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Il patto di Londra e la questione di Fiume
Scrivo a proposito del Patto di Londra. Sappiamo che questo trattato stabiliva i confini dei territori europei dopo la prima guerra mondiale. L'Italia però alla fine della guerra non ricevette tutti i territori che le erano stati promessi, ma solo alcuni. Potrebbe quindi rivendicare i territori che le furono negati?
Dario Caselli
Caro Caselli, ricordo ai lettori che il Patto di Londra, a cui lei si riferisce, è quello del 26 aprile 1915 con cui l'Italia si impegnò a entrare in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia entro un mese dalla data della firma. Il trattato le prometteva, al momento della pace, alcuni vantaggi territoriali: il Trentino e il «Tirolo cisalpino» (la provincia di Bolzano) fino al Brennero; Trieste, Gorizia e Gradisca; tutta l'Istria fino al Quarnaro comprese Volosca e le isole istriane di Cherso, Lussino, come pure le piccole isole di Plavnik, Unie, Canidole, Palazzuoli, San Pietro di Nembi, Asinello, Grnica e gli isolotti vicini; la provincia di Dalmazia nei limiti amministrativi dell'Impero austro-ungarico, nonché tutte le isole situate a nord e a ovest della provincia; Valona, l'isola di Sasseto e la rappresentanza internazionale dell'Albania nelle sue relazioni con l'estero; la sovranità sulle isole del Dodecaneso che l'Italia aveva occupato nel 1912, durante la guerra con la Turchia; qualche compenso coloniale nell'eventualità che Francia e Gran Bretagna aumentassero i loro domini a spese della Germania. Fu deciso che il Patto sarebbe rimasto segreto. Ma i bolscevichi, dopo la rivoluzione d'Ottobre, decisero di rendere pubblici, per meglio denunciare la politica imperialista delle grandi potenze, tutti gli accordi di cui trovarono il testo negli archivi della cancelleria imperiale. E anche il Patto di Londra divenne da quel momento, con qualche imbarazzo per coloro che lo avevano firmato, di pubblica ragione. Gran parte degli impegni vennero mantenuti. Non conservammo Valona perché gli albanesi si ribellarono e il governo Giolitti, nel 1920, decise di ritirare le truppe. E ricevemmo qualche compenso coloniale nel Fezzan e nell'Oltre Giuba qualche anno dopo, durante il governo Mussolini. I punti dolenti furono la Dalmazia e Fiume. I termini del Patto di Londra erano stati negoziati nella presunzione che vi sarebbe ancora stato, alla fine del conflitto, un impero austro-ungarico. Quando i vincitori sedettero al tavolo della pace, l'Austria-Ungheria si era tragicamente dissolta e vi era ormai nell'Adriatico uno Stato nuovo, il Regno dei serbi, croati e sloveni. La Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti ritennero che la Dalmazia (dove le coste erano abitate da popolazioni italiane, ma il contado era croato) fosse necessaria al futuro del nuovo Stato. Fu quello il momento in cui scoppiò la crisi di Fiume. Se la Dalmazia era prevalentemente croata, Fiume invece era in gran parte italiana. Ma il presidente degli Stati Uniti si incaponì e la richiesta della delegazione italiana, guidata da Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, venne respinta. Il resto, caro Caselli, è una delle pagine più turbolente della nostra storia nazionale. Nel marzo del 1919 Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza della pace nella speranza che un gesto di rottura avrebbe indotto gli Alleati a cambiare opinione. Ma non ottennero nulla e dovettero tornare a Parigi in maggio per non perdere gli altri vantaggi territoriali che la firma del trattato di pace avrebbe garantito al Paese. In Italia, tuttavia, la questione di Fiume divenne il terreno su cui crebbe impetuosamente nei mesi seguenti la teoria della «vittoria mutilata» e della pace tradita. Un poeta, Gabriele D'Annunzio, divenuto in quei mesi il simbolo del nazionalismo frustrato, entrò nella città alla testa di 2500 uomini e ne fece una specie di signoria rinascimentale con qualche tocco socialista, se non addirittura sovietico. Toccò al governo Giolitti, poco più di un anno dopo, tagliare bruscamente il nodo della crisi. Concluse un trattato con la Jugoslavia che riconosceva a Fiume lo statuto di città libera e intimò a D'Annunzio di andarsene. E quando il poeta respinse l'ultimatum, dette ordine al generale Caviglia di passare all'uso delle armi. Le operazioni militari durarono dal 24 al 29 dicembre e provocarono 43 morti. Un proiettile della nave Andrea Doria colpì il cornicione d'una finestra accanto a quella di D'Annunzio. Il poeta e i suoi legionari lasciarono Fiume nei giorni seguenti. Più tardi, nel 1924, Mussolini concluse con la Jugoslavia un nuovo accordo e ottenne che la città passasse all'Italia. Rimase italiana sino alla primavera del 1945 quando venne occupata dalle forze di Tito e incorporata alla Crozia. Fu dunque, caro Caselli, ungherese fino al 1918, dannunziana fino al 1920, libera sino al 1924, italiana sino alla seconda guerra mondiale ma sotto amministrazione militare tedesca fino al 1945, jugoslava fino al 1991; ed è oggi croata. Credo che la risposta alla sua domanda (possiamo rivendicare ciò che non ci fu dato?) sia implicita nel racconto di ciò che è accaduto. Vi sono circostanze in cui riparare vecchie ingiustizie servirebbe soltanto a crearne altre, forse peggiori.
Sergio Romano
Corriere della sera, 08 dicembre 2006 |
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Le inutili ricerche della Commissione Mitrokhin
Con il recente avvelenamento di un'ex spia sovietica a Londra, nel nostro Paese si sta creando un grande polverone intorno alla Commissione Mitrokhin, con accuse e controaccuse di depistaggio, disinformazione, linciaggio. Personalmente ricordo che, diversi anni fa quando il controspionaggio inglese aveva consegnato al governo italiano le famose trecentomila schede dell'archivio Vasilij Mitrokhin, queste furono praticamente occultate o quanto meno sottovalutate dai governi di centrosinistra del tempo (Dini, Prodi, D'Alema).
Successivamente (dopo il 2002) gli stessi lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta furono ignorati, se non derisi, dalla sinistra.
Infatti nulla è stato pubblicato dalla stampa quotidiana e nelle tv c'è stato il silenzio più assoluto. Praticamente oggi, a differenza di altri Paesi stranieri, la pubblica opinione italiana non sa nulla di questa storia inquietante, cioè della storia, durante la guerra fredda, dei collegamenti diretti e indiretti di molti cittadini italiani (politici, giornalisti, diplomatici, ecc.) con il Kgb sovietico. Per questo, a mio avviso, oltre a far chiarezza sulla vicenda Litvinenko-Scaramella- Guzzanti, sarebbe opportuno che la stampa pubblicasse, in sintesi, il contenuto della documentazione Mitrokhin (nomi e collegamenti) e che la secretazione dei documenti riservati della Commissione venisse eliminata.
Mario Pomati
Caro Pomati, come ha ricordato Massimo Teodori ( Il Riformista del 5 dicembre), le commissioni parlamentari d'inchiesta sono istituite per accertare determinati fatti e riferire al Parlamento (se necessario con rapporti di maggioranza e minoranza), le conclusioni dei loro lavori. Per svolgere i suoi compiti, scrive Teodori, «l'inchiesta è dotata di mezzi materiali e di poteri simili a quelli dell'autorità giudiziaria: può convocare testimoni che parlano sotto giuramento, può compiere rogatorie internazionali, può richiedere atti giudiziari e avvalersi di consulenti qualificati». Nella sua lettera, lei osserva che i lavori della Commissione Mitrokhin sono stati «ignorati, se non derisi dalla sinistra», che «nulla è stato pubblicato dalla stampa quotidiana» e che «nelle tv c'è stato il silenzio più assoluto». Tralascio le considerazioni critiche di Francesco Cossiga, Teodori e altri sui metodi di lavoro della presidenza, e mi limito a constatare che la commissione, dopo avere lavorato più o meno per il periodo di una intera legislatura, non ha prodotto, nonostante i mezzi di cui disponeva, alcun rapporto. Le confesso di non esserne stato sorpreso. Quando lessi il libro di Christopher Andrew pubblicato da Rizzoli nel 1999 («L'archivio di Mitrokhin. Le attività segrete del Kgb in Occidente») ebbi l'impressione che l'opera del Kgb, quando non era diretta a ottenere segreti militari e industriali, consistesse principalmente nel fare circolare voci false, insinuazioni tendenziose e teorie cervellotiche. Diffuse la notizia che il virus dell'Aids era stato creato in un laboratorio occidentale. Cercò d'infiltrare i movimenti pacifisti durante le grandi campagne degli anni Ottanta contro l'installazione dei missili Cruise e Pershing in cinque Paesi dell'Alleanza Atlantica (Belgio, Germania, Gran Bretagna, Italia e Paesi Bassi). Fece pervenire al quotidiano francese Le Monde un falso discorso di Solzhenitsyn. Costruì documenti per dimostrare che i centristi francesi erano finanziati dalla Cia e che le lobby ebraiche detestavano Valéry Giscard d'Estaing. Tentò di sabotare l'eurocomunismo screditando Enrico Berlinguer e Georges Marchais, segretario del Partito comunista francese. Per raggiungere questi obiettivi il Kgb aveva bisogno di «irregolari» introdotti da tempo nelle istituzioni delle democrazie occidentali, di simpatizzanti disposti a fungere da megafono e di contatti occasionali, soprattutto con diplomatici e giornalisti. Non tutti questi «collaboratori» erano spie e venivano compensati per i loro servizi. Molti erano creduli o convinti che il capitalismo americano non fosse meno pericoloso del comunismo sovietico. Ma tutti avevano un nome in codice e finivano nei rapporti con cui gli agenti del Kgb, per dimostrarsi efficienti, gonfiavano i loro successi agli occhi della casa madre. Si spiega così perché nelle carte dell'archivio Mitrokhin concernenti l'Italia figurino alcune stimabili persone a cui non passò mai per la mente di collaborare con il Kgb. Quando si costituì la commissione pensai che il suo lavoro non avrebbe rivelato più di quanto già sapevamo. Oggi ho l'impressione di non essermi sbagliato.
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 dicembre 2006 |
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I democratici
Caro Romano, ai simpatizzanti dell'Unione che esultano per la vittoria dei Democratici nelle elezioni Usa e tifano per un Democratico alla Casa Bianca è forse opportuno ricordare che i Democratici degli Stati Uniti non stanno a «sinistra» e ideologicamente e praticamente non vanno più in là di quello che da noi è stata la socialdemocrazia di Saragat. E, come forse non tutti sanno, quel tipo di socialdemocrazia era nettamente e convintamente anticomunista, più ancora della stessa ondivaga Dc. Gioiscano, semmai, per le vittorie di Chavez, di Lula e altri omologhi in Sudamerica, ma per quella dei Democratici Usa, proprio no. Non è «cosa loro». Tant'è che gliUsa, per esempio, hanno fatto più guerre sotto un presidente democratico, che quando alla Casa Bianca c'erano dei repubblicani.
Natalino Russo Seminara
Forse è utile ricordare soprattutto che i democratici entrati per la prima volta al Congresso con le ultime elezioni sono generalmente moderati e che potrebbero essere definiti, con un termine italiano, «centristi».
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 dicembre 2006 |
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Scontro di civiltà: non tra Occidente e arabi ma tra musulmani integralisti e moderati
dì SERGIO ROMANO
Quando la pubblica opinione assiste dal loggione del suo salotto tv a un dramma della politica internazionale, occorre una sceneggiatura semplice, in cui due campi contrapposti recitino la parte del Bene e quella del Male. Negli scorsi giorni, dopo l'assassinio di Pierre Gemayel, la vicenda libanese è stata descritta come l'epica lotta di una coalizione nazionaldemocratica, composta da cristiani, drusi e sunniti moderati, contro un partito antidemocratico di fanatici musulmani, profittatori filosiriani e servizi segreti del regime di Damasco. Diventa pressoché impossibile, in queste circostanze, ricordare che non vi è attore del lungo dramma libanese che non abbia cambiato campo una o più volte e non sia stato protagonista di vicende inconfessabili.
Walid Jumblatt, leader dei drusi (una setta musulmana presente in Libano, Siria e Israele) sostiene il governo di Fouad Siniora, mantiene amichevoli contatti con gli americani e denuncia le trame del governo di Damasco. Ma chi scrive lo ricorda al Cremlino durante le celebrazioni per il settantesimo anniversario della rivoluzione d'Ottobre, quando era uno dei più fedeli alleati dell'Unione Sovietica nella regione. Pierre Gemayel era un giovane e promettente esponente dell'ultima generazione politica libanese. Ma era anche discendente della dinastia che fondò nel 1936 la Falange cristiana: cervello politico di un «partilo armato» che fu alleato di Israele e vendicò la morte del suo leader Bechir Gemayel (zio di Pierre) con una micidiale incursione nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, una notte del settembre 1982. Lo sceicco Hassan Nasrallah è il leader dell'organizzazione die ha lanciato contro Israele, nella scorsa estate, qualche migliaio di missili. Ma gli Hezbollah nacquero dopo l'invasione israeliana del Libano nel 1982 e si fecero strada nella giungla libanese combattendo contro l'invasore. Il generale maronita Michel Aoun combattè con i cristiani all'epoca della guerra civile. Ma è passato, dopo il ritorno dall'esilio, nel campo dei siriani e degli Hezbollah.
Esistono per fortuna alcune persone che conoscono il Medio Oriente da molti anni e ricordano ciò che altri ignorano o hanno dimenticato. Antonio Ferrari, corrispondente del «Corriere» dal Mediterraneo orientale, appartiene di diritto a questa categoria di «guastafeste della memoria». Ha una lunga familiarità con i Paesi della regione. È stato testimone delle loro crisi. Ha conosciuto tutti i protagonisti della vita politica mediorientale e ha intervistalo, fra gli altri, rè Abdullah di Giordania, il presidente egiziano Hosni Mubarak, il presidiante siriano Bashar Assad, il defunto presidente dell'Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat.
In un libro apparso ora presso l'editore Le Lettere di Firenze, Ferrari ha fatto una sorta di periplo mediorientale, dalla Giordania alla Palestina, dall'Egitto alla Siria, dal Libano alla Turchia, dall'Iran al Pakistan. Viaggiando con lui, il lettore capirà che la trappola in cui gli osservatori del Medio Oriente cadono più frequentemente è quella delle spiegazioni semplici e lineari.
E' giusto ad esempio deplorare l'ambiguità di Hamas (il partito vincitore delle ultime elezioni palestinesi) e ricordare che l'organizzazione ha due volti: uno politico e l'altro terroristico-militare. Ma è altrettanto importante, scrive Antonio Ferrari nel suo libro, ricordare che la crescita dell'organizzazione fu favorita dal governo israeliano quando la sua ala più intransigente ritenne utile creare difficoltà all'Olp «organizzazione prevalentemente laica e secolare». È giusto ricordare che la guerra civile libanese comincio nel 1975 con un sanguinoso attacco delle milizie cristiane contro un autobus di palestinesi. Ma la tesi corrente, secondo cui quel conflitto fu una guerra di religione, è ingannevole: «Al di là delle convenienze propagandistiche (anche allora si dava per scontato il conflitto fra religioni), quella guerra si trasformò rapidamente nel conflitto di tutti contro tutti. Attorno alle milizie libanesi, si muovevano infatti libici, siriani, iraniani, iracheni, palestinesi, sauditi e ovviamente israeliani, rendendo vano, per anni, ogni sforzo di pacificazione».
Antonio Ferrari sa che la colpa delle sventure del Medio Oriente ricade in buona parte sulle classi dirigenti dei Paesi della regione, spesso corrotte, dispotiche, più preoccupate dalla conservazione del potere che dalle riforme di cui i loro paesi hanno bisogno. Ma vi sono nel libro almeno due osservazioni che permettono di collocare le vicende degli ultimi sessantenni in una più giusta prospettiva. in primo luogo gli Stati Uniti e l'Europa hanno ignorato l'importanza dei sentimenti nazionali e anticolonialisti che hanno dominato le società dei Paesi arabo-musulmani, soprattutto dopo la iìne della seconda guerra mondiale. Nel peggiore dei casi abbiamo trattato i Paesi del Medio Oriente con una arroganza e un senso di superioritàche rasentavano in molti casi il razzismo; nel migliore, come allievi ignoranti che andavano educati all'arte del buon governo. In secondo luogo (ed è questo il principale messaggio del libro) il vero conflitto non è tra noi e il mondo islamico, ma tra l'islam radicale e i regimi arabo-musulmani che stanno cercando dj conciliare l'identità religiosa dei loro popoli con le esigenze della modernità. Ci siamo comportati come se il principale obiettivo della violenza islamica fosse l'Occidente cristiano e abbiamo ignorato che i regimi della Giordania, dell'Egitto, della Siria, del Marocco e della Libia, per esempio, erano molto più odiati degli Stati europei. La tragedia dell' l 1 settembre e la reazione della presidenza Bush hanno oscurato i veri termini della questione e hanno deragliato la politica dell'Occidente sul binario sbagliato. Il risultato è una cascata di crisi dall'Iraq al Libano, passando per la Palestina, che hanno drammaticamente aggravato la situazione della regione.
Antonio Ferrari sembra credere, tuttavia, che il terremoto mediorientale degli ultimi anni potrebbe dare un salutare scossone ai regimi della regione. E cita le parole di un ministro arabo che gli disse un giorno confidenzialmente: «In fondo la sfida del terrorismo e la guerra che si sta combattendo per stanarlo e sconfiggerlo hanno aspetti positivi. Costringeranno tutti i leader musulmani ad avviare, finalmente, quelle riforme che finora non avrebbe osato neppure immaginare. Mi creda, quel che sta accadendo alla lunga sarà salutare». Vi è in queste parole un importante punto di verità. Tocca all'islam migliore rialzarsi, divenire cosciente dei propri difetti e trovare in se stesso l'energia per il proprio rinascimento. L'Occidente può aiutarlo, dal canto suo, soprattutto commettendo qualche errore in meno.
Corriere della sera, 08 dicembre 2006 pagina 41 |
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Base Usa a Vicenza
Caro Romano, il 2 dicembre a Vicenza si è svolta un'importante manifestazione di protesta contro l'ampliamento della base militare americana, progetto già approvato dalla giunta comunale. Tuttavia ritengo che si debba riflettere sul fatto che non si tratti di una mera questione locale risolvibile con un referendum tra i vicentini, ma mi pare che il caso Dal Molin costituisca una delicata e importante questione di rilevanza nazionale. Si prevede infatti che la base vicentina diventi, a partire dal 2007, la maggiore base Usa in Europa. Chi ha manifestato non lo ha fatto solamente per proteggere le proprie orecchie dall'inquinamento acustico o i propri figli da quello ambientale, cioè per meri interessi locali. Chi ha protestato lo ha fatto per esprimere il proprio dissenso nei confronti della manifestazione lampante dello sviluppo dei programmi bellici che verrebbero a consumarsi nell'allargata base militare sotto l'esclusiva autorità americana.
Valentina Cantone - Padova
Mi spiace avere accorciato la sua lettera, troppo lunga, ma spero di avere salvato la sostanza del suo pensiero. L'ampliamento della base americana di Vicenza, soprattutto nelle attuali circostanze internazionali, non è un problema esclusivamente locale. È anche, e soprattutto, un problema nazionale.
Sergio Romano
Corriere della sera, 10 dicembre 2006 |
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Costituzione europea (aspettando la Francia)
Caro Romano, che ne è della Costituzione europea?
Sarebbe dovuta entrare in vigore il primo novembre di quest'anno, ma dopo che nell'ottobre 2004 ci fu la storica firma dei 25 a Roma, non ha ottenuto la ratifica confermativa di tutti gli Stati firmatari. E allora, che ne è dell'Europa dei 25 se la sua carta costituzionale è bloccata dalla negata ratifica di uno o più degli Stati aderenti?
Carlo Pantani
Caro Pantani, per rispondere alla sua domanda ho chiesto informazioni a Pietro Calamia che è stato per alcuni anni rappresentante dell'Italia a Bruxelles e ha descritto lo stato della questione, recentemente, in una nota scritta per il Circolo di studi diplomatici. Con Bulgaria e Romania, che hanno approvato la Costituzione aderendo all'Ue, i Paesi che hanno già ratificato sono 18 (la Finlandia lo ha fatto negli scorsi giorni). Mancano all'appello Gran Bretagna, Polonia, Repubblica Ceca, Svezia, Danimarca, Irlanda, Portogallo e naturalmente i due Paesi (Francia e Olanda) in cui i referendum consultivi del 2005 hanno dato un risultato negativo. Gli Stati favorevoli al Trattato costituzionale rappresentano quindi i due terzi dell'Unione. Non bastano perché il testo firmato a Roma nell'ottobre del 2004 divenga valido. Ma sono troppi perché venga buttato alle ortiche. Il problema dunque è questo: come salvare il lavoro già fatto dalla maggioranza e persuadere la minoranza a tenerne conto. Il miglior modo per uscire dallo stallo, osserva Calamia, è quello di individuare le ragioni per cui gli elettori francesi e olandesi hanno respinto la Costituzione. Erano contrari al rafforzamento dei poteri del Parlamento di Strasburgo? Disapprovavano il sistema di voto che prevede la maggioranza qualificata degli Stati e quella delle popolazioni? Consideravano con diffidenza le disposizioni per lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia? Ritenevano inutile o addirittura pericolosa l'istituzione di un ministro degli Esteri e un più lungo mandato (da sei mesi a due anni e mezzo) per il presidente dell'Unione? Credo che Calamia abbia ragione quando sostiene che i veri motivi del rifiuto vanno cercati soprattutto nei problemi che maggiormente preoccupano in questo momento le società europee: gli effetti negativi della globalizzazione, l'insicurezza economica, la delocalizzazione delle imprese, l'immigrazione illegale. Per venire incontro a questi timori il Cancelliere tedesco, che diverrà presidente dell'Unione nel secondo semestre dell'anno prossimo, ha prospettato l'ipotesi di un Protocollo sociale da allegare al Trattato. Se l'idea farà strada, i 18 che hanno già ratificato dovranno limitarsi a ratificare il Protocollo e i nove mancanti dovranno approvare un pacchetto composto da Trattato costituzionale e Protocollo aggiuntivo. Potrebbero esservi altre soluzioni. Ma né quella implicita nella proposta tedesca né altre possono essere discusse prima delle elezioni presidenziali francesi dell'aprile 2007. Se il dibattito si aprisse ora, la Costituzione dell'Europa diverrebbe materia di polemiche elettorali e potrebbe costringere qualche candidato, per conquistare un po' di voti in più, a legarsi le mani con dichiarazioni demagogiche. E' meglio quindi pazientare per qualche mese. Ma non troppo a lungo. Nel 2009 si terranno le prossime elezioni per il Parlamento europeo ed è bene che il problema venga risolto prima di allora.
Sergio Romano
Corriere della sera, 11 dicembre 2006 |
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IL TIRANNO E IL SUO TEMPO
di SERGIO ROMANO
Se potesse dare un'occhiata alla carta politica dell'America Latina negli anni '70, il lettore constaterebbe che i regimi erano quasi tutti autoritari e che i generali, anche quando non esercitavano direttamente il potere, lo sorvegliavano dalle caserme e non perdevano occasione per richiamare all'ordine i governi. Ma Augusto Ugarte y Pinochet, presidente del Cile dal 1973, divenne immediatamente per la maggior parte delle democrazie occidentali il peggiore dei tiranni, il simbolo della reazione, l'uomo più detestabile dell'emisfero meridionale.
L'atto d'accusa era lungo. Aveva ucciso una promettente democrazia. Era direttamente o indirettamente responsabile della morte di un presidente socialdemocratico, amato e ammirato dall'opinione progressista europea. Aveva brutalmente perseguitato i suoi oppositori. Aveva trescato con i servizi segreti degli Stati Uniti. Aveva creato con i suoi colleghi della regione una spietata organizzazione poliziesca che inseguiva e colpiva, anche al di fuori delle Americhe, i militanti della democrazia latino-americana. E aveva sfruttato il potere per accumulare all'estero una considerevole fortuna. Quando cadde nella rete di un giudice spagnolo, durante un viaggio a Londra, un ministro laburista ricordò di avere sfilato per le vie della sua città nel 1973 contro i responsabili del golpe cileno. Ed è probabile che i suoi ricordi abbiano avuto una certa influenza sul modo in cui il governo britannico cercò di assecondare per qualche settimana la politica giudiziaria del magistrato Garzon.
Fra un tiranno vivo e un tiranno morto corre tuttavia una fondamentale differenza. Il vivo va criticato e combattuto. Il morto deve essere collocato nel suo contesto storico e, nei limiti del possibile, spiegato. Occorre ricordare anzitutto che per più di vent'anni, dopo la rivoluzione castrista del 1959 e lo sbarco degli esuli cubani nella Baia dei Porci, l'America Latina oscillò continuamente fra avventure populiste, colpi di Stato militari, tentativi rivoluzionari, guerriglia urbana. Mentre le sinistre denunciavano i putsch e i golpe della destra, i moderati dell'Occidente contemplavano con preoccupazione la spedizione rivoluzionaria del Che in Bolivia, le operazioni dei montoneros in Argentina e dei tupamaros in Uruguay, i maoisti di Sendero Luminoso in Perù: un cocktail rivoluzionario composto da un po' di marxismo, una dose non piccola di vecchio anarchismo spagnolo e molto comunismo cinese, vale a dire la speranza che la rivoluzione, dopo quanto era accaduto a Cuba, potesse scoppiare anche là dove l'economia aveva caratteri prevalentemente agricoli e il proletariato era contadino. Chi ebbe l'occasione di visitare l'America Latina in quegli anni ricorda le postazioni di mitragliatrici sui tetti degli aeroporti e la presenza ossessiva di uomini armati in qualsiasi cerimonia ufficiale.
In questo panorama di regimi traballanti, continuamente in bilico fra rivoluzione e reazione, esisteva un caso a parte. Nella seconda metà degli anni Sessanta il Cile era il Paese prediletto dalle democrazie cristiane dell'Occidente, il regime politico in cui Eduardo Frei, eletto alla presidenza nel settembre 1964, avrebbe dimostrato che la via europea alla democrazia era possibile. L'elezione di Salvador Allende suscitò qualche preoccupazione per la forte presenza di gruppi massimalisti nella sua maggioranza, ma era pur sempre un evento democratico. La situazione cominciò a peggiorare quando fu chiaro che Allende era un uomo probo, stimabile, animato dalle migliori intenzioni, ma troppo debole per controllare i suoi alleati più radicali e per resistere alle loro pressioni. Il golpe fu opera di Pinochet e di una conventicola di militari, sostenuti in una forma o nell'altra dal governo degli Stati Uniti. Ma Allende non sarebbe caduto così rapidamente se il putsch delle forze armate non fosse stato preceduto dalle clamorose proteste dei ceti sociali e delle categorie professionali (i camionisti ad esempio) che erano scesi in piazza per protestare contro una politica economica visibilmente sbagliata e una inflazione galoppante.
Dopo la conquista del potere Pinochet si comportò come Franco dopo la fine della guerra civile spagnola. Anziché proporsi la riconciliazione nazionale, fece perseguitare, imprigionare, torturare ed eliminare migliala di dissenzienti. Tutti i governi democratici europei deplorarono gli avvenimenti cileni e alcuni di essi richiamarono in patria gli ambasciatori. Ma molti, fra cui probabilmente la Santa Sede, tirarono un sospiro di sollievo. Comincia da quel momento la lunga stagione dell'ambiguità. Il regime era autoritario e repressivo, ma chiedeva consigli, per la riforma del suo sistema pensionistico, a Milton Friedman, vale a dire all'astro nascente del monetarismo liberale, e lanciava evidenti segnali di progresso economico. Quando scoppiò la guerra delle Falkiand, Pinochet, anziché schierarsi con i colleghi argentini, sostenne la Gran Bretagna: un gesto che gli assicurò da quel momento la stima e la riconoscenza di Margaret Thatcher. Ripercorrendo le tappe della sua vicenda londinese, i cronisti ricorderanno che qualche giorno prima del suo arresto il generale aveva preso il tè con la Lady di Ferro.
Fra tanti vizi e manifestazioni di spietata durezza, il regime di Pinochet ebbe il merito di organizzare, sia pure con qualche riluttanza, la sua uscita di scena. La costituzione del 1981 confermò il generale per sette anni alla presidenza della Repubblica, ma stabilì che il rinnovo del suo mandato sarebbe stato sottoposto a un referendum popolare. E il popolo, quando potè votare, lo congedò con il 56% di no. Se nel 1998, dieci anni dopo, non fosse andato a Londra per un intervento chirurgico, il corso della storia cilena sarebbe stato forse diverso. Ma il suo ritorno in patria, dopo le disavventure londinesi, e le tortuose peripezie giudiziarie di questi ultimi anni, dimostra che Pinochet continuò a essere sino alla fine, per i democratici del suo Paese, un caso delicato da maneggiare con molta cautela. Chiusa la bara, tutto forse diventerà più semplice. Ma toccherà ai cileni, non a noi, scrivere l'ultimo capitolo di questa storia latino-americana.
Corriere della sera, 11 dicembre 2006 pagina 01 |
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L'esilio di Sturzo, le minacce fasciste e la Santa Sede
Le chiedo un giudizio circa il «consiglio» dato dal Vaticano al prete di Caltagirone, don Luigi Sturzo, secondo cui sarebbe stato opportuno lasciare l'Italia, come poi avvenne.
Sul piano storico si discute ancora sull'atteggiamento del Vaticano verso il fascismo. Don Luigi Sturzo fu antifascista, ma resta veramente un «consiglio strano» quello che gli fu dato. Lei che cosa ne pensa? Le chiedo altresì se fu un consiglio o una imposizione. Molti sostengono che don Sturzo dovette andar via dal nostro Paese per «imposizione» anche se si disse, allora, per la sua incolumità fisica.
Gennaro Corvino, Castel SanGiorgio (Sa)
Caro Corvino, don Luigi Sturzo partì dall'Italia per l'Inghilterra nell'ottobre 1924 dopo un scambio di lettere e messaggi con il fratello Mario, vescovo di Piazza Armerina, il cardinale Gasparri, segretario di Stato, e altre persone coinvolte nella vicenda. La storia della partenza e dei negoziati che la precedettero è stata raccontata da Alfredo Canavero nel suo studio su «I cattolici nella società italiana dalla metà dell'Ottocento al Concilio Vaticano II», edito dalla Morcelliana di Brescia, dove lei potrà trovare maggiori informazioni. Alla domanda della sua lettera (fu un consiglio o un ordine?) credo si debba rispondere che fu certamente un ordine. In un recente articolo di Civiltà cattolica intitolato «Le dimissioni di don Sturzo da segretario del Partito popolare italiano», padre Giuseppe Sale, gesuita e storico dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato italiano nel corso del Novecento, ha ricordato che Mussolini minacciava di occupare le chiese e che la Santa Sede dovette piegarsi alla sua volontà. Ma erano numerosi ormai in Vaticano coloro che consideravano il fascismo, nelle condizioni dell'Italia d'allora, il miglior baluardo contro la prospettiva di una rivoluzione «bolscevica». Nei mesi in cui fu arcivescovo di Milano, prima dell'elezione al papato, Pio XI aveva permesso alle squadre fasciste di entrare in Duomo con i loro gagliardetti per celebrare il terzo anniversario della vittoria. Mussolini, dal canto suo, aveva adottato una duplice strategia. Sferrava durissimi attacchi contro il Partito popolare e lasciava che le squadre fasciste molestassero i suoi leader con pesanti minacce. Ma non smetteva di lanciare messaggi alla Santa Sede atteggiandosi a difensore della fede cattolica. Nel suo primo discorso alla Camera, dopo la formazione del governo, disse che tutte le fedi religiose sarebbero state rispettate, «con particolare riguardo a quella dominante che è il cattolicesimo». E con un acrobatico salto mortale, il vecchio ateo (così Mussolini definiva se stesso all'epoca dell'esilio in Svizzera) fece una inattesa professione di fede: «Così Dio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica». Questa combinazione di minacce e conciliazione ebbe alla fine l'effetto desiderato. Con una lettera al vescovo di Piazza Armerina, il cardinale Gasparri ordinò a Sturzo di interrompere la collaborazione al Popolo, dimettersi da segretario del Partito popolare e assentarsi da Roma. Sturzo dovette obbedire, ma cercò di evitare che la sua partenza apparisse una fuga e danneggiasse il partito. Venne così concordato il testo di una lettera con cui il fondatore del Ppi chiedeva alla Santa Sede il permesso di allontanarsi dall'Italia per proseguire in Inghilterra uno studio in cui era impegnato. Partì il 25 ottobre con un passaporto della Santa Sede. Fiero e orgoglioso, aveva rifiutato di chiedere al governo il documento dell'esilio.
Sergio Romano
Corriere della sera, 12 dicembre 2006 |
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I numeri in piazza e le bugie della politica italiana
Nel febbraio del 2003, il centrosinistra ha organizzato una manifestazione in piazza San Giovanni a Roma; per gli organizzatori i partecipanti erano tre milioni. La Questura ha valutato in circa seicentocinquantamila le presenze. Sabato 2 dicembre il centro destra ha organizzato nella stessa piazza una manifestazione; secondo gli organizzatori, i manifestanti erano due milioni. La Questura ha stimato una presenza di circa settecentomila persone. L'on. Fassino, in una intervista, ha affermato che non si è fatto impressionare dalle duecentocinquanta o trecentomila persone che hanno dimostrato, visto che nel 2003 loro in piazza ne avevano portate tre milioni. Penso che anche a un lettore distratto salti all'occhio che c'è qualche numero che non torna.
Romolo Rubini
Caro Rubini, i numeri delle manifestazioni, come quelli degli scioperi, non tornano mai. In una rivista diretta da Giuseppe Galasso (Acropoli) apparve su questo argomento, nel dicembre del 2001, un editoriale intitolato "Stile Italiano". Galasso è storico dell'Europa, dell'Italia e del Mezzogiorno. Ma è stato anche parlamentare, presidente della Biennale di Venezia, sottosegretario ai Beni culturali e autore di un famoso decreto sulla tutela del paesaggio italiano. Può parlare di politica, quindi, con distacco, ironia e un certo bonario scetticismo napoletano. Nell'editoriale di Acropoli decise di affrontare il problema dei numeri con gli strumenti dell'architettura e dell'urbanistica. È possibile, si chiese, che in una piazza italiana si raccolgano un milione o mezzo milione di persone? Ecco alcuni numeri. I metri quadrati di piazza del Duomo a Milano sono 18.000, quelli di piazza del Popolo a Roma 21.000, quelli di piazza del Plebiscito a Napoli 25.000, quelli di piazza San Giovanni e dello spazio al di là della Porta circa 50.000. "Si può anche pensare", continua Galasso, "che vi siano 4 persone per metro quadrato" (a me sembrano persino troppe).Ma è bene ricordare che non tutto lo spazio di una piazza è utilizzabile. Vi sono monumenti, fontane, aiuole, chioschi, per non parlare della grande tribuna per gli oratori, spesso circondata da una zona di sicurezza. Conclusione: se sono davvero grandi e gremite le piazze possono contenere fino a 100.000 persone, ma negli altri casi, anche se la manifestazione ha dato buoni risultati, è meglio attestarsi sui 50.000. Galasso applica gli stessi criteri ai cortei. Quando apprendiamo che "un milione di persone hanno sfilato nelle vie della capitale", dovremmo ricordare che un milione è più o meno la popolazione di Napoli e Torino. Se un milione di napoletani scendesse in piazza, conclude Galasso, "vuol dire che nelle case, uffici, servizi ecc. non è rimasto quasi più nessuno; e anche se si fa conto su un generoso afflusso dalla provincia, si resta sempre molto al di sopra del verosimile, anzi, spesso, del possibile". Spero che Galasso mi perdonerà se le rispondo, caro Rubini, che queste cifre e considerazioni non hanno alcuna importanza. Esiste nella politica italiana un patto tacito che consente a ogni organizzazione (partito, sindacato, associazione di categoria) di moltiplicare per tre, se non per quattro, il numero delle persone che partecipano alle loro assemblee e manifestazioni. Tutti sappiamo che questi dati sono grossolanamente esagerati, ma le bugie di Tizio autorizzano quelle di Caio e tutti, apparentemente, sono felici. È ciò che accadeva nella città di Tarascona quando Tartarino raccontava ai suoi concittadini le sue strabilianti avventure. I tarasconesi sapevano che non era vero, ma lo ascoltavano con piacere ed erano contenti di avere un concittadino così esuberante.
Sergio Romano
Corriere della sera, 16 dicembre 2006 |
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I fondi per la Difesa
Caro Romano, il direttore degli Affari europei al Consiglio per la sicurezza della Casa Bianca, Judy Ansley, ha affermato: "Bush ha detto con chiarezza agli alleati che servono più risorse e fondi per la difesa". Mentre Washington destina alla Difesa il 3,7%del Pil, l'Italia ne destina l'1,8;ma sia il Canada che la Germania spendono meno per le armi: rispettivamente l'1,1 e l'1,4%. Perché il presidente George W. Bush ha sentito il bisogno di intervenire anche nei confronti dell'Italia sapendo che questa non è ancora economicamente risanata? È giusto pretendere da un alleato debole?
Alessandro D'Angelo Roma
La percentuale dell'Italia è sbagliata per eccesso. Con i tagli del 2006 il bilancio per la Difesa rappresenta lo 0,83% del bilancio nazionale. Secondo il generale Luigi Caligaris questo sarebbe il punto più basso toccato dalle spese per la Difesa dalla costituzione dell'Alleanza Atlantica.
Sergio Romano
Corriere della sera, 16 dicembre 2006 |
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Budapest e Suez: una coincidenza che cambiò la storia
Cinquanta anni fa si era da poco conclusa la tragedia d'Ungheria di cui si è molto parlato anche sul Corriere. Io partecipai, studente delle superiori, ai cortei e scioperi scolastici pro-Budapest. Da allora ho un dubbio, visti i fatti accaduti nel mondo in quel periodo. Mi riferisco in particolare all'avventura di Suez che vide l'Egitto attaccato da inglesi, francesi e israeliani. La cosa si concluse in breve con il ritorno degli attaccanti alle loro basi e con uno strascico di polemiche e di danni (esempio: il Canale bloccato dalle navi affondate).
Questi avvenimenti quasi contemporanei alle vicende ungheresi, stornarono l'attenzione dell'opinione pubblica dal dramma magiaro che entrò in un cono d'ombra.
Visto che a Yalta si era decisa la spartizione ferrea dell'Europa e visto che i cosacchi non avrebbero mai abbeverato i cavalli in piazza San Pietro (grande bufala minacciata per mezzo secolo!) e visto che di conseguenza i carri americani non avrebbero potuto mai entrare a Budapest nonostante le ovvie speranze e gli appelli dei rivoltosi, mi viene da pensare che la «crisi di Suez» sia stata solo un'abile messinscena per appunto stornare l'attenzione del mondo e rendere più semplice il non intervento oltre cortina. Che ne pensa?
Francesco Camurati
Caro Camurati, uno dei maggiori rischi, per chi si occupa di storia, è quello di confondere gli effetti con le cause. Gli eventi producono quasi sempre risultati completamente diversi da quelli previsti e auspicati. Ma noi commettiamo spesso l'errore di collegarli a un evento precedente e di pensare che rispondano a una precisa programmazione. Vedo che anche per lei la spartizione dell'Europa fu decisa alla conferenza di Yalta. Gli storici sanno che non è vero, ma la leggenda ha contagiato l'immaginazione collettiva ed è diventata verità. Qualche giorno fa, rispondendo a un altro lettore, ho cercato di dimostrare che Churchill, Roosevelt e Stalin si occuparono prevalentemente di altre questioni (Onu, Giappone, governo polacco). Ma temo di non esservi riuscito. Nel caso di Suez gli effetti furono in parte quelli suggeriti dalla sua lettera. L'operazione militare anglo-franco-israeliana fu considerata «colonialista» ed ebbe il risultato di oscurare agli occhi di una parte della pubblica opinione il carattere imperialista della repressione sovietica in Ungheria. Fu più difficile per i governi occidentali, da quel momento, criticare la politica repressiva di Mosca. E fu più facile per i leader comunisti occidentali mettere a tacere le espressioni di malessere e dissenso che si erano manifestate nei loro partiti. Ma la guerra di Suez non ha rapporti con quella di Budapest e conclude una parabola del tutto autonoma che comincia con due eventi del novembre 1954: lo scoppio della guerra d'Algeria e l'avvento del colonnello Nasser alla presidenza dell'Egitto. Per modernizzare l'Egitto e meglio utilizzare le acque del Nilo, Nasser programmò la costruzione di una grande diga ad Assuan e ottenne in linea di principio i finanziamenti internazionali. Ma gli Stati Uniti disapprovarono i suoi rapporti con i regimi comunisti dell'Europa centro-orientale e revocarono i loro affidamenti. Per tutta risposta Nasser, nell'estate del 1956, annunciò al mondo la nazionalizzazione della società internazionale, controllata dalla Gran Bretagna, che gestiva il Canale di Suez. La dura reazione del governo di Londra fu dettata dalla convinzione che il canale di Suez fosse la vena giugulare dell'impero britannico e che la perdita della società avrebbe pregiudicato i rapporti della madre patria con gli ex dominion dell'Asia e dell'Oceania, dall'India all'Australia. Quella del governo di Parigi fu dovuta alla persuasione che il maggiore ispiratore e finanziatore della rivolta algerina fosse il colonnello Nasser. Mentre Israele, dal canto suo, approfittò degli stati d'animo inglese e francese per colpire con una guerra preventiva il regime anti-israeliano del Cairo. La coincidenza fra le due crisi (Budapest e Suez) fu in buona parte il risultato del caso. Gli inglesi e i francesi vinsero la guerra, ma perdettero la partita. Eletto in quei giorni per la seconda volta alla presidenza degli Stati Uniti (ancora una coincidenza), il generale Eisenhower ritenne inutile e pericoloso che Francia e Gran Bretagna si comportassero ancora come imperi coloniali. Non poteva impedire ai sovietici la repressione della rivoluzione ungherese senza correre il rischio di una guerra. Ma poteva fermare la Gran Bretagna minacciando la crisi della sterlina alla Borsa di New York. Come vede, caro Camurati, Budapest e Suez furono due crisi distinte, provocate da cause diverse. Ma la somma dei loro effetti si ripercosse sulla situazione internazionale e cambiò il corso della guerra fredda.
Sergio Romano
Corriere della sera, 18 dicembre 2006 |
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Cile e Cuba: come le dittature diventano democrazie
In un articolo del Corriere di Bernard-Henry Lévi vi è una sorta di parallelo tra la dittatura di Pinochet e quella di Castro. Ciò che scrive Lévi è da sottoscrivere, ma a mio avviso dimentica l'attaccamento morboso al potere da parte di Castro.
Pinochet indisse un referendum sulla sua persona (che rischiò di vincere) e avuto un responso negativo si dimise, mantenendo solo l'incarico di capo delle Forze Armate. Lasciò inoltre un Paese più forte ed economicamente sicuro di quando attuò il colpo di Stato che portò alla morte di Allende, mentre oggi Cuba è uno dei Paesi più poveri del mondo. Pinochet preparò il ritorno a un regime democratico, mentre a Cuba si parla di un passaggio di consegne da Fidel Castro al fratello. La mia domanda è: perché i dittatori di destra (o meglio, conservatori) tendono ad abbandonare il potere e a preparare regimi democratici mentre quelli di sinistra tendono a perpetuare il potere del proprio gruppo anche dopo la morte? Ci tengo a precisare che non sono un nostalgico ma, da vecchio anarchico individualista (come si diceva una volta), mi permetto di osservare le vicende storiche con una certa equidistanza.
Carlo Curami
Caro Curami, non tutti i dittatori di destra preparano il passaggio alla democrazia. Antonio de Oliveira Salazar, Primo ministro del Portogallo dal 1932 alla morte (1970), lasciò il potere a Marcello Caetano, che era stato per trent'anni il suo principale collaboratore; e questi fu rovesciato da un colpo di Stato militare nell'aprile del 1974. Ma nella sostanza lei ha ragione. Mentre i dittatori di sinistra hanno programmi fortemente ideologici e si propongono di rinnovare dalle fondamenta l'uomo e la società, quelli di destra difendono generalmente valori tradizionali fra i quali, in particolare, il diritto di proprietà. I fattori che maggiormente permisero a Pinochet la conquista del potere non furono l'appoggio degli Stati Uniti, le simpatie della Chiesa, le trame di Kissinger e i supposti finanziamenti della Cia, ma le paure che la politica di Salvador Allende aveva scatenato nella società cilena. Dopo l'elezione alla presidenza nel 1970, Allende si era progressivamente spostato sulle posizioni massimaliste dell'estrema sinistra. Quando gli fece visita nel 1971, Régis Debray (amico e compagno di Che Guevara in Bolivia) gli chiese: «È il proletariato che riuscirà a imporsi alla borghesia, o è la borghesia che riassorbirà gradualmente il proletariato sino a integrarlo nel suo mondo?». Allende non ebbe esitazioni: «la risposta è brevissima: il proletariato». E aggiunse nella stessa conversazione che aveva creato una guardia politica personale: «Ho fatto appello a un gruppo di compagni perché non potevo fidarmi della polizia politica della borghesia». Ma il segnale più chiaro fu la visita di Castro a Santiago. In quella occasione Fidel gli dette un dono simbolico: il mitra che Allende porterà a tracolla il giorno del golpe e con il quale, secondo la testimonianza del suo medico personale, si sarebbe tolto la vita. La politica economica di Allende fu altrettanto ideologica: aumentò il salario minimo del 66,7%, lanciò una vasta campagna di nazionalizzazioni, decise che le grandi multinazionali americane non avrebbero avuto diritto ad alcun indennizzo. I risultati furono disastrosi: la produzione agricola diminuì del 16,8% e il tasso di crescita per il 1973 era, al momento del golpe, negativo (-5%). Dopo l'installazione del regime autoritario di Pinochet la situazione cominciò a migliorare. Secondo un grafico pubblicato dal Financial Times del 13 dicembre il prodotto lordo pro capite del Cile fu complessivamente negli ultimi 30 anni, in rapporto agli Usa, alquanto migliore di quelli dell'Argentina, del Messico e del Brasile. Fu lo sviluppo economico del Paese, in ultima analisi, la ragione della sconfitta di Pinochet nel referendum del 1988. Una società economicamente libera e intraprendente conserva in se stessa, anche durante le fasi autoritarie, principi e germi di libertà che riemergono non appena possibile alla superficie. Non è possibile dire altrettanto di Cuba dove è difficile immaginare una tranquilla transizione alla democrazia.
Sergio Romano
Corriere della sera, 19 dicembre 2006 |
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Il Risorgimento, come lo avrebbe voluto Marx
Le invio il testo di un articolo di Karl Marx, pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung dell'1 aprile 1849 con il titolo «La sconfitta dei piemontesi», dove l'autore lamenta la mancata organizzazione della guerriglia e del rapporto tra lo Stato e la popolazione piemontese. In qualche modo fotografa la mancata partecipazione delle masse popolari al Risorgimento e preannuncia, con oltre cento anni di anticipo, la guerriglia vietnamita e ora irachena che tanto filo da torcere ha dato e dà agli americani.
Pietro Ancona
Caro Ancona, l'articolo è doppiamente interessante: concerne una brutta pagina della storia nazionale italiana ed è un documento del pensiero rivoluzionario del giovane Marx. L'autore ha 31 anni, ma è già noto in Europa per le sue idee e la veemenza delle sue battaglie polemiche. Nel 1842 ha accettato la direzione di un settimanale liberale, la Rheinische Zeitung, ma si è trasferito nel 1843 a Parigi e, dopo l'espulsione dalla Francia, in Belgio. L'adesione al socialismo e la forte amicizia con Friedrich Engels lo spingono ad approfondire gli studi di filosofia e politica economica. Nel «Manifesto del Partito comunista», pubblicato a Londra nel febbraio del 1848, disegna la storia dell'umanità come una lunga lotta di classe e preannuncia la morte della borghesia, distrutta da una crisi di sovrapproduzione e, quindi, dalle conseguenze della sua irresistibile ascesa. I moti europei del 1848 accendono le sue speranze e risvegliano la sua vena rivoluzionaria. Quando le forze della conservazione cominciano a riconquistare il terreno perduto, tra la fine del 1848 e gli inizi del 1849, Marx è ancora convinto che uno scatto di volontà popolare possa riaprire la stagione rivoluzionaria. L'articolo con cui commenta la sconfitta dei piemontesi a Novara riflette questi sentimenti e queste speranze. La battaglia concluse la breve guerra che Carlo Alberto, dopo la scadenza dell'armistizio con l'Austria, riprese nel marzo 1849. Il generale polacco Chrzanowski, comandante delle truppe piemontesi, aveva chiesto alla V Divisione del generale Ramorino di presidiare la Lomellina, di fronte a Pavia. Ma non appena apprese che gli austriaci erano a Voghera, Ramorino abbandonò la posizione per andare incontro al nemico e lasciò sguarnito un varco che permise alle truppe del maresciallo Radetzky di investire il grosso delle forze piemontesi a Novara. Si parlò allora di tradimento (Ramorino venne fucilato il 22 maggio 1849) e Marx sembra condividere questa tesi. Ma rifiuta di credere che una battaglia perduta segni la fine delle speranze rivoluzionarie del 1848. La vera responsabilità, per l'autore del «Manifesto», non è di un generale imprudente o fellone, ma di una monarchia moderata e pavida che teme di servirsi del popolo e pretende di battere la potenza austriaca con un esercito regolare. «Se il Piemonte fosse una repubblica», scrive Marx, «se il governo di Torino fosse rivoluzionario e avesse il coraggio di usare i mezzi rivoluzionari, nulla sarebbe perduto (...). Sollevazione in massa, guerra rivoluzionaria, guerriglia dappertutto, ecco l'unico mezzo con cui un piccolo popolo può vincere uno grande, e un esercito meno forte resistere contro un esercito più forte e meglio organizzato». L'autore pensa alla «levée en masse» della Francia rivoluzionaria che permise la vittoria di Valmy nel 1792, e alla guerriglia spagnola contro i francesi fra il 1807 e il 1812. Ma avrebbe potuto ricordare altri due episodi di storia napoleonica: le continue incursioni ai fianchi che accompagnarono la ritirata della Grande Armée dalla Russia nel 1812 e la insurrezione tedesca del 1813. L'analisi di Marx è giusta. La monarchia non aveva dimenticato i «perniciosi» effetti della rivoluzione francese e non aveva alcuna intenzione di lasciare al popolo la condotta delle operazioni militari. Dopo la sconfitta di Novara, Carlo Alberto abdicò e lasciò il trono a Vittorio Emanuele II perché le sorti della dinastia ebbero il sopravvento su qualsiasi altra preoccupazione e ambizione. Ma l'autore del «Manifesto» commise un errore quando ritenne che il popolo avrebbe sempre combattuto per la rivoluzione e il progresso. L'unica guerra di popolo del Risorgimento italiano fu quella contro i «piemontesi» nel Sud fra il 1861 e il 1865. E fu guerra di lealisti, ultracattolici e briganti, non guerra rivoluzionaria.
Sergio Romano
Corriere della sera, 20 dicembre 2006 |
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Il nome di battaglia
Caro Romano, vorrei chiedere perché il Corriere (assieme ad altri quotidiani nazionali) chiama il presidente palestinese Abu Mazen mentre gli altri organi di stampa stranieri lo chiamano Mahmoud Abbas. Qual è il suo vero nome?
Ugo Piergiovanni
Il vero nome è Mahmoud Abbas, ma quasi tutti i vecchi leader dell’organizzazione per la liberazione della Palestina avevano adottato un nome di battaglia con cui molti di essi sono tuttora conosciuti e citati. In molti articoli della stampa internazionale i due nomi vengono utilizzati contestualmente.
Sergio Romano
Corriere della sera, 20 dicembre 2006 |
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Il ritorno da Nassiriya, il patriottismo e la sobrietà
È stato curioso nei giorni scorsi sentire dai media, da una parte le laceranti cronache quotidiane dall’Iraq e, dall’altra, i gloriosi discorsi dei nostri politici in occasione della cerimonia per il rientro delle ultime truppe di «Antica Babilonia».
Per i nostri politici, abbiamo fatto un ottimo lavoro e dobbiamo essere fieri del compito svolto dai nostri soldati. E’ stato ad esempio affermato che la bandiera del presidio italiano di Nassiriya è stata ammainata con dignità, a testa alta, e sarà conservata tra le memorie preziose della nostra Repubblica.
È stata un’impresa di pace e di civiltà. E’ stato più volte ricordato che l’Italia è chiamata a fare la sua parte nel contesto di organizzazioni internazionali alle quali spetta il compito di fronteggiare le sfide e gli attacchi alla pacifica convivenza tra gli Stati e tra i popoli.
Debbo dire che stento a capire da che cosa i nostri politici traggano queste valutazioni, visto che le cronache quotidiane parlano dell’intensificarsi di una guerra civile e degli attacchi contro le truppe della coalizione dei volenterosi, tant’è che si parla ormai di fallimento della «guerra» in Iraq e di indebolimento delle organizzazioni internazionali.
Il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, ha definito la situazione dell'Iraq, in un’intervista alla Bbc, molto peggio di una guerra civile. Il segretario dell'Onu ha affermato che il fallimento nel cercare di impedire la guerra in Iraq nel 2003 è stato un duro colpo per l'Onu, dal quale le Nazioni Unite si stanno ancora riprendendo. Fallimento a cui l’Italia ha consapevolmente partecipato.
Nino d’Eugenio, Modena
Caro d’Eugenio,
la presenza militare italiana in Iraq ebbe sin dall’inizio il difetto dell’ambiguità. Il governo d’allora avrebbe probabilmente preferito imitare la Spagna di Aznar e inviare un corpo combattente.
Ma Berlusconi si scontrò con l’art. 11 della Costituzione («L’Italia ripudia la guerra comestrumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), qualche riserva del presidente della Repubblica, la condanna di Giovanni Paolo II e l’ondata di bandiere arcobaleno che sommerse in quei mesi le città italiane. Fu questa la ragione per cui il corpo di spedizione partì dopo la fine delle operazioni militari. Nelle intenzioni del governo i tremila uomini del contingente avrebbero garantito l’ordine pubblico, addestrato la polizia irachena e collaborato con le autorità della regione per favorire il ritorno alla normalità: una «missione di pace», insomma, con qualche sperabile ricaduta economica.
Accadde tuttavia che alla guerra contro Saddam ne seguì quasi immediatamente un’altra, molto più insidiosa, che i teorici di strategia hanno definito «asimmetrica» e che era destinata a coinvolgere inevitabilmente qualsiasi corpo straniero presente nella regione. Il risultato fu la strage di Nassiriya e un certo numero di scontri e incidenti in cui altri soldati italiani perdettero la vita.Mail corpo di spedizione dette prova di grande dignità e fece tutto ciò che poteva, nonostante le circostanze, per aiutare la popolazione civile. La decisione di richiamarlo in patria fu presa dal governo Berlusconi nella fase che precedette la campagna per le ultime elezioni e realizzata dal governo Prodi qualche mese dopo.
Se dovessi riassumere schematicamente direi quindi che siamo andati in Iraq per le ragioni sbagliate, ma abbiamo fatto un buon lavoro e ne siamo tornati decorosamente grazie alla convergenza fra le posizioni dei due maggiori schieramenti politici nazionali. Tutto bene, dunque?
No, perché l’accordo di fatto tra i due poli è stato offuscato dal bellicoso pacifismo dell’estrema sinistra e dal modo in cui il centrodestra se ne è servito per dimostrare che il governo Prodi non è patriottico. Per reagire alle intemperanze della propria sinistra e alle accuse della destra, il governo ha ritenuto di dovere reagire con una esibizione di amor patrio che mi è parsa addirittura esagerata, ma non sorprendente.
Tutta la vicenda della presenza militare italiana in Iraq, dall’omaggio ai caduti all’accoglienza dei reduci, è stata caratterizzata da un eccesso di retorica. Credo che gli stessi soldati avrebbero apprezzato, soprattutto nelle cerimonie del ritorno, un po’ più di sobrietà.
Sergio Romano
Corriere della sera, 21 dicembre 2006 |
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Mosley che sognava un'Inghilterra fascista
Nell'interessante e condivisibile editoriale dello storico britannico Niall Ferguson «I demagoghi» pubblicato sul Corriere del 10 dicembre, il docente di Harvard paragonava Benito Mussolini all'inglese Oswald Mosley. Può darmi qualche notizia su questo fascista inglese e sul suo rapporto con la gerarchia fascista italiana?
Andrea Sillioni - Bolsena (Vt)
Caro Sillioni, nelle sue fotografie degli anni Trenta Sir Oswald Mosley, quarto baronetto di una piccola dinastia aristocratica dello Staffordshire, indossa una camicia nera, stretta alla vita da un cinturone di cuoio ornato da una borchia di metallo, oppure una sahariana nera abbottonata al collo, con cinturone, berretto militare, calzoni alla cavallerizza, gambali di cuoio. È alto, dritto, ha capelli scuri, forse leggermente impomatati, piccoli baffi taglienti. Guarda l'obiettivo del fotografo con una espressione marziale ed è circondato da un gruppo di giovani vestiti nella stessa uniforme. Appartengono alla British Union of Fascists, che Mosley ha fondato nel 1932 dopo un incontro con Mussolini, e intervengono pesantemente ogniqualvolta, durante un comizio, qualcuno osa interrompere le sue filippiche contro la democrazia parlamentare e i suoi elogi dello Stato corporativo. Stretti intorno al leader, i pretoriani innalzano labari e gagliardetti su cui appare lo stemma del partito: una saetta bianca in campo nero incorniciata da un cerchio bianco in campo rosso. Negli ambienti della buona società britannica tutti lo conoscono e molti lo stimano. Sanno che ha combattuto coraggiosamente durante la Grande guerra nel 17° reggimento dei Lancieri, che ha iniziato la sua carriera politica nelle file del partito conservatore e che è stato eletto alla Camera dei Comuni nel 1918. Ma negli anni seguenti, dopo un breve flirt con i liberali, sceglie il partito laburista e nel 1929 diventa cancelliere del Ducato di Lancaster (una antica carica senza portafoglio a cui il Premier affida generalmente un incarico speciale) nel governo di Ramsay MacDonald. Ma anche i laburisti lo deludono e il giovane Mosley (è nato nel 1896) fonda il Partito Nuovo, una formazione effimera da cui nascerà nel 1932 la British Union of Fascists. Dietro questa irrequietezza vi è la convinzione che il sistema politico britannico sia irrimediabilmente invecchiato e che la democrazia parlamentare sia inadatta a governare una società in cui la scienza, la tecnologia e i progressi dell'industria stanno profondamente modificando i rapporti fra gli individui e le classi sociali. Nel fascismo e nello Stato corporativo Mosley vede la soluzione dei problemi britannici dopo la grande crisi del 1929. In un libro di quegli anni («The Greater Britain»), pubblicato dalla casa editrice del partito, spiega che il Fascismo è una ideologia universale, capace di adattarsi alle esigenze dei singoli Paesi, e che il modello della Gran Bretagna sarà diverso dal sistema dittatoriale di Mussolini in Italia. Ma non esita a riconoscere le affinità e le somiglianze. Più tardi si avvicina alla Germania nazista, e il suo matrimonio con Diana Mitford, a quanto pare, viene celebrato nel salotto di casa Göbbels a Berlino, alla presenza di Hitler. Allo scoppio della guerra il governo lo trattò come un potenziale nemico e lo arrestò, ma gli permise di vivere con la moglie in una casetta all'interno della prigione. Dopo la fine della guerra, l'instancabile Mosley tentò senza successo il ritorno alla vita politica e morì nel 1980 dopo avere pubblicato una autobiografia che ebbe una certa risonanza. Molti inglesi, nonostante tutto, continuarono a pensare che il baronetto fosse un uomo intelligente e brillante, colpevole soprattutto di avere puntato le sue innegabili capacità politiche sulla carta sbagliata.
Sergio Romano
Corriere della sera, 27 dicembre 2006 |
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La Nato, personaggio in cerca d’autore
Con la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia, venendo meno la minaccia, la Nato avrebbe dovuto sciogliersi militarmente e tutt’al più limitarsi al compito maggiormente politico, di mantenere un dialogo tra le due sponde dell’Atlantico.
Purtroppo non è stato così; si è incominciato ad allargarne la partecipazione ai Paesi dell’Est europeo e ora la si vuole allargare anche ai Paesi Balcanici. Mi chiedo, dal punto di vista militare, come si possa pensare a un’integrazione dello strumento militare di questi Paesi (intelligence, comunicazioni, mezzi operativi, addestramento) se l’integrazione non è riuscita neppure quando la Nato era limitata a 12 nazioni! E mi chiedo, dal punto di vista politico, se in caso di minaccia alla democrazia di un piccolo Paese membro da parte di una nazione in possesso di un armamento nucleare credibile, le nazioni alleate sarebbero disposte a intervenire.
Sarebbe molto più logico e giusto se la Nato fosse sostituita, quanto prima, da quell’organizzazione militare europea che stenta a crescere (forse per l’esistenza ancora della Nato). Quello che serve, nella situazione geopolitica attuale, è un’organizzazione militare a livello Onu, che possa imporre le sue risoluzioni: un comando militare a livello organizzazione centrale dell’Onu a cui assegnare, al momento del verificarsi dell’esigenza e in relazione al teatro operativo, le forze che ogni nazione sarà in grado di dare (vedi l’esempio della missione militare in Libano).
La Nato, per i suoi compiti unicamente difensivi e per la sua organizzazione militare che vede a capo di tutti i livelli operativi ufficiali generali americani, non ha più ragione di esistere e non può essere chiamata a ricoprire il compito di braccio armato dell’Onu.
Gen. Roberto Maria Minarini
Caro Minarini,
dalla fine della guerra fredda la Nato è un personaggio in cerca di autore. Molti pensano che il suo scioglimento provocherebbe una crisi nei rapporti euro-americani. Altri sperano di poterla utilizzare contro possibili minacce future.
Altri ancora vorrebbero farne il braccio armato delle democrazie nel mondo e far salire a bordo, nei prossimi anni, l’Australia e il Giappone. Al vertice di Riga, qualche giorno fa, il presidente Bush ha lasciato intendere che l’organizzazione dovrebbe aprire le sue porte all’Ucraina e alla Georgia.
Contemporaneamente il senatore Richard Lugar, presidente della Commissione per gli affari internazionali del Senato americano, ha proposto che l’art. 5 del Patto Atlantico (se un membro è attaccato, tutti debbono combattere al suo fianco) entri in funzione anche quando l’alleato è vittima di un ricatto energetico. La proposta è ovviamente diretta contro la Russia, più volte accusata di avere usato petrolio e gas per mettere in riga alcune repubbliche ex sovietiche. Se venisse adottata, i russi non mancherebbero di sostenere che la Nato è soltanto uno strumento della politica estera americana contro il loro Paese.
Non avrebbero torto. L’organizzazione ha reclutato tutti i Paesi ex satelliti (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania), ha aperto le sue porte a tre repubbliche ex sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania) e si prepara ad accogliere, dopo la Slovenia, i pezzi sparsi della Jugoslava di Tito. Dopo il crollo del blocco sovietico ciascuno di questi Paesi aveva un evidente bisogno di sicurezza.
Maera davvero necessario utilizzare per questo scopo la Nato e lanciare in tal modo a Mosca un messaggio ostile?
Non sarebbe stato possibile raggiungere lo stesso scopo nell’ambito di una organizzazione militare europea?
A questo uso improprio dell’Alleanza corrisponde, a Washington, una politica ambivalente.
Gli Stati Uniti si servono della Nato per sottrarre alla Russia la sua vecchia sfera d’influenza o ricorrono all’organizzazione quando è necessario portare a termine un lavoro incompiuto. Ma preferiscono farne a meno quando potrebbe limitare la loro libertà di manovra. Il caso dell’Afghanistan è esemplare. Nell’ottobre del 2001, alla vigilia dell’invasione, gli Stati Uniti accettarono di buon grado il richiamo all’art. 5 con cui i membri dell’Alleanza si schierarono al loro fianco nella lotta contro il terrorismo. Ma non vollero che la Nato avesse un ruolo nella guerra contro il regime dei talebani. Ne hanno chiesto l’intervento più recentemente, quando era ormai evidente che il blitzkrieg degli Stati Uniti aveva sconfitto il regime a Kabul e in altre città, malasciato che il territorio cadesse gradualmente nelle mani dei talebani e dei narcotrafficanti.
Come vede, caro Minarini, giungo alle stesse conclusioni della sua lettera. Anch’io penso che gran parte della sicurezza mondiale dovrebbe essere affidata all’Onu. Ma non mi faccio illusioni. Sono troppe ancora le potenze che non intendono delegare i loro poteri a una grande organizzazione internazionale.
Sergio Romano
Corriere della sera, 28 dicembre 2006 |
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De Gasperi a Vienna e Roma: stessa strategia
Gradirei conoscere il suo pensiero su un periodo dell’attività politica di Alcide De Gasperi poco conosciuto, ovvero quando, prima della Grande Guerra, rappresentava nel Parlamento austriaco di Vienna il Trentino. Quali posizioni assunse verso le pretese italiane sulle sue terre e, poi, una volta scoppiato il conflitto?
Sarebbe anche interessante sapere se già da allora il futuro presidente del Consiglio nutriva sentimenti patriottici e, nel caso, per quale nazione.
Francesco Valsecchi
Caro Valsecchi,
il tema fu sollevato polemicamente da fascisti, nazionalisti e nazional liberali dopo la Grande guerra, quando De Gasperi succedette a Sturzo nella guida del Partito popolare, e dopo la Seconda guerra mondiale quando divenne leader della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio.
Se vorrà maggiori informazioni le troverà in un libro di Giulio Andreotti («De Gasperi e il suo tempo») e nelle biografie dedicate all’uomo di Stato trentino, da quella di Piero Ottone del 1968 a quella di Piero Craveri apparsa recentemente presso il Mulino. Esiste poi un interessante saggio di Richard Schober su «Alcide De Gasperi al Parlamento a Vienna» pubblicato in una raccolta di studi («De Gasperi e il Trentino tra la fine dell’800 e il primo dopoguerra», Trento 1985) curata da Alfredo Canavero e Angelo Moioli. Ed esiste infine il libro di Stefano Trinchese «L’altro De Gasperi. Un italiano nell’impero asburgico 1881-1918», pubblicato recentemente da Laterza. De Gasperi non fu irredentista.
Negli anni passati al Parlamento di Vienna (dal 1911 al 1918) e nel periodo più breve durante il quale rappresentò il Trentino alla Dieta di Innsbruck, fu certamente asburgico.
Era cattolico, profondamente legato alla patria trentina e fermamente convinto che il posto dei suoi compatrioti fosse nei domini di Casa d’Austria piuttosto che in un Paese dove la vita politica gli appariva dominata da liberali anticlericali, democratici massoni e pericolosi socialisti. Ma era anche deciso a battersi perché la componente tedesca dell’Impero non soffocasse l’identità nazional-culturale della sua regione.
Nei primi anni della sua vita politica sperò che il Trentino avrebbe recitato, nei rapporti fra Austria e Italia, la parte dell’onesto sensale. Più tardi, quando l’Austria dopo Sarajevo dichiarò guerra alla Serbia, De Gasperi approvò pubblicamente la decisione del governo imperiale e sperò che l’Italia, allora membro della Triplice Alleanza, avrebbe combattuto con l’Impero contro gli slavi del Sud o, tutt’al più, sarebbe rimasta neutrale.
I patti di Londra e l’intervento del governo Salandra nel conflitto lo costrinsero a una scelta.
Rimase al Parlamento di Vienna, ma dedicò gran parte della sua attività all’assistenza dei trentini che la sospettosa polizia austriaca aveva trasferito nei campi profughi di altre regioni dell’impero.Furono circa 80.000, divisi tra Boemia (14.000), Moravia (20.000), Austria (13.000), Alta Austria (12.000), Stiria (20.000), Salisburghese (2.000).
La «conversione» di De Gasperi all’Italia, nelle ultime settimane del 1918, fu una scelta naturale e per molti aspetti obbligata.
Se l’impero era destinato a dissolversi e il Trentino a divenire parte integrante dello Stato italiano, l’uomo che aveva rappresentato il suo popolo al parlamento di Vienna non aveva altra scelta fuor che quella di continuare a rappresentarlo al parlamento di Roma.
Era stato leale all’Austria di Francesco Giuseppe e sarebbe stato altrettanto leale, da quel momento, al nuovo Stato di cui i suoi elettori erano divenuti cittadini. Fu questa doppia lealtà, alla patria regionale e allo Stato di appartenenza, che gli permise, tra l’altro, di risolvere con il governo austriaco, nel 1946, il nodo dell’Alto Adige. Con questo piccolo miracolo diplomatico raggiunse due scopi: ottenne che la provincia di Bolzano restasse italiana e che quella di Trento godesse della stessa autonomia di cui avrebbe goduto la città di lingua tedesca. Era la battaglia che aveva fatto, da un altro campo, negli anni in cui era parlamentare a Vienna.
Sergio Romano
Corriere della sera, 29 dicembre 2006 |
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Lo scarto di voti
Caro Romano, in un telegiornale, ho sentito che George W.
Bush ha vinto le elezioni per poche centinaia di voti in più, ma non ho mai visto una reazione come da noi. L'Unione ha vinto per poche migliaia di voti in più e sta succedendo il finimondo.
Se avesse vinto con lo scarto di Bush avremmo avuto un terremoto?
Carla Nipoti, Milano
L’elezione di Bush venne fortemente contestata dal suo avversario, il candidato democratico Al Gore, e la battaglia per la verifica delle schede in Florida si concluse soltanto quando la Corte Suprema bloccò, con una sentenza molto discussa, i ricorsi di fronte ai tribunali dello Stato. Ancora oggi molti americani sono convinti che Bush non abbia vinto le elezioni del 2000. Ha certamente vinto con un ampio margine, tuttavia, quelle del 2004.
Sergio Romano
Corriere della sera, 29 dicembre 2006 |
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Iraq: perché è ragionevole andarsene adesso
Leggo che nei prossimi giorni il nostro ministro degli Esteri, D’Alema, si recherà a Washington, dove incontrerà il suo omologo, la signora Condoleezza Rice, per annunciare il ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. Attualmente, in due delle tre regioni in cui è diviso l’Iraq infuria una sanguinosissima guerra civile fra sunniti e sciiti. In questa e per questa situazione gli eserciti (americano nella provincia centrale, inglese e italiano nella provincia meridionale) sono praticamente in stand by. Tutti aspettano che con il nuovo governo si calmino le acque e si possa concordare il ritiro delle truppe e finalmente aprire la strada ad un Iraq libero e produttivo. L’Italia non aspetta, ha deciso: saluta e se ne va, promettendo una quanto mai improbabile e impossibile missione civile. Sebbene abbia pagato con un alto numero di caduti la sua presenza in Iraq, l’Italia ha deciso di lasciare tutto a mezzo. È ragionevole? Qual è il suo parere?
Renato Malgaroli
Caro Malgaroli, in una lettera al Corriere (30 maggio), Massimo D’Alema ha già risposto alla sua domanda. Ha ricordato che il governo Berlusconi aveva deciso il rientro del contingente dall’Iraq entro la fine dell’anno e ha aggiunto: «Il centrosinistra aveva fatto da tempo di questa scelta un punto irrinunciabile del proprio programma elettorale. Che cosa c’è di tanto sorprendente nel fatto che il governo confermi tale decisione?». Credo che dietro questa manifestazione di sicurezza si nasconda un certo imbarazzo. Il maggiore problema del governo Prodi non è di andarsene dall’Iraq (una decisione che appartiene ai negoziati per la formazione dell’Unione, prima dell’inizio della campagna elettorale), ma evitare l’«effetto Zapatero». Non può rimettere in discussione la propria linea, ma ha due esigenze. In primo luogo non vuole buttar via i potenziali benefici di un investimento che è costato sangue e denaro. In secondo luogo sa che la decisione infastidisce Washington e non intende pregiudicare i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Stretto fra i moderati della Margherita e i massimalisti antiamericani della sinistra radicale, il ministro degli Esteri si trincera dietro un’affermazione lapalissiana: lo avevamo deciso e lo stiamo facendo. Lei si chiede se questa decisione sia ragionevole. Sarebbe irragionevole, caro Malgaroli, se il governo americano potesse illustrarci un programmaconvincente per la ricostruzione politica ed economica dell’Iraq.Matutto ciò che Bush e i suoi collaboratori possono fare è quello di ripeterci il solito mantra delle previsioni ottimistiche e rassicuranti. Se ammettessero che i loro progetti sono falliti e ci proponessero nuove prospettive, si potrebbe parlarne. Ma se continuano a sostenere che le difficoltà sono transitorie e verranno superate, ogni discussione è inutile. La vera domanda a questo punto diventa un’altra: è ragionevole che gli americani continuino a rimanere in Iraq? Per molto tempo anch’io ho pensato che gli Stati Uniti e i loro alleati avessero l’obbligo di restare per impedire al Paese di precipitare nel buco nero di un caos senza fine. In sintesi il mio ragionamento era questo: la guerra è stata un errore, ma il ritiro renderebbe quell’errore ancora più funesto. Oggi mi chiedo se le cose siano ancora in questi termini. La presenza in Iraq di una forza d’occupazione ha avuto l’effetto di catalizzare contro un nemico comune gruppi che hanno programmi emotivazioni molto diversi: le milizie sunnite, preoccupate dalle prospettive di uno Stato dominato dagli sciiti, i militanti di Al Qaeda, decisi a servirsi dell’occasione per promuovere il loro fanatismo religioso, i quadri e i nostalgici del partito Baath, i volontari del nazionalismo panarabo. Se gli americani se ne andassero, le divergenze fra i membri di questa galassia apparirebbero evidenti e la guerra contro gli americani diventerebbe, molto più di quanto non sia, una guerra fra iracheni per il futuro del loro Paese. Non è bello, ma può essere un passaggio obbligato verso la soluzione del problema. Usciti di scena, gli americani potrebbero più facilmente scegliere il loro campione e sostenerlo. Aggiungo tuttavia per concludere, caro Malgaroli, che questa prospettiva, per ora, è irrealistica. Se Bush se ne andasse ammetterebbe la propria sconfitta e farebbe di fronte al suo Paese una sorta di harakiri. Come lui stesso ha ammesso, in un momento di sincerità, questa scelta toccherà al suo successore.
Sergio Romano
Corriere della sera, 04 giugno 2006 |
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Tre quesiti e tre risposte per tre anomalie italiane
Vorrei sapere perché in Italia ci sono 315 senatori eletti e negli Usa solo 100. Mi chiedo anche perché non ci possa essere in Italia una legge elettorale, anche proporzionale, che ponga uno sbarramento, per esempio del 5 per cento, perché un partito possa partecipare alla ripartizione dei seggi. Ci sarebbero 5 o 6 partiti in tutto! Un'altra domanda che le rivolgo riguarda la possibilità di poter considerare oneri deducibili nella dichiarazione dei redditi tutte le spese sostenute dal contribuente per parcelle di professionisti, di artigiani o di quant'altri gli prestano servizi. Tutto sarebbe più semplice, più giusto e meno dispendioso, però non si fa.
Perché?
Giuseppe Zaro - Treviso
Caro Zaro, prima domanda: perché i senatori americani sono 100 e gli italiani sono 315? Gli Stati Uniti nacquero dall'unione fra tredici colonie, ciascuna delle quali desiderava conservare il massimo di autonomia compatibile con il patto federale che aveva sottoscritto. Fu deciso che ogni Stato della Federazione, indipendentemente dalle sue dimensioni e dal numero dei suoi abitanti, avrebbe mandato al Senato due rappresentanti. Ma un cittadino americano non è rappresentato soltanto dai suoi due senatori. È rappresentato anche dai membri della Camera dei rappresentanti e, per le questioni locali, dai parlamentari dello Stato in cui risiede. Detto questo, è certamente vero che in Italia i senatori e i deputati sono troppi. Ma le ricordo, caro Zaro, che la riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi prevedeva tra l'altro una considerevole diminuzione del numero dei parlamentari e che è stata bocciata dagli italiani con il referendum del giugno 2006. Seconda domanda: perché non alziamo la soglia di sbarramento al 5 o al 6 per cento? La legge elettorale del 1993 prevedeva, per i deputati eletti con scrutinio proporzionale, una soglia di sbarramento del 4 per cento. Ma la clausola non impedì l'elezione di candidati di partiti minori nei seggi uninominali e, durante la legislatura, scissioni, formazione di nuovi partiti e passaggi da un campo all'altro che hanno spesso stravolto i risultati elettorali e sfacciatamente trascurato la volontà degli elettori. La legge elettorale del 2005 ha abbassato al 2 per cento, per i partiti apparentati, la soglia di sbarramento. Come lei suggerisce occorrerebbe portarla almeno al 5 per cento. Ma è difficile immaginare che una norma così giustamente severa venga votata da coloro che dall'abbassamento della soglia hanno tratto vantaggio. Esiste per fortuna un progetto di referendum abrogativo che eliminerebbe alcuni degli aspetti peggiori della legge con cui abbiamo votato qualche mese fa. A giudicare dalla sua ultima conferenza stampa, il presidente del Consiglio vorrebbe evitare il referendum con una nuova legge approvata dal Parlamento. Staremo a vedere. Terza domanda: perché il fisco italiano non consente la deduzione, nella denuncia dei redditi, delle spese sostenute per prestazioni professionali, lavori artigianali, servizi? La questione è stata sollevata su questa pagina in occasione di una trasmissione televisiva a cui ha partecipato il ministro dell'Economia, e qualche lettore ha osservato che non esisterebbe alcun Paese in cui tutte le spese siano deducibili. Ma non c'è dubbio che il fisco italiano dovrebbe essere, in materia di deduzioni, più disponibile. Credo che questo non accada perché esiste in Italia, soprattutto in alcune regioni, un considerevole numero di fornitori e clienti decisi a evitare l'Iva e uniti da un patto in cui ciascuna delle due parti sostiene con il proprio silenzio il silenzio dell'altra. Forse è questa una delle maggiori macchie sul volto del Paese. Chi paga le tasse le paga anche per qualcun altro.
Sergio Romano
Corriere della sera, 02 gennaio 2007 |
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Il processo ai nazisti
Norimberga: la giustizia e i vincitori
Il diritto internazionale non nasce con la «giustizia dei vincitori»
di
Sergio Romano
Le discussioni e gli scambi di vedute fra gli Alleati sulla sorte dei leader sconfitti cominciarono agli inizi del 1944. Churchill sapeva che le clausole dei trattati di Versailles sui «criminali di guerra » erano state ignorate e disse a Stalin, un giorno, che sarebbe stato meglio giustiziarli sul posto, senza indugio, al momento della cattura. Ma il «meraviglioso georgiano» gli rispose severamente che «in Unione Sovietica noi non giustiziamo senza processo». Era una dichiarazione «inglese», ispirata ai principi della tradizione giuridica britannica.
Churchill avrebbe potuto chiedergli se i processi a cui pensava non fossero per caso quelli delle grandi purghe che il dittatore aveva organizzato negli anni Trenta per sbarazzarsi dei suoi avversari. Ma preferì accusare il colpo e rispondere: «Naturalmente, naturalmente, ci vorrà un processo».
In America, nel frattempo, le soluzioni prospettate erano due. Secondo quella radicalmente punitiva del segretario al Tesoro Henry Morgenthau, i pesci grossi sarebbero stati giustiziati, i pesci piccoli cacciati ai confini del mondo e i prigionieri di guerra tedeschi impiegati come schiavi per la ricostruzione dell’Europa. Secondo il dipartimento della Guerra, invece, occorreva un processo in cui i leader sarebbero stati accusati di crimini di guerra o contro l’umanità e l’intero regime nazista sarebbe stato considerato un’«associazione a delinquere». Prevalse la seconda tesi. Dopo una decisione di principio a Yalta nel febbraio del 1945, la macchina americana fu più rapida delle altre. Alla fine di aprile, due settimane dopo la morte di Roosevelt e poco prima del suicidio di Hitler, il tribunale aveva già un pubblico ministero nella persona di Robert Jackson, giudice della Corte suprema. Ma era necessario scegliere una città, possibilmente in Germania, redigere un capo di accusa e, soprattutto, scrivere una specie di codice a cui giudici, pubblici ministeri e avvocati difensori avrebbero potuto appellarsi. Non bastava individuare gli imputati. Occorreva soprattutto inventare i canoni e le procedure di una nuova giustizia penale internazionale.
La città fu Norimberga, sede dei grandi raduni nazisti e luogo in cui erano state emanate le famigerate leggi razziali del 1935. Fu scelta per una sorta di ironica rappresaglia? No, le ragioni furono soprattutto pratiche. I bombardamenti alleati ne avevano distrutto più della metà, ma avevano lasciato miracolosamente intatti il palazzo di giustizia e il migliore albergo. Esistevano quindi un’aula per i dibattimenti, le celle per i carcerati, gli uffici per i giudici e i procuratori, i letti per gli addetti ai lavori e per i giornalisti. Restava da redigere il codice che si chiamò, alla fine dei lavori preparatori, «Carta del Tribunale militare internazionale». La maggiore preoccupazione fu quella di evitare che il processo si trasformasse in un comizio e che gli imputati approfittassero della presenza della stampa internazionale per lanciare al mondo i loro messaggi. Fu deciso che nessuno avrebbe avuto il diritto di invocare l’obbedienza agli ordini ricevuti o rimproverare le potenze accusatrici di avere commesso, in alcune circostanze, gli stessi crimini. In altre parole, il maresciallo dell’aria Göring non avrebbe potuto ricordare agli Alleati il bombardamento di Dresda e Alfred Rosenberg, teorico del razzismo, non avrebbe potuto evocare l’ombra dei 25 mila ufficiali polacchi massacrati dai sovietici nella foresta di Katyn.
Queste preoccupazioni furono in buona parte inutili. Forse l’aspetto più interessante del primo processo, e degli undici che si susseguirono fino al 1949, fu il grado di collaborazione degli imputati. Qualcuno (Göring in particolare) fu spavaldo e arrogante. Altri cercarono di difendersi, di giustificarsi e di attenuare le loro responsabilità (Albert Speer fu particolarmente abile).Ma alcuni di essi (i militari e i grandi tecnici ad esempio) si comportarono come gentiluomini tedeschi, educati nell’etica protestante della verità e della responsabilità, impegnati ad attraversare con la maggiore dignità possibile il momento più difficile della loro vita. Ne avevano dato prova, del resto, nei lunghi interrogatori che precedettero l’inizio del dibattimento. Uno storico inglese, Richard Overy, ha raccolto alcuni verbali in un volume, pubblicato da Mondadori nel 2002 (Interrogatori. Comegli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich) e ha indirettamente dimostrato che quegli uomini volevano lasciarsi alle spalle, per quanto possibile, la verità. Accadde persino che gli Alleati, sorpresi dall’atteggiamento dei futuri imputati, chiedessero ad alcuni di essi di preparare appunti e memorandum sul futuro della Germania.
Il primo processo cominciò alle dieci del mattino del 20 novembre. Il presidente del tribunale era un magistrato inglese, sir Geoffrey Lawrence e il collegio si componeva di un giudice principale e di un giudice supplente per ciascuna delle quattro potenze alleate. Gli imputati erano 21, schierati in fondo alla sala: da Karl Dönitz, capo del governo provvisorio dopo la morte di Hitler, a Albert Speer, ministro degli Armamenti, e Julius Streicher, direttore di una rivista antisemita. Erano soltanto una parte del Terzo Reich, risultato di una sorta di decimazione provocata dalle circostanze. Ma bastavano a un collegio giudicante che voleva soprattutto dare un esempio, lasciare agli atti della storia la propria versione del conflitto e creare una nuova categoria del diritto internazionale: lo «Stato canaglia», una categoria che gli americani hanno rimesso di moda in questi ultimi anni.
Tutti ascoltarono attentamente attraverso le loro cuffie la lunga arringa con cui Jackson aprì il dibattimento: una storia del nazismo dalla fase che precedette la conquista del potere sino ai crimini contro la classe operaia, le Chiese, gli ebrei, la pace e l’umanità. Quando Jackson richiuse la cartella che aveva tenuta aperta sotto i suoi occhi, il presidente del tribunale rinviò la seduta al giorno seguente per l’interrogatorio degli imputati. Il primo fu Göring, tracotante, provocatorio, il solo che sfuggì alla morte con una pillola di cianuro. Avrei accettato la fucilazione, scrisse in un ultimo messaggio alla corte, ma non posso accettare la corda emorirò come Annibale. Le esecuzioni furono dieci, le assoluzioni tre, gli altri imputati furono condannati all’ergastolo e a pene più brevi. Vi furono nei mesi seguenti altri undici processi contro magistrati del regime, medici che avevano applicato terapie inumane e spietati membri degli Einsatzgruppen, le formazioni speciali che soppressero decine di migliaia di ebrei in Europa orientale. Molti capirono subito che questa «giustizia dei vincitori » presentava troppi inconvenienti.Ma sperarono che quei processi aprissero un nuovo capitolo del diritto internazionale. Così sarebbe accaduto, effettivamente, se anche la maggiore potenza, negli anni Novanta, avesse accettato di sottoporre i propri cittadini alla giustizia del mondo. Ma gli Stati Uniti hanno rifiutato di ratificare il trattato per la costituzione del Tribunale penale internazionale e non vogliono che i loro cittadini siedano sul banco degli accusati. Il bicchiere della giustizia internazionale rimane mezzo vuoto.
Corriere della sera, 03 gennaio 2007 |
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Pietro Bastogi e altri «banchieri della rivoluzione»
È noto che all'alba dell'unificazione nazionale Cavour poté contare, nel fronteggiare gli enormi problemi finanziari del nuovo Regno, sulla collaborazione di Pietro Bastogi, un banchiere livornese che si distinse per il pragmatismo, la lungimiranza e la modernità delle sue indicazioni. Se ben ricordo, aveva capito che il maggior gettito fiscale sarebbe derivato essenzialmente dall'impulso dell'attività economica (favorita dalla riduzione dei dazi doganali) e che lo sviluppo del commercio e dell'industria esigeva l'ampliamento delle comunicazioni. Da qui, fra l’altro, la sua insistenza nel richiedere un vasto programma di opere pubbliche. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più intorno a questo personaggio.
Ezio Avaldi - Provaglio d'Iseo (Bs)
Caro Avaldi,
nei primi anni dell’Unità la classe dirigente nazionale fece molto rapidamente ciò che l’Europa cominciò a fare con i Trattati di Roma del marzo 1957. Creò un mercato unico.
Sostituì i sistemi monetari degli Stati preunitari con una moneta unica. Adottò una tariffa doganale comune, particolarmente liberale, che dette un considerevole impulso agli scambi commerciali della penisola con il resto dell’Europa.
Privatizzò il patrimonio demaniale degli Stati preunitari. Costruì una rete di infrastrutture (strade, porti, ferrovie, comunicazioni telegrafiche) che contribuì ad accorciare le distanze geografiche e culturali del Paese.
Pietro Bastogi fu certamente uno dei maggiori protagonisti di questo primo «miracolo italiano». Dopo essere stato eletto alla Camera toscana nel 1848, si avvicinò a Cavour, ne conquistò la fiducia e divenne ministro delle Finanze nel governo del 1861, vale a dire nel momento in cui vennero prese alcune delle decisioni economiche e finanziarie che avrebbero segnato il futuro dello Stato unitario. Da allora rimase in Parlamento, ma fu soprattutto finanziere. Creò la Banca toscana di credito e promosse la Società delle strade ferrate meridionali della quale ebbe la presidenza. Fu un moderato liberale, insomma, nello stile della classe dirigente che tenne per parecchi anni il timone del Paese.
Ma occorre ricordare che Bastogi, prima di diventare uno dei maggiori esponenti del liberalismo economico italiano, era stato mazziniano e quindi, per molti aspetti, rivoluzionario.
In un articolo pubblicato dal Bollettino della Domus Mazziniana, Romano Paolo Coppini ricorda che fu cassiere della Giovane Italia a Livorno nel 1833 e propagatore delle idee della associazione a Pisa. Qualcuno sostiene che vi furono due incontri con Mazzini, a Marsiglia e a Londra, e uno scambio di corrispondenza nel 1838 quando l’esule genovese avrebbe chiesto un prestito di 4000 franchi «da restituire dopo due anni, con un utile competente e come s’usa».
Un rivoluzionario divenuto banchiere? Esistono altri casi.
Penso a Enrico Cernuschi, a cuiNino Del Bianco ha dedicato una bella biografia apparsa recentemente presso l’editore Franco Angeli («Enrico Cernuschi.
Uno straordinario protagonista del nostro Risorgimento »). Partecipò alle Cinque giornate nel 1848, fu tra i difensori della Repubblica Romana nel 1849, venne incarcerato, ma poté rifugiarsi in Francia dove partecipò alla fondazione della Banque de Paris e pubblicò trattati sul bimetallismo e sul commercio internazionale.
Dopo la guerra franco-prussiana e i moti rivoluzionari della Comune di Parigi, fece un lungo viaggio in Oriente da cui tornò con una vasta collezione d’arte orientale che donò più tardi alla città di Parigi e che è tuttora esposta nel suo palazzo del Parc Monceau.
Ma il caso più singolare è probabilmente quello di un ebreo russo, Aleksandr Gelfand, che divenne a Berlino, nei primi anni del Novecento, un fortunato uomo d’affari.
Negli anni del movimento bolscevico, tuttavia, Gelfand è meglio noto con il nome di Parvus.
Fu lui che finanziò per alcuni anni gli esuli russi in Europa e soprattutto che ottenne dal governo tedesco il «treno blindato» attraverso la Germania con cui Lenin e altri comunisti giunsero a Pietrogrado nella primavera del 1917 per preparare l’insurrezione dell’ottobre.
Sergio Romano
Corriere della sera, 03 gennaio 2007 |
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Perché gli americani sono grati a Gerald Ford
Mi danno grande fastidio tutti gli elogi per Gerald Ford. il presidente americano che non fu mai eletto.
Non ho nessuna simpatia per un presidente che non conosceva il Trattato di Pace di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918 e che con il perdono di Richard Nixon fece diventare i Repubblicani rispettabili di nuovo e troppo presto. Se le investigazioni sulla «escapade» di Watergate di Richard Nixon fossero continuate fino alla loro logica conclusione, magari Ronald Reagan, George H. Bush e misericordiosamente anche George W. Bush non sarebbero mai stati eletti presidenti degli Stati Uniti.
Questa sarebbe stata la più grande benedizione per l'America. Lei che cosa ne pensa?
Andre Nicolai
Caro Nicolai, se lei mi avesse detto che Gerald Ford non conosceva l'esistenza del Trattato di Versailles, ne sarei stato scandalizzato. Ma l'ignoranza del Trattato di Brest-Litovsk concluso nel marzo del 1918 fra la Russia di Lenin e gli imperi centrali, mi sembra, soprattutto per un uomo politico americano, un peccato veniale. Quando venne indicato dal Congresso per la vicepresidenza degli Stati Uniti, dopo lo scandalo che costrinse Spiro Agnew a dimettersi, Ford era un congressman stimato e rispettato, allevato nella «cucina» della politica americana e poco attratto dai grandi temi della politica internazionale. Le confesso che anch'io sono stato un po' sorpreso dagli onori che molti commentatori americani gli hanno tributato in occasione della sua morte. Fino a qualche anno fa il suo nome, in America, provocava soltanto sorrisi di commiserazione, battute sarcastiche e barzellette taglienti sulle sue distrazioni e le sue gaffe. Ma dopo la lettura dei necrologi credo di avere capito le ragioni per cui molti americani, abbastanza vecchi per ricordare il periodo in cui divenne presidente, abbiano con lui un debito di gratitudine. Quando Ford succedette a Nixon, gli Stati Uniti stavano attraversando uno dei periodi più difficili della loro storia. Non conosco la sua età e non so da quanti anni lei viva negli Stati Uniti, ma posso assicurarle che tra la seconda metà degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta l'America fu per molti aspetti in una situazione prerivoluzionaria. La guerra del Vietnam aveva provocato numerose rivolte giovanili. I campus universitari erano diventati vivai di contestazione e ribellione. Washington era attraversata da cortei di manifestanti. La bandiera americana e le cartoline precetto venivano bruciate sulla pubblica via. I ghetti neri delle grandi città erano teatro di insurrezioni e saccheggi. Gli attentati terroristici e le manifestazioni di violenza erano all'ordine del giorno. La piccola criminalità era diventata sempre più diffusa: a tal punto che l'attraversamento di Central Park a New York, in certe ore del giorno e della notte, era vivamente sconsigliato. Stretta fra una guerra perduta e una diffusa rivolta sociale, l'America fu per qualche tempo sull'orlo di una crisi di nervi. Con il suo stile paterno e il suo buon senso, Gerald Ford fu la persona giusta per pilotare il Paese al di là di quello che egli stesso definì «l'incubo nazionale». Il perdono giudiziario concesso a Richard Nixon venne accolto molto criticamente e fu forse la principale ragione del suo scacco alle elezioni presidenziali del 1976. Mi chiedo tuttavia che cosa sarebbe accaduto se vi fosse stato, in quelle circostanze, un processo al re. Ho scritto «re», caro Nicolai, perché il presidente degli Stati Uniti è un monarca elettivo a cui vengono tributati in alcuni momenti della sua vita (il giuramento all'inizio del mandato, il discorso sullo stato dell'Unione, il funerale) onori reali. Nixon non avrebbe fatto la fine di Carlo I e Luigi XVI, decapitati sulla pubblica piazza. Ma un presidente sul banco degli accusati e dopo la sentenza, probabilmente, in prigione, avrebbe eccitato gli umori anti- istituzionali di una parte del Paese e ne avrebbe aggravato la crisi. In questi giorni i giornali americani hanno ricordato che il senatore Edward Kennedy pronunciò allora una forte critica del provvedimento, ma ha ammesso ora di avere cambiato opinione.
Sergio Romano
Corriere della sera, 04 gennaio 2007 |
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Come essere ebrei nel regime degli Ayatollah
Leggendo sul Corriere un articolo sulla conferenza che si è tenuta a Teheran sull'Olocausto, ho appreso che in Iran vive una comunità di circa 25.000 ebrei e che un loro rappresentante è stato eletto al parlamento iraniano. Considerate le attuali posizioni della dirigenza iraniana in merito a Israele, la notizia mi ha molto sorpreso. Come è possibile che uno Stato dichiaratamente anti-israeliano, il cui presidente dichiara espressamente la sua aspirazione a distruggere Israele, tolleri poi la presenza di ebrei nei suoi confini? È vero che diversi Paesi musulmani intrattengono relazioni diplomatiche con Israele, ma la presenza di una comunità ebraica in Iran mi sembra un controsenso con la politica estera di questo Paese e le posizioni politiche e religiose della sua leadership. Mi piacerebbe avere qualche notizia in merito a questa comunità, alla sua storia e alla sua dottrina religiosa e conoscere il comportamento dello Stato iraniano nei suoi confronti, così come vorrei avere informazioni in merito a eventuali altre comunità ebraiche che vivano in Paesi musulmani.
Diego Lambertini
Caro Lambertini, alle esequie per la morte di Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro, parteciparono, seduti a breve distanza, il presidente iraniano Mohammad Khatami e il presidente israeliano Moshe Katsav. Quando s'incrociarono e si strinsero la mano, il secondo indirizzò al primo qualche parola di saluto in farsi, la lingua indoeuropea dei persiani che Katsav, nato in Iran, conosce perfettamente. Secondo il "Jewish Year Book" del 1902 (una pubblicazione inglese che conteneva informazioni sull'ebraismo mondiale e sulle sue maggiori istituzioni e personalità), gli ebrei iraniani erano agli inizi del Novecento 35.000. Mezzo secolo più tardi, al momento della costituzione dello Stato d'Israele, ve n'erano circa 150.000. Gli emigranti, fra il 1948 e il 1968, furono più o meno 55.000. Ma nel 1971, secondo l'"Enciclopedia Giudaica", vivevano ancora in Iran 80.000 ebrei. Il numero diminuì considerevolmente dopo la rivoluzione iraniana del 1978, quando il regime degli Ayatollah adottò una virulenta politica antisionista. Ma questo non impedì ai due Paesi di continuare ad avere, sia pure informalmente, rapporti economici (alcuni uomini d'affari israeliani hanno visitato l'Iran con discrezione qualche mese fa) e a un numero imprecisato di ebrei (35.000 secondo alcuni, 25.000 secondo altri) di restare in Iran. Vi fu un processo a Shiraz nel 2000 contro tredici ebrei accusati di spionaggio a favore di Israele. Tre vennero rilasciati e dieci condannati a pene fra i 4 e i 13 anni di carcere. Si trattò probabilmente di un episodio nella battaglia che i conservatori del regime stavano conducendo contro la politica "troppo " riformatrice dell'Ayatollah Khatami. La comunità ebraica è rappresentata in parlamento da un deputato, Maurice Mohtamed, che giura fedeltà allo Stato sull'Antico Testamento, ha sinagoghe e ospedali, celebra i propri riti funebri, presta servizio militare, può lavorare nella funzione pubblica. Vi sono occasionalmente segnali di giudeofobia in alcuni giornali, come all'epoca dell'ultima guerra libanese. Ma il leader della comunità ebraica, Unees Hammami, intervistato dalla Bbc qualche mese fa, ha ricordato che gli ebrei iraniani sono gli eredi degli ebrei babilonesi che Ciro il Grande riscattò dalla prigionia nel 538 a.C., quando l'impero persiano conquisto la Mesopotamia. È questa la ragione per cui il regime li tratta, per certi aspetti, come una sorta di reliquia nazionale. Il recente convegno di Teheran sull'Olocausto, a cui lei fa riferimento, ne è paradossalmente una conferma. Il presidente Ahmadinejad sta conducendo una dissennata campagna revisionista ed è riuscito a screditare in tal modo persino gli argomenti meno contestabili della politica iraniana. Ma per dare credibilità alla sua iniziativa è riuscito a scovare qualche compiacente rabbino antisionista (ne esistono parecchi). Era un modo per affermare, nello spirito dell'Ayatollah Khomeini fondatore della Repubblica islamica, che l'Iran non confonde l'ebraismo con il sionismo. Esistono altre comunità ebraiche nel mondo musulmano. Ma nessuna di esse è importante come quella iraniana.
Sergio Romano
Corriere della sera, 05 gennaio 2007 |
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Come tenere lo Stato fuori da Palazzo Koch
Il governatore Draghi ha recentemente parlato della proprietà della Banca d'Italia. Credo che la maggior parte degli italiani, come me, abbia sempre pensato che la Banca d'Italia fosse di proprietà dello Stato. Posso chiederle in che modo la Banca d'Italia è diventata privata? O meglio, è mai stata davvero di proprietà pubblica? O ancora, se mai è stata ceduta dallo Stato alle banche private, quando e a quali condizioni ciò è avvenuto? Ma a partire da questo dato storico: quali pretese potrebbero accampare i proprietari privati della Banca d'Italia per restituirla allo Stato?
Edoardo Pilia
Caro Pilia, la Banca d'Italia fu figlia di uno delle peggiori vicende della storia nazionale. Nell'anno della sua costituzione (1893), l'Italia aveva sei istituti di emissione: la Banca Nazionale nel Regno, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia e, dal 1870, la Banca Romana. Fu quest'ultima, alla fine degli anni Ottanta, la pietra dello scandalo. Quando una ispezione ministeriale accertò nel 1889 che l'istituto romano aveva emesso denaro al di là del limite consentito e addirittura stampato «doppioni» per una somma pari a nove milioni, la rivelazione travolse il governo Giolitti, sfiorò la monarchia e intaccò l'immagine di alcuni fra i maggiori uomini politici italiani. Il grande merito di Giolitti, prima delle dimissioni, fu quello di preparare una legge sul «riordinamento degli istituti di emissione» che venne approvata nell'agosto del 1893. Fu deciso che tre banche (la Banca Nazionale e le banche toscane) si sarebbero fuse e avrebbero creato una società per azioni denominata Banca d'Italia a cui fu affidato, dieci mesi dopo la sua nascita, il servizio di tesoreria dello Stato. L'Italia ebbe quindi da quel momento una banca centrale privata, autorizzata a svolgere, per conto e nell'interesse dello Stato, un certo numero di funzioni. Tralascio i passaggi successivi, caro Pilia, e vengo alla legge bancaria del 1936, adottata dal governo Mussolini dopo il terremoto industriale e finanziario provocato dalla grande crisi americana del 1929, ma scritta in buona parte dai vertici della Banca. Come ricorda Alfredo Gigliobianco nel suo libro su «Via Nazionale» edito da Donzelli nel 2006, la Banca d'Italia «fu riconosciuta formalmente come un istituto di diritto pubblico: le azioni in mano ai privati furono rimborsate e le quote di partecipazione al capitale furono riservate solo a particolari enti (casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, istituti di previdenza e di assicurazione)». E la sua azione creditizia «prima estesa a tutti gli operatori (industrie, privati ecc.) fu limitata al settore bancario». La situazione oggi è quella di allora, ma con una importante differenza: le banche proprietarie sono diventate, negli anni Novanta, private. Non è opportuno, naturalmente, che la Banca centrale sia posseduta da coloro su cui deve esercitare il suo controllo. Per la verità questo potenziale conflitto d'interessi non ha mai impedito a Via Nazionale di fare il suo lavoro. Ma certe promiscuità è meglio evitarle. Si è tentato di farlo con la legge sul risparmio, approvata nell'ultima legislatura e dovuta in buona parte a Giulio Tremonti, che prevede il trasferimento coatto delle quote detenute dagli attuali proprietari per la somma di 800 milioni di euro. Come ha spiegato Massimo Mucchetti in un articolo apparso nel Corriere del 10 dicembre, la legge suscita qualche obiezione. La Banca è preoccupata soprattutto della propria autonomia e non vuole diventare «statale», mentre le banche sostengono che l'istituto di Via Nazionale non vale 800 milioni, ma fra i 12 e i 15 miliardi, se non addirittura 40. È probabilmente vero, ma Mucchetti ricorda che le attività della Banca d'Italia sono svolte «in regime di esclusiva per conto dello Stato» e che «l'investimento reale fatto dai quotisti è pari a 156 mila euro del '36 che equivalgono a 275 milioni di oggi». Alla fine del suo articolo l'autore si chiede quale sia il modo migliore per assicurare l'autonomia della Banca d'Italia e garantire ai proprietari un equo rimborso. La risposta, se ho ben capito, è questa. Bisognerebbe anzitutto che i proprietari si accontentassero di una somma più modesta, anche se superiore a quella prevista da Tremonti. E si potrebbe permettere «il riacquisto delle quote a opera della Banca d'Italia (che ne avrebbe i mezzi) e la loro contestuale riassegnazione all'intero sistema bancario in tante piccole carature con rigidi vincoli al possesso e al commercio delle medesime». Insomma la Banca d'Italia, se ho ben capito, diventerebbe una sorta di public company, vale a dire un istituto in cui il vero responsabile, di fronte al Paese è il suo vertice.
Sergio Romano
Corriere della sera, 07 gennaio 2007 |
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La Resistenza tedesca e l'Urss, secondo Montanelli
Ho letto il libro «Morire in piedi» di Montanelli in cui è scritto che von Stauffenberg voleva portare la Germania dalla parte dei russi.
Questo mi rende perplesso per tre motivi.
Il primo è che von Stauffenberg era prussiano e i prussiani non stimavano affatto i russi.
Il secondo è che era un militare di carriera e questi notoriamente non hanno affatto simpatie per i comunisti.
Il terzo è che von Stauffenberg veniva dal fronte e quindi conosceva il soldato tedesco.
Come poteva pensare che potesse allearsi con i russi da cui era diviso da una barriera culturale che invece era molto sottile con i soldati alleati?
Senza aggiungere altro, i tedeschi sul fronte orientale hanno combattuto con una disperazione che sul fronte occidentale non avevano.
Questo perché sapevano, come del resto la popolazione, chi era il nemico più temibile.
Qual è il suo pensiero?
Carlo Gregoretti
Caro Gregoretti, «Morire in piedi» è per molti aspetti un libro pioniere. Montanelli fu tra i primi a comprendere che vi era stata nella classe dirigente tedesca, durante il nazismo, una forte resistenza anti-hitleriana. E fu tra i primi a mettere in discussione la tesi alleata secondo cui il Terzo Reich era soltanto l'ultima incarnazione d'una Germania allergica alla democrazia, inguaribilmente militarista e imperiale. Ma anch'io sono stato sorpreso dalla pagina in cui Montanelli considera il conte Klaus von Stauffenberg un esponente dell'ala sinistra del «circolo di Kreisau» (il gruppo di aristocratici prevalentemente prussiani che auspicava la fine del regime) e gli attribuisce il desiderio di un'alleanza con l'Unione Sovietica per salvare la Germania dall'offensiva alleata in Occidente. Ho sempre avuto l'impressione che l'autore dell'attentato contro Hitler fosse soprattutto un patriota, privo di una particolare strategia politica, desideroso di fare sapere al mondo che esisteva un'altra Germania. Quando la situazione politica era ormai difficilmente modificabile, il colonnello Tresckow scrisse a Stauffenberg dal fronte orientale: «Il tentativo deve essere fatto, costi quel che costi. Anche se non sarà coronato dal successo occorre agire a Berlino. Il problema non è più quello dei fini pratici dell'operazione, ma di dimostrare al mondo e alla storia che il movimento tedesco della Resistenza ha osato fare un passo decisivo. In confronto nient'altro è importante». Ciò detto, caro Gregoretti, non credo che l'idea di un accordo con i russi fosse del tutto incompatibile con la formazione e la cultura della casta militare tedesca. Von Stauffenberg non era prussiano. Apparteneva a una vecchia famiglia della Germania meridionale ed era nato nei pressi di Günzberg in Baviera. Ma non aveva certo dimenticato gli straordinari rapporti di collaborazione militare che si erano instaurati tra la Repubblica di Weimar e la Russia bolscevica dopo il trattato firmato a Rapallo nel 1922 dal ministro degli Esteri tedesco Walther Rathenau e dal ministro sovietico Boris Cicerin. Le fabbriche tedesche avevano lavorato per l'Urss e i sovietici avevano permesso all'esercito tedesco di fare in Russia esercitazioni e sperimentazioni che non avrebbe potuto fare sul territorio nazionale senza violare le clausole del trattato di pace. I rapporti fra Russia e Germania sono sempre stati molto forti e caratterizzati da una intensa attrazione reciproca, con fasi alterne di amicizia e ostilità. La Russia si è occidentalizzata, soprattutto dal Settecento in poi, grazie all'influenza tedesca. E i tedeschi hanno avuto una parte determinante sia nel decollo dell'industria russa alla fine dell'Ottocento, sia nel primo Piano quinquennale lanciato da Stalin alla fine degli anni Venti. I cordiali rapporti che il cancelliere Gerhard Schröder strinse con Vladimir Putin, prima delle ultime elezioni tedesche, non sono che l'ultimo capitolo di una vecchia storia.
Sergio Romano
Corriere della sera, 08 gennaio 2007 |
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Sigonella: perché Craxi fece la cosa giusta
Avrà ricevuto molte lettere dove si chiede se sia stato giusto a meno impiccare Saddam Hussein. Io distolgo la sua attenzione per rivolgerla a un'altra disputa, a mio avviso, di non minor rilievo. In questi giorni è stata intitolata ad Hammamet una via a Bettino Craxi e in Italia si sta pensando di fare altrettanto. Gli Amici di Informazione Corretta hanno invitato alla «crociata»: vie a Craxi no, sì all'ebreo americano Klinghoffer vittima del terrorismo palestinese. A Craxi viene mossa l'accusa di avere favorito la fuga dei capi dei terroristi assassini negando, come richiesto, la loro consegna al governo americano. Non capisco l'ostracismo nei confronti di Craxi quando la sua decisione nell'affare Achille Lauro-Sigonella fu presa di concerto con due politici di grosso spessore quali Andreotti e il compianto senatore Spadolini. Mi domando perché per il senatore Spadolini nessuna «battaglia» anti lapidi e ricordi «viari», e per Craxi sì?
Giuseppe Casarini, Binasco (Mi)
Caro Casarini, sono giunte molte lettere, per la verità, anche sulla via intitolata a Craxi, sulla vicenda di Sigonella e sull'assassinio di un passeggero ebreo dell'Achille Lauro, Leon Klinghoffer. Diffido delle battaglie toponomastiche, spesso provocate dal desiderio di marcare un punto contro l'avversario piuttosto che da quello di rendere onore a una persona. Ma raccolgo l'invito e cercherò di spiegare (non è la prima volta) ciò che penso della vicenda di Sigonella. Debbo anzitutto, tuttavia, correggere i suoi ricordi. Craxi poté certamente contare su Giulio Andreotti, che era ministro degli Esteri e condusse insieme a lui il lungo negoziato con gli americani durante la notte del 7 ottobre 1985. Ma non potè contare su Giovanni Spadolini, allora ministro della Difesa e leader del Partito repubblicano. Il Pri non condivise la scelta di Craxi, adottò una posizione filoamericana e lasciò il governo provocando una crisi che si risolse alla fine di ottobre con il rinvio alle Camere del presidente del Consiglio. Sulla sostanza della vicenda temo di non avere cambiato opinione. Nella sua veste di premier Craxi fece con molto impegno e qualche utile contatto personale una politica medio-orientale ispirata alla dichiarazione del Consiglio europeo, rilasciata a Venezia il 13 giugno 1980, in cui si riconoscevano i diritti del popolo palestinese e si auspicava che l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina venisse associata ai negoziati. Quando il dirottamento dell'Achille Lauro, organizzato dall'ala radicale dell'Olp, rischiò di pregiudicare qualsiasi prospettiva negoziale, Craxi si servì dei suoi contatti con Arafat per ottenere il rilascio della nave. L'assassinio di Klinghoffer fu un atto brutale e spietatamente gratuito (quasi un gesto di rabbia per il modo in cui la vicenda si era conclusa), ma Craxi riuscì a impedire che i passeggeri divenissero le pedine di un ricatto terroristico. In quelle circostanze non fu cosa da poco. Avrebbe dovuto consegnare agli americani i dirottatori dell'Achille Lauro quando l'aviazione degli Stati Uniti costrinse il loro aereo ad atterrare sull'aeroporto di Sigonella? A mio avviso, no. Vi era stato un accordo e Craxi, nell'interesse della credibilità del governo italiano, aveva l'obbligo di rispettarlo. Se vuole sapere come andarono le cose nella notte del 7 ottobre, caro Casarini, le consiglio la lettura di un libro a cura di Alessandro Silj che raccoglie scritti di Andreotti, Antonio Badini (il consigliere diplomatico di Craxi a Palazzo Chigi) e di alcuni americani coinvolti nella vicenda («L'alleato scomodo. I rapporti fra Roma e Washington nel Mediterraneo: Sigonella e Gheddafi», Corbaccio 1998). Silj racconta che gli americani non chiesero alcuna autorizzazione al governo italiano. Si limitarono a informare Craxi dell'intercettazione durante la notte, quando gli aerei degli Stati Uniti erano già nello spazio aereo di Sigonella; e non gli dissero che insieme all'aereo egiziano e ai caccia di scorta, sarebbero scesi sulla pista dell'aeroporto siciliano anche due C-41 da trasporto, né che alla base già erano atterrate altre truppe speciali americane. Fu questo il contesto in cui Craxi decise di non consegnare il commando palestinese agli americani. Post scriptum. Craxi ebbe un amichevole scambio di vedute con Ronald Reagan qualche giorno dopo a New York e ottenne in quella occasione la piena partecipazione dell'Italia al G7. Quasi tutti gli americani coinvolti nella vicenda, d'altro canto, si sono convinti nel frattempo che la Casa Bianca abbia gestito male l'intera vicenda. Soltanto in Italia qualcuno continua a pensare che Craxi abbia sbagliato.
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 gennaio 2007 |
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L’eredità economica
L’eredità economicaCaro Romano, l’onorevole Berlusconi ha criticato aspramente il presidente Prodi per aver addebitato al governo precedente, la pesante eredità economica ricevuta. Ricordo male o l'onorevole Tremonti, fu ospitato dal Tg1 delle ore venti per denunciare, con tanto di grafici, un buco nei conti pubblici di proporzioni enormi? Buco, oltretutto, mai certificato. Gli italiani e i media hanno la memoria corta o forse la troppa serietà non paga?
Roberto Accurso
Quando si attribuisce tutti i meriti del gettito fiscale del 2006, Berlusconi esagera. Ma il buco a cui lei fa riferimento c’era. Lo ha dimostrato Luca Ricolfi in un libro pubblicato dal Mulino nel 2005 («Dossier Italia. A che punto è il contratto con gli italiani»).
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 gennaio 2007 |
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Torino 1861: il sogno fallito di uno Stato decentrato
Alcune correnti attuali sostengono che si dovrebbe descrivere la riunificazione italiana come una conquista dell'Italia da parte del Piemonte. Dopo il Risorgimento infatti il modello piemontese fu instaurato in tutte le regioni senza tenere conto delle differenze. Questo modo di fare provocò fratture e dislivelli. Il sistema si allargò, ma perdette le sue basi e di conseguenza si svuotò. Qual è la sua opinione ?
Lorenzo Freschi
Caro Freschi, nella storia dell'unità nazionale il ruolo del Piemonte fu decisivo. Nessun altro Stato, nella penisola, aveva la forza militare, la classe politico-amministrativa e soprattutto le ambizioni necessarie per il raggiungimento di un obiettivo di tale respiro. È vero che non vi fu dietro la politica piemontese un grande, travolgente movimento di popolo. Ma il regno dei Savoia divenne sin dal 1849 il maggior punto di riferimento per tutti coloro che rifiutavano la frammentazione della penisola e desideravano la sua unità: i napoletani e i siciliani che trovarono rifugio a Torino dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, i lombardi e i veneti per i quali Vittorio Emanuele II pretese e ottenne dall'Austria un provvedimento di amnistia dopo la guerra del 1848-49. È vero che dopo le vittorie del 1859 e la spedizione dei Mille in Sicilia, lo Stato unitario fu modellato sulle tradizioni giuridiche e amministrative del Regno di Sardegna. Ma il risultato finale fu in buona parte l'effetto di circostanze impreviste e di vicende internazionali. Nell'ultimo governo Cavour, agli inizi del 1861, il ministro degli Interni era Marco Minghetti, un liberale bolognese di grande intelligenza che conosceva bene il sistema politico inglese e aveva cercato di collaborare alla riforma degli Stati della Chiesa dopo l'avvento di Pio IX al papato nel 1847. Ma quando si accorse che ogni tentativo in quella direzione sarebbe stato inutile, si avvicinò a Cavour, divenne segretario generale del ministero degli Esteri di Torino, parlamentare e infine ministro degli Interni. In quest'ultima veste Minghetti presentò alle Camere nel marzo 1861 una riforma amministrativa di stampo inglese: decentramento burocratico, elezione dei sindaci, trasferimento agli organi locali di alcune delle responsabilità che il sistema piemontese riservava al potere centrale. Era convinto che la penisola contenesse troppe tradizioni e identità per essere soggetta a un sistema prefettizio, manovrato per di più da una regione settentrionale. Ma il presidente del Consiglio che succedette a Cavour dopo la sua morte, Bettino Ricasoli, accantonò il progetto «inglese» di Minghetti ed estese alle province annesse il sistema prefettizio francese che i governi di Torino avevano adottato per il Piemonte e la Sardegna. Un emiliano, Minghetti, aveva disegnato le grandi linee di uno Stato decentrato, ma un toscano, Ricasoli, decise di sacrificare le aspirazioni dei nuovi arrivati e quindi persino quelle della sua regione, uno degli Stati meglio governati del periodo preunitario. Quali considerazioni indussero Bettino Ricasoli a modificare così bruscamente la strategia di Cavour? Il clamoroso collasso dei Borbone (un avvenimento che nessun realista, nel 1859, aveva previsto e desiderato) gettò in braccio al Piemonte province lontane e mal conosciute che avevano tradizioni politiche molto diverse da quelle dell'Italia centro settentrionale. Le insurrezioni dei briganti e dei militari sbandati dell'esercito napoletano impegnarono il governo di Torino in una guerra che si prolungò sino al 1865. E mentre lo Stato unitario era alle prese con la sua prima, grande emergenza nazionale, alcune potenze europee, ostili all'unità italiana, aspettavano con piacere il fallimento di una impresa che molti in Europa consideravano pericolosamente liberale e rivoluzionaria. Chi sostiene che il Risorgimento fu in realtà la conquista piemontese della penisola dimentica che non esisteva nell'Italia di allora nulla di più liberale della classe dirigente creata da Cavour negli anni precedenti. Ma era impossibile, in quelle difficili circostanze, tentare la creazione di uno Stato decentrato, caratterizzato da forti autonomie locali. La rinuncia al progetto di Minghetti fu il prezzo che l'Italia dovette pagare per sopravvivere.
Sergio Romano
Corriere della sera, 09 gennaio 2007 |
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Il paradosso degli ebrei negazionisti di Teheran
La partecipazione di rabbini antisionisti al convegno iraniano sulla Shoah mi ha sorpreso. Il Corriere ha pubblicato la foto dell'abbraccio dei rabbini al presidente iraniano, ma vorrei ora sapere come è possibile l'aberrante sintonia tra rabbini ebrei e negazionisti. Può chiarire la cosa?
Francesco Venanzi
Caro Venanzi, in un articolo pubblicato da La Stampa del 27 dicembre, uno dei migliori scrittori israeliani, Avraham B. Yehoshua, ha spiegato che alla fine dell'Ottocento, quando Theodor Herzl fondò il movimento sionista, la maggior parte dei rabbini dell'Europa centro-orientale fu nettamente ostile alla fondazione di uno Stato ebraico. Erano convinti che la vera patria dell'ebreo fosse la Torah (la dottrina religiosa impartita da Dio agli ebrei nel Pentateuco) e che la creazione di uno Stato avrebbe laicizzato le comunità intollerabilmente diluendo l'essenza religiosa dell'ebraismo. Fu questo potente establishment religioso, secondo Yehoshua, che frenò considerevolmente la partenza degli ebrei per la Terra promessa. Personalmente credo che esistessero altre ragioni: la scelta rivoluzionaria per gli ebrei che credettero nel socialismo e nella rivoluzione d'Ottobre, la scelta dell'integrazione per coloro che adottarono con entusiasmo la patria europea o americana di cui erano cittadini e, perché no, la scelta della pigrizia scettica per coloro che non riponevano grande fiducia nella colonizzazione di una terra lontana, non particolarmente ospitale. Ma lo scrittore israeliano ha certamente ragione quando osserva che la casta religiosa dell'ebraismo fece del suo meglio per impedire la nascita dello Stato. La situazione cambiò naturalmente dopo il genocidio della Seconda guerra mondiale. Le persecuzioni aumentarono considerevolmente le emigrazioni verso la Palestina e conferirono al movimento sionista un'attrazione incomparabilmente superiore a quella dei decenni precedenti. Molti rabbini dovettero ricredersi o mettere la sordina alla loro teologia anti-statale. Ma non tutti si sono convertiti all'idea che l'ebreo possa essere cittadino di uno Stato ebraico e che la sua persona possa avere obblighi e lealtà diversi da quelli dell'assoluta obbedienza alla legge mosaica. Non negano il genocidio e non possono essere definiti negazionisti in senso stretto. Ma rifiutano lo spirito patriottico e civile con cui lo Stato israeliano commemora lo sterminio delle comunità ebraiche europee. Ricordo bene l'arrivo in Israele, un sabato di parecchi anni fa. Quando l'automobile su cui viaggiavo si avvicinò alle mura di Gerusalemme, vidi sui due lati della strada piccoli gruppi di giovani ortodossi barbuti, vestiti di nere palandrane, le ciocche di capelli intrecciati (i cernecchi) che scendevano lungo le guance. Aspettavano gli automobilisti per apostrofarli, insultarli, lanciare contro le loro macchine qualche simbolica pietra. Non sapevano che l'uso dell'automobile nella giornata del sabato era contraria alla legge? I rabbini di Teheran sono soltanto una piccola pattuglia, particolarmente stravagante. Ma è bene ricordare che dietro di loro vi sono molti ebrei che ne condividono la teologia e che si sono insediati nei territori occupati da Israele dopo la Guerra dei sei giorni. Sharon era sionista e laico, ma la politica degli insediamenti, con cui il leader israeliano cercò di creare un fatto compiuto territoriale, ha richiamato in Palestina, dall'America e dall'Europa, decine di migliaia di ebrei profondamente religiosi che hanno scelto di vivere nelle terre bibliche di Giudea e Samaria per essere, quando il Messia verrà sulla terra, al posto giusto, nel momento giusto. Non vi è in questo nulla di tipicamente ed esclusivamente ebraico. Gli evangelici cristiani aspettano con lo stesso fervore la seconda venuta del Cristo e gli sciiti attendono con eguale fede la riapparizione del dodicesimo imam. Tutte le confessioni religiose hanno la loro frangia integralista. Forse la maggiore svista dell'Occidente, negli ultimi trent'anni, fu di non capire che questa frangia, anche se con caratteristiche diverse, si stava allargando in tutte le confessioni monoteiste.
Sergio Romano
Corriere della sera, 10 gennaio 2007 |
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Processare il Kaiser: perché l'Italia disse no
Lei ha rievocato i processi di Norimberga e Tokyo. Perché non segnalare ai lettori il saggio di Vittorio Emanuele Orlando, principe dei costituzionalisti italiani, intorno al «processo al Kaiser»?
Natalino Irti - Milano
Caro Irti, non conoscevo il saggio di Vittorio Emanuele Orlando e la ringrazio per la segnalazione. E poiché molti lettori, negli scorsi giorni, hanno scritto al Corriere per fare domande o commenti sui processi di Norimberga e di Tokyo, cercherò di riassumerne il contenuto. Il saggio è doppiamente interessante. Orlando non fu soltanto, come lei scrive, il «principe dei costituzionalisti italiani». Fu anche il presidente del Consiglio durante la fase decisiva della prima guerra mondiale e all'epoca dei negoziati di pace che si conclusero con la firma dei Trattati di Versailles. Fu lui quindi che dovette affrontare con gli inglesi e i francesi il tema dei processi penali a cui il governo di Londra intendeva sottoporre l'imperatore di Germania e alcuni fra i maggiori esponenti della classe dirigente tedesca. Per il premier britannico, David Lloyd George, si trattava di un impegno elettorale, assunto nella campagna del dicembre 1918 per il rinnovo della Camera dei Comuni. Gli inglesi volevano «giustizia» e il primo ministro aveva promesso che il trattato di pace avrebbe tenuto conto della loro richiesta. Benché gli italiani fossero contrari (dirò poi perché Orlando abbia finito per accettare la linea britannica), nella parte VII del trattato vennero inseriti alcuni articoli che sono per molti aspetti i padri dei processi di Norimberga e di Tokyo. Nel primo (art. 227) è scritto: «Le Potenze alleate e associate mettono in accusa pubblica Guglielmo II di Hohenzollern, ex-imperatore di Germania, per offesa suprema contro la morale internazionale e l'autorità sacra dei trattati. Un Tribunale speciale sarà costituito per giudicare l'accusato, assicurandogli le garanzie essenziali del diritto di difesa. Esso sarà composto da cinque giudici, nominati da ciascuna delle cinque Potenze seguenti e cioè: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone. Il Tribunale giudicherà su motivi ispirati dai principi più elevati della politica fra le nazioni con la cura di garantire il rispetto delle obbligazioni solenni e degli impegni internazionali, nonché della morale internazionale. Spetterà ad esso determinare la pena che crederà dover esser applicata. Le Potenze alleate e associate indirizzeranno al Governo dei Paesi Bassi una richiesta pregandolo di consegnare l'ex-imperatore nelle loro mani perché sia giudicato». Nel secondo (art. 228) s'imponeva al governo tedesco di riconoscere alle potenze alleate «la libertà di tradurre davanti i loro tribunali militari le persone accusate di aver commesso atti contrari alle leggi e costumi di guerra», e gli si ordinava di «consegnare alle potenze alleate ed associate (...) tutte quelle persone che, essendo accusate di aver commesso un atto contrario alle leggi e ai costumi di guerra, gli fossero designate sia nominalmente sia per il grado o per l'ufficio o per l'impiego a quelle persone affidato dall'autorità tedesca». I processi non ebbero luogo perché l'Olanda non consegnò il Kaiser e la Germania rifiutò fieramente di adeguarsi alle clausole dell'art. 228. Nel saggio, scritto quasi vent'anni dopo per una raccolta di studi in onore di Giovanni Vacchelli, un giurista dell'Università Cattolica, Orlando disse che l'intera faccenda era una «aberrazione» e ne spiegò le ragioni. Osservò anzitutto che mancavano le condizioni essenziali per un processo: il reato, la pena e il giudice. Non esisteva il reato perché non vi era legge internazionale che lo prevedesse, e non si potevano considerare leggi espressioni retoriche come i «principi più elevati della politica fra le nazioni», il «rispetto delle obbligazioni solenni e degli impegni internazionali» o «la morale internazionale». Non esisteva la pena perché essa esiste soltanto quando è prevista da un reato. E non esisteva il giudice. Anzi, i giudici sarebbero stati designati da coloro che si consideravano vittime del reato e il loro giudizio sarebbe parso a molti una vendetta delle potenze vincitrici. Non è tutto. Il Kaiser sarebbe stato considerato responsabile di tutti gli atti commessi dalla Germania: una filosofia giuridica che ricordava, secondo Orlando, quella dei giudizi tribali quando le comunità venivano considerate come un solo soggetto. A Vittorio Emanuele Orlando tutto ciò sembrava un ritorno a costumi giuridici che il diritto romano aveva superato. A me sembra un indice della deriva razzista che ha colpito tutti gli Stati nazionali (alcuni molto più di altri) nel corso del XX secolo. I lettori potrebbero chiedersi ora perché Orlando abbia accettato le clausole del Trattato di Versailles contro cui aveva sollevato tante riserve e obiezioni. Ecco la risposta: «È ciò che avviene normalmente nelle Conferenze internazionali (...) dove non si ammette la possibilità di maggioranze e di minoranze. Lo sforzo di chi dissente non può altrimenti esercitarsi se non nel senso di persuadere gli altri: se tale sforzo non riesce, chi non voglia uniformarsi, rassegnandosi, alla tesi della maggioranza, non ha altra via che di rompere i rapporti e uscire dalla Conferenza; or, a un tale estremo non si può pervenire se non per argomenti che abbiano un'importanza decisiva, anzi vitale per il proprio Paese. Di una resistenza che fu rottura insanabile, si ebbe in seguito un esempio che riguardò — proprio! — l'Italia e chi la rappresentava; nella storia della Conferenza della Pace, il caso viene considerato da molti come la più grave crisi che la Conferenza stessa abbia attraversata». La «rottura insanabile» a cui Orlando fa riferimento occorse quando venne in discussione la sorte di Fiume, la città italiana che Wilson voleva assegnare alla Jugoslavia. Ma questo, se interessa a qualche lettore, potrà formare materia di un'altra risposta.
Sergio Romano
Corriere della sera, 12 gennaio 2007 |
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Come la Polonia uscì dal comunismo e tornò in Europa
Quanto è successo a Varsavia in questi giorni mi ricorda un viaggio in Polonia nei primi anni Settanta. Fu un viaggio emozionante nella cultura di quel Paese, dove fiorivano le avanguardie teatrali e musicali. Mi sorprese la presenza pubblica della Chiesa e la grande partecipazione a messe e processioni. Conobbi molti cattolici che occupavano posti di potere. Ebbi la strana sensazione di un «compromesso storico», nutrito spesso di ipernazionalismo antirusso e antitedesco. Ho visto in una piazza di Wroclaw una grande statua di Papa Giovanni XXIII, straordinari funerali in campagna con bandiere nere e argento, parroci e chierichetti degni della civiltà barocca. A Cracovia c’era Penderecki, a Varsavia avevo come guida il principe De Breza, un giovanotto anticomunista ma convinto patriota. Ebbi la sensazione di due poteri in cerca di equilibrio, ostili ma costretti a collaborare. Ed erano sempre aperti i canali con l’emigrazione.
Mario Pasi
Caro Pasi,
non mi sorprende che lei abbia un eccellente ricordo del suo viaggio in Polonia all’inizio degli anni Settanta. Nel clima grigio e oppressivo dei regimi satelliti, la Polonia rappresentava per molti aspetti una eccezione.
Non aveva tentato, come la Cecoslovacchia del 1968, la strada del «socialismo dal volto umano», ma era riuscita a conquistare piccoli margini di autonomia e libertà che gli intellettuali sfruttavano con grande intelligenza e fantasia. Il regime continuava a controllare la Chiesa e cercava d’infiltrarla (il reclutamento del dimissionario arcivescovo di Varsavia risale al 1973). Ma il cardinale Wyszynski, primate di Polonia, godeva di grande prestigio ed era accettato dal regime, entro certi limiti, come il condomino di quello che potrebbe effettivamente definirsi un compromesso storico.
Quando una crisi economica e l’aumento dei prezzi, alla fine del 1970, provocarono disordini a Danzica e a Gdynia, il governo e il partito scelsero ancora una volta la strada della conciliazione.
Il vecchio Wladislav Gomulka venne congedato e sostituito con Edward Gierek, un comunista sessantenne che fece del suo meglio per correggere i peggiori inconvenienti dell’economia di comando ed elevare il livello di vita della popolazione.
Mai miglioramenti economici furono effimeri. Gli anni Settanta, caro Pasi, sono quelli in cui fu infine evidente che l’economia polacca, modellata sul sistema sovietico, non sarebbe stata capace né di garantire il benessere al Paese né di adattarne le potenzialità alle esigenze degli scambi internazionali. Come tutti i Paesi satelliti, anche la Polonia soffrì di gigantismo inefficiente in tutti i settori industriali e di investimenti sbagliati in quelli ormai maturi (l’acciaio).
Questo fallimento dell’ideologia coincise più o meno con l’elezione al papato dell’arcivescovo di Cracovia. Sommati l’uno all’altro, i due fattori (la crisi dell’economia e la presenza a Roma di un Papa polacco) ebbero l’effetto di rafforzare il sentimento nazionale, la protesta economica e il dissenso politico.
Non è un caso che Solidarnosc, il sindacato di Lech Walesa, sia stato fondato nell’estate del 1980, un anno dopo la prima visita pastorale di Giovanni Paolo II nella sua patria.
Da quel momento la situazione andò progressivamente peggiorando e divenne particolarmente tesa durante la fase che precedette e seguì la proclamazione della legge marziale nel dicembre 1981. Se lei avesse nuovamente visitato la Polonia, avrebbe trovato un Paese alquanto diverso da quello che aveva visto all’inizio degli anni Settanta.
La vera svolta cominciò a delinearsi nel 1985, quando il generale Jaruzelski istituì un Consiglio consultivo di cui fecero parte alcuni rappresentanti del mondo cattolico. E fu favorita dai messaggi che provenivano dall’Unione Sovietica dopo l’avvento di Gorbaciov alla segreteria del partito nell’aprile dello stesso anno. Quando il regime decise di riservare al voto popolare la designazione del 35% del Parlamento, le elezioni del giugno 1989 dettero tutti i seggi in lizza ai candidati di Solidarnosc.
Era l’agonia del regime.
Poche settimane dopo, un membro di Solidarnosc, Tadeusz Mazowiecki, costituì il primo governo non comunista. Con qualche mese di anticipo rispetto agli altri Paesi dell’Europa centro-orientale, la Polonia era tornata fra noi.
Sergio Romano
Corriere della sera, 13 gennaio 2007 |
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La crisi somala e le troppe dimenticanze occidentali
Vorrei sapere qual è l'origine storica dell'attrito tra Etiopia e Somalia, anche in relazione alle attuali vicende in quei luoghi, dove il nostro Paese ha esercitato il suo potere non sempre assumendosene le corrispondenti responsabilità.
Giuseppe Di Girolamo
L'Etiopia ha reagito a quanto sta succedendo in Somalia, ossia alla sua conquista da parte degli estremisti islamici, e non c'era da stupirsi: molto probabilmente, avendo una buona percentuale di popolazione islamica al suo interno e conoscendo la fame di conquista dei fondamentalisti, teme di essere la prossima vittima. Queste bande, come hanno dimostrato recentemente Hezbollah e Hamas, dispongono di milioni di dollari, anzi petrodollari, e sono difese all'Onu da vari Paesi arabi. Gli Usa hanno preso posizione, dall'Europa invece tutto tace, Inghilterra a parte. Tra un po' uscirà il solito comunicato ambiguo che, per non scontentare i fornitori di petrolio, terrà i piedi in due scarpe e molti daranno la colpa di questa nuova guerra a Bush. A mio parere invece il disegno espansionistico dell'Islam radicale è molto evidente, e la situazione ricorda sempre di più quella dell'Europa di fine anni Trenta.
Luca Cremaschi
Cari Di Girolamo e Cremaschi, le vostre lettere adottano due punti di vista diversi. Lei, Di Girolamo, vorrebbe conoscere le ragioni storiche dei contrasti che oppongono l'Etiopia alla Somalia. Mentre lei, Cremaschi, attribuisce la crisi somala degli ultimi mesi all'onda crescente di fondamentalismo islamico che starebbe sommergendo l'Africa e in particolare i Paesi che si affacciano sul Mar Rosso. Sono due punti di vista altrettanto legittimi. È giusto ricordare che negli anni Settanta e Ottanta, quando l'Etiopia era sostenuta dall'Urss e la Somalia dagli Stati Uniti, i due Paesi si fecero la guerra per una regione abitata da musulmani, l'Ogaden, che Menelik, re degli abissini, aveva conquistato nel 1891 e l'Inghilterra aveva attribuito all'Etiopia dopo la Seconda guerra mondiale. Ed è giusto ricordare il grande revival islamico degli ultimi decenni. Ma forse, per comprendere la situazione somala, converrebbe ricordare anche ciò che accadde fra la guerra dei primi anni Ottanta e le più recenti manifestazioni dell'islamismo radicale. Nel gennaio del 1991, al culmine di una crisi provocata da corruzione, malversazioni e drammatica penuria di generi alimentari, i somali cacciarono il loro presidente, Siad Barre, e precipitarono nell'anarchia. Fu quello il momento in cui Bush sr, ormai alla fine del suo mandato presidenziale, decise di organizzare sotto l'egida dell'Onu una grande operazione umanitaria che venne chiamata «Restore Hope», ridare speranza. Gli americani sbarcarono a Mogadiscio con un corpo di spedizione nel dicembre 1992 e furono ben presto seguiti da altri contingenti stranieri fra cui quello dell'Italia, composto da soldati della Folgore e del San Marco. Si trattò della prima operazione internazionale dopo la fine della guerra fredda e parve annunciare un mondo in cui le potenze civili non avrebbero esitato a intervenire per soccorrere le popolazioni e restaurare, nei Paesi in crisi, condizioni di civile convivenza. Ma qualche mese dopo, mentre andavano a caccia di uno dei tanti signori della guerra che si erano impadroniti di una parte del territorio, gli americani caddero in una imboscata nelle vie di Mogadiscio e perdettero 18 rangers. Il successore di Bush sr Bill Clinton decise che gli americani non gli avrebbero perdonato la perdita dei loro ragazzi in una guerra lontana e indecifrabile. Pochi mesi dopo le truppe degli Stati Uniti se ne andarono e gli altri corpi di spedizione, privati del sostegno logistico americano, fecero altrettanto. Da allora, anche se abbiamo finto di non accorgercene, la Somalia è finita nelle mani dei signori della guerra, veri e propri briganti che sfruttavano le poche risorse del Paese, tiranneggiavano la popolazione, controllavano gli aiuti umanitari. I musulmani hanno avuto successo, caro Cremaschi, perché nel vuoto creato dalla nostra partenza hanno dato una risposta al bisogno di ordine, di sicurezza e di onestà delle popolazioni. Forse avremmo dovuto ricordare che l'Islam conquistò una grande parte dell'Africa a sud del Sahara, nell'Ottocento, anche perché seppe trasmettere alle popolazioni animiste i valori della famiglia, della misericordia, della carità. Oggi, purtroppo, l'Islam può essere il veicolo di un pericoloso fanatismo religioso. Ma la necessità di reagire non ci autorizza a dimenticare che un po' più di pazienza e di tenacia nel 1994 avrebbe probabilmente evitato l'ultima crisi somala.
Sergio Romano
Corriere della sera, 14 gennaio 2007 |
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Un enorme fossato
Caro Romano, perché nessuno riesce a fare questa domanda ai politici: perché i politici hanno diritto alla pensione dopo solo 30 mesi di legislatura mentre il comune mortale deve aspettare 40 anni per averla?
Nuccio Sciuto
Alle origini della democrazia parlamentare fu stabilito che il servizio reso alla nazione dai rappresentanti del popolo non sarebbe stato retribuito. Più tardi fu deciso che questa regola avrebbe favorito gli uomini politici ricchi a danno dei poveri e venne introdotto il principio della retribuzione. Poi fu deciso che i parlamentari avrebbero avuto diritto alla pensione dopo due legislature e oggi, come lei ha osservato, ne basta mezza. Aggiunga a tutto questo che il mensile di un parlamentare italiano è alquanto superiore a quello della maggior parte dei suoi colleghi europei e che i «fringe benefits» sono numerosi. Non è bello. Ma l'aspetto più preoccupante dell'intera vicenda è che gli uomini politici sembrino non rendersi conto del fossato che questa situazione sta scavando tra loro e il Paese.
Sergio Romano
Corriere della sera, 14 gennaio 2007 |
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La parola nero
Caro Romano, vedo che anche lei si conforma alla recente prassi politically correct che considera il termine «negro» dispregiativo e preferisce usare il termine «nero». Si tratta di una scimmiottatura dell'ostracismo dato in America al termine negro, che suona troppo simile a nigger, questo sì fortemente dispregiativo, e preferisce usare black o l'ipocrita african american. Nella nostra lingua non è così: il termine negro ha radici profonde, è usato nella scienza e medicina, e non è percepito come spregiativo neanche dagli stessi africani (si ricordino le struggenti invocazioni alla négritude di Senghor o quelle, meno idealistiche, di Mobutu), mentre nero era usato dai nostri coloni per sottolineare la diversità dai bianchi.
Quindi usiamo negri e non il brutto neri.
Giulio Valdonio
Anch’io penso che la parola negro non sia spregiativa. Ma so che in questo momento offende la sensibilità di molte persone ed evito di usarla. Non è prudenza. E’ soltanto galateo.
Sergio Romano
Corriere della sera, 3 ottobre 2006 |
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Churchill, un uomo di Stato che sapeva scrivere
Ho letto che Winston Churchill è stato anche «corrispondente di guerra di grandi giornali londinesi».
Per averlo studiato a scuola credo di conoscerne le doti di uomo politico, ma non so nulla del Churchill giornalista. Potrebbe tratteggiare un profilo di questo grande statista e intellettuale inglese, che fu anche insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1953?
Michele Toriaco
Caro Toriaco, se la Gran Bretagna non lo avesse richiamato in servizio dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale e non gli avesse affidato la guida del governo, Winston Churchill sarebbe ricordato soprattutto per le sue opere giornalistiche e letterarie. Fu un grande uomo di Stato, ma anche un efficace reporter, uno straordinario scrittore e un gradevole pittore della domenica. Quando uscì dall'Accademia militare di Sandhurst e tentò per qualche anno la carriera delle armi, decise di trasformare ogni missione all'estero in una occasione giornalistica. Dall'esperienza indiana trasse un libro apparso nel 1898, «La storia della forza di combattimento Malkland»; dalla campagna sudanese di Kitchener contro le truppe del Mahdi portò con sé «La guerra del fiume», apparsa nello stesso anno; e dalla guerra contro i boeri, in cui rimase prigioniero ma riuscì a evadere, ricavò altri due libri di successo pubblicati nel 1900. E poiché non aveva ancora deciso se sarebbe stato prevalentemente soldato, uomo politico o narratore, pubblicò anche un romanzo («Savrola»). I suoi lettori si accorsero subito che sapeva descrivere una battaglia, ritrarre un paesaggio, delineare la figura di un personaggio indigeno, analizzare una situazione politica e militare. Aveva l'occhio del pittore e la penna dello scrittore. Nel 1906, mentre era ormai in politica con un incarico promettente (sottosegretario di Stato alle Colonie), pubblicò una biografia del padre Randolph. Era un omaggio filiale a uno dei maggiori esponenti dell'Inghilterra conservatrice negli ultimi decenni dell'Ottocento. Ma era anche un quadro interessante della vita politica britannica in quegli anni, e dimostrò che il giornalista scrittore poteva avere, quando le circostanze lo richiedevano, il passo lungo e il «grande angolare» dello storico. I libri in cui era maggiormente a suo agio e dava il meglio di sé furono quelli in cui poteva mescolare l'affresco storico-politico, i ricordi autobiografici e le esperienze personali. Nel 1923, dopo la Grande guerra, cominciò la pubblicazione di un'opera in sei volumi («The World Crisis»). Nel 1930 pubblicò un volume di ricordi giovanili («My Early Life») e cominciò a raccogliere in volume i suoi scritti politici. Fra il 1933 e il 1938 tornò ai grandi affreschi storici con la monumentale biografia di un antenato, il duca di Marlborough, contemporaneo di Eugenio di Savoia e vincitore dei franco-bavaresi a Blenheim nel 1704. Le sue opere più impegnative coincidono generalmente con i periodi di minore attività politica. Cominciò a scrivere i sei volumi sulla Seconda guerra mondiale nel 1946, vale a dire dopo la sconfitta dei conservatori nelle elezioni politiche dell'estate del 1945, e «la Storia dei popoli di lingua inglese» dopo la fine del suo ultimo periodo alla testa del governo. Nessun uomo di Stato del Novecento può vantare una produzione storico-letteraria così vasta. E nessun altro lasciò negli archivi della storia una così formidabile apologia di se stesso. Aggiungo per concludere, caro Toriaco, che i suoi libri e i suoi articoli furono anche, soprattutto nei periodi in cui era politicamente in disgrazia, la sua maggiore fonte di reddito. Discendeva da una nobile famiglia, ma il patrimonio del casato, col tempo, si era considerevolmente assottigliato. I diritti d'autore e il premio Nobel per la letteratura gli restituirono una parte non piccola della ricchezza perduta.
Sergio Romano
Corriere della sera, 15 gennaio 2007 |
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Lo scarto di voti
Caro Romano, nella sua risposta sullo scarto di voti ha trascurato di far notare la differenza tra vincere «per» qualche centinaio di voti, e vincere «di» qualche centinaio di voti. Precisazione necessaria, anche, perché la lettrice nello scrivere, ha usato «per»ma chiaramente intendeva «di». Bush, ha in effetti vinto «per» poche centinaia di voti, però solo nella Florida (se ricordo bene), e quelle poche centinaia di voti gli hanno permesso di conquistare i grandi elettori di quello Stato, che aggiunti a quelli che già erano dalla sua parte, gli hanno consentito di insediarsi alla Casa Bianca.
Non sono un patito degli Stati Uniti, e quindi non sono documentato al riguardo,malogica mi dice che se facciamo la sommatoria dei vari risultati, ottenuti nei singoli Stati, dai due candidati, alla fine la differenza di voti è sicuramente di gran lunga più notevole rispetto a quelle centinaia evidenziate.
È ovvio che se confrontiamo le due sommatorie dei voti espressi dagli elettori, è di quella differenza di voti che Bush ha vinto.
Romolo Rubini
Aggiungo qualche dato, per completezza. George W.
Bush vinse perché ebbe, grazie alla Florida, 271 voti elettorali contro i 266 di Al Gore. Ma il risultato del voto popolare (la sommadelle singole schede attribuite ai due candidati) fu alquanto diverso: 50.459.211 a Bush, 51.003.894 a Gore.
Sergio Romano
Corriere della sera, 15 gennaio 2007 |
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Ante Pavelic, dittatore crudele e fortunato
Ho letto la sua nota su Sir Oswald Mosley, il baronetto inglese, un po’ patetico, che sognava un’Inghilterra fascista. Mi è venuta alla mente, per analogia, un’altra vicenda, quella di Ante Pavelic, l’uomo politico jugoslavo che nel 1941, dopo l’invasione della Croazia da parte delle forze dell’Asse, riuscì a costituire uno «Stato indipendente croato» totalmente subordinato alla Germania nazista e all’Italia fascista.
La corona del nuovo Stato fantoccio offerta al duca Aimone di Savoia-Aosta, la «pulizia etnica» che comportò la morte di circa 700.000 persone specie serbo-ortodossi, la fuga di Pavelic nel 1945 in Argentina e la sua morte in Spagna per le conseguenze delle ferite riportate in un attentato nel 1957, sono eventi non ancora del tutto chiariti.
Gradirei potere avere da lei una rivisitazione aggiornata delle imprese di Ante Pavelic che, tra l’altro, è ricordato anche perché fondatore degli ustascia, responsabili dell’assassinio del re Alessandro I a Marsiglia nel 1934.
Renato Cimino
Caro Cimino,
non tutto è chiaro effettivamente nella vita di Ante Pavelic: troppe società segrete, troppi complotti, troppi intrighi, troppi periodi clandestini trascorsi sotto falso nome e mentite spoglie (fra cui, a quanto sembra, qualche tempo in un monastero di Castel Gandolfo dopo la Seconda guerra mondiale, camuffato da frate). Ma conosciamo le tappe principali della sua formazione politica e soprattutto la sua spietata persecuzione dei serbi e degli ebrei negli anni in cui fu Poglavnik (letteralmente «colui che è alla testa» di un movimento o di un Paese) del regime nazionalista croato durante la Seconda guerra mondiale.
Nacque in Bosnia, a pochi chilometri da Sarajevo, nel 1889, cominciò i suoi studi nell’antica città di Travnik (a cui Ivo Andric dedicò uno dei migliori romanzi), li completò in un collegio di gesuiti, prese una laurea in giurisprudenza a Zagabria e fece i suoi esordi politici, prima della Grande guerra, in un movimento nazionalista clandestino. Quando la Croazia, dopo la fine del conflitto, divenne parte del nuovo regno che la dinastia serba aveva creato nei Balcani, i nazionalisti croati vinsero le elezioni locali e Pavelic fece il suo ingresso in Parlamento.Manon appena re Alessandro, con un colpo di Stato, lo sciolse, Pavelic costituì un movimento degli «insorti» (in serbo-croato ustasé) che intendeva battersi per l’indipendenza della regione. Sembra che l’ingresso nell’organizzazione avvenisse con una cerimonia iniziatica. Il «catecumeno» prestava giuramento di fronte a un tavolo avvolto nella bandiera croata su cui erano posati un crocifisso, un pugnale e una pistola.
Prometteva di fronte a Dio che avrebbe combattuto per l’indipendenza della Croazia sino alla morte, obbedito ciecamente agli ordini del Poglavnik, pagato con la vita il tradimento.
I membri del movimento si dispersero. Alcuni restarono in Jugoslavia per organizzare attentati, altri andarono ad addestrarsi nei due Paesi (Italia e Ungheria) che erano maggiormente disposti ad accogliere e a finanziare i nemici di Belgrado.
Pavelic finì in Italia e di lì in Francia dove fu regista del mortale attentato contro re Alessandro di Jugoslavia a Marsiglia il 9 ottobre 1934.
Processato e condannato a morte, si rifugiò nuovamente in Italia dove il governo lo mise in prigione per qualche tempo, ma rifiutò di estradarlo e finì per concedergli una sorta di libertà vigilata in Toscana, tra Firenze e Siena. Da quel momento le quotazioni del Poglavnik oscillarono con l’evoluzione dei rapporti italo-jugoslavi.
Se Roma e Belgrado andavano d’accordo, Pavelic veniva trattato come un ospite sgradito.
Se i due Paesi litigavano, l’esule diventava nuovamente utile e veniva trattato con i guanti.
Il suo momento, come gli disse Mussolini durante un incontro a Villa Torlonia, venne quando la Jugoslavia, con un improvviso cambiamento di linea politica, rifiutò di ratificare il Patto Tripartito, firmato nei giorni precedenti. I tedeschi bombardarono Belgrado, attraversarono la frontiera e nel giro di poche ore occuparono Zagabria.
Quando capì che la Croazia sarebbe caduta nella sfera d’influenza del Reich, Mussolini convocò Pavelic a Roma e negoziò con lui una sorta di traballante protettorato italiano.
La Croazia sarebbe stata indipendente, ma avrebbe avuto un re italiano (Aimone di Savoia, duca di Spoleto e Aosta), avrebbe ceduto all’Italia una parte della Dalmazia e concesso il resto con un affitto enfiteutico.
Il resto, caro Cimino, l’ha già raccontato lei. Pavelic fu uno dei più efferati dittatori del Novecento, ma anche uno dei più fortunati. Mentre i suoi protettori, Mussolini e Hitler, morivano di morte violenta, il Poglavnik riuscì a eclissarsi e a riapparire qualche tempo dopo in Argentina dove fu, a quanto pare, consigliere del generale Perón. Morì a Madrid nel 1959.
Sergio Romano
Corriere della sera, 17 gennaio 2007 |
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«Nero» e «negro»
Caro Romano, torno sull’argomento di «nero» e «negro». È vero che nel parlare comune aggiungere a un termine l’aggettivo «nero» significa spesso connotarlo negativamente: si pensi, ad esempio, a «giornata nera », «pecora nera»; ma soprattutto si rifletta sull’etimologia del verbo «denigrare».
Tutto ciò premesso, chiamare «negre» le genti originarie dell’Africa subsahariana non ha di per sé niente di offensivo.
È un termine che ci viene dallo spagnolo: significa solo e soltanto «nero» e si limita a riportare una caratteristica evidente, come noi europei eravamo i «visi pallidi» per Toro Seduto e compagni (e nessuno se ne offendeva) e tuttora le genti bantu sono i «nasi schiacciati» per alcune popolazioni del Corno d’Africa.
Inoltre, in italiano antico o letterario, spesso si diceva «negro» invece che «nero». Scrivere «la negra terra», o «le negre navi», non era politicamente scorretto.
Claudio Giomini
Secondo il Vocabolario Zingarelli «denigrare» significa in origine «tingere di nero» ed è quindi sinonimo di offuscare, oscurare. Un altro caso in cui «nero» non ha nulla a che vedere con gli africani, la cui pelle, comunque, è più marrone che nera.
Sergio Romano
Corriere della sera, 28 ottobre 2006 |
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