Israele: come la demografia può essere utile alla politica

Ho letto il suo commento sull’entità della comunità ebraica in Iran. Una stima più plausibile della popolazione ebraica rimasta in quel Paese è di circa 11-12.000 persone, dunque meno che in Turchia dove oggi vivono 18-20.000 ebrei.
Anche in altre occasioni ho notato suoi riferimenti alle comunità ebraiche nel mondo basati su dati poco aggiornati. Certo di farle cosa utile, le accludo la più recente valutazione critica della popolazione ebraica nel mondo, apparsa nel volume 106 dell’«American Jewish Year Book».

Sergio Della Pergola

Caro Della Pergola,
grazie. I dati sulla comunità ebraica in Iran che ho citato nella mia risposta sono quelli più frequentemente indicati nella stampa internazionale.
Ma sono convinto che quelli da lei segnalati nel lungo saggio pubblicato dall’ultimo volume dell’«American Jewish Year Book» siano molto più accurati.
Per i lettori che non conoscono il suo nome e il suo lavoro, ricorderò che lei è nato in Italia 64 anni fa, ma vive in Israele dal 1966 ed è diventato uno dei maggiori esperti di demografia israeliana ed ebraica nel mondo. La sua cattedra all’Università ebraica di Gerusalemme, la Divisione di demografia e statistiche ebraiche (di cui lei è direttore) e l’Istituto A. Harman sull’ebraismo contemporaneo, che lei dirige, sono diventati in questi anni uno dei maggiori punti di riferimento accademici per chiunque si occupi di popolazione ebraica nel mondo, emigrazione e immigrazione, «legge del ritorno» e alterazioni demografiche nella composizione dello Stato israeliano. Non posso riprodurre il suo lungo articolo e non posso neppure illustrare il metodo con cui ha raccolto i suoi dati (certe statistiche nazionali sono poco attendibili, la definizione di «ebreo» può variare a seconda delle leggi o delle rilevazioni statistiche), ma darò al lettore alcune cifre che mi sono parse di particolare interesse.
Gli ebrei nel mondo, all’inizio del 2006, erano 13 milioni e 90 mila, con un aumento di 53.000 unità rispetto all’anno precedente. La popolazione ebraica dello Stato di Israele ammonta a circa 5 milioni e 300.000 persone ed è per la prima volta più elevata di quella degli Stati Uniti dove gli ebrei sono 5.275.000. Complessivamente, quindi, l’80 per cento dell’ebraismo mondiale vive in due Paesi, Israele e Stati Uniti.
Mentre gli ebrei in Israele aumentano, sia pure modestamente, quelli degli Stati Uniti rivelano una leggera flessione.
Malei, caro Della Pergola, osserva nel suo studio che i due gruppi non sono interamente omogenei perché la Legge del ritorno, in Israele, garantisce la cittadinanza anche ai figli non ebrei, ai nipoti e ai rispettivi consorti. Se questi criteri venissero applicati negli Stati Uniti, la comunità ebraica in quel Paese si aggirerebbe intorno ai dieci milioni.
Uno degli aspetti più interessanti delle sue ricerche è il confronto tra il tasso di accrescimento della popolazione ebraica nello Stato israeliano e quello molto più rapido della popolazione araba in Israele e nei territori occupati. Grazie alle sue rilevazioni, Ariel Sharon, di cui lei è stato autorevole consigliere negli scorsi anni, ha compreso che la situazione, di questo passo, avrebbe drasticamente cambiato gli equilibri demografici fra le due popolazioni.
È possibile sostenere quindi che lei ha avuto una parte determinante nel mutamento di linea di Sharon a partire dalla fine del 2002. Aggiungo che lei è anche autore di una interessante proposta. In una intervista al sociologo Paolo Sorbi pubblicata dall’Avvenire del 28 dicembre 2005, lei ha ricordato che fra le città di Netanya e Tel Aviv esiste un triangolo abitato da circa mezzo milione di arabi. Lei propone che questo triangolo venga ceduto al futuro Stato palestinese e scambiato con alcuni insediamenti ebraici vicini a Gerusalemme (Ma’ale Adumim, Gush Etzion e altri). Lo scambio ridurrebbe del 35 per cento la popolazione araba dello Stato d’Israele. Non so se questa interessante proposta basterebbe a risolvere il problema palestinese.
Maè piacevole constatare che il buon senso di un demografo può aiutare i politici a uscire dalle situazioni che essi stessi hanno contribuito a creare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 gennaio 2007

 
   
 

Somalia: ragioni vecchie e nuove di una crisi

Posizione del governo italiano verso l’operazione militare degli Stati Uniti in Somalia è stata manifestamente critica. Gli altri governi europei si sono espressi in forma assai più sfumata. Le chiedo: ma qual è, se mai esiste, la politica italiana nei confronti del pericolo jihadista? Nel nostro Paese l’intelligence ha praticamente le mani legate e la lotta al terrorismo internazionale con gli strumenti giudiziari convenzionali sinora non sembra aver prodotto risultati. All’estero, persino nei santuari dell’integralismo islamico militante, in nome del pacifismo escludiamo qualsiasi opzione militare anche su scala ridotta.
Quale soluzione resterebbe?
Dobbiamo concludere che il pericolo non esiste, e se esiste è meglio far finta di nulla, lasciando che il problema sia risolto dalle nazioni anglosassoni?

Paolo Fontana

Caro Fontana,
ho scelto la sua lettera, fra altre giunte sullo stesso argomento, perché è quella che pone il problema in termini più netti. Lei sostiene che le critiche del governo italiano ai raid americani in Somalia rivelano la mancanza di una linea politica sufficientemente ferma ed efficace. E sostiene implicitamente che le azioni giudiziarie per il rapimento di un imam nelle vie di Milano legano le mani dei nostri servizi di intelligence.
Sono posizioni forti e legittime, condivise probabilmente da molti lettori. Ma comealtre affermazioni categoriche sottintendono alcuni convincimenti che a lei sembrano evidenti e che altri invece potrebbero non condividere.
Il primo di questi convincimenti è che il raid fosse pienamente giustificato dalle informazioni di cui gli Stati Uniti erano in possesso. Se gli americani hanno agito, lei sostiene implicitamente, vuol dire che «sapevano». È possibile, naturalmente.
Magli americani sono troppo gelosi della loro rete informativa per dare agli alleati la documentazione di cui sono in possesso. Dobbiamo quindi prestare fiducia alla loro parola e credere nelle superiori qualità dei loro servizi d’informazione.
Misarebbe più facile se non mi tornassero alla mente, in queste circostanze, altri casi in cui gli americani agirono con altrettanta fermezza.
Vi fu quello dei missili lanciati nell’agosto del 1998 contro attrezzature di Al Qaeda in Sudan che risultarono essere, a quanto pare, una fabbrica di prodotti farmaceutici. Vi furono azioni condotte in Afghanistan e in Iraq contro riunioni e assemblee che risultarono essere matrimoni e feste familiari.
Evi furono le molte sviste di un servizio d’intelligence che si lasciò sfuggire gli attentatori dell’ 11 settembre mentre imparavano a volare in scuole d’addestramento private degli Stati Uniti. Non credo che i servizi segreti possano essere onniscienti e sono pronto ad ammettere una ragionevole percentuale di errori.Mauna certa cautela nel giudicare questo genere di operazione mi sembra giustificata. So che l’America ha grandi responsabilità, manon sono disposto a riconoscerle il diritto di essere contemporaneamente sceriffo, giudice ed esecutore della sentenza.
Il secondo convincimento sottinteso nella sua lettera, caro Fontana, è che operazioni di questo genere possano comportare un prezzo (la morte di civili innocenti) e che il prezzo in alcune circostanze «valga la candela». Forse.Main raid come quelli somali è bene mettere in conto, oltre alla possibilità di eliminare il bersaglio designato, anche la reazione della popolazione civile. Non stiamo lottando contro un popolo, ma contro gruppi più o meno numerosi di pericolosi fanatici il cui vero, principale obiettivo non è quello di eliminare un avversario, ma di conquistare un retroterra di simpatia, consenso e ammirazione nel mondo a cui appartengono. Vogliamo neutralizzare i terroristi, ma non possiamo permetterci di crearne dieci ogniqualvolta riusciamo a eliminarne uno.

Sergio Romano
Corriere della sera, 18 gennaio 2007

 
   
 

Il diritto alla pensione

Caro Romano, ritorna sovente il tema della pensione dei parlamentari, ultimamente nella lettera del signor Nuccio Sciuto del 14 gennaio. La condizione «di aver svolto un periodo di mandato non inferiore a due anni e sei mesi», naturalmente versando i contributi per un intero quinquennio, venne introdotta nei Regolamenti di Senato e Camera, nel luglio 1997, per evitare il possibile moltiplicarsi degli aventi diritto al vitalizio, che si verificava quando un parlamentare dava le dimissioni dopo un anno, per lasciare il posto a un collega.
Tuttavia il vitalizio spetta comunque ai parlamentari «dopo due legislature, quale che ne sia la durata»; in tal caso gli anni di contributi da corrispondere diventano 10.
Lo scioglimento anticipato non tocca gli interessi dei parlamentari alla seconda legislatura; neppure quelli alla prima, se vengono ricandidati, cosa probabile in caso di legislatura breve.
Il tema è delicato, per il possibile conflitto tra obbiettivi politici e interessi personali; può quindi essere utile chiarire ratio e portata della norma attualmente in vigore.

Franco Debenedetti, Torino

Grazie ai suoi chiarimenti il lettore ha ora un quadro completo della faccenda e constaterà con una certa sorpresa che la regola della mezza legislatura fu introdotta per evitare una prassi ancora più discutibile. Ma giungerà probabilmente alla conclusione che la più favorevole e generosa delle pensioni d’anzianità è quella riservata ai parlamentari.

Sergio Romano
Corriere della sera, 20 gennaio 2007

 
   
 

La base di Vicenza: economia e interesse nazionale

Ho 38 anni e sono un dipendente della Caserma Ederle. Sono a Vicenza da 4 anni circa, vengo da Napoli dove ho lavorato nella clinica odontoiatrica della marina Usa per circa 10 anni come assistente generico, poi ho deciso di venire a Vicenza per una posizione migliore e più «sicura» nella clinica odontoiatrica dell'esercito Usa in quanto si parlava di riduzione del personale anche nelle basi del Sud. Anche mia moglie lavora part time nella base, abbiamo avuto una stupenda figlia e acceso un mutuo trentennale per l'appartamento. Adesso però ci troviamo a correre il rischio di perdere il posto di lavoro e di conseguenza la casa! Se il governo negherà l'ampliamento come faremo a pagare i debiti? Chi ci darà subito un altro posto di lavoro permanente a Vicenza? Spero tanto che Prodi e D'Alema se prenderanno questa decisione autorizzino almeno il reintegro dei dipendenti della Ederle in enti statali, altrimenti ce la vedremo proprio brutta.

Fabio Di Lorenzo

Caro Di Lorenzo, dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio lei è certamente più tranquillo. Ma la sua lettera mi sembra ancora interessante perché solleva, con l'efficacia propria del caso personale, uno dei due argomenti che sono stati maggiormente utilizzati nelle scorse settimane da coloro che erano favorevoli alla richiesta americana. Molti hanno ricordato, come lei, che la chiusura della base avrebbe comportato il licenziamento di circa settecento persone e parecchi svantaggi economici per l'intera città. Altri hanno scritto per ricordare che i militari americani della base sono stati in questi anni persone simpatiche, affidabili, eccellenti vicini di casa. E gli autori di queste lettere hanno dato la sensazione di ritenere che questi argomenti fossero, nella vicenda della base, determinanti. Ebbene, debbo confessarle che mi sembrano irrilevanti. So che gli americani sono molto spesso persone affabili e gradevoli. E so che la chiusura di una installazione militare occupata da qualche migliaio di persone provoca sempre ricadute negative per la comunità che trae vantaggio dalla loro presenza. Ma non credo che questi problemi possano essere pesati sulla stessa bilancia su cui il governo deve valutare e pesare l'interesse nazionale. Il problema dell'occupazione sarebbe sorto successivamente e, sperabilmente, risolto. Ma non avrebbe dovuto condizionare la decisione del governo. Per la stessa ragione il presidente del Consiglio non avrebbe dovuto sostenere, come ha fatto durante la conferenza stampa di Bucarest, che il problema della base di Vicenza è «di natura urbanistico-territoriale, non politica». La definizione mi sembra sbagliata. Il problema è strettamente politico perché concerne la politica estera dello Stato, la sovranità della Repubblica, la compatibilità della base con i nostri interessi nel Mediterraneo. La base di Ederle fu creata all'epoca della guerra fredda, quando Italia e Stati Uniti avevano un potenziale nemico e la Nato doveva attrezzarsi ad affrontare nel miglior modo possibile una eventuale minaccia. Qual è il nemico comune oggi? Se è il terrorismo islamico, siamo certi che gli Stati Uniti siano disposti a tenere conto, nel momento in cui decidono di colpirlo, del nostro giudizio e delle nostre valutazioni? Avremo voce in capitolo nell'uso della base o saremo semplicemente costretti a leggere sui giornali che gli aerei americani di Ederle 2 hanno utilizzato il nostro territorio, qualche ora prima, per una operazione militare? Sono queste alcune delle domande che il governo avrebbe dovuto porre. E sarebbe stato utile, con l'occasione, preparare un Libro Bianco, da presentare in Parlamento, sul numero delle basi presenti nel territorio italiano, sulle clausole degli accordi che furono stipulati a suo tempo per la loro apertura, sulla durata dei contratti, sullo statuto giuridico delle truppe americane. Il governo ha preferito aspettare parecchie settimane e dire alla fine che il problema è «urbanistico- territoriale». Troppo poco, troppo tardi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 gennaio 2007

 
   
 

La scelta dei trentini

Caro Romano, lei ha scritto che Alcide De Gasperi disse che nell’eventualità di un plebiscito più del 90% della popolazione trentina avrebbe votato l’Austria. Mi sembra desolante dover ammettere la sua ignoranza sulla realtà trentina: un’italianità che fu messa alla prova durante i ventimesi dell’Alpenvorland. Infatti, con immutate condizioni di povertà e di giogo teutonico le province di Trento, Bolzano e Belluno, furono, di fatto, annesse al III Reich. Quale occasione più propizia per dimostrare il presunto pangermanesimo dei trentini! Ebbene, mentre la popolazione di lingua tedesca dette la caccia ai nostri alpini dispersi in seguito alle vicende dell’8 settembre, il popolo trentino aiutò numerosi soldati anglo-americani fuggiti dai campi di concentramento ovvero dai convogli diretti in Germania. Solo nel Comune di Pinzolo, la nostra comunità soccorse oltre settecento prigionieri anglo-americani. L’italianità di 64 giovani di Pinzolo che militavano nelle file naziste, li indusse a non tradire il padre, oppure l’amico ovvero il fratello. Erano figli e nipoti dei ragazzini che sul finire dell’Ottocento, a riprova del secolare risentimento verso l’Austria, distrussero più volte la linea telegrafica eretta dagli austriaci al fine di collegare Madonna di Campiglio, feudo di Franz Josef Osterreicher ritenuto figlio naturale dell’imperatore Francesco Giuseppe. Furono vicende straordinarie, onorate dal presidenteCiampi con il conferimento di una medaglia d’argento al Gonfalone del Comune di Pinzolo, indi d’oro alla memoria della guida alpina Adamello Collini.

Luciano Colombo, Pinzolo (Tn)

Grazie per le sue interessanti informazioni e rievocazioni storiche.Maoccorre evitare di confondere pangermanesimo e lealtà asburgica. I trentini non furono mai «pangermanisti » (una ideologia fondata sull’esaltazione di un gruppo etnico a cui non appartenevano), ma furono buoni e leali sudditi degli Asburgo. Può darsi che De Gasperi abbia esagerato, quando disse che nell’eventualità di un referendum, prima della Grande guerra, il 90% dei trentini avrebbe votato per l’Austria. Ma non di molto.

Sergio Romano
Corriere della sera, 22 gennaio 2007

 
   
 

Tiso, il prete slovacco che fece la fine di Saddam

Nel documentario trasmesso da Raitre «Pio XII, il principe di Dio» si accennava alla figura del sacerdote-dittatore Jozef Tiso, figura ambigua e presidente-duce della Slovacchia dal 1939. Perché il Vaticano di Pio XII non intervenne in modo energico e scomunicò il sacerdote che avallò (sotto il ricatto di Hitler) una legislazione antisemita e come si mosse, se si mosse, la Santa Sede per evitare la sua impiccagione?

Andrea Sillioni

Caro Sillioni,
credo che mons. Tiso, presidente dello Stato slovacco dal 1939 al crollo del nazismo e il suo regime, siano stati uno dei maggiori grattacapi della Chiesa cattolica.Eho l’impressione che la notizia della sua condanna a morte nel 1947 non abbia suscitato in Vaticano grandi rimpianti. Poche vicende, negli anni della Seconda guerra mondiale, dovettero imbarazzare la Santa Sede quanto la storia di questo parroco e dottore in teologia che credette di realizzare le aspirazioni nazionali del suo Paese e divenne uno dei principali satelliti del Terzo Reich nell’Europa danubiana.
La storia comincia alla fine della Grande guerra, quando i cechi e gli slovacchi, alla vigilia del crollo dell’impero austro- ungarico, si accordarono fraternamente per la creazione di uno Stato unitario. Più che fratelli, tuttavia, sarebbe stato meglio definirli cugini.
La Boemia aveva fatto parte dei possedimenti di casa d’Austria e aveva forti legami con il mondo germanico; mentre la Slovacchia era stata provincia del regno di Ungheria e apparteneva all’Europa danubiana.
La prima era cattolica, ma con una forte vena protestante, mentre la seconda era rigidamente apostolica e romana.
La prima aveva una dinamica economia industriale, la seconda una forte tradizione rurale.
La capitale della prima era Praga, un grande centro europeo, mentre il capoluogo della seconda era un piacevole borgo settecentesco che gli slavi chiamavano Bratislava e i tedeschi Presburgo. In omaggio ai principi del presidente Woodrow Wilson nacque tuttavia uno Stato «nazionale» in cui il censimento del 1921 registrò la presenza di 8.760.937 ceco- slovacchi, 3.123.568 tedeschi, 745.431 magiari, 461.849 ruteni, 180.855 ebrei, 75.853 polacchi, e un numero difficilmente precisabile di zingari.
Quando Hitler, nel 1939, decise di «liberare» i tedeschi del Sudetenland e cominciò a smantellare la Cecoslovacchia, gli slovacchi giocarono d’anticipo e proclamarono la loro indipendenza. Alla guida del movimento nazionale e della forza politica che lo rappresentava (il Partito popolare slovacco) vi era per l’appunto il parroco Tiso che lo storico inglese Alan Bullock definì «un prete duro, dall’aspetto taurino». Tiso fu convocato a Berlino, dove Hitler gli chiese di firmare un telegramma in cui si chiamava il Führer a difendere la Slovacchia. Ma il prete slovacco, tenacemente nazionalista, rifiutò e fece pronunciare dall’Assemblea di Bratislava una dichiarazione d’indipendenza che non conteneva alcun cenno all’auspicata protezione tedesca. La sua testardaggine non impedì tuttavia che la Wehrmacht facesse di lì a poco il suo ingresso a Bratislava e che la Slovacchia divenisse uno «Schutzstaat», un protettorato.
Il risultato fu per molti aspetti paradossale. Un regime fondamentalmente pagano divenne protettore di uno Stato clericale. Il Partito popolare slovacco era stato fondato da un sacerdote, Andrej Hlinka, ed era diretto da un presidium in cui sedevano diversi preti. In un’antologia di scritti sui fascismi curata per l’Italia da Marco Tarchi e pubblicata nel 1996 da Ponte alle Grazie, uno storico dell’Università ebraica di Gerusalemme, Yeshayahu Jelinek, scrive che dei 61 componenti del Parlamento 12 erano sacerdoti, che nel Consiglio di Stato (diciotto membri) i preti erano 3, di cui uno vescovo, che su 57 sezioni provinciali del partito 27 erano capeggiate da preti e che preti erano i sindaci di molte città fra cui Bratislava. I preti erano ovunque: nelle associazioni, nei giornali, nella cattedre scolastiche e universitarie, nei circoli letterari, nei consigli d’amministrazione di imprese finanziarie e industriali. Vi fu un certo dissenso d’ispirazione nazional-liberale, ma la vera opposizione al regime (ancora un paradosso) fu un corpo d’assalto di tendenza radicale, le Guardie Hlinka, che godeva dell’appoggio delle SS. Il Vaticano dovette considerare con una certa preoccupazione questo eccessivo coinvolgimento del clero nella vita politica di un Paese affiliato alla Germania nazista e rifiutò di firmare il Concordato che Tiso, per rafforzare il regime, proponeva alla Santa Sede.Mai tempi erano quelli che erano e Pio XII non ebbe altra scelta che quella di lasciare alla storia il compito di sbrogliare la intricata matassa slovacca.

Sergio Romano
Corriere della sera, 21 gennaio 2007

 
   
 

L’allargamento

Caro Romano, i trattati sono tra Stati e i governi li rispettano finché le parti li vogliono vigenti.Ma, mentre i trattati sono in vigore, spetta ai governi l’interpretare i medesimi cioè gestire i tempi, i modi e le misure nel realizzarli, osservarli e ampliarli, oppure nel lasciarli stare fino a congelarli.
Ladecisione del governo Prodi di interpretare il trattato concedendo l’ampliamento di Vicenza è vergognosa, dato il curriculum del governo Bush liberamente votato dagli elettori americani, curriculum invero vergognoso sia per stupidità e criminalità le quali, entrambe, creano guai epocali alla comunità internazionale, sia per unilateralismo il quale, tra l’altro, nega lo spirito con il quale il trattato fu stipulato negli anni Cinquanta. Anche se ciò è e sarà costoso per tutto l’Occidente, il male minore per il medesimoe per l’intera comunità internazionale abbisogna che il governo Bush sia isolato e umiliato tanto internazionalmente quanto in casa, fino a essere ridotto all’impotenza e a cadere.
Anche l’Italia deve fare capire ai movimenti d’opinione e agli elettori americani che quanto più presto e più radicalmente ciò avviene, tanto prima gli Usa torneranno a essere visti come alleati, mentre ora il loro governo è ragione di vergogna e fonte di disgrazie per tutti.

Gerolamo Pigni Maccia, Milano

Sono personalmente contrario alla base di Vicenza, maparole come vergogna, isolamento e umiliazione mi sembrano francamente eccessive.
Aggiungo comunque un’osservazione.
Fatta salva la possibilità di ulteriori precisazioni, non sembra che sull’allargamento della base esista un trattato da rispettare. L’impegno del governo Berlusconi sarebbe stato esclusivamente verbale e preliminare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 21 gennaio 2007

 
   
 
De Gasperi in America e i comunisti fuori dal governo

All'inizio di gennaio una parte della stampa italiana si è rallegrata con le inevitabili ricostruzioni dedicate alla ricorrenza della visita di De Gasperi negli Stati Uniti, sessant'anni fa, ripetendo il logoro cliché di un viaggio inteso a organizzare la cacciata dei comunisti dal governo. Non riesco a nascondere la mia depressione rispetto al ripetersi di questi luoghi comuni. Quasi nulla corrisponde al lavoro che non pochi studiosi hanno dedicato al tema e personalmente sento una fitta al cuore nel leggere la ripetizione di concetti che la storiografia ha da tempo scardinato. Lei che ne pensa?

Ennio Di Nolfo

Caro Di Nolfo,
credo che lei abbia ragione, ma temo che anche questa leggenda, come altre, sia destinata a sopravvivere. De Gasperi fu invitato a pronunciare una conferenza a Cleveland e attraversò l'Atlantico perché capì che i buoni rapporti con gli Stati Uniti avrebbero giovato all'Italia. Truman aveva già fatto due grossi favori al nostro Paese quando aveva impedito che Tito si impadronisse definitivamente di Trieste e che la Francia, con un colpo di mano, organizzasse un referendum a suo favore nella Valle d'Aosta. Era ormai evidente che l'America avrebbe avuto nelle vicende del dopoguerra un ruolo decisivo e che il suo atteggiamento verso l'Italia sarebbe stato, anche per l'importanza del voto italo- americano, più amichevole di quello degli altri vincitori. La conferma, del resto, venne nei mesi seguenti quando il generale Marshall, segretario di Stato, pronunciò all'università di Harvard un discorso con cui annunciò un piano di aiuti che avrebbe preso il suo nome e dato un grande contributo alla ricostruzione dell'Europa. A chi mai avrebbe dovuto rivolgersi l'Italia in quelle circostanze? La Gran Bretagna aveva un governo laburista, affacendato a mantenere le promesse sociali fatte al Paese durante la campagna elettorale dell'estate del 1945. L'Unione Sovietica chiedeva danni di guerra, voleva smantellare la nostra flotta e considerava il rapporto con il Pci più importante di quello che avrebbe potuto avere con il governo di Roma se davvero avesse voluto favorire l'esistenza di un'Italia neutrale. È certamente lecito chiedersi se De Gasperi, durante il suo viaggio a Washington, sia stato sollecitato a interrompere la collaborazione con i comunisti. Se lo chiedono anche Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace, autori di uno studio («La politica estera dell'Italia dallo Stato unitario ai nostri giorni»), pubblicato recentemente da Laterza: «Ancora oggi, a quasi sessant'anni di distanza, è senza risposta l'interrogativo se lo stesso capo della Casa Bianca o qualcuno dei suoi più diretti collaboratori abbia esplicitamente richiamato De Gasperi a una linea di rottura interna nei confronti dei comunisti e abbia condizionato i futuri aiuti economici all'Italia a una politica conseguente con la svolta che si stava determinando nei rapporti russo- americani, cioè all'estromissione del Pci dal governo. Le prove documentali di questa connessione finora non sono state rinvenute». So che vi sono nella storia delle relazioni internazionali conversazioni di cui non esistono verbali e tracce scritte. Ma la mia personale risposta a questa domanda è: no, non credo che gli esponenti dell'amministrazione americana abbiano chiesto a De Gasperi di sbarazzarsi dei comunisti. Quando il presidente del Consiglio fece il suo viaggio, nei primi giorni di gennaio del 1947, gli Stati Uniti non avevano ancora deciso quale sarebbe stata la loro politica europea e non avevano alcuna intenzione di intervenire nella politica italiana chiedendo decisioni di cui avrebbero dovuto affrontare responsabilmente le conseguenze. Mi spiego meglio: un Paese non chiede a un altro di fare qualcosa se non è pronto ad accompagnarlo e ad aiutarlo nella situazione che potrebbe derivarne. De Gasperi parlò con molti americani, interpretò il loro atteggiamento e, al ritorno in patria, fece un investimento sul futuro. Come lei sa, caro Di Nolfo, così agiscono gli uomini politici coraggiosi nei momenti difficili. La leggenda nacque perché i comunisti avevano interesse a presentare la loro uscita dal governo come il risultato del rapporto servile che De Gasperi avrebbe contratto con una potenza straniera. Da che pulpito!

Sergio Romano
Corriere della sera, 23 gennaio 2007

 
   
 

Quando Israele e l' Iiran fingevano di essere nemici

Dopo la guerra dei Sei giorni arabo-israeliana mi trovavo in aeroporto e l'Aìitalia, per cui lavoravo, effettuava assistenza a terra anche agli aeromobili della Iran Air. L'età mediamente giovane di tutti gli operatori (di razze e religioni diverse) ci permetteva di scherzare tra noi, anche in maniera «pesante». Ma vengo al fatto. Poiché Israele aveva distrutto la grande coalizione araba in pochi giorni, avevamo preso di mira un amico iraniano affermando che la sua nazione non aveva partecipato alla guerra per paura di prenderle da Israele. Mi ricordo che, invece di adirarsi per le nostre meschine allusioni, lui se ne vantava perché, ripeteva, i'Iran non doveva essere considerata una nazione araba. Anzi, ammiccando, aggiungeva che l'Jran aveva sostenuto Israele non solo economicamente e logisticamente, ma anche con armamenti, naturalmente non in maniera ufficiale. Può chiarire ulteriormente questo lontano ricordo?

Roberto Pepe roberto.pepe@tin.il

Caro Pepe,
il suo amico iraniano aveva ragione; e se lei lo avesse rivisto dopo la rivoluzione degli Ayatollah e la cacciata dello Scià, avrebbe probabilmente appreso che i rapporti del regime teocratico con lo «Stato sionista» erano, a dispetto delle dichiarazioni pubbliche, molto pragmatici. Il linguaggio ufficiale del nuovo regime era diventato violentemente anti-israeliano, ma questo non impediva che i due Paesi, all'occorrenza, si aiutassero a vicenda. Il motivo di questa ambiguità era resistenza di un nemico comune: l'Iraq. Israele sapeva che l'esercito iracheno avrebbe potuto attraversare la Giordania e apparire minacciosamente, nel giro di poche ore, sulla sua frontiera orientale. L'Iran sapeva che l'Iraq voleva dominare il Golfo Persico e che avrebbe colto la prima occasione per dichiarargli guerra. Quando la guerra finalmente scoppiò, nel 1980, Moshe Dayan, allora ministro degli Esteri israeliano, tenne una conferenza stampa a Vienna in cui esortò il governo americano a dimentjicare il passato e ad assistere gli iraniani. Come lei ricorda, accadde esattamente il contrario. Gli americani preferirono aiutare Saddam Hussein e gli fornirono, insieme a una certa assistenza finanziaria e militare, persino le fotografie satellitari dello spiegamento delle forze iraniane. Questa scelta di campo, tuttavia, non impedì che Israele continuasse a perorare la causa dell'Iran a Washington e che mantenesse nel frattempo rapporti confidenziali con il regime di Teheran. Vi fu un ruolo israeliano nella vicenda «Iran-Contra» e vi fu addirittura il caso di una fornitura d'armi israeliane che venne trattata, da una parte e dall'altra, con grande spregiudicatezza. Quando un funzionario della repubblica islamica informò il grande ayatollah Khomeini e gli chiese la sua autorizzazione, questi gli chiese: «È necessario divulgare la fonte dell'acquisto?». E quando il funzionario rispose che non era necessario, Khomeini disse: «Allora, non ce ne importa niente». Ho tratto queste informazioni, caro Pepe, da un articolo molto documentato di Trita Parsi, studioso di questioni medio-orientali presso la Johns Hopkins University di Washington. L'articolo è apparso nel primo numero di una nuova rivista, il Joumal ofthe Europea Society ofiranian Studies, diretta da Nicola Pedde dell'Università di Roma La Sapienza in collaborazione con un centro accademico dell'Università di Durham: un buon strumento per capire il regime degli Ayatollah. Oggi naturalmente la situazione è cambiata. Il linguaggio ufficiale resta quello a cui gli ayatollah ricorrevano frequentemente anche in passato, ma dietro le invettive non vi sono più le relazioni ammiccanti e pragmatiche che i due governi erano riusciti a intrecciare. La responsabilità è in buona parte del nuovo presidente, Mahmud Ahmadinejad, populista, demagogo e fanaticamente religioso. Ma non sarebbe giusto dimenticare che il regime di Teheran reagisce oggi a una situazione completamente diversa da quella degli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Gli Stati Uniti sono entrati prepotentemente in Medio Oriente, hanno conquistato due Paesi che confinano con l'Iran, trattano la Repubblica islamica di Teheran alla stregua di uno Stato canaglia e sono il principale garante degli interessi israeliani nella questione palestinese. E questa la ragione per cui la retorica anti-israeliana di Ahmadinejad raccoglie più consensi nel mondo arabo-musulmano di quanti ne raccogliesse in passato.

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 marzo 2006

 
   
 
La negazione dei genocidi e il codice penale

Benché io non nutra alcun
dubbio sulla realtà storica dell'Olocausto e ritenga che i negazionisti siano dei folli senza cuore, depreco l'iniziativa di chi vorrebbe conferire al Parlamento il diritto di legiferare sui fatti della storia. Il fatto che una legge del genere sia stata adottata in altri Paesi europei non ne sminuisce l’assurdità. Da appassionato di storia, penso che gli accertamenti dei fatti della storia e la loro valutazione dovrebbero esser lasciati al cosiddetto tribunale della storia, alla comunità scientifica, alla scuola, non al giudice ordinario, sotto pena di gravissime conseguenze per la libertà d’opinione.

Il ministro Mastella ha annunciato che il Governo presenterà un disegno di legge contro le affermazioni che negano l’Olocausto compiuto dal regime nazista e che ha causato 6 milioni di morti. Confido che il ministro proponga analogo provvedimento contro le affermazioni che negano i crimini dei regimi comunisti, che hanno causato un numero di morti stimato in 100 milioni dallo storico Courtois e in 60 milioni da Solgenitsin e altri dissidenti russi.

Aldo Bagnalasta, Giorgio Pizzonia

Cari Bagnalasta e Pizzonia,
qualche giorno fa è stato ucciso a Istanbul Hrant Dink, giornalista turco di origine armena e direttore di Agos, un settimanale bilingue che pubblica articoli in turco e in armeno.
Un anno fa era stato condannato a sei mesi con la condizionale per avere esortato il governo a riconoscere il massacro degli armeni, all’inizio della Grande guerra, e avere offeso in tal modo l’identità turca. Esistono dunque in Europa due tipi di leggi: quelle che puniscono chiunque osi affermare un’opinione contraria alla verità ufficiale dello Stato, e quelle che puniscono chiunque osi negare l’esistenza di un evento storico. In questo mondo di veti incrociati Hrant Dink era un uomo eccezionale.
Si era battuto perché i suoi connazionali riconoscessero la tragedia armena e la volontà omicida di coloro che avevano scortato i profughi sulla via dell’esilio. Ma aveva sostenuto, contro la lobby armena nel mondo, che non era opportuno pretendere dalla Turchia un esplicito riconoscimento del genocidio armeno prima del suo ingresso nell’Unione.
Pensava che nulla avrebbe favorito la sua evoluzione politica e culturale quanto la partecipazione a un organismo di cui fanno parte le società democratiche dell’Occidente.
Ma siamo davvero sicuri che queste società democratiche possano impartire lezioni al mondo? Alcuni Paesi (Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna e Svizzera) hanno adottato leggi che trattano la negazione della Shoa alla stregua di un reato. L’Austria ha processato e condannato come questa motivazione uno storico inglese, David Irving, che ha tuttavia riconosciuto di avere commesso un errore.Più recentemente l’Assemblea nazionale francese ha votato una legge che estende al genocidio degli armeni le norme sulla negazione del genocidio ebraico.Ein questi ultimi giorni abbiamo appreso che la Germania, durante il semestre in cui è presidente dell’Unione Europea, proporrà che la negazione del genocidio ebraico sia considerata un reato in tutti i Paesi dell’Unione.
Credo che la migliore risposta a questa ondata di puritanesimo giudiziario sia una citazione tratta da un articolo di un giurista, Ronald Sokol, apparso nell’International Herald Tribune del 20 gennaio.
Secondo Sokol, due giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, Oliver Wendeel Holmes jr. e Louis Brandeis (il secondo, incidentalmente, ebreo), dissero: «Se un avvenimento malefico non incombe al punto di rendere impossibile una esauriente discussione, il rimedio da applicare è più libertà di espressione, non silenzio imposto dall’alto». Traduco in linguaggio corrente: si può proibire un dibattito quando esistono rischi incombenti e imminenti, altrimenti no.

Sergio Romano
Corriere della sera, 24 gennaio 2007

 
   
 

Bolzano, storia di una (tentata) pulizia etnica

Le ho già scritto sull'accordo per le opzioni dei sudtirolesi firmato a Berlino nella sede della polizia di Stato il 23 giugno del 1939, poi ribattezzato trattato infame o visto come una specie di pulizia etnica. Ritorno sull'argomento rifacendomi a una frase dell'ineffabile Galeazzo Ciano: «Converrà far cenno ai tedeschi circa l'opportunità di riassorbirsi i loro uomini poiché l'Alto Adige è terra geograficamente italiana e poiché non si può cambiare posto ai monti o corso ai fiumi, bisogna che si spostino gli uomini». La domanda è: se gli optanten sono stati più del 70 per cento e i dableiber (quelli che decisero di restare) meno del 30 per cento, come si spiega che il Sudtirolo è ancora oggi a maggioranza linguistica tedesca?

Umberto Brusco

Caro Brusco, lei si riferisce all'accordo italo- tedesco del 1939 con cui fu deciso che i cittadini di lingua tedesca della provincia di Bolzano avrebbero avuto il diritto di scegliere fra la Germania e l'Italia. Gli optanten, come vennero generalmente definiti, sarebbero partiti per il Reich, gli altri sarebbero rimasti in Italia. L'accordo, definito il 23 giugno a Berlino da funzionari dei due Paesi (fra cui, per l'Italia, il prefetto di Bolzano Giuseppe Mastromattei), fu la necessaria conseguenza del Patto d'Acciaio che i due Paesi avevano firmato a Milano il 22 maggio dello stesso anno e che riconosceva definitivamente, nel preambolo, la frontiera del Brennero.
Di fronte a un Reich pangermanico che rivendicava tutte le terre abitate da nuclei di popolazioni tedesche, non restava altra soluzione fuor che quella di tagliare il problema alle radici. La Germania riconosceva all'Italia il territorio conquistato nel 1918, ma lo «svuotava» di tutti coloro che avrebbero potuto fare campagne irredentiste e pregiudicare l'amicizia italo-tedesca. Nel suo Diario, del resto, Ciano registra alla data del 17 giugno un incidente che dimostra quale fosse in quel momento lo spirito dei due Paesi. Quando i nazisti di Bolzano inscenarono una marcia non autorizzata, il questore fece arrestare il loro segretario. Per evitare un incidente Ciano si affrettò a farlo liberare, ma Hitler lo volle subito in Germania perché intendeva «punirlo esemplarmente». È probabile che si sia limitato a fargli una ramanzina. Vengo ora alla sua domanda, a cui cercherò di rispondere con qualche ricordo personale.
Quando andai a Bolzano per la prima volta nel 1942, fui ospite di una famiglia bolzanina che aveva optato per la Germania. Mi dissero che avrebbero dovuto partire nel 1940. Ma la guerra aveva interrotto la costruzione dei villaggi («simili per quanto possibile a quelli delle nostre valli») in cui sarebbero stati accolti, e le partenze erano state interrotte. Alla fine della guerra, quindi, la maggior parte degli optanti era ancora nella provincia di Bolzano; ed era naturale che pochi, a quel punto, fossero disposti a trasferirsi in un Paese distrutto, umiliato, spartito e occupato dai vincitori. Il problema fu risolto quando Alcide De Gasperi e il ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber si accordarono a Parigi nel 1946 sulla frontiera del Brennero e la concessione dell'autonomia alla provincia di Bolzano. Fu anche deciso che gli optanti avrebbero avuto il diritto di ritirare la loro opzione e di restare o rientrare in Italia.
Quando andai a Innsbruck come vice-console nel 1955 scoprii che il Consolato Generale faceva da tramite fra la prefettura di Bolzano e le autorità tirolesi per le pratiche delle «rückoptionen», le opzioni di ritorno. C'era uno stanzone pieno fino al soffitto di fascicoli. Erano i molti bolzanini che non erano partiti e i pochi che, essendo partiti, avevano deciso di tornare.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 gennaio 2007

 
   
 

La guerriglia

Caro Romano, esiste un esercito regolare, nel mondo, che annoveri la guerriglia come tattica estesa e che sia addestrato a questo, esclusi i corpi speciali, i corpi eletti? Non sarebbe stato opportuno, e non sarebbe opportuno, ripensare la Nato non solo - ma anche - in funzione di forza anti-guerriglia? Per la cronaca: lo pensò Aldo Moro, e lo scrisse nel suo memoriale (pubblicato da Indymedia.com) durante la prigionia pre-omicidio.
Gli Usa non sono addestrati da tempo alla guerriglia e, ahimè, la lotta contro il terrorismo islamista sta sempre più prendendo le sembianze di prosecuzione- rivincita di guerra fredda con altri mezzi.

Fabrizio Celli - Forlì

La Nato ci aveva pensato e aveva progettato l'operazione «Stay Behind», da noi meglio nota come Gladio.

Sergio Romano
Corriere della sera, 26 gennaio 2007

 
   
 

Contributo italiano

Nell’ultimo rapporto ufficiale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, anno 2004, alla pagina B-10, si legge che il contributo annuo versato dall’Italia all'Usa per le «spese di stazionamento» delle Forze armate americane è pari alla bellezza di 366 milioni di dollari, soldi che provengono direttamente dalle tasche dei cittadini italiani. Più dell'Italia pagano soltanto Giappone e Germania, mentre perfino la Gran Bretagna, che degli Usa è l’alleato più stretto, paga di meno, vale a dire 238 milioni di dollari. E c’è chi parla ancora di vantaggi economici per l'Italia!

Salvatore Frau

Le confesso la mia sorpresa e la mia ignoranza. Se qualcuno (un ministero per esempio) è in grado di informare i lettori, lo faccia per favore.

Sergio Romano
Corriere della sera, 25 gennaio 2007

 
   
 

Come i ministri coltivano collegi e allevano elettori

Le scrivo da Parigi dove risiedo da 11 anni, per segnalarle (penso lo abbia notato) l'ennesimo atto di clientelismo da parte di un ministro del governo, cioè quello di avere assegnato alla città di Benevento la sede nel Sud Italia della nuova scuola di magistratura. Aggiungo, per chi ancora non lo sapesse, che un ministro del governo è ministro di tutti gli italiani, non solo dei suoi concittadini.

Magno Carmine

Caro Carmine, il rimprovero che lei muove alla decisione del ministro di Grazia e Giustizia, rappresentante di un collegio della provincia di Benevento, è vecchio quanto la democrazia parlamentare. Dopo avere letto la sua lettera ho ritrovato fra le carte di Francesco Crispi il passaggio di un discorso che l'uomo politico siciliano pronunciò a Palermo negli anni Ottanta dell'Ottocento, dopo la formazione dei governi trasformisti di Agostino Depretis. Eccolo: «Nel Parlamento (...) avviene spesso una specie di contratto bilaterale. Il Ministero dà le popolazioni in balia del deputato, purché il deputato lo assicuri del suo voto. Le nomine del prefetto, del pretore, del delegato di polizia, sono fatte nell'interesse del deputato, affinché si mantenga a lui l'influenza locale. Bisognerebbe vedere il pandemonio di Montecitorio, quando si avvicina il momento di una solenne votazione. Gli agenti del Ministero corrono per le sale e per i corridoi, onde accaparrare voti. Sussidi, decorazioni, canali, ponti, strade, tutto si promette; e talora un atto di giustizia, lungamente negato, è il prezzo del voto parlamentare». Crispi parlava dei deputati, ma avrebbe potuto dire la stessa cosa dei membri del governo. Tutti i ministri, per amore di campanile o convenienza politica, hanno avuto un occhio di riguardo per il loro collegio elettorale e gli hanno assicurato la loro protezione. Il fascismo eliminò le elezioni e decise che i sindaci, ribattezzati podestà, sarebbe stati scelti dal governo. Ma non poté impedire che i maggiori esponenti del regime curassero la loro città con affetto paterno e conquistassero in tal modo la riconoscenza dei loro concittadini. Gli italiani sono quasi tutti antifascisti, ma i ferraresi rispettano la memoria di Balbo, i cremonesi quella di Farinacci, i baresi quella di Crollalanza, e potrei continuare elencando altri gerarchi, meno noti, ma ricordati nella loro città con altrettanta gratitudine. La Costituzione repubblicana ha cercato di rompere i legami tra il deputato e il suo collegio. Furono introdotti il sistema proporzionale e il voto di lista. Fu deciso che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (art. 67). Ma nessuno poté mai impedire che i parlamentari e i ministri della Repubblica si prodigassero in un modo o nell'altro per la loro città o la loro regione. Quando fu necessario trattare con l'Austria le sorti dell'Alto Adige, Alcide De Gasperi tenne conto degli interessi del Trentino. Quando fu necessario decidere il tracciato dell'Autostrada del Sole, Amintore Fanfani difese la causa di Arezzo. E Giulio Andreotti, per molti anni, ha riservato le ore dell'alba, nel suo studio romano, ai postulanti di Frosinone. Lei, caro Carmine, scrive dalla Francia, Paese dove un ministro può essere al tempo stesso sindaco di una città. Crede davvero che Jacques Chaban Delmas e Alain Juppé, quando erano al governo, dimenticassero Bordeaux, che il vecchio socialista Gaston Defferre trascurasse Marsiglia, e che Pierre Mauroy, Primo ministro di François Mitterrand, ignorasse gli interessi di Lilla?

Sergio Romano
Corriere della sera, 27 gennaio 2007

 
   
 

Le dinastie reali della repubblica americana

I presidenti degli Stati Uniti, nel dopoguerra, sono stati spesso scelti all'interno degli stessi — pochissimi — nuclei familiari. I Kennedy, i Bush, i Clinton. A me pare la spia di un difetto del sistema democratico americano, che meriterebbe un approfondito esame.
Perché, secondo lei, ciò accade?

Guido Brizzi

Caro Brizzi, le grandi famiglie, soprattutto nel mondo degli affari ma anche in politica, appartengono sin dagli inizi della Federazione alla storia degli Stati Uniti. John Adams (una delle 56 firme apposte in calce alla Dichiarazione d'Indipendenza) fu presidente dal 1797 al 1801 e suo figlio, John Quincy, rimase alla Casa Bianca dal 1825 al 1829. William Henry Harrison fu presidente per poche settimane nel 1841, ma il nipote Benjamin tenne la carica per un intero mandato dal 1889 al 1893. Theodore Roosevelt, presidente dal 1901 al 1909, era lontano cugino di Franklin Delano, presidente dal 1933 al 1945. Dopo la fine della presidenza di Theodore Roosevelt, gli americani elessero il candidato repubblicano William H. Taft; e suo figlio Robert Alphonso tentò inutilmente per tre volte (1940, 1948, 1953) di conquistare la candidatura del partito repubblicano alle elezioni presidenziali. Robert Kennedy fu Attorney general (una carica che equivale, grosso modo, a quella del ministro della Giustizia) durante la presidenza del fratello John. E sarebbe diventato presidente nelle elezioni del 1968, forse, se non fosse stato ucciso da un giovane palestinese in un albergo di Los Angeles il 6 giugno di quell'anno mentre cercava di conquistare la candidatura del partito democratico. Anche il fratello Edward, probabilmente, sarebbe sceso in campo subito dopo se un grave incidente, nel luglio del 1969, non avesse oscurato la sua immagine. Aveva partecipato a una festa nell'isola di Martha's Vineyard e aveva lasciato la casa di cui era ospite con una giovane donna. Ma la macchina da lui guidata aveva male imboccato una curva pericolosa ed era finita, a testa in giù, nel torrente Chappaquiddick. Edward Kennedy si era salvato, ma raccontò più tardi che la corrente gli aveva impedito di estrarre dall'automobile il corpo della giovane donna. Vi fu un processo a porte chiuse che terminò con una lieve condanna (due mesi), ma da quel momento la prospettiva di una candidatura presidenziale divenne molto più difficile. Undici anni dopo, nel 1980, sperò che il ricordo di quella vicenda si fosse appannato e tentò di conquistare la candidatura del partito democratico contro Jimmy Carter. Ma fallì. Come vede, caro Brizzi, le vicende di alcune dinastie americane possono assomigliare, in alcuni casi, a quelle delle case reali europee. Ma nessuno poteva immaginare che tra la fine del Novecento e l'inizio del 2000 l'America potesse mandare alla Casa Bianca un padre e un figlio, un marito e una moglie. Così accadrebbe infatti se il successore di George W. Bush alla Casa Bianca fosse Hillary Clinton, moglie di Bill. Un giornalista americano, Roger Cohen, si è spinto più in là e ha addirittura immaginato, con un esercizio di politica romanzata, che Hillary, non appena eletta alla Casa Bianca, chiami Bill a collaborare con lei come segretario di Stato. Avremmo allora una situazione simile a quella che si verificò quando la Gran Bretagna, fra il 1840 e il 1861, ebbe una regina, Vittoria, e un principe consorte, Alberto di Sassonia Coburgo Gotha, che esercitò sulla moglie una grande influenza. Sapevamo da tempo che la Repubblica americana è un monarchia elettiva. Ma non fino a questo punto.

Sergio Romano
Corriere della sera, 29 gennaio 2007

 
   
 

L’odio razziale

Caro Romano, adesso è penalmente perseguibile «chiunque diffonda in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o l’odio razziale o etnico». Ovvero Oriana Fallaci, se fosse ancora fra noi, finirebbe in galera. Mario Borghezio e Roberto Calderoli li arrestano domattina. O forse mi sfugge qualcosa? Spero che non sia penalmente perseguibile chi, come me, pensa che i rimedi migliori contro l’odio etnico siano lo spirito critico, il libero esame e il coraggio. Davvero rendere le idee sbagliate (o semplicemente cretine) penalmente perseguibili è il modo migliore per combatterle?

Italo Vecchi, Ferrara

Anche le democrazie purtroppo resistono difficilmente al fascino di una istituzione che tutti dichiarano di deprecare e che molti continuano a imitare: l’Inquisizione.

Sergio Romano
Corriere della sera, 29 gennaio 2007

 
   
 

Quando la politica pesa più della giustizia

La valutazione tutto sommato
positiva che si può dare della posizione assunta da Craxi nei confronti degli Stati Uniti a Sigonella, quando egli si oppose a che i terroristi ivi fatti atterrare dagli Usa fossero portati in America, è offuscata dal seguito cui lei non accenna.
La rivendicazione della nostra sovranità servì a far volutamente scappare da Roma a Belgrado Abu Abbas, il capo dei terroristi che avevano dirottato la Achille Lauro. Così il nostro governo si fece gioco anche della nostra giustizia (cui vennero lasciati solo i pesci piccoli) per compiacere i terroristi e i loro mandanti. È questo machiavellismo che tuttora non ci viene perdonato.
Anche questo seguito va ricordato e giudicato!

Giorgio Sacerdoti

Caro Sacerdoti,
potrei risponderle che l’impunità di Abu Abbas faceva parte del patto politico stipulato da Craxi per la liberazione dell’Achille Lauro e che era interesse dell’Italia, oltre che obbligo, rispettarlo. Ma la sua lettera solleva un problema più generale e merita qualche considerazione in più.
Il problema è quello dei rapporti fra giustizia e politica, soprattutto nell’ambito delle relazioni internazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale e in particolare dopo la fine della Guerra fredda, si è progressivamente affermato il principio che i criteri della giustizia debbano prevalere su quelli della politica. Sono state firmate convenzioni sui diritti umani e sulla imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità. Sono stati costituiti tribunali speciali per i crimini di guerra in alcune particolari regioni (Jugoslavia, Ruanda, Sierra Leone). È stato costituito un Tribunale Penale Internazionale. Alcuni Paesi hanno adottato leggi che consentono ai loro magistrati di perseguire i sospetti dovunque essi siano e di tradurli in giudizio anche di fronte a una corte che in altri momenti storici sarebbe stata considerata priva di qualsiasi giurisdizione.
Questi principi hanno prodotto una serie di casi, spesso clamorosi. Carla Del Ponte, procuratore del tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia, ha tenacemente voluto il processo contro Slobodan Milosevic e non smette di chiedere a Belgrado la consegna di Ratko Mladic e Radovan Karadzic.
Il magistrato spagnolo Garzón ha chiesto alle autorità britanniche l’estradizione dell’ex presidente cileno Augusto Pinochet.
Un tribunale belga ha aperto una procedura giudiziaria contro il premier israeliano Ariel Sharon e ha preso in considerazione, a quanto pare, la possibilità di un processo all’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger.
Ma nella realtà d’ogni giorno abbiamo constatato che queste nobili intenzioni e questi grandi principi vengono rispettati soltanto quando non si scontrano con gli interessi politici di uno Stato. Di fronte alle pressioni del tribunale dell’Aja, il governo serbo ha preferito tenere conto dei sentimenti di quella parte della sua pubblica opinione per cui Mladic e Karadzic sono, tutt’al più, «patrioti che hanno esagerato».
Di fronte alle richieste del governo italiano la Francia ha per molto tempo rifiutato di estradare i terroristi dei nostri «anni di piombo». Per mettere termine alla guerra civile irlandese con gli accordi del Venerdì Santo, il governo britannico non ha esitato a rilasciare i terroristi dell’Ira che erano stati condannati a lunghe pene detentive.
E di fronte alle richieste della magistratura spagnola, Londra, dopo qualche tentennamento, ha preferito restituire Pinochet al suo Paese dove era facile immaginare che avrebbe goduto di una sostanziale impunità.
Non vedo infine con quale autorità gli Stati Uniti potrebbero accusarci di machiavellismo.
Hanno rifiutato di ratificare la istituzione del Tribunale penale internazionale e hanno fatto pressioni sui Paesi firmatari perché s’impegnassero a non permettere la consegna di cittadini americani all’Aja.
Hanno chiesto al governo di Bruxelles la modifica della legge sulla legislazione universale dei tribunali belgi e hanno minacciato, in caso contrario, di ritirare la Nato dal Belgio. E non permetteranno mai che i direttori del carcere di Abu Ghraib e del campo di Guantanamo vengano giudicati da un tribunale internazionale.
Quello che mi sorprende in queste vicende, caro Sacerdoti, non è la prevalenza del criterio politico sul criterio giudiziario.
Quello che maggiormente mi infastidisce è il fatto che molti Paesi sventolino la bandiera della giustizia internazionale quando conviene e la ripongano quando smette di essere utile.

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 gennaio 2007

 
   
 

Il viaggio in Usa

Caro Romano, penso di essere
l’unico superstite del piccolo gruppo di diplomatici che accompagnò nel gennaio 1947 il presidente De Gasperi a Cleveland e forse uno dei pochi funzionari italiani ancora viventi che fosse in un modo o nell’altro connesso con quello storico viaggio. Non pretendo di essere stato, nella mia posizione di quinto segretario dell’ambasciata a Washington, informato delle segrete cose che possano essere state trattate in quella occasione nei colloqui riservati, ma i miei ricordi personali, per quello che valgono, sono del tutto nel senso delle sue considerazioni in risposta alla lettera del prof. Di Nolfo. A queste vorrei soltanto aggiungere che uno dei risultati concreti più importanti della visita fu la tanto sperata concessione, a conclusione di un complesso negoziato, da parte della Export Import Bank di un prestito all’Italia di cento milioni di dollari, ritenuto vitale nelle drammatiche condizioni in cui si trovava il nostro Paese. Fu un risultato tanto importante, anche come segno del sostegno politico degli Stati Uniti, da diventare, se ben ricordo, attraverso la fotografia nelle mani di De Gasperi della lettera di comunicazione, il simbolo iconografico del successo di quella missione.

Paolo Pansa Cedronio

Ricordo ai lettori che dopo essere stato quinto segretario a Washington alla fine della guerra, Pansa Cedronio è stato ministro consigliere a Londra, ambasciatore in Cile e in Canada, vicesegretario generale della Nato e infine ambasciatore negli Stati Uniti. Sono circostanze che rendono i suoi ricordi particolarmente preziosi. Peccato che, con molta discrezione, ce li regali col gontagocce.

Sergio Romano
Corriere della sera, 30 gennaio 2007

 
   
 

Chi erano e che cosa facevano i Mille di Garibaldi

Giuseppe Garibaldi, circa dieci anni dopo l’epica spedizione nel Regno delle due Sicilie, scrisse un’opera autobiografica: «Garibaldi e i Mille», pubblicata solo in poche copie e poi non più ristampata fino al 1933. Sembra sia uno scritto polemico e anticlericale, quindi censurato perché non consono con la linea politica dei tempi. Oggi forse meriterebbe un’analitica e critica rilettura. Del resto l’impresa dei Mille, anche se sapientemente spacciata come sommossa popolare, era in fondo l’impresa di un manipolo elitario di patrioti, molti dei quali intellettuali (oltre ad Abba si contavano 150 avvocati, 100 medici, 50 ingegneri, ecc.), provenienti sostanzialmente solo dalle Regioni Lombardia, Liguria e Veneto, zone che oggi, ironia della sorte, sono tra le più critiche verso l'Unità d'Italia.Caro Romano, che ne pensa? La storia dovrebbe essere parzialmente riscritta?

Mauro Lupoli

Caro Lupoli, non credo che la storia della spedizione dei Mille debba essere riscritta e non credo che sia stata «spacciata» come una sommossa popolare. Fu una bella pagina di storia risorgimentale e divenne il modello di molte imprese nazionali in altri continenti nelle generazioni seguenti. Gli italiani che non sono afflitti da patologie autolesioniste dovrebbero esserne orgogliosi, quale che sia la loro origine regionale.È certamente vero, tuttavia, che le province maggiormente rappresentate nella spedizione furono quelle settentrionali. Secondo le accurate ricerche di George Macaulay Trevelyan, il grande storico inglese che dedicò a Garibaldi quattro volumi, la ripartizione per luogo d’origine e professioni è, con qualche lacuna, questa. I Mille furono in realtà 1089. Vi erano 33 «non italiani » (fra cui 4 ungheresi), ma erano in gran parte trentini, veneti o nizzardi. I bergamaschi erano 160, i genovesi 156, imilanesi 72, i bresciani 59, i pavesi 58, i toscani 78, i napoletani 46 della parte continentale del Regno borbonico, i siciliani più o meno altrettanti. Le professioni sono generalmente quelle che i membri della spedizione abbracciarono più tardi, nel corso della loro vita: 150 avvocati, 100 medici, 100 commercianti, 50 ingegneri, 20 farmacisti. Vi furono anche 30 capitani di nave, 10 pittori o scultori, tre preti spretati, una donna (Rosalia Montmasson, la prima moglie di Francesco Crispi) e un numero imprecisato di funzionari pubblici, scrittori, professori, giornalisti, barbieri e calzolai.Maalmeno metà della spedizione, secondo Trevelyan, era composta da operai. Questo elenco, naturalmente, non comprende tutti coloro, italiani e stranieri, che si unirono alla spedizione più tardi, in Sicilia e nel continente. Vi fu anche una Legione britannica composta da volontari reclutati con un curioso annuncio apparso nel Times di Londra che mi è stato segnalato qualche tempo fa da Francesco Paolo Fulci, ex ambasciatore d’Italia all’Onu. Era indirizzato con un punta di ironia agli «escursionisti inglesi» che desideravano visitare l’Italia meridionale: «Poiché la regione è piuttosto instabile, agli escursionisti verranno distribuiti mezzi di difesa e, per facilitare il loro reciproco riconoscimento, un costume pittoresco. Il generale Garibaldi ha generosamente garantito agli escursionisti un viaggio gratuito». Sulle Memorie di Garibaldi, caro Lupoli, non esiste alcun mistero. Furono pubblicate dall’editore Barbera a cura di Adriano Lemmi, Gran Maestro della Massoneria. Ma il curatore, come scrisse più tardi Ernesto Nathan, aveva corretto errori, «emendata la punteggiatura, raddrizzata la frase, steso un velo sulle mende di forma che troppo sfacciatamente si facevano innanzi». La prima edizione fedele e completa fu quella pubblicata dallo stesso Nathan nel 1907, vale a dire nell’anno in cui il seguace di Mazzini divenne sindaco di Roma, e venne realizzata sul manoscritto originale: «673 pagine coperte colla nitida e caratteristica calligrafia del Generale». L’editore fu la Società Tipografico-Editrice Nazionale, già Rioux e Viarengo, di Torino. Ne furono stampate quattrocento copie fuori commercio. L’edizione nazionale venne più tardi, fra il 1932 e il 1933.

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 gennaio 2007

 
   
 

Gli aiuti offerti

Caro Romano, non perché lo abbia sostenuto anche Indro Montanelli, ma francamente mi riesce molto difficile pensare che in quel tempo, col macchartismo che se ancora non infuriava già si faceva sentire, col «falco» Truman alla Casa Bianca, con i comunisti che, armati fino ai denti, quì in Italia pretendevano di «rivedere» gli accordi di Yalta, gli americani avrebbero potuto graziosamente concedere all'Italia i congrui aiuti previsti dal piano Marshall. Il mondo era diviso in due blocchi e De Gasperi pur se indocile o non abbastanza docile era pur sempre un cattolico e la posizione del Vaticano nei riguardi del Pci a quel tempo era quella delle scomuniche e degli anatemi.

Giampiero Bizzetti, Caltanissetta

Gli aiuti del Piano Marshall furono offerti anche alla Cecoslovacchia, allora ancora presidiata dall’Armata Rossa. In un primomomento il governo di Praga li accettò, ma dovette successivamente cedere alle pressioni sovietiche e rifiutarli.

Sergio Romano
Corriere della sera, 31 gennaio 2007

 
   
 

Il negazionismo: un reato di «lesa verità»

Non ho letto il testo della
proposta di legge relativa alla negazione dell’Olocausto e ad altre affermazioni sulla superiorità razziale, ma d’impulso vorrei consigliare all’onorevole Mastella di lasciar perdere. Ci sono persone che non ragionano bene e che un tempo si chiamavano cretini. Per non offenderle potremmo chiamarle persone diversamente intelligenti.
Ma la Costituzione non ci dice che tutti i cittadini, anche se «diversi», hanno uguale libertà di parola? E pagano le tasse anche loro.
Allora lasciamo che i Minculpop di altri Paesi li discriminino e li mandino in galera. Per giudicarli non sarà necessario istituire eventuali Commissioni per la tutela dell’ortodossia storica. Semmai sarà il pubblico ragionante italiano a farsi due belle risate.

In questi giorni il negazionismo è tornato all’attacco con le sue tesi che non hanno alcun riscontro nella realtà. Ciò che mi dispiace è sentire la gente comune identificare negazionismo con revisionismo. Sarebbe un grave errore, perché il revisionismo è un contributo decisivo per abbandonare una visione ideologica della storia e tornare a cercare la verità storica. Per me che la storia tento di insegnarla, salvaguardare il valore del revisionismo è importante.

Augusto Buonafalce; Gianni Mereghetti

Cari Buonafalce e Mereghetti,
il progetto di legge del ministro Mastella ha subito alcuni cambiamenti. Sembra di comprendere che il reato di «negazione del genocidio» sia scomparso e che la norma, in quest’ultima versione, tenda soprattutto a rafforzare il concetto di incitazione all’odio razziale e a inasprire le pene.
Ma la Germania, come ho scritto in una precedente risposta, vorrebbe approfittare del suo semestre di presidenza per proporre all’Unione Europea l’adozione di una legge simile a quella della Repubblica Federale, dove la negazione del genocidio può essere punita con la detenzione, come è accaduto allo storico inglese David Irving in Austria. È probabile quindi che il tema, in una formao nell’altra, rimanga all’ordine del giorno per parecchio tempo e meriti ancora qualche riflessione.
Il «negazionismo» comprende in realtà una certa varietà di tesi e di impostazioni. Vi è chi mette in discussione l’esistenza stessa dei campi di sterminio.
Vi è chi nega la strategia omicida del Terzo Reich e sostiene che le vittime furono uccise soprattutto dalle epidemie e dalla fame. Vi è chi contesta il numero dei morti calcolando il potenziale dei forni crematori e degli apparecchi per la produzione del gas. Vi è chi mette in discussione la diretta responsabilità di Hitler e cerca di sminuire in tal modo l’importanza dell’evento. Ma la maggior parte dei negazionisti, quale che sia la loro tesi, ha uno scopo politico, esplicito o sottinteso. Vogliono indurre nel lettore la convinzione che dietro la letteratura sul genocidio e l’importanza che esso ha assunto nelle società occidentali (giorni del ricordo, memoriali, esposizioni, rievocazioni televisive) vi sia un preciso disegno ebraico: tenere in scacco la Chiesa cattolica, esercitare continue pressioni sui debitori e sui loro eredi, conferire una maggiore legittimità allo Stato d’Israele e alla sua politica palestinese. Considerato in questa prospettiva, quindi, il negazionismo può effettivamente considerarsi una forma di antisemitismo. Ma la negazione del genocidio dimostra altresì che questi storici, pur essendo spesso antisemiti, sono consapevoli della enormità e della esecrabilità dell’evento. Si potrebbe sostenere, parafrasando il Tartufo di Molière, che il negazionismo è un omaggio del vizio alla virtù.
Sono le intenzioni degli studiosi, quindi, il vero nocciolo della questione. Ma poiché è difficile portare le intenzioni in tribunale, i processi per negazionismo diventano quasi sempre processi per «lesa Verità ». Nulla di nuovo. Vi furono tempi in cui si andava al rogo per avere negato l’esistenza di Dio, messo in dubbio la doppia natura di Cristo o offeso la maestà del re. Evidentemente i governi non hanno perso l’abitudine di trattare gli errori alla stregua di un crimine.
Vi è un altro aspetto che rende queste leggi inquietanti.
Mentre le prime disposizioni contro i negazionisti concernevano esplicitamente il genocidio ebraico, le formule più recenti debbono tenere conto anche di altri gruppi nazionali o sociali che sono stati vittime di massacri e desiderano essere ricordati. Da una norma molto specifica siamo passati quindi a norme più generali che coprono potenzialmente una maggiore varietà di casi e potrebbero essere usate, ad esempio, contro chi osa mettere in discussione altri eventi in altre parti del globo. Sarà sempre più difficile, di questo passo, fare il mestiere dello storico.

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 febbraio 2007

 
   
 

La coltivazione

Caro Romano, a proposito di come i ministri coltivano collegi e allevano elettori, vorrei chiedere se esiste una statistica sulla coltivazione dei collegi.
Quale uomo politico ha coltivato meglio il proprio collegio?

Giuseppe Tizza

Finché rimase in vigore
la legge elettorale dell’immediato dopoguerra esisteva un indicatore pressoché infallibile: le preferenze. Credo che Giulio Andreotti ne avesse circa trecentomila.

Sergio Romano
Corriere della sera, 01 febbraio 2007

 
   
 

Guerra civile in Iraq: ma l’America non lo ammette

L'amministrazione americana non vuole che l’Iraq cada in una guerra civile. I mezzi di comunicazione parlano di un Iraq sull’orlo di una guerra civile. Capisco l’impegno ad essere necessariamente ottimisti, ma allora in che situazione è l’Iraq? Perché non si può usare il termine di guerra civile, quando iracheni combattono contro altri iracheni? Forse perché sposterebbe il fuoco dell’attenzione da questa eroica guerra al terrorismo globale?

Matteo Triossi

Caro Triossi,
la sua lettera coglie uno dei punti più interessanti dell’attuale situazione irachena.
L’iniziale resistenza baathista e islamista contro le forze di occupazione si è trasformata, dopo l’attentato contro la moschea di Samara nel febbraio dell’anno scorso, in un sanguinoso conflitto fra sunniti e sciiti.
Ma la presidenza Bush continua a sostenere che la guerra civile è un rischio, non una realtà.
Dietro questa riluttanza ad accettare i fatti vi è una precisa ragione politica.
Quando sul territorio iracheno non furono trovate armi di distruzione di massa, gli americani continuarono a giustificare l’invasione con due argomenti.
Sostennero in primo luogo che la guerra contro l’Iraq era il passaggio necessario di una più vasta guerra contro il terrorismo. E, in secondo luogo, che l’eliminazione di Saddam e la costruzione di un Iraq democratico avrebbero dato un contributo decisivo alla nascita di un nuovo Medio Oriente, più stabile e prospero.
Se ammettessero l’esistenza di una guerra civile, gli americani dovrebbero riconoscere che la loro invasione ha risvegliato le antiche fratture del Paese e ha scatenato un conflitto che rischia di ripercuotersi sull’intera regione. È apparso proprio in questi giorni a New York un lungo rapporto (130 pagine) preparato per la Brookings Institution (la maggiore organizzazione americana per lo studio della politica internazionale) dal Saban Center for Middle East Policy. Secondo il rapporto, sono già evidenti in Iraq alcuni degli ingredienti che caratterizzano generalmente le guerre civili: l’esodo delle popolazioni (i rifugiati sono già un milione), la proliferazione dei gruppi terroristici, la tendenza degli abitanti di una città a raggrupparsi per ragioni di sicurezza in quartieri «omogenei», le tendenze secessioniste, gli interventi e le interferenze dei Paesi vicini.
Per contrastare queste tendenze, il rapporto invita l’amministrazione a riconoscere umilmente i propri errori (un invito che Bush non ha alcuna intenzione di accogliere) e avanza alcuni suggerimenti.
Occorre che gli Stati Uniti evitino di schierarsi con uno dei contendenti, cerchino di impedire la disintegrazione del Paese, ritirino le truppe dalle città e creino centri per l’accoglienza dei rifugiati. Sul piano politico, secondo il rapporto, l’America dovrebbe adoperarsi per la soluzione della questione palestinese e aprire canali di comunicazione con Siria e Iran.
Temo che il rapporto, quando verrà letto alla Casa Bianca, farà la fine di quello scritto dal Gruppo di studi presieduto da James Baker e completamente ignorato da Bush nelle sue dichiarazioni delle scorse settimane. Questa presidenza continuerà a sostenere che la guerra non fu un errore e che l’America sta combattendo in Iraq una sacrosanta battaglia contro il terrorismo. Anzi, per meglio puntellare questa tesi, l’amministrazione ha individuato un nuovo nemico, l’Iran, contro il quale continua a lanciare segnali piuttosto minacciosi.
È certamente possibile che agenti iraniani siano presenti in Iraq per aiutare le milizie sciite e trarre profitto dalla situazione in cui il Paese sta precipitando. Ma gli ammonimenti di Washington a Teheran servono soprattutto a giustificare la presenza americana in Iraq, e potrebbero aprire un altro fronte: un nuovo errore nel tentativo di cancellare un errore precedente.

Sergio Romano
Corriere della sera, 02 febbraio 2007

 
   
 

La violenza negli stadi e le radici del male italiano

Qualche giorno fa è stato commesso l’ennesimo bestiale delitto in nome del calcio, peggiore, nella sua insensata violenza, degli efferati crimini d’altro genere che occupano le cronache e accendono le passioni. Come ogni precedente delitto analogo, pure quest’ultimo non ha solo scatenato discussioni relative ai mezzi con i quali impedire in futuro reati simili, ma ha anche stimolato dibattiti psico-socio-pedagogici sulle motivazioni che sono o sarebbero alla base di tali bestialità.
Ma queste criminose violenze succedono anche e soprattutto perché si permette che succedano; si cerca di arginarle, di contenerle, ma non di reprimerle con la durezza e la severità in tal caso più che necessarie. Se chi uccide allo stadio fosse condannato — ovviamente una volta accertate le sue responsabilità, con tutte le garanzie di uno Stato di diritto— ad anni di carcere per omicidio aggravato da motivi futili e abbietti, nessuno assassinerebbe più poliziotti o tifosi di altre squadre allo stadio. I terroristi che uccidono in nome della rivoluzione o di altre ideologie sono, giustamente, puniti.
Uccidere in nome della Triestina o della Roma è un delitto ancor più grave, per la futilità e l’abiezione dei motivi, e dunque va represso e punito ancor più duramente.
Non ha senso chiudere uno stadio né una sala di concerti quando essi diventano teatro di crimini; sono i singoli e concreti criminali che vanno individuati e puniti, come del resto è accaduto in Inghilterra. Se chi viene sorpreso allo stadio o altrove con un coltello in tasca venisse adeguatamente punito, nessuno più andrebbe in giro armato e nessuno si sentirebbe per questo represso, perché né dare una coltellata né tenere a tal fine un coltello in tasca è un bisogno essenziale dell’uomo.
Anche la violenza sulle cose, che scoppia spesso dopo le partite, va adeguatamente sanzionata. Mi è capitato di vedere dei bruti, dopo una partita, distruggere, per pura euforia di violenza, una tabaccheria e un bar, arrecando un danno pesantissimo alle persone o alle famiglie che avevano aperto quei locali a prezzo di lavoro e sacrifici. Non mi consta che gli autori del danno siano stati costretti a risarcirlo sino all’ultimo centesimo, come sarebbe ovvio e doveroso, magari devolvendo per anni, se privi di altri beni, gran parte del loro stipendio a quel risarcimento.
Ma lo stadio ha evidentemente preso il posto che nel Medioevo aveva la chiesa, un luogo dove i delitti non si possono perseguire, simile alle zone malfamate lasciate in balia dei delinquenti. I provvedimenti, per fortuna sembra energici, che il Governo pare si appresti a prendere, non dovrebbero nemmeno parlare di campionati di calcio, ma semplicemente stabilire rigorose sanzioni, con la ferma intenzione di applicarle, per delitti che sono tali a prescindere dai luoghi in cui avvengono.

Claudio Magris

le cedo quasi interamente lo spazio della rubrica perché lei dice benissimo ciò che molti lettori, ne sono certo, pensano di questa orribile vicenda. La violenza negli stadi non è un fenomeno spontaneo, imprevedibile e incontrollabile.Èfiglia dell’atteggiamento remissivo e conciliante con cui abbiamo assistito alla crescita di un intollerabile teppismo urbano. Abbiamo permesso che le scuole venissero occupate emesse a soqquadro.
Abbiamo tollerato che le manifestazioni dei centri sociali si lasciassero dietro una scia di vetri rotti e muri sporchi. Abbiamo assistito impotenti alle gazzarre dei tifosi nelle strade e sui treni alla fine di una partita di calcio. Abbiamo chiuso un occhio quando bande di «artisti» hanno cominciato a sporcare le facciate delle case e a violare con i loro graffiti un elementare diritto di proprietà. I teppisti hanno goduto di una sostanziale impunità perché erano «figli» per i genitori, «elettori» per gli uomini politici, «tifosi» per le società calcistiche, «ribelli sociali » per la sinistra massimalista, «vittime della società» per i magistrati progressisti. Molti penseranno che questi reati o infrazioni sono incomparabilmente meno gravi di un omicidio.
È vero. Ma quanto più esteso e profondo è il bacino delle licenze quotidiane, tanto più grande e robusta cresce la pianta della violenza.
Quello che maggiormente mi addolora, caro Magris, è l’unicità del caso italiano. So che il problema del teppismo urbano e della violenza negli stadi affligge quasi tutte le maggiori democrazie occidentale.
Ma noi siamo il solo Paese in cui partiti e governi hanno permesso che le cattive abitudini del ’68 diventassero croniche.

Sergio Romano
Corriere della sera, 06 febbraio 2007

 
   
 
Ottobre 1922: il mistero di un decreto non firmato

Non mi convincono alcuni giudizi impietosi che ho letto sull'onorevole Luigi Facta, presidente del Consiglio dei ministri nel 1922: "Non seppe opporsi al fascismo", "La sua condotta fu esitante di fronte agli avvenimenti che culminarono con la marcia su Roma", "Il debole governo Facta". Se non sbaglio, l'onorevole Facta fu sul punto di dare una risposta anche forte con il ricorso all'esercito in funzione anti camicie nere, ma fu re Vittorio Emanuele III a rifiutarsi di decretare lo stato d'assedio (per la marcia su Roma) proposto dal Consiglio dei ministri. Il re, che nutriva simpatie per il fascismo, mentre Facta rassegnava le proprie dimissioni, incaricò Mussolini di formare il nuovo governo dando così una legittimazione ufficiale alla prova di forza dei fascisti. Che cos'altro avrebbe potuto fare Facta, di fronte a tutto questo?

Michele Toriaco

Caro Toriaco, il governo Facta fu il punto di arrivo di una crisi particolarmente tormentata. Ivanoe Bonomi si dimise nel febbraio del 1922 per sottrarsi a una mozione di sfiducia presentata dai democratico- sociali su una delle tante crisi bancarie che hanno afflitto la nostra storia nazionale.Ma il vero motivo delle dimissioni fu la sua incapacità di conquistare il consenso e la solidarietà delle forze democratiche che avrebbero dovuto fare fronte comune contro il fascismo e la sinistra massimalista. Il successore ideale era Giolitti, ma don Sturzo, leader del Partito popolare, non amava lo statista di Dronero e mise una sorta di veto. Cominciò allora un giro di giostra da cui emerse con chiarezza che nessuno dei maggiori leader politici nazionali voleva addossarsi un compito così difficile. Preferivano aspettare, lasciare che qualcun altro andasse allo sbaraglio, sperare che il potere cadesse nelle loro mani al momento giusto. Facta non fu scelto perché era l'uomo forte, adatto a riprendere in mano le redini del potere. Fu scelto perché i primi attori, per il momento, preferivano restare nelle quinte. L'Italia ne ebbe la conferma in luglio quando il nuovo governo attraversò la sua prima crisi. Vi furono nuove consultazioni, nuovi giri di giostra e la roulette del sistema parlamentare italiano si fermò ancora una volta sul nome di Facta. Questo brutto spettacolo di tentennamenti, ambizioni e piccole furbizie ebbe l'effetto di di incoraggiare i fascisti ad agire con maggiore spregiudicatezza. Vi furono grandi adunate fasciste a Milano, in Emilia e nel Veneto. E quando, alla fine di luglio, fu proclamato un inutile sciopero generale, i fascisti ebbero l'occasione di dimostrare che erano perfettamente capaci di far funzionare i mezzi pubblici e tenere aperti i negozi. Da quel momento la situazione cominciò a precipitare. Fu creata una Milizia fascista comandata da un direttorio di cui facevano parte Italo Balbo, Emilio DeBono e Cesare Maria De Vecchi. E furono preparati i piani per una "marcia su Roma" che venne di fatto annunciata al congresso di Napoli del 24 ottobre. La reazione del governo fu un decreto sullo stato d'assedio che avrebbe dato alla forze armate il potere di arrestare i leader della marcia e disperdere le milizie. Il re arrivò a Roma da Pisa la sera del 27 ed ebbe un incontro con Facta che durò sino alle due del mattino. Si tenne successivamente, nel mezzo della notte, una riunione del consiglio dei ministri che approvò la proclamazione della legge marziale, e cominciò l'affissione dei manifesti nelle strade di Roma. Mail decreto non venne mai firmato. Molti storici, fra cui Denis Mack Smith, si sono chiesti quali contatti personali e telefonici il re abbia avuto durante la notte, e quali fattori lo abbiano indotto a cambiare parere. Ma forse occorrerebbe rovesciare la domanda e chiedere che cosa sarebbe accaduto se il decreto fosse stato firmato. L'esercito, salvo qualche caso d'indisciplina, avrebbe avuto la meglio.Mala situazione politica sarebbe stata quella dei mesi precedenti, i popolari avrebbero continuato a impedire il ritorno di Giolitti al potere e gli altri leader nazionali avrebbero continuato a tergiversare in attesa del "momento giusto". Forse il re decise che l'arrivo dei fascisti al potere avrebbe dato un salutare scossone alla politica italiana. Così dovette pensare, pur con molta riluttanza, Luigi Albertini, direttore del Corriere. Così pensarono tutti coloro che il 24 novembre dettero al governo Mussolini i pieni poteri in materia economica e amministrativa fino al 31 dicembre dell'anno seguente: Bonomi, De Gasperi, Facta, Giolitti, Orlando e Salandra. Quello che accadde dopo, naturalmente, è un'altra storia.

Sergio Romano
Corriere della sera, 07 febbraio 2007

 
   
 

Palestina: come gli ebrei impararono a combattere

Vorrei che lei scrivesse dei primi giorni di vita dello Stato d'Israele. In particolare, non sono mai riuscito a comprendere bene come uno Stato appena formatosi (quindi ritengo con forze armate allo stato embrionale), attaccato da Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania, sia riuscito a sconfiggere cinque Stati nell'arco di un anno senza l'appoggio delle truppe britanniche, ritiratesi lo stesso 15 maggio 1948, giorno dell'attacco.

Dario Savarino

Caro Savarino, l'indipendenza dello Stato di Israele fu proclamata da Ben Gurion nel Museo di Tel Aviv il 14 maggio del 1948, alla vigilia dell'attacco congiunto di cinque Stati arabi. Ma nei mesi precedenti, mentre le truppe britanniche erano ancora sul territorio della Palestina mandataria, si combatté quella che lo storico israeliano Benny Morris, in un bel libro apparso nel 2001 presso Rizzoli («Vittime. Storia del conflitto arabo- sionista, 1881-2001»), definisce una guerra civile fra arabi ed ebrei. L'organizzazione militare degli ebrei si chiamava Haganah (in ebraico, difesa) e si era costituita per la protezione della sua comunità dopo l'insurrezione araba del 1920. Tra i suoi fondatori vi era Zeev Jabotinskij, personalità affascinante e spirito radicale, fondatore del movimento revisionista, condannato dall'amministrazione britannica come terrorista, organizzatore di nuclei paramilitari che avevano secondo alcuni, come ricorda Morris, una «struttura schiettamente fascista». Poco dopo la sua fondazione, Haganah era divenuta parte di una organizzazione sindacale, Histadrut, che fu per molto tempo la spina dorsale della comunità ebraica. Ebbe vita travagliata e generò piccoli gruppi di combattimento, molto radicali, fra cui Irgun Bet che divenne più tardi Irgun Zvai Leumi (Organizzazione nazionale militare). Ma continuò a svilupparsi e a rafforzarsi. Nel 1942, secondo un rapporto dei servizi britannici, poteva contare, come ricorda Morris, «su circa 30.000 uomini, dei quali il 50/70 per cento era armato»; mentre l'Irgun, dal canto suo, disponeva di un migliaio di combattenti «assistiti da qualche altro migliaio di fiancheggiatori e ausiliari». Due anni dopo, nel 1944, i membri di Haganah erano 36.000 «con circa 14.000 armi leggere, compreso un certo numero di mortai da due e tre pollici e di mitragliatrici». Il materiale era stato «acquistato illegalmente o trafugato (...) dai ricchi arsenali britannici in Palestina in Egitto». Era questa, grosso modo, la consistenza di Haganah al momento della proclamazione dello Stato. Due settimane dopo, quando nacque la Forza israeliana di difesa (Idf, secondo l'acronimo inglese), i combattenti, fra uomini e donne, erano 42.000. E in luglio, dopo la breve tregua negoziata dal rappresentante dell'Onu, Folke Bernadotte, erano 65.000. L'armamento fu fabbricato sul posto dalle aziende che gli ebrei avevano creato in Palestina negli anni precedenti o importato di contrabbando attraverso i varchi lasciati dall'inefficace embargo delle Nazioni Unite. Tra i fornitori vi furono i satelliti dell'Urss, felici di contribuire alla vita di uno Stato che era nato contro la volontà dell'Impero britannico. Nelle sue memorie Vittorio Dan Segre, allora ufficiale dell'esercito israeliano, ha raccontato la sua missione in Cecoslovacchia, quando dovette prendere in consegna un carico d'armi. Suppongo che lei voglia sapere, caro Savarino, quale fosse la consistenza delle forze degli Stati invasori. Secondo Benny Morris, le truppe arabe presenti in Palestina alla fine di maggio comprendevano circa 30.000 uomini: 5.000 egiziani, tra 6.000 e 9.000 militari della Legione Araba (la formazione transgiordana comandata dal generale inglese John Glubb), 6.000 siriani, 4.500 iracheni e pochi libanesi. Cominciò da allora nei due campi la corsa alla mobilitazione che fu vinta dagli ebrei, secondo Morris, con largo margine: «a metà luglio l'Idf schierava quasi 65.000 uomini che salirono a 115.000 nella primavera del 1949. I Paesi arabi probabilmente disponevano in Palestina e nel Sinai di circa 40.000 uomini a metà luglio e di 55.000 in ottobre, con un ulteriore modesto incremento entro la primavera del 1949».

Sergio Romano
Corriere della sera, 08 febbraio 2007

 
   
 

Quando si dovette scegliere fra nazismo e comunismo

Al lettore interessato alla vicenda di Josef Tiso (Corriere del 21 gennaio) consiglierei di leggere anche l’articolo di Vittorio Messori «Presidente e prete calunniato» apparso sul mensile Il Timone dell’aprile 2006

Mario Cervia

Caro Cervia,
grazie per la segnalazione. Il testo a cui lei allude è ora in «Emporio cattolico », un libro pubblicato da Sugarco Edizioni nel 2006, dove Vittorio Messori ha raccolto alcuni degli articoli apparsi in una rubrica che tenne per alcuni anni nel quotidiano Avvenire.
Per parlare di Josef Tiso, parroco, presidente della Slovacchia dal 1939 al 1945 e impiccato all’alba del 18 aprile 1947, Messori ricorda anzitutto un articolo che Rino Cammilleri aveva dedicato qualche anno prima a questo singolare personaggio in Studi Cattolici.Un libro che annuncia sin dal titolo la fede dell’autore, il quotidiano della Cei (Commissione episcopale italiana) e una rivista cattolica: tutto indurrà qualche lettore a pensare che Messori e Cammilleri siano, in questa vicenda, avvocati della difesa. È così, effettivamente,macon argomenti che meritano di essere conosciuti e pesati.
Secondo Messori, il matrimonio fra i cechi e gli slovacchi, alla fine della Grande guerra, fu imposto dagli ambienti politici europei che volevano isolare la Germania creando attorno ai suoi confini una cintura di Stati cuscinetto. È una tesi convincente, per molti aspetti sostenuta anche da François Fejtö, uno dei migliori conoscitori della Mitteleuropa, in un bel libro («Requiem per un impero defunto»), apparso qualche anno fa presso Mondadori.
I nazionalisti slovacchi accettarono malvolentieri di passare dal dominio di Budapest a quello di Praga, e trovarono nel clero cattolico il miglior rappresentante del loro nazionalismo frustrato. Monsignor Tiso, comeho ricordato nella mia risposta precedente, fu l’uomo a cui le circostanze, dopo la dissoluzione della Cecoslovacchia, affidarono un compito terribilmente difficile: la guida di un piccolo Stato, formalmente indipendente, ma inserito di fatto nel nuovo ordine europeo creato dalla Germania di Hitler.
Messori sostiene che Tiso difese strenuamente la cristianità della Slovacchia e che non vi fu nel suo Paese, durante gli anni della guerra, «una sola esecuzione capitale». E aggiunge che il parroco-presidente, nel 1945, fu tradito da tutti, consegnato ai sovietici e finalmente processato a Bratislava da un «tribunale popolare». Nel suo testamento spirituale, prima della esecuzione, scrisse: «Muoio come testimone della legge naturale data a ciascun popolo di promuovere la sua libertà e come difensore della civiltà cristiana contro il comunismo ».
Come lei vede, caro Cervia, quella di Messori è una arringa per la difesa. Ma ha anche il merito di ricordarci che non tutti i popoli si trovarono, durante la Seconda guerra mondiale, nella felice condizione di dover fare una scelta semplice e netta fra democrazia e nazismo. Vi furono Paesi (le Repubbliche del Baltico, ad esempio) che dovettero scegliere fra tedeschi e russi, fra nazismo e comunismo.
Ho letto in questi giorni una corrispondenza da Tallinn, capitale dell’Estonia, in cui si racconta che il Parlamento ha avviato le procedure necessarie per lo smantellamento di un memoriale «ai caduti della Seconda guerra mondiale» che sorge nella città vecchia e che verrebbe ricostruito in un grande parco, di fronte al Golfo di Finlandia. La notizia ha indignato i russi e potrà sembrare sorprendente agli europei che non hanno dimenticato il ruolo dell’Urss nella sconfitta della Germania. Ma hanno diritto di giudicare, in queste circostanze, soltanto quelli che hanno sperimentato sia l’occupazione tedesca, sia il dominio sovietico.

Sergio Romano
Corriere della sera, 09 febbraio 2007

 
   
 

Le quote italiane

Caro Romano, non penso ci sia bisogno di ricorrere ad alcun ministero e dubito comunque che si prendano il disturbo di risponderle.
Nel sito http://www.dod.mil/pubs/allied.html si può leggere fra gli altri rapporti quello datato 2004 cui fa riferimento il signor Launa dove, nella Tavola E-3 si può vedere che la cifra è riferita agli alleati Nato.

Beppe Civarelli

Riassumo la questione.
Un lettore, Salvatore Frau, ha segnalato un rapporto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti da cui risulta che l’Italia versa a Washington, per le basi americane sul suo territorio, una sommasuperiore ai 360 milioni di dollari. Dallo specchio allegato alla lettera di Beppe Civarelli risulta che si tratta di contributi diretti e indiretti.
Ho chiesto informazioni a Marco Nese che segue attentamente queste questioni per il Corriere. Mi ha risposto così: «In Italia esistono due tipi di basi militari: quelle prettamente americane, tipo Camp Darby, e quelle Nato. Le spese per quelle americane sono sostenute interamente dagli Stati Uniti. Le basi Nato (come quella di Vicenza) non comportano per l’Italia costi diretti. Le spese alle quali si riferiscono il lettore Frau (lettera del 25 gennaio) e la mail del lettore Civarelli riguardano le quote che l’Italia, come Paese partecipante, versa alla Nato. Difatti sono classificate sotto la dizione «Allied contributions to the Common Defense». Per l’esattezza, l’Italia contribuisce con il 7 per cento del bilancio complessivo della Nato. I fondi gestiti dalla Nato vengono poi ridistribuiti secondo le esigenze.
Uno dei motivi per i quali si può accedere ai fondi comuni è quello di garantire la manutenzione delle basi Nato. Oppure si possono presentare progetti che la Nato finanzia. A questo proposito, l’Italia è stata per anni negligente, nel senso che vari Paesi Nato presentavano progetti per gli armamenti e riuscivano a farseli finanziare dall’Alleanza atlantica (utilizzando quindi anche i fondi versati dall’Italia), mentre l’Italia non era così solerte nel presentare i progetti e di conseguenza non poteva beneficiare dei fondi comuni. Gli armamenti se li doveva pagare da sola, e in questo modo sopportava due spese, una per la Nato, l’altra per il rinnovo dei mezzi.FuAndreatta, come ministro della Difesa, a mettere fine a questi sperperi ».

Sergio Romano
Corriere della sera, 09 febbraio 2007

 
   
 
Le basi americane in Italia, ieri e oggi

Non capisco la sua posizione sull'allargamento della base di Vicenza. Abbiamo liberamente aderito alla Nato nel 1949 con il voto della maggioranza del nostro Parlamento. Il Trattato è attualmente ancora in vigore anche se è cambiato lo scenario internazionale di riferimento. Oggi mi sembra di aver capito che l'adesione alla Nato dei singoli Paesi membri abbia soprattutto una funzione di difesa dal terrorismo internazionale.
E ciò mi sembra logico in quanto non vedo come né l'Onu né l'Ue siano oggi in grado di svolgere un ruolo internazionale in questo senso. Posso capire che dissente sostanzialmente dalla politica degli Usa in questo settore, ma se non vogliamo che la Nato ci difenda dal terrorismo incombente, mi sembra esista solo una soluzione: che Prodi convochi il Parlamento e faccia approvare la nostra uscita da tale Trattato.
Dopodiché Prodi dovrà trovare un'organizzazione internazionale più accettabile e valida della Nato a cui farci aderire se non vogliamo restare da soli a combattere Bin Laden.

Giuseppe Gloria

Caro Gloria, il testo del Patto Atlantico, firmato a Washington nell'aprile 1949, non contiene alcun riferimento a basi militari. Il problema sorse più tardi con la creazione di una organizzazione militare integrata (la Nato, North American Treaty Organization) che rendeva necessaria la dislocazione di truppe americane in Europa. Come ha spiegato Natalino Ronzitti in un buon articolo pubblicato dall'edizione online di Affari Internazionali (la rivista dell'Istituto Affari Internazionali), la questione fu risolta con un accordo generale, valido per tutti i membri dell'Alleanza, e con una serie di accordi bilaterali. L'accordo generale è la Convenzione multilaterale del 1951 sullo statuto delle forze armate Nato stanziate nei Paesi membri dell'Alleanza. Gli accordi bilaterali fra gli Stati Uniti e l'Italia sono un trattato del 1954, un Memorandum d'Intesa concluso nel 1995 e, secondo Ronzitti, «altri accordi che riguardano lo status dei quartieri generali». Mentre la Convenzione fu ratificata dal Parlamento, gli accordi bilaterali non furono presentati alle Camere e divennero validi al momento della firma. Conosciamo il testo di quello del 1995, pubblicato dopo la tragedia del Cermis, ma non conosciamo l'accordo del 1954 e non sappiamo se le clausole pattuite in piena guerra fredda, fra la morte di Stalin e la rivoluzione ungherese del 1956, rispondano ancora agli interessi italiani di mezzo secolo dopo. Resta poi il problema dei compiti che queste basi avranno in una situazione interamente diversa da quella di allora. Il Patto Atlantico e la Nato furono concepiti per contrastare il blocco sovietico, ma gli americani insistettero, dopo la rivoluzione iraniana del 1978, perché le sue competenze venissero estese «fuori area»: una richiesta che a molti europei sembrò già allora troppo impegnativa e generica. Oggi, gli attacchi alle Torri gemelle hanno introdotto nella filosofia militare della Nato il concetto di minaccia terroristica, e si potrebbe effettivamente sostenere, come suggerito nella sua lettera, che il terrorismo abbia preso nell'Alleanza il posto dell'Unione Sovietica. Con una importante differenza, tuttavia. L'America pretende di valutare la minaccia, scegliere il nemico e passare all'uso delle armi senza interpellare la Nato. La guerra irachena non fu una guerra della Nato e l'organizzazione venne invocata da Washington soltanto quando in Iraq le cose cominciarono ad andare male. Allorché decisero di bombardare le milizie delle Corti Islamiche in Somalia (un'operazione aerea per cui usarono la base di Gibuti) gli americani non interpellarono l'Alleanza. Che cosa accadrebbe se decidessero di colpire gli Hezbollah usando la base di Vicenza o quella di Aviano? Ronzitti, professore di diritto internazionale alla Università Luiss di Roma, ricorda un caso di qualche anno fa in cui noi divenimmo corresponsabili di una operazione militare americana. Accadde quando aerei americani decollati da Aviano, durante la guerra del Kosovo, colpirono la sede della televisione di Belgrado. La Jugoslavia accusò allora l'Italia, insieme ad altri Paesi della Nato, di avere violato il diritto internazionale bellico. «Da tenere presente, inoltre», scrive Ronzitti, «che qualora un'operazione militare parta dal nostro Stato, la neutralità non può essere mantenuta anche in assenza di una partecipazione italiana all'operazione». Lei chiede, caro Gloria, quale altra organizzazione migliore della Nato possa difenderci dal terrorismo. Il problema andrebbe piuttosto posto in questi termini: siamo sicuri che le basi americane, in queste nuove circostanze, contribuiscano alla sicurezza dell'Italia?

Sergio Romano
Corriere della sera, 10 febbraio 2007

 
   
 

Il dissenso

Caro Romano, l’onorevole Fassino mi delude profondamente quando, nell'intervista rilasciata al Corriere, suggerisce ai componenti del governo di esprimere verbalmente il loro dissenso, anche radicale, sulle decisioni normative dell'Esecutivo, ma di cambiare radicalmente opinione al momento del voto in Aula. Questa, ad essere buoni, è un’opera buffa di trasformismo fine secolo XX.

Luigi Cosentini

Non credo che in questo caso si possa parlare di trasformismo. Il Consiglio dei ministri è un organo collegiale in cui le decisioni prese amaggioranza impegnano tutti i suoi membri. Se non ritiene possibile sostenere una decisione adottata, nonostante il suo diverso parere, dalla maggioranza dei suoi colleghi, il ministro dissenziente dovrebbe dimettersi.

Sergio Romano
Corriere della sera, 10 febbraio 2007

 
   
 

La congiura di Fiume e il regno di un poeta

Nella sua risposta a Dario Castelli sul Patto di Londra dell'aprile 1915, si incorre in un luogo comune e cioè che Gabriele D'Annunzio fu l'artefice dell'Impresa di Ronchi.
È indiscusso, anche alla luce di recenti studi di Luigi Emilio Longo per conto dell'Ufficio Storico dello Stato maggiore dell'Esercito (vedi «L'esercito italiano e la questione fiumana 1918-1921», uscito dieci anni fa e scevro di tendenze politiche) che l'impresa è stata ideata e organizzata da sette granatieri (s.ten. Enrico Brichetti, s.ten. Lamberto Ciatti, ten. Riccardo Frassetto, s.ten. Attilio Adami, s.ten. Rodolfo Cionchetti, s.ten. Claudio Grandjacquet e s.ten.
Vittorio Rusconi) che avevano constatato di persona i sentimenti italiani di Fiume prima di essere costretti ad abbandonare la città secondo quanto sancito dal Trattato di pace. I sette, riunitisi a Ronchi il 30 agosto 1919, coinvolsero il generale Saverio Grazioli, comandante del contingente italiano a Fiume, e solo dopo avere ricevuto i dinieghi del Duca d'Aosta, comandante della Terza Armata, e di Sem Benelli, si rivolsero a D'Annunzio, il quale attese il 6 settembre per dare il suo assenso e mettersi a capo dell'impresa. L'11 settembre il poeta raggiunse a Ronchi un battaglione dei Granatieri di Sardegna e il giorno successivo entrò a Fiume, accolto dal popolo festante.
L'impresa non poteva essere avviata senza l'appoggio, anche se nascosto, degli alti comandi dell'esercito e in particolare dei generali Cecchini e Tamajo e del plurimutilato conte Elia Rossi Passivanti; a cui si aggiunse l'assenso di personalità come Guglielmo Marconi e Arturo Toscanini.

Aldo Secco

Caro Secco, grazie per le sue interessanti informazioni. Ma nella mia risposta non ho attribuito a D'Annunzio la paternità dell'iniziativa. Ho scritto semplicemente che «un poeta, Gabriele D'Annunzio, divenuto in quei mesi il simbolo del nazionalismo frustrato, entrò nella città alla testa di 2500 uomini e ne fece una specie di signoria rinascimentale con qualche tocco socialista, se non addirittura sovietico». Nella realtà i sette congiurati di Ronchi furono la pattuglia avanzata di una trama molto più vasta. Secondo Marina Cattaruzza, autrice di un ottimo studio su «L'Italia e il confine orientale», uscito recentemente presso il Mulino, i complici, oltre alle persone da lei citate, furono a diverso titolo il generale Giardino, l'ammiraglio Cagni, Luigi Federzoni, Benito Mussolini e un «esagitato comitato nazionalista di Roma». Aggiunga poi che la spedizione ebbe anche un finanziatore nella persona di uno dei maggiori esponenti del «capitalismo di Stato». Si chiamava Oscar Sinigaglia, aveva lavorato durante la guerra nel Commissariato armi e munizioni, diverrà più tardi presidente dell'Ilva e, dopo il 1945, della Finsider. Quando arrivò a Ronchi, quindi, D'Annunzio si mise alla testa di un movimento che era ormai il segreto di Pulcinella della politica italiana. Ma fu lui che inventò i riti della spedizione fiumana e creò quella che uno studioso americano, Michael Ledeen, ha definito una «sacra rappresentazione politica». La sua personalità, la sua immaginazione e i dialoghi con la folla dal balcone del palazzo del governo attirarono a Fiume una variopinta folla di patrioti, pirati, poeti, briganti e corsari che fecero della città, per qualche mese, il più fantasioso e imprevedibile palcoscenico d'Europa. Di quel clima, creato dalla sua personalità, D'Annunzio finì per essere vittima. In un profilo del poeta, citato da Marina Cattaruzza, il generale Badoglio scrisse che quando era «lontano dalla massa degli esaltati ragionava con grande acume, con visione netta della realtà e soprattutto con cuore di grandissimo italiano. Ma ritornato tra i suoi e subitamente attorniato dagli intransigenti, che non rappresentavano certamente gli elementi migliori tra gli accorsi a Fiume, dimenticava ogni promessa, ogni dichiarazione fatta e, per giustificare la sua condotta oscillante ed incerta, accampava allora nuove pretese, dirette più a soddisfare la sua vanità o quella di qualche suo dipendente, che a proteggere i veri interessi di Fiume». Il dominio dannunziano durò un po' più di un anno. Alla vigilia di Natale del 1920, il poeta trovò di fronte a sè, come presidente del Consiglio, un uomo che era, per molti aspetti, esattamente il suo opposto. Quando Giovanni Giolitti, dopo avere risolto il problema di Fiume con la Jugoslavia, dette ordine all'Esercito e alla Marina di sloggiare i legionari dalla città a colpi di cannone, D'Annunzio affidò la sua scelta (morire o partire) a un'antica moneta genovese che portava con sè. Gettata in aria, la moneta cadde dalla parte giusta, e il poeta partì.

Sergio Romano
Corriere della sera, 11 febbraio 2007

 
   
 
I sei ambasciatori e la diplomazia alla luce del sole

A proposito della lettera aperta che gli ambasciatori di sei nazioni alleate hanno indirizzato agli italiani sulle decisioni da prendere in merito all'Afghanistan sono molto stupito dall'asimmetria della situazione. Di solito gli ambasciatori si rivolgono ai governi, non ai cittadini, salvo forse il caso di una situazione gravissima in cui un governo esautorato non sia in grado di esercitare la sua autorità. E d'altra parte, come potrebbero rispondere i cittadini alle sollecitazioni di rappresentanti di governi stranieri? Mi piacerebbe conoscere il suo parere su questo inconsueto passo dei sei ambasciatori.

Floriano Papi

Caro Papi, alle domande dei giornalisti sulle origini di questa iniziativa «irrituale», alcuni rappresentanti dell'amministrazione americana hanno risposto invocando il principio della «open diplomacy» (la diplomazia alla luce del sole) e hanno aggiunto che certi «appelli al popolo» fanno parte della tradizione politica degli Stati Uniti. Esistono effettivamente parecchi precedenti. Quando non approvano il sistema politico di un Paese straniero, i presidenti americani parlano direttamente al suo popolo e lo invitano sostanzialmente a sbarazzarsi dei suoi governanti. È accaduto in questi ultimi anni, tra l'altro, nel caso della Jugoslavia di Milosevic, dell'Iraq di Saddam Hussein e dell'Iran degli Ayatollah. Sono molto più rare naturalmente le occasioni in cui gli americani scavalcano il governo di un Paese amico e alleato per parlare direttamente ai suoi cittadini. Ma è accaduto proprio con l'Italia, quasi novant'anni fa. Lo scandalo scoppiò quando le potenze vincitrici della Grande guerra cominciarono a discutere i confini orientali dell'Italia. Il nostro governo pretendeva Fiume, città di lingua italiana, ma sbocco naturale di un retroterra prevalentemente slavo. E il presidente americano Woodrow Wilson respingeva la richiesta sostenendo che non avrebbe mai acconsentito a una concessione che non teneva alcun conto del consenso delle popolazioni interessate. Quando fece una visita in Italia, nel gennaio 1919, Wilson fu accolto entusiasticamente da folle plaudenti in tutte le città in cui mise piede, e dovette giungere alla conclusione che i sentimenti degli italiani fossero diversi da quelli che animavano la politica del governo di Vittorio Emanuele Orlando. Fu questa la ragione per cui nel maggio del 1919, in uno dei momenti più difficili del negoziato, decise di parlare direttamente al popolo. Lo fece con un appello in cui chiedeva agli italiani di «respingere» (in realtà: sconfessare) le pretese della delegazione italiana sulla città di Fiume. In Italia questa plateale violazione delle regole della diplomazia tradizionale scatenò un putiferio e spinse Orlando ad abbandonare, con un gesto clamoroso, la conferenza della pace. Il gesto non produsse alcun risultato e il problema di Fiume, come ho già raccontato in altre risposte, fu risolto più tardi in circostanze alquanto diverse. Quando parlava direttamente agli italiani, Wilson metteva in pratica il primo dei «Quattordici punti» in cui aveva esposto, poco più di anno prima, la sua filosofia delle relazioni internazionali. Era convinto che una pace duratura richiedesse trattati pubblici, pubblicamente negoziati, e offriva al governo Orlando una dimostrazione della nuova diplomazia che avrebbe dovuto caratterizzare da quel momento le relazioni internazionali. È probabile che Wilson avesse tratto queste convinzioni dalla lettura delle opere di Giuseppe Mazzini, di cui era lettore e ammiratore. Un giovane studioso dell'università di Firenze, Emidio Diodato, si sta dedicando al contributo che Mazzini dette alle teorie delle relazioni internazionali e ha riportato alla luce, tra l'altro, un articolo del 1835 che si intitola «La diplomazia se ne va» in cui è scritto: «La diplomazia dinanzi al diritto delle genti è come l'ipocrisia dinanzi alla virtù. (...) Essa ha prodotto più male nel mondo, in cento anni, che non ne produssero le sanguinosissime guerre che devastarono l'Europa, dalle battaglie greche fino a Waterloo. La sua fu opera di corruzione, di avvilimento, immorale e dissolvente. Ha disfatto nazioni, e tolto nome e vita a intere genti». Qualche anno dopo Mazzini scrisse un altro articolo intitolato «La pubblicità negli affari internazionali» in cui spiegò quale uso i popoli avrebbero potuto fare della propaganda per meglio difendere la loro causa. Si potrebbe quindi sostenere, caro Papi, che i sei ambasciatori hanno applicato all'Italia i principi politici sostenuti da uno dei suoi figli più nobili e famosi? Sarebbe possibile se gli americani praticassero sempre la diplomazia alla luce del sole e se tutto ciò che dicono pubblicamente rispondesse a verità. Lascio ai lettori decidere quale Paese uscirebbe promosso da un esame del genere.

Sergio Romano
Corriere della sera, 12 febbraio 2007

 
   
 
L’inglese che tradì dai microfoni di Berlino

A proposito di personaggi del fascismo inglese, può ricordare anche la vicenda di William Joyce, soprannominato «Lord Haw Haw» e il suo controverso processo conclusosi con la condanna a morte nel 1946?

Andrea Curcione

Caro Curcione,
William Joyce non fu un caso isolato. Come in tutte le «guerre di religione», anche in quelle ideologiche del Novecento vi furono uomini e donne che scelsero di stare nel campo del nemico, contro il Paese di cui erano cittadini. Alcuni si arruolarono per combattere e, quando caddero prigionieri durante il conflitto, fecero spesso la fine degli italiani irredenti durante la Grande guerra, da Cesare Battisti a Nazario Sauro. Altri divennero propagandisti ed ebbero sorte diversa, a seconda della scelta di campo e delle circostanze personali. Se la Germania fosse riuscita a invadere la Gran Bretagna nel 1940, gli annunciatori tedeschi e italiani della Bbc, probabilmente, sarebbero stati passati per le armi.
Quando gli americani, nel 1945, catturarono a Rapallo il grande poeta Ezra Pound, colpevole di avere parlato contro gli Stati Uniti dai microfoni dell’Eiar, lo trattarono alla stregua di un pazzo, lo imprigionarono in una gabbia e lo spedirono in un ospedale psichiatrico nei pressi di Washington. Qualcuno evitò la condanna a morte, ma finì in prigione, come una giovane americana di origine giapponese, Ikuko Toguri, che aveva preso parte a trasmissioni di propaganda in inglese durante la Seconda guerra mondiale e divenne nota fra le truppe americane con il nomignolo di Tokyo Rose. Fu arrestata, processata, condannata a dieci anni di carcere, e ne passò più di sei in un riformatorio femminile.
Più tardi, tuttavia, altre indagini dimostrarono che le accuse erano state alquanto esagerate e che i giapponesi l’avevano costretta a fare l’annunciatrice nelle loro trasmissioni.
Fu perdonata dal successore di Nixon, Gerald Ford, nell’ultimo giorno della sua presidenza, ed è morta recentemente a Chicago.
La storia di William Joyce è molto più cupa e avventurosa.
Nacque a Brooklyn da genitori irlandesi nel 1906, ma passò buona parte della sua adolescenza in Irlanda dove il padre, cattolico ma «unionista», si schierò dalla parte degli inglesi e divenne, per i nazionalisti del Sinn Fein, un traditore. Quei primi scontri nelle vie di Dublino segnarono la vita di William Joyce e fecero di lui un militante, un battagliero oratore politico, un provocatore e un attaccabrighe.
A Londra, dove la famiglia dovette fuggire dopo la costituzione dello Stato libero irlandese, fu attratto dai movimenti fascisti, prese parte a tumultuosi comizi e nel 1924, durante uno scontro con gruppi dell’estrema sinistra, fu sfregiato da un colpo di rasoio che gli attraversò la guancia da un orecchio alle labbra. Quando Oswald Mosley fondò la British Union of Fascists, William Joyce divenne il suo principale propagandista e, per un certo periodo, vicario del leader.
Anche i suoi avversari erano costretti ad ammirare la carica elettrizzante dei suoi discorsi.
Era impetuoso, dinamico, molto aggressivo e sempre pronto a scendere dal podio per fare a cazzotti con gli avversari.
Persino Mosley, a un certo punto, giunse alla conclusione che William Joyce, divenuto ormai un virulento antisemita, era un compagno di viaggio troppo pericoloso e ingombrante.
Quando il sodalizio si ruppe, Joyce creò la Lega Nazional- socialista e divenne, per molti aspetti, un agente della propaganda tedesca. Fu questa la ragione per cui, qualche giorno prima dello scoppio della guerra, lasciò l’Inghilterra e si trasferì in Germania. Qualcuno gli aveva fatto sapere che le autorità britanniche, dopo l’inizio delle ostilità, l’avrebbero arrestato e internato.
ABerlino fu impiegato alla radio del Reich emesso immediatamente di fronte a un microfono.
Con molto sense of humour gli inglesi presero l’abitudine di ascoltarlo. Ridevano delle sue invettive,macercavano anche di intuire, attraverso le sue parole, quali fossero le reali condizioni della Germania e le preoccupazioni dominanti della propaganda nazista.
La sua ultima trasmissione ebbe luogo da Amburgo, il 30 aprile, mentre a Berlino i sovietici stavano conquistando la città. Cercò di fuggire verso la Danimarca,mavenne catturato nei pressi del confine. Fu processato per tradimento e condannato a morte. Fece appello contro la condanna e la questione fu dibattuta, in ultimaistanza, di fronte al comitato della Camera dei Lord che funge in Gran Bretagna da Corte di Cassazione. Ma la sentenza venne confermata ed eseguita il 3 gennaio 1946.
Sembra che le sue ultime parole fossero un atto di accusa contro gli ebrei e i «poteri dell’ombra che essi rappresentano».

Sergio Romano
Corriere della sera, 13 febbraio 2007

 
   
 

Dopoguerra a sessant'anni dal trattato che ci tolse l'Istria, due saggi rievocano i drammi del confine orientale
Trieste. Solo De Gasperi capì che la pace si doveva firmare a tutti i costi

Sergio Romano
Sessant'anni fa, il 10 febbraio 1947, un ambasciatore italiano, Antonio Meli Lupi di Soragna, firmò in una sala del Quai d'Orsay, come è chiamato il palazzo ottocentesco in cui ha sede il ministero degli Esteri francese, il trattato di pace che toglieva all'Italia Trieste, l'Istria, Fiume, Pola, Zara, alcune isole dell'Adriatico settentrionale, due piccoli comuni alpini sul confine nord-occidentale (Briga e Tenda), nonché una buona parte della sua flotta militare e mercantile. In mancanza di uno stemma nazionale, per il sigillo sulla ceralacca, fu usato l'anello gentilizio dell'anziano signore che il governo De Gasperi aveva mandato a Parigi in rappresentanza di un Paese sconfitto.
In Italia fu una giornata di lutto nazionale. «Le bandiere erano a mezz'asta, i portoni chiusi a metà. Era stato proclamato lo sciopero generale di tutti i lavoratori, per dieci minuti, in coincidenza con l'ora della firma. Alle 11 suonò una sirena: tutto si fermò e cadde il silenzio. Messe e cortei accompagnarono il dissenso popolare». «Il Popolo», quotidiano della Democrazia cristiana, scrisse in grandi caratteri sulla sua prima pagina: «Tutto il popolo romano, unito in dignitosa protesta. Mentre a Parigi si mutila l'Italia». Più sobriamente il «Nuovo Corriere della Sera» intitolò il suo editoriale «Le parole non bastano». Altri giornali parlarono di «diktat»: il termine che i tedeschi avevano usato 28 anni prima per definire le clausole punitive del trattato di Versailles. Nella Venezia Giulia e a Roma, di fronte alle legazioni di Jugoslavia, vi furono incidenti. Negli scontri fra comunisti e nazionalisti che scoppiarono in alcune città, apparvero gagliardetti fascisti. Queste citazioni e notizie sono tratte da un bel libro di Sara Lorenzini (L'Italia e il trattato di pace del 1947) che il Mulino ha pubblicato in occasione del sessantesimo anniversario. Nelle pagine seguenti il lettore troverà la descrizione del dibattito all'Assemblea Costituente, sette mesi dopo, per la ratifica del trattato. Benedetto Croce, risolutamente contrario, sostenne che la ratifica era inutile, «tanto valeva quindi risparmiarsi l'umiliazione di una lettura inaccettabile del passato». Francesco Saverio Nitti disse che non era opportuno ratificare subito e ne approfittò, con grande gioia delle sinistre, per criticare le potenze occidentali, l'Onu, il Piano Marshall. Togliatti criticò il governo e la partecipazione al Piano Marshall. Nenni affermò che De Gasperi aveva firmato perché aveva scelto di accodarsi all'America. Vittorio Emanuele Orlando parlò di acquiescenza, accondiscendenza e proclamò: «Questi sono voti di cui si risponde alle generazioni future». L'unico che parlò con rassegnata schiettezza, senza enfasi retorica, fu De Gasperi: «La verità, signori, è che la situazione creata dalla disfatta è tale che se anche le condizioni del trattato fossero state per evenienza peggiori di quelle che sono, noi non avremmo potuto che eseguirle».
Le manifestazioni popolari, le bandiere listate a lutto e i discorsi accorati o polemici dei maggiori leader nazionali suggeriscono due quesiti, apparentemente contraddittori, che sono al centro del libro di Sara Lorenzini. Perché l'Italia sconfitta reagì con tanta sorpresa e indignazione a un trattato che era per molti aspetti assai meno punitivo di quelli imposti ai vinti dopo la Grande guerra? Perché un evento che parve allora tragico e luttuoso è oggi quasi interamente scomparso dalla coscienza nazionale? Perché tanta indignazione allora e tanta indifferenza oggi?
Per rispondere alla prima domanda conviene ricordare il modo in cui la nuova classe politica democratica governò la transizione dal fascismo all'antifascismo. Con una singolare combinazione di sincerità, opportunismo e ipocrisia, fu deciso che il fascismo era stato un incidente di percorso, una «invasione degli iksos» (così lo definì Benedetto Croce), una febbre passeggera. Smaltita la sbornia nazionalista, razzista e autoritaria, l'Italia che tornava in campo a fianco degli alleati era dunque quella di Vittorio Veneto, del Risorgimento, di Mazzini e di Garibaldi. Ci intossicammo con questa pietosa bugia, credemmo di avere diritto a essere considerati vincitori e considerammo il trattato come una intollerabile ingiustizia.
Ancora più interessante, per molti aspetti, è la seconda domanda a cui Sara Lorenzini dedica alcune fra le sue pagine migliori. Dopo la triste cerimonia di Parigi, una delle maggiori preoccupazioni della nuova classe politica fu quella di evitare rigurgiti nazionalisti e nostalgie fasciste.
Il Piano Marshall, la guerra fredda, la Nato e soprattutto l'impegno per la costruzione di un'Europa federale, ci aiutarono a seppellire il trattato di pace nell'armadio dei ricordi sgradevoli e ingombranti. Peccato che insieme al trattato di pace sia finito nell'armadio anche quel tanto di coscienza nazionale che induce i popoli a ricordare con orgoglio le proprie vittorie e con dignitoso dolore le proprie sconfitte.
Prima di chiudere l'armadio, tuttavia occorreva cauterizzare una ferita che continuava a sanguinare. Insieme al libro di Sara Lorenzini, il Mulino ha pubblicato in questi giorni uno studio di Marina Cattaruzza su L'Italia e il confine orientale. Il tema è uno dei più trattati e discussi nella letteratura storica italiana. Ma non esisteva un libro che rendesse conto in modo altrettanto equilibrato, informato e intelligente degli entusiasmi e delle angosce che quel confine suscitò, dalle prime dichiarazioni di Mazzini sui limiti orientali della nazione italiana al trattato di Osimo del 1975, con cui riconoscemmo definitivamente lo stato di fatto creato dalla Seconda guerra mondiale. Dopo l'annessione del Veneto nel 1866, gli italiani al di là del confine erano troppi perché il Paese potesse dimenticare la loro esistenza. E la tentazione era troppo forte perché «Trento e Trieste» non divenisse lo slogan preferito del nazionalismo italiano. Lascio al lettore il piacere di seguire Marina Cattaruzza in questo viaggio attraverso la politica e la coscienza nazionale, e mi limito a osservare che le oscillazioni del confine registrarono fedelmente la curva della potenza italiana in Europa. Conquistammo Trento, Bolzano, Gorizia, Trieste, l'Istria, Pola, Fiume e Zara fra il 1918 e il 1924. Prendemmo un pezzo di Slovenia, Lubiana e la Dalmazia dopo la dissoluzione del regno jugoslavo nel 1941. Conservammo il confine del Brennero e una buona parte di Gorizia, ma perdemmo il resto dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Tornammo a Trieste nel 1954 con una manifestazione di patriottismo sincero, ma un po' retrò, che a me parve una sorta di epilogo del Risorgimento. E liquidammo il passato a Osimo nel 1975, con un trattato di cui la maggior parte degli italiani neppure si accorse. Ogni recriminazione, dopo l'ingresso della Slovenia nell'Unione Europea, sarebbe assurda. E fa certamente piacere constatare che l'Italia non è più nazionalista. Ma saremmo ancora più felici se non dovessimo constatare che è anche, purtroppo, smemorata.

I libri di Sara Lorenzini, «L'Italia e il trattato di pace del 1947» (pagine 218, € 12) e di Marina Cattaruzza, «L'Italia e il confine orientale» (pagine 392, € 27) sono editi entrambi dal Mulino

Corriere della sera, 9 febbraio 2007, pag.49

 
   
 

Nel suo nuovo saggio, «Cancellare le tracce», Pierluigi Battista parte dal caso Grass
per raccontare un fenomeno italiano
Il silenzio degli intellettuali
Le biografie ritoccate nel dopoguerra per nascondere l'adesione al fascismo

SERGIO ROMANO
Nello scorso agosto, in una Europa indaffarata a celebrare la liturgia delle vacanze, scoppiò il «caso Grass». Mentre stava per andare in libreria una sorta di concettosa memoria autobiografica, il premio Nobel Guenter Grass, grande fustigatore dell'anima tedesca e implacabile censore dei peccati commessi dalla sua nazione nel corso del Novecento, raccontò alla Frankfurter Allgemeine Zeitung che nel 1944, all'età di 17 anni, aveva vestito l'uniforme delle SS. La notizia scatenò su tutta la stampa europea e americana una ridda di reazioni indignate, sorrisi ironici, sberleffi polemici, analisi psicologiche e caratteriali. Come altri italiani mi chiesi quanti «casi Grass» vi fossero ancora in Italia, nascosti nelle pieghe della coscienza nazionale. Pierluigi Battista è andato molto al di là di questo semplice quesito e ha scritto in un breve libro uno sferzante ritratto dell'intellighenzia italiana tra fascismo e antifascismo. Mentre il libro di Mirella Serri apparso due anni fa presso Corbaccio (I redenti) era soprattutto un saggio storico sul periodo cruciale fra il 1942 e la fine della guerra, Cancellare le tracce (Rizzoli) ha la passione e il tono vibrante di un'arringa.
Occorre anzitutto ricordare che tra Italia e Germania esiste una fondamentale differenza. In Germania il nazismo restò al potere meno di tredici anni, ma trattò gli oppositori con estrema brutalità. Quando non vennero soppressi o rinchiusi nei lager, gli intellettuali emigrarono e andarono a creare, soprattutto negli Stati Uniti, una delle più grandi e feconde diaspore del XX secolo. Il fascismo invece governò l'Italia per 21 anni (la Repubblica sociale è un capitolo a parte, molto diverso dal resto del libro) e fu in buona parte una grande operazione trasformistica. Gli esuli furono relativamente pochi e il resto dell'intellettualità italiana visse nel regime con una larga gamma di coinvolgimenti che vanno dalla fede assoluta nel credo mussoliniano alla menzogna quotidiana passando attraverso modulazioni diverse di opportunismo, rassegnazione, calcolo, ipocrisia.
A differenza di quanto accadde in Germania esisteva quindi in Italia nel 1945 una folla di scrittori, docenti, giornalisti, filosofi e artisti che avrebbero dovuto fornire qualche spiegazione su ciò che avevano scritto e fatto negli anni precedenti. Erano intellettuali, vale a dire, almeno in teoria, cultori della verità, dell'onestà, del rigore critico. Come avrebbero potuto continuare a fare il loro mestiere senza rendere conto del modo in cui avevano vissuto e lavorato durante il fascismo? Ma anziché spiegare e argomentare, gli intellettuali italiani, come racconta Battista, hanno trasformato il dibattito sul passato in una pasticciata fiera delle bugie e delle accuse reciproche. Qualcuno negò l'evidenza. Altri retrodatarono la loro conversione antifascista alla fase che precedette l'adozione delle leggi razziali. Altri ancora sostennero, con qualche acrobazia, di essere stati antifascisti nel fascismo. Altri infine reagirono contrattaccando e seppellirono i loro accusatori sotto una valanga di improperi. Il risultato di queste tattiche fu un «tiro al bersaglio», organizzato da quanti erano rimasti fascisti, che accompagnò per parecchi anni la storia della repubblica. Attenzione, non stiamo parlando di personaggi minori e scribacchini modesti. Nel libro di Battista ci sono pagine ora crudeli, ora malinconiche sulle contorsioni di Mario Alicata, Massimo Bontempelli, Carlo Muscetta, Renato Guttuso, Guido Piovene, Alberto Moravia. E nella seconda parte del libro vi è una
lunga bibliografia ragionata in cui l'autore ha citato e commentato i testi da cui ha raccolto la sua documentazione. Spero che il lettore non la trascuri. Non ho mai letto note altrettanto interessanti, divertenti e convincenti.
Questo libro non è soltanto una spietata cartella clinica della intellighenzia italiana. L'analisi di Battista aiuta a comprendere perché le bugie e le reticenze di tanti intellettuali abbiano impedito all'Italia di scrivere con il necessario distacco la storia del suo Novecento. Se Massimo Bontempelli, Renato Guttuso o Guido Piovene, tanto per fare qualche esempio, ci avessero parlato con franchezza della loro vita sotto il regime, avremmo forse capito più facilmente perché il fascismo sia durato più di vent'anni e abbia saputo conquistare in alcune fasi il consenso di una parte considerevole del Paese. Ma la «demonizzazione del passato», come l'ha definita Aurelio Lepre, ha fatto del Ventennio fascista un fenomeno storico compatto, una specie di monolito del male privo di sfumature e distinzioni.
Tutto questo non sarebbe avvenuto, naturalmente, se gli intellettuali bugiardi o reticenti non avessero trovato un efficace alleato nel partito comunista italiano e nel suo leader. Palmiro Togliatti fu al tempo stesso il più liberale dei confessori e il più rigoroso dei padri spirituali. Perdonò con grande liberalità tutti coloro che potevano essere utili al partito, ma pretese da ciascuno di essi contemporaneamente il più totale dei ripudi. Occorreva radicare nella coscienza nazionale la convinzione che il fascismo fosse stato, dal primo all'ultimo giorno della sua storia, il male assoluto. Soltanto cosi il Pci avrebbe fatto dimenticare le proprie responsabilità e costruito il piedestallo per le proprie vittorie future.
Il libro di Battista suggerisce qualche altra domanda. A che cosa servono questi intellettuali? Sono davvero necessari al buon funzionamento di una società moderna? In Gran Bretagna e negli Stati Uniti esistono pochi mostri sacri, amati o detestati (Hobsbawm e Chomsky, per ricordare soltanto due nomi) che non hanno mai contribuito a fare la politica nazionale. In Russia, dove l'intellighenzia è stata custode della coscienza nazionale e ha avuto un ruolo straordinario nella vita del Paese, gli scrittori e gli artisti hanno pagato di persona con grandi crisi introspettive, angosciosi dilemmi e tragiche esistenze.
Da noi, dove il senso del peccato e della tragedia non ha mai messo profonde radici nell'anima nazionale, sono molto spesso soltanto funzionari della cultura, disposti a parlare di tutto, a modificare opportunamente le loro idee e a decorare con le loro competenze un partito, un leader, una linea politica, un regime, una istituzione. Sono ambiziosi, ricercano affannosamente il cerchio di luce della notorietà, e hanno esigenze terrene che richiedono prebende, assegni, gettoni. Di qui a divenire servizievoli, se non addirittura servili, il passo è breve. Può darsi che tutto questo avesse un senso negli anni in cui i partiti erano fortemente ideologici e aspiravano a costruire uno Stato etico, capace di dare una risposta a tutte le domande, spirituali e materiali, dei suoi sudditi. Allora, occorre riconoscerlo, gli intellettuali organici servivano a qualcosa. Ma oggi, in una democrazia dell'alternanza dove le ideologie stanno agonizzando e la gamma delle cose possibili, per chiunque governi, si è progressivamente ristretta, a che cosa servono?

Corriere della sera, 24 gennaio 2007, pag.41

 
   
 

Qualche dubbio sui «giorni della memoria»

Tra non molto il calendario avrà una sola grande «giornata del ricordo».
Dobbiamo commemorare l'11 settembre, il 7 luglio inglese, l'11 marzo spagnolo, le foibe, i partigiani, gli eccidi, l'olocausto, gli armeni.
Mancano ancora gli indios sudamericani, sterminati dagli spagnoli, i pellerossa, gli aborigeni, i gulag, i cambogiani, le vittime di Mao. Ormai tutto appartiene al passato, è diventata una festa tutto l'anno tra ricordi, commemorazioni, feste religiose e feste locali. Non se ne può più. Vogliamo ricordare anche i massacri degli antichi romani? Più si cerca di educare e persuadere con la politica della memoria, più si ottiene il contrario.
Occorrerebbe far capire a chi organizza queste commemorazioni che il mondo è andato avanti.
Magari ci saranno altri massacri, ma per ragioni future, non per ragioni passate.

Giorgio Ferraresi Livorno

Caro Ferraresi, le giornate della memoria, inizialmente dedicate al genocidio ebraico, sono un fenomeno europeo. Quando il parlamento italiano cominciò a discuterne, qualche anno fa, io pensai, come Lucio Colletti, che non fosse una buona idea. Le organizzazioni che rappresentano le vittime e i loro discendenti obbediscono alle leggi di tutte le associazioni che rappresentano un gruppo sociale. Hanno un vertice eletto o burocratico che deve, per motivazioni ideali e personali, giustificare la propria esistenza, dare prova di dinamismo, consolidare il proprio potere e perpetuare le proprie funzioni. Pensavo che l'istituzione di una giornata della memoria per le vittime dell'Olocausto avrebbe suscitato l'invidia e le aspettative di tutti coloro che temevano di essere ignorati o dimenticati. Pensavo che si sarebbe aperta una corsa alla quale avrebbero partecipato tutte le nomenklature dei gruppi etnici, sociali o religiosi che furono vittime di ingiustizie, discriminazioni, persecuzioni nel corso di uno dei secoli più sanguinosi della storia umana. Pensavo che i partiti avrebbero aderito a questa tendenza per ragioni di convenienza elettorale, con manifestazioni formali di commozione e cordoglio che avrebbero fatto salire vertiginosamente il tasso di ipocrisia della classe politica. E temevo infine che questi continui atti di contrizione, recitati da persone che non hanno in quelle vicende alcuna responsabilità personale, avrebbero creato sentimenti di assuefazione, di indifferenza, se non addirittura di stanchezza e rigetto. Avevo inoltre l'impressione che dietro queste richieste si nascondessero spesso altre motivazioni: richieste di indennizzi (di cui avrebbe approfittato principalmente una folla di avvocati) e negoziati diplomatici per la riapertura di vecchie questioni territoriali o patrimoniali. E poiché ogni contenzioso comporta inevitabilmente vincenti e perdenti, mi chiedevo quali sarebbero state le ricadute di queste iniziative. Sarebbero servite a promuovere la riconciliazione o a suscitare nuovi risentimenti e nuovi conflitti? Le giornate della memoria dovrebbero servire a migliorare l'uomo, a esorcizzare lo spettro dell'odio etnico o razziale, a impedire nuove persecuzioni e nuovi massacri. Se avessero davvero questo potere terapeutico, ne sarei felice. Ma credo che lei abbia ragione, caro Ferraresi, quando osserva implicitamente (mi sembra questo il senso della sua lettera) che le tragedie del futuro avranno altre cause, del tutto diverse da quelle che hanno provocato le stragi del passato. I peggiori massacri (penso a quello di Srebrenica in Bosnia, nel 1995) avvengono quando un gruppo sociale o nazionale si considera minacciato e reagisce con una sorta di guerra preventiva. Il carnefice, in altre parole, crede quasi sempre di essere vittima.

Sergio Romano
Corriere della sera, 14 febbraio 2007

 
   
 

Il trattato di Osimo e la Ostpolitik dell'Italia

Lei ha sostenuto giustamente che per quanto attiene all'«amputazione» dell'Italia alla frontiera orientale con il trattato di Parigi non vi era alternativa. La spada di Brenno del vincitore pesava inesorabile.
Ma il trattato di Osimo, a vent'anni dalla fine della guerra, con la cessione della zona B è stato una resa postuma che si sarebbe potuta evitare. Vorrei conoscere il suo pensiero in merito

Ugo de Leone

Caro de Leone, ricordo ai lettori che il trattato di Osimo confermò le intese provvisorie del 1954, fissò definitivamente la frontiera italo-jugoslava e cedette formalmente al regime di Tito una parte delle province di Gorizia e Trieste, l'Istria, Pola, Fiume e le isole italiane della Dalmazia. Venne firmato a Osimo il 1° ottobre 1975 e fu ratificato dalle Camere nell'anno seguente. Oggi, dopo quanto è accaduto in Jugoslavia negli anni Novanta, sappiamo che sarebbe stato meglio non firmarlo. Avremmo potuto trattare la questione più tardi, con due eredi dello Stato jugoslavo (Slovenia e Croazia), e ottenere forse migliori condizioni. Ma coloro che negoziarono e firmarono il trattato non potevano sapere che cosa sarebbe accaduto quindici anni dopo. È necessario quindi provare a capire quale fosse il clima politico dell'Italia, della Jugoslavia e dell'Europa verso la metà degli anni Settanta. Per ricostruire l'atmosfera d'allora esistono molte guide. Ne scelgo due: il libro di Marina Cattaruzza sul confine orientale edito dal Mulino, di cui ho già parlato negli scorsi giorni, e l'analisi dell'ambasciatore d'Italia in Jugoslavia, G. Walter Maccotta, che raccontò «Osimo visto da Belgrado» in un articolo pubblicato nel 1993 dalla Rivista di studi politici internazionali. La prima metà degli anni Settanta fu il periodo della guerra fredda durante il quale i due blocchi decisero di congelare la loro inimicizia e fissare le regole della loro ostile convivenza. Il cancelliere tedesco Willy Brandt lanciò una Ostpolitik che avrebbe permesso alla Repubblica federale di riappacificarsi con i Paesi dell'Europa centro-orientale. Gli Stati Uniti conclusero importanti accordi per il controllo e la graduale diminuzione dei loro rispettivi arsenali strategici. L'Europa, l'Urss e gli Usa si riunirono a Helsinki per firmare un Atto che riconobbe le frontiere e gli equilibri fissati sul terreno dai risultati politico- militari della Seconda guerra mondiale. Anche l'Italia ritenne di dover fare la propria Ostpolitik e di chiudere una volta per tutte il contenzioso territoriale con Belgrado. La Jugoslavia era ancora governata da Tito, ma cominciavano a intravedersi le crepe che avrebbero spaccato lo Stato negli anni Novanta. Che cosa sarebbe accaduto del Paese dopo la morte del fondatore? Sarebbe precipitato nel caos? La sua instabilità avrebbe offerto ai sovietici il pretesto per estendere nuovamente la propria influenza all'intera penisola balcanica? Fu deciso che occorreva giocare d'anticipo, trattare con l'interlocutore del momento e dare un contributo alla maggiore stabilità dello Stato titino. La prospettiva piaceva anche ai comunisti e più generalmente alla diplomazia italiana. Enrico Berlinguer aveva incontrato Tito nella primavera del 1975 e considerava i buoni rapporti del suo partito con la Jugoslavia come una pietra d'angolo dell'edificio eurocomunista che il segretario del Pci stava cercando di costruire con Santiago Carrillo in Spagna e Georges Marchais in Francia. E la diplomazia italiana puntava su un rapporto privilegiato con Belgrado che avrebbe fatto del nostro Paese il padrino della Jugoslavia in Europa. Era la versione aggiornata del progetto che Sforza, ministro degli Esteri nel governo Giolitti, aveva cercato di realizzare fra il 1920 e il 1921. Il governo Moro sapeva che gli esuli istriani e i triestini avrebbero reagito male. Ma pensò che il Paese avesse ormai digerito la perdita dei territori orientali e che il malumore di Trieste sarebbe stato mitigato dalla creazione di una grande zona di libero scambio italo- jugoslava alle spalle della città. Il primo calcolo fu giusto, il secondo sbagliato. Per la perdita dell'Istria la nazione, occupata dai suoi problemi domestici, non versò molte lacrime. Ma il progetto della zona di libero scambio suscitò nei triestini il timore che la zona avrebbe attirato fabbriche, che le fabbriche avrebbero attirato «slavi», e che gli slavi, prima o dopo, sarebbero calati verso il mare. Fu così che la parte politica dei trattati di Osimo venne immediatamente attuata e quella economica non decollò mai. Dimenticavo: Osimo è un comune della provincia di Ancona che pochi italiani, suppongo, saprebbero collocare con precisione sulla carta geografica della penisola. Ma quanti italiani saprebbero disegnare sulla carta geografica dell'Europa il confine italo-jugoslavo prima della Seconda guerra mondiale?

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 febbraio 2007

 
   
 

La sigla Nato

Caro Romano, con riferimento al suo articolo «Le basi americane in Italia, ieri e oggi», mi risulta che Nato significhi «NorthAtlantic TreatyOrganization », non «North American Treaty Organization».

Federico Medolla, Trezzano sul Naviglio (Mi)

Ha ragione. Mi scuso con i lettori per quello che una volta si sarebbe chiamato un «lapsus calami».

Sergio Romano
Corriere della sera, 15 febbraio 2007

 
   
 
La rivoluzione dei costumi e il «terzo matrimonio»

Ho letto il testo del ddl sui Dico e domando: 1) Perché se due persone di sesso diverso convivono non si sposano, invece di volere un surrogato di matrimonio?
2) Quanti single, vedove e vedovi di una certa età decideranno di convivere per avere la pensione di reversibilità? Basterà la copertura finanziaria prevista (povera Inps e poveri noi)?
3) Perché la legge non è stata fatta solo per conviventi dello stesso sesso, che convivano da un’età o un periodo tali da essere prova in qualche modo di tendenze omosessuali? 4) Perché, in merito alla salute, non è stata fatta una legge che preveda una figura tipo «tutore sanitario» cui demandare le «decisioni in materia di salute e per il caso di morte»? 5) In quanto all’eredità, non basterebbe riformare la legge sulle successioni lasciando maggiore libertà testamentaria? Penso che sia ragionevole permettere agli omosessuali di potersi organizzare la vita in modo simile agli altri, ma ritengo che questa legge vada incontro a tutti coloro che non si sposano «per principio», ma che vogliono comunque i diritti degli sposati (senza o con pochi doveri). Inoltre spalanca le porte a una serie di profittatori che troveranno modo di mungere la mucca dello Stato e appesantire i conti dell’Inps.

Giuseppe Buzzi

Caro Buzzi,
i suoi argomenti sarebbero del tutto convincenti se questo disegno di legge fosse effettivamente destinato a risolvere principalmente il problema delle coppie omosessuali. Ma ho l’impressione che dietro quella motivazione iniziale, utilizzata soprattutto dalla lobby gay (nessuna offesa, le lobby sono un ingrediente necessario della democrazia), vi siano problemi etici e generazionali che coinvolgono una parte più grande della società.
Credo che il fenomeno risalga per molti aspetti alla rivoluzione sessuale del ’68. Fra tante ricadute, spesso negative, del movimento studentesco vi fu anche la rottura di alcune delle regole che avevano governato sino ad allora i rapporti sessuali, soprattutto nelle società meridionali. Sono divenuti accettabili comportamenti che erano stati considerati censurabili e che venivano praticati soltanto dietro il velo dell’ipocrisia.
Gli anni Settanta non furono soltanto quelli in cui l’Italia adottò il divorzio e l’aborto. Furono anche quelli in cui persino gli ambienti cattolici smisero di pensare che il sesso fosse legittimato esclusivamente dalla procreazione.
Diminuirono i matrimoni religiosi e aumentarono quelli civili, ma soprattutto aumentarono le «esperienze» occasionali o temporanee fra persone di sesso diverso o dello stesso sesso.
Persino il vocabolario dovette essere adattato alle nuove esigenze della società e parole come amico, compagno, congiunto, fidanzato finirono per assumere significati diversi. Il caso più singolare fu quello delle parole compagno e compagna.
Due termini che avevano avuto un significato politico- ideologico ed esprimevano il concetto di militanza, divennero l’equivalente moderno di marito e moglie. La parola «fidanzati » smise di rappresentare la casta attesa di due giovani che attendevano pazientemente, all’ombra delle loro famiglie, il coronamento dei loro desideri e divenne sinonimo di quelli che in altri tempi sarebbero stati definiti amanti o conviventi.
Il fenomeno era troppo importante, quantitativamente, perché la società rifiutasse di accettarlo e digerirlo.
Era difficile dare prova d’intransigenza quando non vi era famiglia allargata in cui non vi fossero situazioni di questo genere.
Ma questa stessa società sembra ora scandalizzarsi se la generazione successiva a quella del ’68 ha voglia di mettersi in regola con la legge e chiede un «matrimonio» corrispondente alle nuove esigenze create dalla rivoluzione dei costumi di quarant’anni fa. Il disegno di legge proposto dal governo è imperfetto e contiene qualche varco attraverso il quale potrebbero passare profittatori di diverso tipo. Ma crea per l’appunto questo «terzo matrimonio». Se la legge verrà approvata sarà interessante verificare quali coppie, omosessuali o eterosessuali, ne faranno maggiormente uso.

Sergio Romano
Corriere della sera, 16 febbraio 2007

 
   
 

Brzezinski, "sosia" democratico di Kissinger

Recentemente Zbigniew Brzezinski ha rilasciato una dichiarazione di fronte al Foreign Relations Committee del Senato Usa, in cui affaccia l'ipotesi di un attentato costruito ad hoc dall'Amministrazione Bush, magari sul territorio statunitense, al fine di creare l'occasione per attaccare l'Iran e far esplodere una guerra totale contro l'Islam. L'ipotesi avanzata da una tale personalità in una sede ufficiale impressiona e, d'altra parte, non può essere campata per aria, considerando la necessita del sistema politico-economico che sostiene George W. Bush di non perdere le prossime elezioni presidenziali. Oggettivamente, l'unica speranza di vittoria sembra essere quella di inventare un "nemico terribile" per ricompattare l'elettorato americano su posizioni oltranziste e nazionaliste: obiettivo possibile data l'ingenuità dell'elettorato, il sostegno dei media (che hanno taciuto la dichiarazione di Brzezinski). Forse l'obiettivo di Brzezinski e quello di stanare l'Amministrazione, bloccandone le intenzioni, attraverso le sue dichiarazioni?

Riccardo Galli

Caro Galli, ho sotto gli occhi il testo preparato da Zbigniew Brzezinski per il suo intervento del 1° febbraio a una audizione della Commissione Affari Esteri del Senato americano.Ma forse occorreva anzitutto ricordare ai lettori che Brzezinski e, per molti aspetti, nel mondo politico e accademico degli Stati Uniti, una sorta di sosia democratico di Henry Kissinger. Anche lui, come Kissinger, ha lasciato l'Europa per motivi politici (e figlio di un diplomatico polacco), si e laureato a Harvard, ha insegnato nella stessa universita, ha fatto una brillante carriera universitaria, e divenuto consigliere per la politica internazionale di alcuni importanti uomini politici americani e, infine, consigliere per la sicurezza nazionale di un presidente degli Stati Uniti. Ciascuno dei due ha avuto una parte determinante nella soluzione di una grave crisi medio-orientale: Kissinger dopo la guerra del Kippur nel 1973, Brzezinski nelle trattative che produssero lo storico incontro di CampDavid fra il presidente egiziano Anuar al Sadat e il premier israeliano Menachem Begin nel 1978. Ciascuno dei due ha scritto libri di grande interesse ed e stato, anche dopo la fine della propria carriera pubblica, una sorta di guru della politica internazionale. Ma il primo ha scelto, per la sua scalata al potere, il partito repubblicano, mentre il secondo ha scelto il partito democratico. Brzezinski ha criticato l'invasione dell'Iraq e puo quindi sostenere, con il compiacimento del profeta inascoltato, che le sue previsioni erano giuste. Nella testimonianza al Senato ha detto: "La guerra in Iraq e una calamita storica, strategica e morale. Iniziata sulla base di false presunzioni, sta pregiudicando la legittimità globale dell'America; le sue vittime civili e i suoi abusi ne stanno intaccando le credenziali morali. Provocata da impulsi manichei e da un'arroganza imperiale, sta intensificando l'instabilità regionale. (...) Se gli Stati Uniti continueranno a lasciarsi impantanare in un prolungato e sanguinoso coinvolgimento iracheno, il punto d'arrivo, su questa strada in discesa, sarà probabilmente un conflitto con l'Iran e con larga parte del mondo musulmano". Brzezinski non sostiene, come lei scrive, l'ipotesi di un casus belli, architettato per giustificare il conflitto, ma descrive lo scenario "plausibile" di una collisione militare con l'Iran immaginando una possibile sequenza di sviluppi: il governo iracheno non si adegua ai criteri di sicurezza fissati nelle scorse settimane dagli Stati Uniti; il governo americano ne attribuisce la responsabilita all'Iran; una provocazione in Iraq o un attentato terroristico negli Stati Uniti vengono attribuiti all'Iran; gli Stati Uniti lanciano una azione "difensiva" contro l'Iran e affondano in un pantano sempre piu largo e profondo, destinato a includere Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Per evitare questa apocalittica tragedia, Brzezinski propone un piano in quattro mosse. I) Gli Stati Uniti dovrebbero dichiarare pubblicamente che sono decisi ad abbandonare l'Iraq entro un termine di tempo ragionevolmente breve. II) Dovrebbero annunciare che stanno trattando con le autorità irachene per definire la data del ritiro. III) Dovrebbero, insieme alle autorità irachene, invitare tutti i Paesi confinanti e altri, fra cui verosimilmente Egitto, Marocco, Algeria e Pakistan, a un dialogo sulla stabilita dell'Iraq. IV) Dovrebbero compiere uno sforzo energico e credibile per la soluzione della questione palestinese. Un'ultima osservazione, caro Galli. Non so se il disegno attribuito a Bush goda di grandi consensi in quel "sistema politico- economico" che, secondo la sua lettera, sosterrebbe il presidente per non perdere le elezioni. Ciò che sta accadendo nel Paese in questi giorni sembra dimostrare l'esistenza nella società, al Congresso e nella stessa amministrazione, di un partito che sostiene spesso Bush quando manda duri ammonimenti a Teheran, ma non intende passare dalle parole ai fatti.

Sergio Romano
Corriere della sera, 17 febbraio 2007

 
   
 

Parla l'ambasciatore, autore di un libro sui rapporti tra Stato e cattolici
Romano: «La Chiesa è ingerente?
Ha paura. Non è più maggioranza»

di Tonino Bucci
Coppie di fatto e Dico, ultimo anello di una catena. Prima c'è stata l'eutanasia, prima ancora la fecondazione assistita e le staminali, c'è stato un tempo in cui era la clonazione a far parlare le gerarchie vaticane. Sull'embrione no, l'attenzione non è mai calata e l'aborto è sempre un dente dolente per le sfere ecclesiastiche. E' cambiato qualcosa negli ultimi decenni, le ingerenze clericali nella politica sono più forti che in passato? Oppure non dobbiamo stupirci più di tanto perché Stato e Chiesa, in Italia, hanno sempre avuto una storia tormentata, di conflitti e di compromessi, dal non expedit di Pio IX ai Patti Lateratiensi, dalla nascita del partito popolare alle leggi sul divorzio e l'aborto. Questo rapporto a doppio segno tra cattolici e laici, a volte di guerra aperta, a volte invece di vera e propria sudditanza dei secondi rispetto ai primi, ha attraversato oltre un secolo. Sergio Romano ha studiato questa storia e in un suo libro ancora recente, Libera Chiesa. Libero Stato?, sosteneva che l'Italia è un paese anomalo nel quale coesistono, l'uno di fianco all'altro, due autorità, due governi, due poteri - l'uno spirituale, l'altro temporale - in potenziale concorrenza fra loro. L'ambasciatore non è uomo di sinistra, anzi. E' un conservatore? Può essere ma di quelli che hanno il merito di raccontare le cose con realismo, senza infingimenti. La sua idea è che il nostro paese non sia mai stato a sufficienza liberale e che la Chiesa abbia spesso sconfinato nella vita politica, causa anche la debolezza altrui. E' convinto, però, che l'offensiva delle gerarchie vaticane contro la legge sulle coppie di fatto - «c'è una minoranza significativa ormai che la vuole» - sia dovuta più che altro a debolezza. «La Chiesa ha paura», dice. Paura di non riuscire più a controllare la società italiana in via di trasformazione. Un contrappeso non c'è, in Italia manca una politica liberale che si limiti a dare regole a una società che le chiede. E dal suo punto di vista Romano lancia una frecciatina alla sinistra: crede a uno «Stato etico» ed «educatore», che indichi un modello di comportamento nella vita privata, sia pure alternativo. Gli si potrebbe obiettare, naturalmente, che i Dico - nella loro versione annacquata - servono invece a garantire la libertà degli individui di poter convivere come meglio credono senza obbligo di sottostare a modelli imposti dall'alto, religiosi o tradizionali che siano. Ma tant'è.
Comunque a un primo sguardo il protagonismo della Chiesa nel dibattito pubblico sembra aumentato. Soprattutto per quel che riguarda temi da sempre considerati rilevanti per il messaggio cattolico: la nascita, la vita, la malattia, la morte, l'amore.
Ma davvero questi temi riguardano soltanto la sfera privata? Oppure riguardano la politica e quelli della Chiesa sono semplici sconfinamenti?
Non dimentichiamo che anche in altre epoche la Chiesa è intervenuta nella politica italiana. Le elezioni del 1948 videro da parte sua una partecipazione forte. L'organizzazione dei comitati civici avvenne all'intemo dell'Azione cattolica. La Chiesa era presente e consapevole. Il clero delle parrocchie era attivo e impegnato. Ci fu addirittura il decreto di scomunica dei comunisti ad opera di Pio XII anche se non venne mai applicato per davvero. Insomma di sconfinamenti nella storia ce ne sono stati tanti. Però la situazione oggi è cambiata. Per due ragioni. La prima, è che la Chiesa ha paura. Aveva paura anche prima, nel 1948 c'era il pericolo comunista. Ma allora esisteva un alleato forte della Chiesa, gli Stati Uniti, con i quali aveva rapporti eccellenti. La Chiesa si sentiva il volto spirituale di un blocco contro la minaccia comunista. Oggi si sente più isolata perché l'Europa sta diventando sempre meno cristiana. Il cristianesimo come pratica devozionale sta diventando minoritario in tutto il continente. La scienza, lo sviluppo della società e le nuove tecnologie stanno mettendo in discussione i tre momenti fondamentali dell'esistenza, la nascita, la procreazione e la morte. Si può nascere morire e procreare in modo diverso da quello tradizionale e questo naturalmente preoccupa la Chiesa. Qualsiasi modifica dell'istituto familiare costituisce una minaccia a quello che è stato sempre il veicolo tradizionale per la trasmissione del messaggio cristiano. Quindi ha paura. La Chiesa è su posizioni difensive soprattutto in Europa. Altrove no, sta andando bene paradossalmente anche se sulla sua strada trova l'Islam che sta facendo grandi progressi.
La fine della Dc che mediava gli interessi della Chiesa con quelli generali della società non ha, paradossalmente, spinto il Vaticano a occuparsi di politica in prima persona?
Questa è la seconda ragione. La Chiesa interferisce oggi di più proprio perché non esiste la democrazia cristiana. Quando c'era la Dc sapeva che esisteva un partito cattolico con la sua identità politico-religiosa. Quel partito aveva responsabilità di governo e, nel contesto internazionale dell'epoca, non gli si poteva rendere la vita impossibile mettendolo di fronte a degli aut-aut. La Chiesa era costretta perciò a moderare le proprie richieste, a parte il fatto che in quegli anni non si ponevano problemi così traumatici per il Vaticano come quelli di oggi: eutanasia, clonazione, fecondazione assistita, unioni fra omosessuali... Quando il partito confessionale si è dissolto, tutti i laici in Italia hanno pensato che fosse una buona cosa. Ecco, lì ci siamo sbagliati alla grande. E' avvenuto il contrario. Non abbiamo previsto che i cattolici si sarebbero sparsi su tutto l'arco politico e che la Chiesa avrebbe avuto più leve su cui manovrare. Liberata dalla responsabilità di dare retta al partito democratico cristiano la Chiesa si è sentita più libera. Teniamo poi conto che i papi non sono più italiani. Anche questo ha avuto il suo effetto. Le preoccupazioni erano tante, i papi erano presi anche da altre cose, anche se sono stati sempre attenti un retroterra territoriale in Italia.
Ratzinger è attento a quel che succede in Italia. Giovanni Paolo II guardava più al mondo?
Alla Polonia, soprattutto. Era assorbito dal suo paese. Mentre questo ultimo papa non si occupa della Germania. Aggiungiamo anche un sistema politico italiano fragile che è ancora in fase di transizione. La fragilità dell'uno è sempre la forza dell'altro.
Non sarà per questo che una buona parte della classe politica guarda alla Chiesa in cerca di modelli e valori assoluti?
La parola valore mi dà i brividi. Esistono nuclei conservatori che si oppongono ai cambiamenti di costume e delle nuove tecnologie e che rappresentano serbatoi di voti. Non è roba da buttar via. Che ci siano forze politiche che per non perdere consenso, si interessano a questa parte di elettorato sensibile alle parole d'ordine della Chiesa non mi sorprende.
Ma è poi vero che la Chiesa abbia ancora una presa maggioritaria sulla nostra società?
Chi può saperlo? Tenderei a dire che esiste una minoranza importante, una minoranza agissant direbbero i francesi, che agisce e che vuole decisamente questa legge sul "terzo matrimonio" di cui essa ritiene abbia bisogno la società italiana.

Liberazione, 17 febbraio 2007, pag.1