanno quindi l'obbligo di rispondere all'appello correndo a combattere nelle file della «resistenza». L'espressione, in altre parole, si è ritorta contro coloro che l'hanno usata e contribuisce a ingrossare i ranghi dei loro nemici. Non è un caso che gli inglesi se ne siano accorti e abbiano deciso di abolire l'uso dell'espressione «guerra al terrorismo».
Combattere il terrorismo esige altre politiche. Occorre isolare i nemici, suscitare contro di essi la riprovazione delle società musulmane, impedire che dispongano di un territorio su cui combattere e di un retroterra su cui appoggiarsi. Sino a quando gli Stati Uniti non avranno modificato il loro vocabolario e la loro strategia, sarà lecito chiedersi quale uso intendano fare delle loro basi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 marzo 2007

 
   
 
Come l'Onu indagò sui nostri conflitti d'interesse

Mi riferisco alla sua risposta su "Parlamentari, avvocati e conflitto di interessi". II problema sollevato è stato discusso anche in sede di Commissione (ora Consiglio) dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite. Il relatore speciale di tale organo incaricato di controllare nei singoli Paesi l'indipendenza dei magistrati e degli avvocati, nell'esaminare la situazione esistente in Italia, in un suo rapporto (documento E/CN 4/2002/72 Add. 3) del 26 marzo 2002, procedeva a una particolareggiata analisi critica del clima di conflittualità allora in atto tra Governo e magistratura. In tale contesto non tralasciava di sottolineare in una sua successiva dichiarazione (15 novembre 2002) l'inopportunità che gli avvocati del presidente del Consiglio fossero anche parlamentari e quindi in grado di influenzare le decisioni del Parlamento. Il relatore speciale osservava come il contemporaneo esercizio della professione forense sollevasse problemi di conflitto di interessi e di natura etica e si chiedeva come mai essi non fossero stati oggetto di esame da parte del Parlamento e degli organi disciplinari dell'Ordine degli avvocati per correggere una situazione che lo aveva indotto ad effettuare una ispezione conoscitiva in Italia (6-8 novembre 2002) e documentarsi in materia per riferire poi alla Commissione dei diritti dell'uomo e formulare raccomandazioni correttive.

Francesco Mezzalama, Roma

Caro Mezzalama, l'episodio di cui lei scrive nella sua lettera cominciò quando l'Associazione nazionale magistrati, all'inizio dell'anno giudiziario 2002, sostenne che certe iniziative del governo Berlusconi stavano pregiudicando l'indipendenza dell'ordine giudiziario. Le proteste giunsero alla Commissione dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, dove esiste del 1994 un "Relatore speciale sull'indipendenza dei giudici e gli avvocati ". La Commissione decise che queste denunce giustificavano un'ispezione e il Relatore speciale (un indonesiano: Dato' Param Cumaraswami) si mise in viaggio per l'Italia dove visitò Roma e Milano, fu ricevuto dal ministro della Giustizia ed ebbe colloqui con magistrati, funzionari dello Stato, parlamentari, il presidente e il Procuratore generale della Corte di Cassazione, i presidenti delle Commissioni Giustizia della Camera dei deputati e del Senato, il vice presidente del Consiglio superiore della Magistratura, rappresentanti dell'Anm e della Camera forense. AMilano, in particolare, il relatore incontrò Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio e Ilda Boccassini. Chiese anche di vedere il presidente del Consiglio, ma l'incontro non ebbe luogo. Il risultato di queste visite e di questi colloqui fu un Rapporto preliminare, alquanto severo, rilasciato nel marzo del 2002. Il Relatore speciale descrisse le frustrazioni della società italiana per la lentezza del sistema giudiziario, sostenne che le procedure avevano urgente bisogno di un radicale rinnovamento e rilevò che le riforme occasionali, avviate dal governo, erano "giustamente" percepite dai giudici e dai procuratori come una minaccia alla loro indipendenza e imparzialità. Ad aggravare la situazione, sostenne Cumaraswami, vi erano i tre giudizi penali, di fronte ai tribunali milanesi, in cui erano coinvolti il presidente del Consiglio e il senatore Previti. Non volle entrare nel merito, ma notò con preoccupazione i continui rinvii, certe leggi approvate dal Parlamento che sembravano fatte apposta per risolvere specifici problemi personali e il fatto gli avvocati degli imputati fossero anche parlamentari. Alla fine del suo rapporto scrisse che i timori dei magistrati erano fondati, ma aggiunse che anch'essi meritavano qualche rilievo. La separazione delle carriere, auspicata dal ministro della Giustizia, gli sembrava ragionevole e il passaggio da una carriera all'altra poteva pregiudicare l'indipendenza giudiziaria. Aggiunse infine che giudici e procuratori dovrebbero assumere comportamenti tali da non pregiudicare la loro indipendenza e imparzialità. I rilievi maggiori erano certamente per il governo e la maggioranza,maanche i magistrati uscivano da quel rapporto con qualche nota di biasimo. Confesso di avere letto il rapporto con un certo disagio. Il relatore fece il suo lavoro con scrupolo e giunse a conclusioni che non erano contestabili.Ma il suo rapporto era tecnico, condotto sull'osservazione di una particolare fase della crisi scoppiata all'inizio degli anni Novanta, e non poteva tenere alcun conto del contesto storico in cui classe politica e magistratura si stavano duramente confrontando. Sono convinto che Berlusconi e il suo conflitto d'interessi avessero la maggiore responsabilità.Maesistevano anche le responsabilità della magistratura. E ancora oggi mi chiedo se i magistrati che chiamarono in loro aiuto la Commissione dei diritti dell'uomo non si siano comportati come quegli Stati italiani che chiamarono il re di Francia Carlo VIII in Italia, alla fine del Quattrocento, per regolare problemi di casa nostra che sarebbe stato preferibile risolvere in famiglia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 marzo 2007

 
   
 

Silenzio sulle foibe e crimini di guerra italiani

Lei pensa che l'atteggiamento tenuto dagli italiani dopo la seconda guerra, in merito alla richiesta degli jugoslavi di consegnare coloro che indicavano come criminali di guerra abbia in qualche misura condizionato l'evoluzione della storia del nostri connazionali in Istria e Dalmazia?

Beppe Sberna

Caro Sberna, le ragioni del velo di silenzio che cadde per molti anni sulla sorte delle popolazioni istriane furono numerose. Per una larga parte della sinistra gli esuli erano una quinta colonna fascista nelle terre slave e non meritavano commiserazione. Per il governo l'Istria era un fattore di grande imbarazzo. Sapevamo di potere rivendicare Trieste, dove la grande maggioranza della popolazione era italiana, ma eravamo convinti, anche senza ammetterlo, che nessuno, in Europa e negli Stati Uniti, ci avrebbe aiutati a modificare i confini creati dalla Seconda guerra mondiale. Se avesse mantenuto vivo ufficialmente il ricordo delle foibe e dell'esodo, il governo avrebbe incoraggiato le vittime a manifestare i loro sentimenti e avrebbe dovuto patrocinare la loro causa. Le ricordo che anche il governo tedesco, dove gli esuli (fra i dodici e i quindici milioni) rappresentavano un formidabile fattore elettorale, dette prova in questa materia di grande prudenza. Nessuna classe politica attizza il fuoco della protesta quando sa che le fiamme, alla fine, potrebbero bruciarle le mani.
Vi è poi, caro Sberna, un'altra ragione. Se avesse sposato pubblicamente, nel Paese e in Parlamento, la causa degli esuli, il governo non avrebbe potuto limitarsi a denunciare i crimini e le vessazioni di cui erano stati vittime. Avrebbe dovuto agire di conseguenza promuovendo commissioni internazionali d'inchiesta e azioni giudiziarie. Prima o dopo, in altre parole, avremmo dovuto chiedere ufficialmente alla Jugoslavia di consegnare a noi o a una autorità internazionale i responsabili di quei crimini e di quelle vessazioni. Ma queste richieste avrebbero autorizzato la Jugoslavia a chiederci, sempre più insistentemente, di consegnare i nostri «criminali di guerra». E questa era una prospettiva che nessun governo italiano era disposto a prendere in considerazione.
Fu giusto proteggere i «nostri»? Chi sostiene il contrario dimentica quali fossero il clima e la ferocia delle molte guerre che si combatterono in Jugoslavia fra il 1941 e il 1945: partigiani comunisti contro tedeschi e italiani, «titini» contro «cetnici» del generale Mihailovic, serbi contro croati, SS bosniache contro formazioni comuniste.
Certo, noi fummo gli invasori e abbiamo di fronte alla nazione jugoslava una evidente responsabilità politica. Ma lo stile della guerra fu balcanico, non italiano, e il sismografo della crudeltà toccò vette altissime. Oggi è facile, per uomini e donne di una generazione successiva, impartire giudizi dall'alto della loro superiorità morale. Ma se fossero stati testimoni di quelle vicende avrebbero capito quanto sia difficile distinguere, nell'ingranaggio di una sanguinosa guerra civile, le colpe degli uni da quelle degli altri. Fece bene, quindi, il governo italiano a chiudere e a tenere chiuso il suo «armadio della vergogna». Le priorità del Paese allora erano altre: la ricostruzione, la conciliazione nazionale, la creazione di un nuovo Stato, l'integrazione europea.

Sergio Romano
Corriere della sera, 16 marzo 2007

 
   
 

I soldati in Iraq

Caro Romano, non le pare strano che il presidente degli Usa prenda la decisione di aumentare il numero dei soldati statunitensi in Iraq e invece le Camere a maggioranza democratica siano contrarie a questo provvedimento? Chi comanda ora negli Usa, il presidente o le due Camere?

Pierangelo Bonazzoli

Il presidente americano è capo delle forze armate e può liberamente disporre della loro utilizzazione, soprattutto quando la guerra, come in questo caso, è stata approvata dal Congresso. Ma deve chiedere al Congresso l'approvazione dei finanziamenti necessari. Bush spera che le Camere, messe di fronte a un fatto compiuto, non faranno mancare ai soldati i mezzi finanziari di cui hanno bisogno per svolgere le loro funzioni. A Washington è in corso un braccio di ferro non diverso da quello che caratterizzò la monarchia britannica in alcuni momenti della sua storia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 19 marzo 2007

 
   
 

Churchill 1945: vincitore in guerra, sconfitto in patria

Winston Churchill nell’epilogo della sua «Storia della Seconda Guerra Mondiale» attribuisce la sua sconfitta elettorale del luglio 1945 al voto dato dai soldati e al fatto che, essendo stato del tutto assorbito nei problemi del proseguimento della guerra e della situazione determinatasi alla fine vittoriosa del conflitto, non si era reso conto di quel che era accaduto nelle isole britanniche. Le chiedo quali possono essere stati i motivi che hanno indotto la maggioranza dell’esercito a votare a favore dei laburisti e quali cambiamenti erano avvenuti nelle isole britanniche senza che Churchill se ne accorgesse. Le chiedo anche se è stata una saggia scelta elettorale quella di far concludere le trattative della Conferenza di Potsdam a una delegazione laburista che, non potendo essere a perfetta conoscenza dei piani strategici di Churchill e non potendo avere il suo potere negoziale verso gli Alleati, non poteva di conseguenza ottenere le migliori condizioni per l’Inghilterra e per l’avvenire dell’Europa.

Nicola Balena, Cesano Boscone (Mi)

Caro Balena,
rispondo anzitutto alla sua ultima domanda. Winston Churchill presiedette durante la guerra un governo di unità nazionale e dette a Clement Attlee, leader del partito laburista, una carica apparentemente onorifica (Lord del Sigillo Privato) che fece di lui un vice Premier, funzione che gli venne formalmente conferita nel febbraio 1942. I laburisti vennero continuamente coinvolti nelle decisioni politiche dell’esecutivo e il loro leader fu un utile ponte tra le diverse posizioni dei due maggiori partiti britannici.
Era naturale quindi che Churchill avesse con sé a Potsdam, nella delegazione britannica, il leader laburista e che il passaggio delle consegne, per molti aspetti, si facesse proprio nella città tedesca. Il vecchio Premier presiedette la delegazione britannica dal 17 al 24 luglio e il nuovo Premier ne prese la guida il 28 luglio per le ultime quattro sedute. Vale la pena di ricordare che le elezioni si erano tenute tre mesi dopo la fine della guerra, che i soldati, dovunque fossero, avevano partecipato al voto, che il nuovo governo fu costituito in meno di 48 ore e che il processo di transizione, in quel delicato momento internazionale, fu straordinariamente efficace. Confronti questi tempi a quelli della democrazia italiana, caro Balena, e si renderà conto più facilmente delle ragioni per cui l’Italia continua a rincorrere, ansimante, i suoi partner europei.
Vengo alla ragione per cui Churchill perdette le elezioni.
Con la giustificazione fornita nell’epilogo della sua grande opera sulla Seconda guerra mondiale, il vecchio leader volle dare la sensazione che l’impegno della guerra lo aveva distratto da altre occupazioni e che le difesa della patria era troppo importante perché egli potesse occuparsi di problemi elettorali.Èuna spiegazione retoricamente efficace, ma insufficiente.
Sin dal primo dopoguerra Churchill era noto in Gran Bretagna per le sue battaglie contro la sinistra, non soltanto comunista, e per le sue idee conservatrici. Aveva approvato i metodi bruschi dei regimi autoritari contro le agitazioni operaie di quegli anni.
Aveva lodato Mussolini e dato la sensazione di comprendere le ragioni del sollevamento franchista.Aquesto occorre aggiungere che i laburisti si erano preparati alla conquista del potere, negli anni Trenta, con un programma riformatore, il «piano Beveridge», che prevedeva la creazione di un grande sistema assistenziale «dalla culla alla tomba». Quel piano, insieme alle nazionalizzazioni che ne furono il necessario complemento, aveva il merito di dare una risposta agli umori socialisti che i sacrifici della guerra avevano suscitato nel Paese e nelle forze armate. Non è sorprendente.
Quasi tutte le guerre di massa, da quella franco- prussiana del 1870 a quelle del Novecento, hanno avuto per effetto una forte richiesta di mutamenti sociali. Churchill perdette, quindi, perché la Gran Bretagna, dopo la fine del conflitto, voleva una radicale svolta a sinistra. Se vi fossero stati allora i sondaggi che sono oggi il nostro pane quotidiano, Churchill avrebbe saputo, ancora prima di andare a Potsdam, che la partita era perduta.

Sergio Romano
Corriere della sera, 18 marzo 2007

 
   
 

Urss e Cina: le ragioni del divorzio

Quale appassionato di storia contemporanea, mi sono sempre interrogato, senza mai trovare una risposta esauriente, quale sia stato il motivo della nascita del contrasto tra le due grandi repubbliche comuniste, la Cina e l'Unione Sovietica. Ragioni puramente ideologiche, legate a dispute territoriali derivate da una diversa gestione dell'economia interna o che altro? Si può azzardare a dire che questa contrapposizione, che ha evitato la nascita di un blocco anti-Usa quasi planetario, può aver salvato il mondo da una possibile terza guerra mondiale?

Roberto Maroni

Caro Maroni, la nascita della Repubblica popolare cinese fu annunciata al mondo da Pechino il primo ottobre 1949. Il nuovo Stato venne immediatamente riconosciuto dall'Urss e andò a prendere il suo posto nella schiera dei nuovi regimi comunisti, sorti dopo la Seconda guerra mondiale. Quando Mao Zedong visitò Mosca nel febbraio dell'anno seguente e concluse con l'Unione Sovietica un trattato trentennale di amicizia, alleanza e cooperazione, gli editori di carte geografiche si affrettarono a colorare di rosso la maggior parte del continente asiatico. E quando i «volontari» cinesi, in ottobre, intervennero a fianco dei nordcoreani nella guerra che era scoppiata il 25 giugno dello stesso anno, le democrazie occidentali ne trassero la convinzione che le due maggiori potenze avessero una strategia comune per la conquista dell'Asia e del mondo. Il risultato di quella percezione fu il riarmo della Germania e la creazione, in seno all'Alleanza Atlantica, di una organizzazione militare, la North Atlantic Treaty Organization (Nato). Gli avvenimenti degli anni seguenti sembrarono confermare queste preoccupazioni. Mosca e Pechino risolsero rapidamente alcuni vecchi contenziosi russo cinesi, ereditati dal passato, e Mosca inviò in Cina uno stuolo di tecnici che avrebbero dovuto accompagnare la Repubblica Popolare sulla strada della costruzione dello Stato comunista. Ma nell'agosto del 1960 il mondo apprese improvvisamente che i tecnici sovietici stavano lasciando il territorio cinese per rientrare in patria. Il periodo della collaborazione si era chiuso. I due maggiori Paesi comunisti cominciarono a guardarsi in cagnesco e i rapporti andarono progressivamente peggiorando sino al sanguinoso scontro sul fiume Ussuri, in Siberia, agli inizi del 1969.
Le ragioni di quella ostilità furono ideologiche, politiche, territoriali, culturali e, forse, soprattutto caratteriali. L'Unione Sovietica riteneva che la rivoluzione cinese avrebbe dovuto adottare il modello bolscevico, realizzato da Stalin con il primo piano quinquennale, e percorrerne le tappe: abolizione della proprietà privata, collettivizzazione della terra, creazione dell'industria pesante. Mao, invece, progettò e cercò di realizzare un piano di industrializzazione diffusa: migliaia di piccole acciaierie, terribilmente antieconomiche, disseminate sull'immenso continente cinese. Mosca fu colta di sorpresa dalla guerra coreana e temette di essere trascinata in una pericolosa avventura. Kruscev temeva lo scontro fra le due maggiori potenze e cercò di evitarlo, nonostante alcune crisi (Budapest, Cuba, Berlino), lanciando a Washington segnali di coesistenza pacifica. Mao, invece, riteneva che la dimensione territoriale e demografica permettesse alla Cina di affrontare, senza troppe preoccupazioni, la sfida di un conflitto nucleare. Più tardi, mentre l'Urss aiutava il Vietnam del Nord con armi e denaro, la Cina temette che Mosca volesse installare ad Hanoi, sui confini meridionali della Repubblica popolare, un regime satellite. I leader sovietici erano freddi giocatori di scacchi, preoccupati dalla necessità di conservare ciò che avevano conquistato negli anni precedenti. Mao, invece, era romantico, fantasioso, imprevedibile, capace di precipitare il Paese, da un giorno all'altro, nel caos della rivoluzione culturale.
Aggiunga a tutto questo, caro Maroni, che Mao e i suoi compagni non avevano dimenticato i trattati ineguali, stipulati alla fine dell'Ottocento tra Mosca e Pechino quando l'impero zarista aveva approfittato del declino del Celeste Impero per estendere la propria influenza sull'Asia nordorientale. In ultima analisi la principale ragione del dissidio fu il timore che l'Urss volesse trasformare la Cina in un docile satellite. La Cina aveva combattuto per scrollarsi di dosso il colonialismo delle potenze europee e non aveva alcuna intenzione di cadere sotto la tutela di un nuovo padrone.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 marzo 2007

 
   
 

Le contraddizioni della politica militare italiana

Corre voce che le nostre forze armate ridurranno il numero dei loro soldati mentre quelle americane e britanniche le aumentano, convinte di non averne abbastanza. Nel caso opposto italiano, i tagli sono invece dovuti alla necessità di rimediare a errori nella riforma della Difesa che non ha programmato a suo tempo un congruo aumento dei fondi per fare fronte al più alto costo dei professionisti rispetto ai soldati di leva. E così, quando nel 2005 e 2006 si è «anemizzato» il bilancio della Difesa, le spese per il personale ne hanno assorbito oltre il 70% a scapito degli investimenti e della gestione.
La Finanziaria del 2007 ha tamponato alcune falle, ma per riequilibrare la situazione ci sono due strade: aumentare il bilancio o contrarre le spese. Si è scelta la via più facile, cioè ridurre i giovani da reclutare. Così avremo meno soldati, meno collaborazioni con Onu, Ue e Nato, meno peso politico, senza aver risolto il problema che esige soluzioni coraggiose, politiche e strutturali. Ma c'è altro. Nel dibattito sull'impegno afghano si sono confermate le esitazioni a impegnare le nostre truppe in combattimento. Questa tendenza che a sproposito e per l'ennesima volta chiama in causa l'art. 11 della Costituzione, non solo confonde le idee ai nostri soldati, ma rischia di divenire il marchio di fabbrica dei nostri impegni, con ricadute più gravi di quelle dovute a penuria di fondi e soldati.
Secondo il ministro Parisi, l'Italia non ha cultura militare. Ha ragione, ma il problema non avrà soluzione fino a che non si aprirà un dibattito serio sulle forze armate. Non vale la pena tentare?

gen. Luigi Caligaris

Caro Caligaris, quando era presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat amava ricordare che l'Italia spendeva per la pubblica istruzione più di quanto spendesse per la sua sicurezza militare. Più tardi, negli anni Settanta e Ottanta, mentre la Nato chiedeva ai suoi membri di assegnare alla Difesa il 3% del prodotto interno lordo, noi mantenemmo più o meno invariato il nostro modesto contributo alla sicurezza comune. Avremmo potuto migliorare il nostro apparato militare inserendoci, come le altre maggiori democrazie industriali, nel mercato delle armi tecnologicamente avanzate. Le forniture avrebbero dato maggior lavoro alle nostre imprese e favorito ricerche e sperimentazioni di cui erano certamente capaci. Ma l'esportazione di armi fu considerata come un'offesa alla «politica della pace» e venne sottoposta a rigorose limitazioni da una legge del Parlamento.
Più recentemente, come lei ricorda, l'art. 11 della Costituzione («L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») è stato progressivamente interpretato come un ostacolo insormontabile alla partecipazione delle forze armate italiane in qualsiasi operazione militare. E oggi, infine, il governo è marcato ai fianchi dall'ala pacifista e neutralista della sua coalizione.
Come dissentire da posizioni così nobilmente umanitarie? Peccato che questi propositi si scontrino con la collocazione geografica del Paese e con le ambizioni dei suoi governi. La fine della guerra fredda ha reso ancora più grave il problema della sicurezza. Quando l'Italia era terra di frontiera, a breve distanza dal sipario di ferro, potevamo contare sull'equilibrio del terrore e sperare ragionevolmente che nessuno dei due blocchi avrebbe corso, con atteggiamenti avventati, il rischio di una ecatombe nucleare. Oggi viviamo ai confini di un Medio Oriente allargato che comincia alle porte di casa e si estende, attraverso il Mediterraneo e la penisola balcanica, ad alcune fra le regioni più turbolente dell'Asia meridionale e centrale.
I governi ne sono consapevoli e sanno che il prestigio e la sicurezza dell'Italia, in un mondo così pericolosamente instabile, dipendono anche e soprattutto dal modo in cui il Paese può concorrere alla soluzione delle crisi internazionali. È questa la ragione per cui tutti i governi che si sono succeduti alla guida della nazione, dall'inizio degli anni Novanta a oggi, hanno deciso di impegnare le forze armate in operazioni d'oltremare. Credo che alcune scelte (quella irachena per esempio) siano state sbagliate, ma il desiderio di essere presenti, insieme ai nostri alleati, là dove la situazione richiede un intervento militare, mi sembra essere complessivamente condiviso dal centro-destra e dal centro-sinistra. Ogni governo, tuttavia, sembra convinto che questa linea politica possa essere perseguita con un bilancio insufficiente e soprattutto che possa conformarsi ai principi dell'ortodossia pacifista. Mandiamo all'estero truppe modestamente attrezzate e imponiamo regole d'ingaggio che dovrebbero evitare il combattimento. Il risultato beninteso è una politica che scontenta contemporaneamente i nostri pacifisti, contrari a qualsiasi missione internazionale, e i nostri alleati. Accade infine che i nostri ragazzi, pur di fare qualcosa, costruiscano chiese cattoliche in un Paese musulmano, come sta accadendo, a quanto pare in Afghanistan: una nobile iniziativa che farà di noi, negli ambienti islamisti, una nazione di «crociati». Ma i crociati erano armati, noi no.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 marzo 2007

 
   
 
I misteri di un palazzo italiano a Pietroburgo

Occorre riconoscere che il presidente Prodi e il suo governo hanno raccolto il ripetuto invito a sollevare il tema dei «diritti umani» nel recente incontro con il presidente Putin in Italia. A meno che non si voglia con cinismo tutto negare, questo argomento è stato trattato e il dilemma fra «valori e bisogni», così bene espresso da Franco Venturini nei suoi recenti articoli e interventi pubblici, in un quadro ovviamente di realpolitik non è stato eluso. La restituzione poi della Chiesa ortodossa di Bari a Mosca è una concreta manifestazione di rispetto verso la più autentica tradizione russa che trova proprio in San Nicola, i cui resti sono custoditi nel capoluogo pugliese, un riferimento non solo religioso bensì storico.
Nel quadro di questa non scontata «intesa strategica» italo-russa che è riuscita a dare anche nuovo impulso al dialogo interreligioso, potrebbe essere più facile per l’Italia trattare la restituzione della nostra antica ambasciata di San Pietroburgo, dal tempo della rivoluzione requisita e al momento non occupata per compiti istituzionali come previsto da accordi bilaterali a suo tempo sottoscritti. Se ne potrebbe fare, in quella che è considerata una delle capitali mondiali della cultura, un centro di italianità in tutte le sue espressioni. Almeno si dovrebbe ottenere la rimozione, per essere eventualmente conservati in un museo della città baltica, dei simboli dello Stato italiano all’epoca zarista, ancora murati sulla facciata dell’edificio sanpietroburghese.
So bene che la nostra sede diplomatica di Mosca è in una villa concessa, tuttora a titolo gratuito perché l’Italia di Mussolini era stata la prima nazione a riconoscere la nuova realtà sovietica nel 1924.
Ma anche qui è questione di «valori e bisogni», che prima o poi vanno rispettati.
Dopo quasi un secolo, credo che sia ora di farlo.

Gen. Gianalfonso d’Avossa

Caro d’Avossa,
per la verità il riconoscimento italiano dell’Unione Sovietica non fu il primo. Il governo Mussolini venne preceduto per qualche giorno dal governo britannico, allora diretto da James Ramsay MacDonald, leader del partito laburista.Ma il gesto fu certamente apprezzato e l’Italia ebbe in concessione, a Mosca, il palazzo Berg, un grande edificio in stile eclettico, costruito agli inizi del Novecento per la famiglia di un mercante del Baltico che si era prodigiosamente arricchito con il commercio dello zucchero.
Dopo la rivoluzione, il palazzo aveva ospitato per qualche mese l’ambasciata di Germania e più tardi, dopo l’interruzione dei rapporti diplomatici con Berlino, le riunioni della Terza Internazionale. Se una placca sulla facciata elencasse le persone che passarono da questa casa, il primo nome della lista sarebbe quello di Vladimir Il’ic Lenin.
Anche l’ambasciata di Pietroburgo ha una storia interessante.
Èun palazzo in tardo stile neorinascimentale, costruito negli anni Sessanta dell’Ottocento e comperato dal governo italiano prima della fine del secolo. L’ambasciatore e i suoi collaboratori continuarono a occuparlo dopo la rivoluzione bolscevica. Dovettero abbandonarlo, tuttavia, nel marzo del 1918, insieme al governo di Lenin e al corpo diplomatico di Pietrogrado (la città aveva cambiato nome all’inizio del conflitto), quando i tedeschi lanciarono dal Baltico un’offensiva che si sarebbe rapidamente conclusa con la conquista della città se Lenin e Trotzkij non si fossero risolti a concludere con gli imperi centrali la pace di Brest Litovsk.
Ma la capitale dello Stato sovietico, da quel momento, fu Mosca, non la città di Pietro che cambiò nome ancora una volta, più tardi, e divenne la «città di Lenin».
Nella storia del trasloco c’è un episodio oscuro che è stato periodicamente ricordato per molti anni sulla stampa russa e sovietica. Il palazzo dell’ambasciata aveva una sala da ballo con due file di colonne rivestite di malachite. Ma quando i sovietici ne presero possesso, dopo la partenza dei diplomatici italiani, la malachite era scomparsa.
Nelle condizioni di una città sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra i furti erano abituali. Ma i sovietici continuarono a insinuare il sospetto che gli italiani, prima di andarsene, avessero «pelato» le colonne.
Da allora e sino alla morte dell’Urss, l’ambasciata venne utilizzata come sede degli uffici di imprese statali. Quando la visitai verso la fine degli anni Ottanta, il «padrone di casa » era una società discografica.
Vidi la sala da ballo con le colonne «scarnificate», ma la pianta originale del palazzo era stata completamente sconvolta dai tramezzi che delimitavano i minuscoli uffici degli impiegati.
L’idea di una grande istituzione culturale italo-russa, caro d’Avossa, è eccellente. Per concludere l’accordo il governo potrebbe ricordare a Vladimir Putin la sua visita a Milano di qualche anno fa, quando il sindaco Gabriele Albertini festeggiò l’incontro dando in concessione alla Fondazione Italia-Russia uno dei grandi appartamenti che si affacciano sulla Galleria Vittorio Emanuele. Ma prima di imbarcarci in un progetto ambizioso, dovremmo accertare se vi siano aziende italiane, fra quelle che maggiormente lavorano con la Russia, disposte a sostenerlo finanziariamente.
Quanto ai simboli sulla facciata, ame sembra che sia meglio lasciarli dove sono e aggiungere una piccola targa che ricordi quale fu la destinazione del palazzo fino al 1918.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 marzo 2007

 
   
 
Mastrogiacomo e i dilemmi del governo

Le pongo un quesito: può essere che l'Italia tratti la liberazione di cinque talebani con il governo Karzai senza che Washington sappia nulla? A questo punto, se fosse vero, non dovrebbero gli Usa prendersela (per usare un eufemismo) con il presidente afghano Karzai per aver agito senza consultare Condoleezza Rice o chi per lei?
Vorrei sapere la sua opinione riguardo all'azione del governo italiano per la liberazione del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Io sono molto felice per lui, ma sono letteralmente allibito per il modo con cui abbiamo ceduto su tutta la linea alle richieste dei talebani.
Francamente, trovo l'azione stupida, ma dato che non sono un esperto in materia, sarei lieto di sapere che cosa ne pensa lei.
Andrea Imbimbo

Silvio Berlusconi ha detto: «Danno alla credibilità dell'Italia» sull'operazione Daniele Mastrogiacomo.
Mi sono chiesto e chiedo a lei: come aveva ottenuto Berlusconi la liberazione degli ostaggi durante il suo governo?
Francesco Spinosa
Maria Nocera

Cara signora, cari Imbimbo e Spinosa, ho scelto le vostre lettere, fra le molte arrivate sul caso Mastrogiacomo, perché toccano tre argomenti che mi sembrano in questa vicenda particolarmente interessanti: il ruolo degli americani, le ragioni di un negoziato così discutibile e i precedenti del governo Berlusconi.
Ruolo degli americani. A giudicare da quanto è stato pubblicato dalla stampa è molto probabile che il comando delle forze degli Stati Uniti in Afghanistan, con i mezzi elettronici di cui dispone, abbia seguito attentamente le fasi del negoziato. Gli americani non si sono opposti e non hanno cercato di intralciarlo perché immaginavano, soprattutto dopo l'«incidente» Calipari, quale ondata di anti-americanismo si sarebbe sprigionata dalla società italiana se fosse stato possibile affermare che il negoziato era fallito per colpa loro. E sapevano che il governo Prodi si sarebbe scontrato in Parlamento con difficoltà insormontabili. È probabile che qualcuno, a Washington, abbia pensato del governo italiano ciò che si diceva del pianista nei saloon del Far West: suona male ma non sparategli, è il solo che abbiamo. Dopo la fine dell'episodio, tuttavia, gli americani hanno ritenuto necessario dire ai talebani e al mondo che gli Stati Uniti, nelle stesse circostanze, si sarebbero comportati diversamente. Ciò che noi abbiamo interpretato come una manifestazione di malumore verso l'Italia era anche un comprensibile gesto di prudenza e chiarezza.
Le ragioni del negoziato. Il governo ha deciso di trattare con i talebani, sia pure indirettamente, perché era preso fra tre fuochi: il ricatto dei rapitori, il timore che la sua sinistra radicale, se la vicenda si fosse conclusa tragicamente, avrebbe votato in massa contro il rinnovo delle missioni militari, e infine la potenza mediatica di Repubblica, fiancheggiata dalla solidarietà della comunità giornalistica. Ha preso una decisione avventata e pericolosa? Temo di sì. I talebani hanno capito che l'Italia è pronta a negoziare e guarderanno agli italiani, d'ora in poi, come a bersagli particolarmente redditizi.
I precedenti. Credo anch'io che il centro-destra, dopo quanto accadde in Iraq per la liberazione delle due Simone e di Giuliana Sgrena, non abbia il diritto di scagliare la prima pietra e possa tutt'al più invocare una attenuante: quella di avere pagato le liberazioni in denaro anziché con il rilascio di pericolosi guerriglieri. Il governo Berlusconi era un po' meno ricattabile del governo Prodi, ma sapeva che il Paese era contrario alla missione irachena e temeva i contraccolpi che la vicenda avrebbe avuto sulla prossima scadenza elettorale. In ultima analisi ambedue i governi si sono ispirati a un vecchio adagio latino: primum vivere, deinde philosophari. La «filosofia», vale a dire un'analisi dei fatti severa e rigorosa, è un lusso che i governi deboli non possono permettersi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 marzo 2007

 
   
 
Conferenza afghana: una proposta per uso interno

Il dizionario Sabatini-Coletti definisce la «realpolitik», termine tedesco del 1918, «condotta politica che si ispira a un assoluto realismo e che antepone gli obiettivi concreti alle questioni di principio, alle ideologie». Per fare un esempio, gli Usa l'hanno utilizzata positivamente per la guerra di Corea (1950-53), stanno tentando di utilizzarla per gli armamenti atomici della Corea e dell'Iran e ora anche per il riconoscimento reciproco fra Palestina e Israele, mentre purtroppo non hanno voluto applicarla per l'Iraq con le conseguenze che si vedono. Il centrodestra (salvo la Lega) critica l'intervento di realpolitik di Piero Fassino che dice per la Conferenza di pace per l'Afghanistan, proposta dal nostro ministro degli Esteri D'Alema all'Onu, di trattare anche con i talebani onde spegnere il fuoco che regna in quella regione evitando che diventi un incendio devastante. Mi domando da cittadino perché si ragioni solo con la mentalità di partito e non si pensi che se si riuscisse a pacificare l'Afghanistan tutta l'Italia, e non solo il governo Prodi, farebbe un'ottima figura.

Alessandro Dell'Oro - Como

Caro Dell'Oro, non sono sicuro che la proposta di una conferenza di pace per l'Afghanistan sia realistica. Le conferenze internazionali non s'improvvisano. Quando vengono convocate sull'onda dell'emozione, senza una preparazione che fissi alcuni punti essenziali (agenda, Paesi partecipanti, finalità dell'incontro e addirittura, se possibile, una bozza dell'intesa con cui potrebbero concludersi i suoi lavori), sono destinate al fallimento e si lasciano alle spalle soltanto la radiografia di un disaccordo. S'immagina quale sarebbe la gioia dei talebani e dei loro alleati nel mondo se la conferenza proposta da Massimo D'Alema si chiudesse con una tragica dichiarazione d'impotenza?
Bisognerebbe decidere anzitutto, dunque, quali Paesi invitare. Si potrebbe partire dal ricordo di ciò che accadde negli anni Ottanta, dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Si formò allora, per contrastare il disegno dell'Urss, un'alleanza di fatto composta da Stati Uniti, Pakistan, Iran, Cina e, in qualità di tesoriere, l'Arabia Saudita. Questi Paesi erano spesso divisi da profondi dissidi, ma erano tutti egualmente convinti che l'estensione dell'impero sovietico all'Afghanistan sarebbe stata una minaccia per i loro interessi nella regione. Oggi, in una situazione parzialmente cambiata, i partecipanti di un'eventuale conferenza dovrebbero essere, insieme al governo afghano, gli Stati Uniti, la Russia, alcune Repubbliche dell'Asia centrale, l'Iran, il Pakistan, la Cina, i Paesi che hanno contingenti militari in Afghanistan e forse, ancora una volta, l'Arabia Saudita. Mi chiedo se Massimo D'Alema abbia preso in considerazione la composizione della conferenza e se gli Stati Uniti (ora, per molti aspetti, nella stessa situazione in cui era l'Urss degli anni Ottanta) siano disposti a sedere intorno allo stesso tavolo con l'Iran e la Russia.
Uno dei primi punti all'ordine del giorno di una eventuale conferenza sarebbe naturalmente la questione dei talebani. Continuare a combatterli o associarli ai lavori? Sarebbero favorevoli alla prima soluzione i Paesi per cui i talebani sono nemici spietati, avanguardia di un radicalismo islamico che non è disposto ad accettare alcun compromesso. Sarebbero favorevoli alla seconda quelli che non vogliono combattere o ritengono la guerra irrimediabilmente perduta. Gli Stati Uniti sarebbero molto probabilmente contrari a qualsiasi negoziato con i talebani e la conferenza finirebbe prima ancora di cominciare. Si può anche immaginare, per il piacere della discussione, che questo problema venga momentaneamente accantonato e che i Paesi seduti intorno al tavolo della conferenza comincino a parlare del modo in cui ciascuno di essi potrebbe contribuire al progresso civile ed economico dell'Afghanistan. È possibile. Ma temo che sarebbe un esercizio accademico e retorico. Quando si combatte contro un nemico ostinato e irriducibile, occorre attendere i risultati della guerra. La vera ricostruzione dell'Afghanistan comincerà quando una delle parti ammetterà di non potere vincere. Quel giorno, mi sembra, è ancora lontano.
Come vede, caro Dell'Oro, la mia impressione è che le proposte di D'Alema e Fassino siano tutto fuorché realistiche. Sono state concepite per ragioni di politica interna e vengono prese sul serio soltanto nella cucina della casa italiana. Nel salotto dove si parla seriamente di politica internazionale, non ne arriva nemmeno l'eco.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 marzo 2007

 
   
 

Trattamenti diversi

Caro Romano, i brigatisti che rapirono e uccisero Aldo Moro hanno avuto pene medie di 15-17 anni. Oggi persone che si macchiano di delitti orrendi vengono condannate a 10-20 anni. Al contrario i «terroristi» sudtirolesi degli anni Sessanta, che salvo qualche eccezione fecero soltanto saltare dei tralicci, hanno avuto pene più dure e talvolta perfino l'ergastolo. La questione è tornata d'attualità negli ultimi mesi perché Vienna si è rivolta al presidente Napolitano invocando la grazia. Questa sarebbe l'occasione adatta per riparlare di una pagina di storia italiana dimenticata. Mi piacerebbe sapere il suo parere in proposito.

Alessandro Michelucci - Firenze

Altri lettori hanno sollevato lo stesso tema e ho risposto sostenendo che mi sembra essere giunto il momento della clemenza. Posso soltanto aggiungere che la disparità del trattamento dimostra quanto i magistrati, anche quando sostengono il contrario, siano sempre soggetti all'influenza del clima e dello spirito dei tempi in cui pronunciano le loro sentenze. I terroristi tirolesi furono processati in un'epoca in cui il sentimento dell'opinione pubblica era ancora fortemente nazionale. I terroristi degli anni Settanta e Ottanta furono giudicati in anni in cui la ribellione sociale era molto diffusa e godeva quindi, paradossalmente, di qualche attenuante.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 marzo 2007

 
   
 
Come nacque e morì la Comunità europea di difesa

Tempo addietro ho sentito un esponente di rilievo della sinistra radicale che, messo alle strette da un intervistatore sulla nostra alleanza con gli Stati Uniti e anche sulla sua obbligatorietà, ha risposto di essere decisamente favorevole a una autonomia militare europea. Se ben ricordo negli anni iniziali della costruzione europea si parlò anche di Comunità europea di difesa (Ced).
Le sarei grato se potesse ripercorrere quella vicenda, anche con riferimento alle forze politiche che maggiormente la ostacolarono.

Sauro Magnani

Caro Magnani, la Comunità europea di difesa fu una grande occasione mancata. La sua storia cominciò agli inizi degli anni Cinquanta, dopo lo scoppio della guerra di Corea. Gli Stati Uniti sostennero che la minaccia comunista era ormai diventata globale e che occorreva mettere in campo, per fare fronte all'Unione Sovietica, un esercito tedesco schierato insieme ai Paesi dell'Alleanza Atlantica contro il comune nemico. La proposta suscitò un'ondata di reazioni negative in tutta l'Europa occidentale. Contro il riarmo tedesco scesero in campo i partiti comunisti, i partiti socialisti, alcuni partiti della sinistra democratica e persino una parte non piccola della società tedesca. Nella Germania occidentale apparvero manifesti in cui il leader della socialdemocrazia tedesca diceva ai suoi connazionali «ohne mich», «senza di me»: una frase che divenne da quel momento lo slogan del neutralismo e del pacifismo della Repubblica federale di Germania.
Ma gli americani insistevano e il governo francese, per rompere lo stallo, avanzò una proposta rivoluzionaria. La Germania si sarebbe riarmata, ma nell'ambito di una Comunità europea di difesa di cui avrebbero fatto parte gli stessi Paesi (Belgio, Francia, Italia, Repubblica federale di Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi) che avevano firmato qualche mese prima il trattato per la Comunità europea del carbone e dell'acciaio. Sarebbe nato in tal modo un esercito in cui soltanto i battaglioni avrebbero conservato caratteristiche nazionali. Il resto (reggimenti, brigate, divisioni, armate e corpi d'armata) sarebbe stato multinazionale. Questa nuova istituzione avrebbe centrato contemporaneamente due obiettivi. Avrebbe reso accettabile all'opinione pubblica europea il riarmo della Germania e avrebbe permesso all'Europa di passare dall'integrazione economica all'integrazione politico-militare. Alcide De Gasperi ne fu entusiasta e volle che all'Assemblea parlamentare prevista dal Trattato venisse assegnato il compito di scrivere la costituzione dell'Europa unita. Di quella Assemblea il leader italiano sarebbe stato certamente il presidente. Mai come allora gli Stati Uniti d'Europa sembrarono a portata di mano.
Per tenere a battesimo la Ced occorreva naturalmente l'approvazione dei parlamenti nazionali. In pochi mesi giunsero le ratifiche della Germania e dei tre Paesi del Benelux. Con grande disappunto di De Gasperi (ormai ritirato a vita privata), l'Italia esitava nella speranza di mercanteggiare il suo sì contro una migliore soluzione del problema di Trieste: un calcolo bizantino, fondato sull'assurda convinzione che il nostro Paese, firmando, avrebbe fatto un favore all'Europa anziché l'Europa a noi. In ultima analisi, tuttavia, il responsabile del fallimento della Ced fu la Francia, non l'Italia. Quando la Camera francese fu chiamata a ratificare il trattato, i gollisti e i comunisti (due partiti che si detestavano) votarono per ragioni diverse contro la ratifica del Trattato e affossarono la Ced. Come hanno nuovamente dimostrato nel 2005, quando dissero no al Trattato costituzionale europeo, i francesi hanno spesso recitato in Europa due parti: quella degli innovatori e quella dei bastian contrari.
Esisteva tuttavia un problema, quello del riarmo tedesco, non ancora risolto. La soluzione venne da Londra. Per consentire alla Germania di rientrare in campo con un esercito democratico, il governo di Anthony Eden propose la creazione di una Unione dell'Europa occidentale: poco più di un club per la cooperazione militare senza ambizioni unitarie, di cui avrebbero fatto parte la Gran Bretagna e i sei Paesi della Ceca. Qualche mese dopo, fortunatamente, furono messi in cantiere i trattati per creazione del Mercato comune e dell'Euratom. Ma il progetto della Ced è rimasto da allora nei cassetti dove sono depositati i sogni incompiuti dell'Europa unita.

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 marzo 2007

 
   
 
Le armi nucleari nelle basi americane, ieri e oggi

Gradirei sapere se è notizia degna di fondamento che nelle varie basi americane in Italia ci sia la presenza di ordigni nucleari. Se confermata, ritengo la cosa essere grave, meritevole di approfondimento e discussione, anche perché mi pare che l'opinione pubblica non ne sia in genere al corrente e poco sensibilizzata in merito.

Franco Apparuti

Caro Apparuti, il governo degli StatiUniti, comprensibilmente, non ha l’abitudine di rendere nota la dislocazione dei suoi ordigni nucleari, il loro numero e la loro potenza. Ma posso trascrivere qui un documento storico di una certa importanza. E’ una lettera che porta la data del 12 aprile del 1956 e che fu inviata dal segretario di Stato americano dell’epoca, John Foster Dulles, al segretario della Difesa Charles Wilson. Il documento è stato reso pubblico («declassificato» nella terminologia americana) il 20 ottobre 1995. Ecco il testo: «Caro Signor Segretario,mi riferisco alla sua lettera del 22 dicembre 1955, concernente la richiesta dell’ufficio congiunto degli Stati maggiori di immagazzinare armi nucleari nella Francia metropolitana e in Italia, e alla mia risposta interlocutoria del 24 gennaio 1956. La questione concernente la Francia è attualmente materia di discussione fra le nostre amministrazioni. «L’ambasciatore Luce (Clare Booth Luce, ambasciatore degli Stati Uniti a Roma dal marzo 1953 al gennaio 1957, ndr) ha discusso lo spiegamento di armi atomiche in Italia con il ministro della Difesa Taviani. Il ministro italiano della Difesa ha assicurato l’ambasciatore che gli StatiUniti possono liberamente procedere con lo spiegamento. «Sono d’accordo con lo spiegamento di armi atomiche in Italia. Prendo nota dell’assicurazione contenuta nella sua lettera del 22 dicembre secondo cui il Dipartimento diStato verrà informato in anticipo della data in cui avrà inizio lo spiegamento in Italia di armi speciali. Quando questo spiegamento sarà stato completato, il Dipartimento di Stato si propone di autorizzare l’ambasciatore Luce, se lo ritiene necessario alla luce della sua conversazione con Taviani, a informare il generale Mancinelli, capo di Stato di maggiore, in merito alla generale (in questo caso "generale" significa il contrario di "particolareggiata", ndr) ubicazione dei siti». La lettera fu scritta in uno dei periodi più tormentati della guerra fredda. Stalin era morto tre anni prima. Il suo successore, Nikita Kruscev, aveva lanciato qualche segnale da cui si poteva trarre l’impressione che il Cremlino avrebbe avuto, d’ora in poi, uno stile diverso. Ma l’Urss stava lavorando alla costruzione della bomba H e avrebbe represso nel sangue, di lì a poco, la rivoluzione ungherese. Con la decisione di ospitare bombe americane sul suo territorio l’Italia fece la sua parte e dette un contributo alla sicurezza dell’Occidente. Ma credo che prima di acconsentire al raddoppio della base diVicenza avremmodovuto chiederci se gli accordi scritti in quel periodo rispondano ai nostri interessi di oggi e non debbano essere interamente rivisti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 marzo 2007

 
   
 

Il cerimoniale

Caro Romano, come mai nella foto di gruppo il presidente del Consiglio italiano, Prodi, è all’estrema sinistra della seconda fila mentre Chirac è a fianco della Merkel? Essendo l’Italia una della nazioni fondatrici dell’Ue, allora Mec, (ricordiamoci che De Gasperi, prima della sua prematura morte, insieme a Adenauer e Schumann aveva tracciato la via) non dovrebbe occupare una posizione più importante?

Carlo Alberto Di Bisceglia, Basilea (Svizzera)

Il cerimoniale vuole che il presidente di turno riservi i posti d’onore, nelle fotografie ufficiali, ai capi di Stato.Èquesta la ragione per cui Angela Merkel aveva alla sua destra Jacques Chirac, presidente della Repubblica francese, e alla sua sinistra Vaclav Klaus, presidente della Repubblica ceca. Peccato che quest’ultimo pensi dell’Europa unita tutto il male che ne pensava la signora Thatcher.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 marzo 2007

 
   
 

Legione dell’Unione

Caro Romano, in occasione del cinquantennale dell’Ue, la cancelliera Merkel ha fatto cenno all’ipotesi della costituzione, sia pure non a breve termine, di Forze Armate europee. Il tema ha sempre incontrato difficoltà per la scarsa disponibilità dei singoli Stati a rinunciare a una componente emblematica della propria sovranità quali sono appunto le strutture militari. Ma una soluzione potrebbe essere trovata dando vita a una specie di Legione Straniera con il motto «Europa Patria Nostra», cioè a uno strumento assolutamente autonomo e indipendente dai singoli organismi nazionali, che manterrebbero invariate le proprie forze. Questa Legione Europea potrebbe essere costituita con personale militare «fuori ruolo» dei vari Stati dell’Unione (o con volontari) ed essere dotata di organizzazione, materiali e logistica propri, anziché concessi «in prestito» di volta in volta per specifiche contingenze. Una Forza così concepita, anche se inizialmente di ridotta entità, potrebbe avere un ruolo importante per esprimere una significativa politica sovranazionale europea.

gen. Mario Buscemi, Roma

Nella storia esistono la Légion della Francia, il Tercio della Spagna, i gurka della Gran Bretagna. E vi sono da qualche tempo gli eserciti privati formati da grandi aziende militari. Perché non dovrebbe esistere una Legione dell’Unione europea? E’ una buona idea.Maè importante che queste legioni siano composte, comelei propone, da cittadini dell’Unione e operino agli ordini di uno stato maggiore europeo. In caso contrario qualcuno osserverebbe sarcasticamente che gli europei non sono disposti a morire per l’Unione e che si comportano come quegli staterelli italiani che facevano le guerre soltanto con imercenari.

Sergio Romano
Corriere della sera, 28 marzo 2007