HERMANN LÖNS
Nel segno del Wolfsangel
di Harm Wulf

L’opera di Hermann Löns fa parte di quel movimento di reazione radicale contro la devastazione della vita spirituale determinato dall’industrializzazione, dall’urbanesimo e dal materialismo culturale ed economico. Questa reazione in Germania tra il 1890 ed il 1920 s’incarna nel movimento völkisch che vedeva nel ritorno alla terra e nelle origini contadine e tradizionali l’unica via di salvezza. Hermann Löns, scrittore, poeta, giornalista ed antesignano del movimento ambientalista può essere considerato per la sua sensibilità assai vicino alle tematiche völkisch. Il profondo amore ed il radicamento sulla “Heimat”, la terra degli antenati, l’interesse per i miti e per la preistoria germanica coinvolsero in quegli anni un vasto numero d’intellettuali, scienziati, scrittori, artisti e poeti. Oggi più di allora le campagne sono abbandonate e le città sono diventate tentacolari ed alienanti. Sarebbe buona cosa riprendere la lettura di questo autore lungimirante ed oggi praticamente sconosciuto. In Italia è stato tradotto il suo romanzo più famoso Der Werhwolf e il drammatico racconto dedicato dallo scrittore alla violenta cristianizzazione dei Sassoni Der rote Beeke  (Il fiume rosso).

Hermann Löns nasce il 29 agosto 1866 a Kulm (oggi Chelmno) nella Prussia occidentale sulle sponde della Vistola. Il padre era insegnante, ma il nonno, Diederich Löns, aveva sposato la figlia di un contadino e questo fatto potrebbe forse spiegare il precoce interesse di Hermann per la natura, gli animali e la cultura contadina. Dal lato materno uno dei bisnonni era il poeta romantico Moritz Bachofen che aveva scritto libri come Gunloda e Arminia e pubblicava il periodico Das Nordlicht. Appena un anno dopo la sua nascita, i genitori di Hermann si trasferirono a Deutsch-Krone, dove il padre era stato mandato per insegnare nel locale liceo, e lì il giovane crebbe fino all’età d’otto anni. Nella sua futura piccola autobiografia intitolata Von Ost nach West scriverà che già da piccolo gli piaceva osservare il volo delle mosche e le attività degli altri piccoli animali. Stava nascendo la sua immensa passione per le scienze naturali che si sarebbe approfondita nel tempo. Nel 1873 entra nella scuola pubblica e diventa uno degli studenti migliori. Il tempo libero lo trascorre esplorando i boschi, le brughiere e gli acquitrini. In una di queste escursioni solitarie rinviene appeso ad una quercia il corpo di un ubriaco che aveva posto fine alla sua esistenza impiccandosi. E’ attratto dagli animali e specialmente dagli uccelli: a sedici anni scrive un rapporto sulla fauna locale in cui vengono elencati 130 specie di volatili. Prova a sviluppare le sue capacità pittoriche ma la mancanza di talento lo dissuade: il mondo dell’arte lo attrarrà sempre e molti dei suoi amici più stretti saranno artisti. Nel 1884 Friedrich Wilhelm Löns fu chiamato ad insegnare a Münster nella nativa Westfalia. Questo spostamento sarà decisivo per la formazione del giovane: prende coscienza delle radici della famiglia e scrive: “Divento consapevole di ciò che sono sempre stato: un uomo della Bassa Sassonia”. Nella scuola superiore viene soprannominato dai compagni der Käfer (il coleottero) per la sua passione per gli insetti e la fauna della foresta. Nel 1885 il Dottor Hermann Landois annuncia che lo studente Hermann Löns ha scoperto una nuova specie di lumaca l’Aceka Menkeana. Dopo il diploma della scuola superiore, nel 1887, Hermann Löns s’iscrive all’Università di Greifswald sulla costa baltica e subito scopre le sue nuove passioni: i duelli, le danze e le belle ragazze. Iscritto alla Burschenschaft Cimbria (sulla storia delle Burschenschaft vedi http://www.alchemica.it/radicivolkish.html ) si procura diverse cicatrici sul volto in vari duelli per difendere il suo onore. Contemporaneamente approfondisce i suoi interessi naturalistici e pubblica diversi articoli su riviste scientifiche. I suoi legami con il mondo contadino ed i suoi abitanti sono costanti e profondi e formeranno i principi guida per il suo prossimo lavoro letterario. Questi svariati interessi lo portano a trascurare lo studio ed il padre, dopo una dura lite, lo costringe a tornare a Münster per studiare le scienze naturali. Negli anni da studente sviluppa la sua passione per la poesia influenzato dall’opera di Detlev von Liliencron, Annette Droste-Hülshoff e da quella del filosofo Friedrich Nietzsche. Con gran disappunto della famiglia non termina gli studi e decide di diventare giornalista e a questo scopo si trasferisce a Hannover nel 1892. La città è in una posizione strategica per il giovane autore: ci sono vicino diverse varietà di paesaggi che egli amerà e a cui dedicherà il suo impegno ecologico: sono la catena dei monti dello Harz, la Suntel e, soprattutto, la brughiera di Lüneburg. Dopo un anno di lavoro per il giornale di Hannover Hannoversche Anzeiger si sposa con Elizabeth Erbeck che aveva conosciuto a Münster. Il lavoro giornalistico procede bene e si fa una discreta fama sulla stampa locale firmando pezzi di denuncia anche con vari pseudonimi tra cui “Ulenspiegel” (nome di Thyl Ulenspiegel protagonista del libro di Charles De Coster  “La leggenda di Thyl Ulenspiegel” Ed. Studio Tesi, 1991) e “Fritz von der Leine”. Nel 1902 prende la direzione editoriale del periodico Niedersachsen dedicato alla storia ed al folklore locale. La sua posizione politica di quel periodo è molto pragmatica: detesta i partiti politici, di cui lamenta la mancanza di lungimiranza ed unità, e la politica mediocre dei piccoli intrighi parlamentari. L’arte è sempre al centro dei suoi interessi. Il suo sguardo sul mondo è quello dell’artista. E’ affascinato dai pittori simbolisti, specialmente dallo svizzero Arnold Böcklin. Le persone della classe borghese, attratte dalle lusinghe della modernità, gli appaiono false ed artificiose: cerca la sua strada tra la gente semplice ed incorrotta della campagna. Tra loro troverà l’ispirazione artistica per i personaggi delle sue novelle. Nel 1901 Löns divorzia dalla prima moglie, mettendo fine ad un rapporto sempre più infelice e senza figli. Lo scrittore si ritira nella natura e promette a se stesso di non sposarsi mai più, ma, dopo pochi mesi, s’innamora di Lisa Hausmann che sposa nella primavera del 1902. L’anno precedente aveva pubblicato il libro di poesie Mein goldenes Buch che conteneva vivide descrizioni della caccia e del mondo contadino. Löns era diventato cacciatore all’inizio del 1890 prendendo note minuziose di tutte le atmosfere e delle strategie venatorie che sembravano interessarlo più dell’uccisione della preda stessa. Negli anni successivi lavorò al libro di racconti Mein braune Buch che fu pubblicato nel 1907. Löns trascorre molto del suo tempo lontano dalla città “che uccide i muscoli e divora i nervi” immerso nella natura e nel mondo contadino che sembra ricaricarlo di potenti energie creative. Il sottotitolo del libro è “Impressioni dalla brughiera” perché diverse storie sono ambientate nella Lüneburger Heide un’area che solo allora veniva “scoperta” in Germania. Era un paesaggio unico e magico che stava diventando famoso per il terreno rosso bruno, gli alti alberi di ginepro, le brughiere e le dune sabbiose. Una delle storie del libro verrà in seguito pubblicata diverse volte con illustrazioni: si tratta della celebre novella Die rote Beecke (recentemente pubblicata in italiano si può leggere al sito http://www.alchemica.it/biblioteca/fiumerosso.pdf ). Il titolo, il fiume rosso, allude al massacro dei 4500 capi sassoni che rifiutarono il cristianesimo ed il battesimo e che perciò furono fatti decapitare da Carlo Magno. La storia racconta della crociata intrapresa per evangelizzare le popolazioni germaniche rimaste fedeli alla loro religione atavica e della resistenza della popolazione locale contro lo straniero tema che sarà ripreso nel romanzo Der Wehrwolf. Come nelle restanti storie del Mein braune Buch anche Die rote Beecke si caratterizza per i periodi brevi, le descrizioni incisive, lo stile colorito che, da ora, sarà una delle caratteristiche della prosa di Hermann Löns. Queste caratteristiche stilistiche lo porteranno all’attenzione della critica letteraria ufficiale e lo renderanno famoso col soprannome Heidedichter, il poeta della brughiera. La preistoria dei Sassoni e la storia germanica in generale continueranno ad influenzare l’opera letteraria di Hermann Löns. In questo periodo l’artista adotterà gli antichi nomi germanici dei mesi, molto più simbolici e legati ai cicli naturali di quelli latini. Nel 1901 scrive all’amico Traugott Pilf che stava leggendo molto di Tacito, Cesare e Procopio per accrescere le sue conoscenze sulla stroria germanica. In una dedica del 1912, sempre a Pilf, su una copia del suo libro Der letze Hansbur scrive: “Dobbiamo sempre ricordare che un tempo, la croce cristiana era in realtà uno Swastika”. Dall’inizio del 1902 adotta come emblema il Wolfsangel simbolo molto usato dai contadini della Bassa Sassonia: una N rovesciata con una sbarra verticale nel mezzo. Il Wolfsangel, tagliola o gancio per i lupi, era uno strumento per catturare questi animali, costituito da un doppio uncino su cui era posta un'esca. Egli scrive che i contadini avevano visto il simbolo osservando i fuochi e le diverse forme che le scintille assumevano nell’aria “vedevano disegnarsi strane rune rosse nell’oscurità. Si formavano croci che terminavano con uncini.”. Il Wolfangel e lo Swastica ricorrono frequentemente nei due libri più famosi di Hermann Löns, Der letze Hansbur e Der Wehrwolf. Le copertine di molte edizioni dei libri sono marcate con questi simboli. Nel Wehrwolf (pag. 115 edizione italiana) Wolfsangel è usato per segnalare le attività di guerriglia dei contadini “…Per questo penso dovremmo battezzarci i Wehwölfe e lasciare sul terreno dove abbiamo combattuto l’infamia un segno con tre colpi di scure: uno a destra, uno a sinistra e uno di traverso.” La naturale unione di Hermann Löns con la sua terra e le sue bellezze naturali ebbero altre conseguenze: l’artista divenne un antesignano della protezione dell’ambiente e sostenne attivamente il movimento per la creazione di parchi naturali nelle zone ancora selvagge ed inviolate della Germania. Scrisse numerosi articoli per periodici descrivendo il suo concetto di “Heimatschutz” (protezione dell’Heimat) che significava anche difesa delle tradizioni e della comunità popolare. Nell’opera di Löns la difesa della bellezza naturale è un tema ricorrente. Tra le altre cose ciò lo porterà al coinvolgimento nel progetto per la creazione del parco dello Harz e a scrivere il testo per la descrizione dell’area protetta. Si impegnerà anche per la creazione dell’area protetta dei monti Wilseder. I cambiamenti ambientali nella Lüneburger Heide lo portano a scrivere i primi poemi ecologisti Die Letzen e Bohrturm entrambi inseriti nella raccolta del 1909 Mein blaues Buch che contiene diversi poemi con riferimenti alla storia antecedente precristiana e pagana. Die rote Beecke, Die Varusschlacht e Das Osterfeuer ne sono esempi evidenti. La raccolta di poesie Die kleine Rosengarten sarebbe diventato il suo libro poetico più popolare: il tono dell’opera è più luminoso ed accessibile di quello del Mein blaues Buch. Molte delle poesie della raccolta diverranno famose canzoni. Nel 1932 sarà girato il film Grün ist die Heide che rappresenta la dita degli abitanti della brughiera che prende il titolo da una poesia di Löns musicata da Karl Blume ed utilizzata come colonna sonora della pellicola. Nel 1907 dopo molti anni movimentati trascorsi ad Hannover l’artista sceglie di vivere nel piccolo villaggio di Bückeburg. Lì trascorrerà quattro anni che saranno tra i più infelici ma produttivi della sua esistenza. Aveva prodotto una grande quantità d’opere letterarie dedicate al mondo naturale ed ora sentiva il bisogno di ritornare al mondo degli umani. Il risultato di questa scelta furono i romanzi Der letze Hansbur e Der Wehrwolf e la novella psicologica Das zweite Gesicht. Der Wehrwolf racconta la storia della stessa stirpe che si era battuta contro Carlo Magno al tempo di Witukind, ma il tempo dell’azione è traslato di 800 anni, durante la guerra dei trent’anni 1618-1648. In quel periodo i contadini sassoni dovettero armarsi ed unirsi per difendersi dalle truppe straniere e dai malfattori che infestavano il paese commettendo violenze e soprusi approfittando del caos della guerra. Nell’avvincente racconto i contadini, obbligati ad uscire dalla loro tranquilla esistenza, sono costretti alla violenza per impedire ulteriori e più gravi spargimenti di sangue. Questo conflitto interiore è riassunto dallo stesso titolo del romanzo, nome coniato da Löns. Un Wehrwolf è un essere umano che si trasforma in combattente per difendersi usando la forza della belva furiosa. Il termine Wehr viene dal verbo tedesco “wehren” che significa difendere. Ma Wehrwolf si riferisce alla ferocia che i contadini impiegano sul campo di battaglia contro i saccheggiatori e la soldataglia. Ferocia giustificata dal fatto che la guerra potrebbe minare le basi della loro stessa esistenza. Der Wehrwolf “del 1910 riscuote un immediato, clamoroso successo superando rapidamente le 700.000 copie ( in italiano è stato tradotto da Alessandra Borgonovo e pubblicato nel 1999 dalle Edizioni Herrenhaus di Seregno; Il Wehrwolf. Cronaca contadina. Edizioni Herrenhaus, indirizzo di posta elettronica:  herrenh@tin.it ). Il grande scrittore Ernst Jünger nel suo diario (Ed. Longanesi, 1979, pag. 192) scrive il 23 dicembre 1942 dal fronte russo a proposito del libro: “Lettura: Wehrwolf di Löns che non ho letto più dalla mia infanzia. L’ho trovato qui nella biblioteca di un bunker. Malgrado quella sua maniera xilografica, che rende tutto più grossolano, la descrizione risente delle antiche saghe, dell’antico nomos. Senza dire che sono prevenuto, perché l’azione si svolge nelle immediate vicinanze di Kirchhorst, meglio ha Kirchhorst come centro.”. Marino Freschi, nel suo interessante saggio “La letteratura nel Terzo Reich (Ed. Riuniti, 1997, pag. 143) riconosce Hermann Löns come “uno dei più prestigiosi esponenti della letteratura nazionalpopolare del Novecento.” Der Wehrwolf ispirò diversi gruppi dello Jugendbewegung, il movimento giovanile tedesco (vedi il fondamentale testo di Nicola Cospito “I Wandervögel. La gioventù tedesca da Guglielmo II al nazionalsocialismo” II ed. ampliata Ed. della Biga Alata, Roma 1999, nicola.cospito@libero.it ) che adottarono il Wolfsangel come insegna. Durante la fine della seconda guerra mondiale anche il movimento di resistenza tedesco all’occupazione alleata prenderà il nome di Werwolf (senza h il più delle volte) e adotterà il simbolo del Wolfsangel richiamandosi all’opera di Löns (storia del movimento al sito http://www.centrostudilaruna.it/werwolf.html). Mentre lavorava al Der Wehrwolf Löns soffrì di un esaurimento nervoso causato dallo stress e dalle numerose preoccupazioni ma, nonostante ciò, il 20 novembre 1909 poté apporre il Wolfsangel al termine del romanzo. Gli ultimi anni della vita di Löns furono segnati dalla dolorosa separazione dalla moglie e dal figlio malato, da costanti disillusioni e da viaggi senza quiete in Austria e Svizzera. Nonostante il periodo nero egli fu in grado di produrre altri rimarchevoli lavori la raccolta di lavori sulla natura del Mein buntes Buch e il romanzo Dia Häuser von Ohlendorf. Nel 1914, sebbene la sua fama di scrittore avrebbe potuto benissimo portarlo ad un incarico tranquillo come corrispondente di guerra, chiese di essere arruolato, quasi cinquantenne, nelle truppe combattenti. Il 24 agosto 1914 fu assegnato al 73° reggimento di fanteria. Sebbene egli avesse ritenuto la guerra necessaria e catartica, il suo diario ne riporta la delusione: “Trovo che il fragore della battaglia ricordi il rumore delle fabbriche. Non mi eccita, ma mi riempie solo di disgusto”. E due giorni prima di morire: “ Dalla mia trincea guardo stelle che esplodono. Penso alla loro deflagrazione. Nel cielo notturno c’è sempre lo stesso pericolo ed agonia. La vita è morte: veniamo al mondo solo per andare verso la rovina.”. Il 24 settembre 1914 Hermann Löns cade sul fronte occidentale, un mese dopo il suo arruolamento, durante un assalto contro una postazione nemica. Il 5 gennaio 1933 l’agricoltore francese Jules Sohièr arando il suo campo nei pressi di Reims vide nel terreno un paio di stivali militari tedeschi e delle ossa. Dal numero di matricola della piastrina (I. R. 73, 4 Kp., Nr. 309 cioè 73° Reggimento di fanteria, 4° compagnia, numero 309) si scoprì che i resti appartenevano allo scrittore. Il 30 ottobre 1934 un semplice funerale militare salutò il ritorno dei suoi resti in patria. Fu sepolto il 2 agosto 1935 tra Fallingbostel e Walsrode presso Wacholderhain bei Tietlingen, nell’amata Lüneburger Heide. La sua tomba è sotto un masso di pietra su cui è inciso “Hier ruht Hermann Löns” (qui giace) ed il segno del Wolfsangel.
Ulteriori informazioni sullo scrittore e la sua opera presso:
Hermann-Löns-Kreise in Deutschland und Österreich e. V.
Hermann-Löns-Straße 8,
D 29664 Walsrode - Deutschland Tel.0049 5161 977197

Tutte le poesie musicate dello scrittore al sito http://ingeb.org/hermannl.html

Incisione del 1936 di Georg Sluyterman von Langeweyde  ( http://www.geocities.com/stromerhannes/ ) che rappresenta Harm Wulf il protagonista del Der Wehrwolf con la sua famosa mazza ferrata. Sotto il Volksmund, proverbio contadino, “Aiutati che Iddio ti aiuta!” ed il simbolo del Wolfsangel.

Höret di Hermann Löns

Es gibt nichts Totes auf der Welt,
Hat alles sein Verstand,
Es lebt das öde Felsenriff,
Es lebt der dürre Sand.

 

Laß deine Augen offen sein,
Geschlossen deinen Mund
Und wandle still, so werden dir
Geheime Dinge kund.

 

Da  weißt du, was der Rabe ruft
Und was die Eule singt,
Aus jedes Wesens Stimme dir
Ein lieber Gruß erklingt.

Ascolta

Non c'è nulla di morto al mondo
ogni cosa ha la sua ragione
vive lo scoglio solitario
vive la secca sabbia.
Lascia i tuoi occhi aperti
chiusa la tua bocca
e cammina silenzioso, così ti saranno
svelate le cose segrete.
Lo sai, ciò che urla il corvo
e ciò che canta civetta
la voce di ogni essere vivente
risuona come un gradito saluto

Due racconti di Hermann Löns ai siti:
http://www.alchemica.it/alberodinatale.html e  
http://www.scolopaxrusticola.com/italia/favola.shtml

Gli ultimi
       di Hermann Löns [Hannover]

Sulla nuda brughiera
        Sulla grigia pietra erratica
        Sta un nero, alto ginepro
        Così fiero e solitario.

La pietra erratica viene distrutta
         Il ramo cade sotto i colpi dell'ascia.
         La brughiera viene consumata.
         Non sono più fatti per il mondo.

prima edizione 1899

Das Osterfeuer – Fuoco di Oster (1)
 
Camminavo sulla brughiera, la brughiera così lontana e vasta,
La solitudine sussurrava al mio orecchio parole cupe.
Mormorava di tempi defunti, quando qui ancora erravano gli uri (2).
Sulla palude l’aquila volava alta nel cielo;
Là il feroce lupo lasciava rune di morte,
Là il possente alce ancora cadeva per mano del cacciatore.
 
Là la dottrina straniera (3) non aveva ancora trasformato il bene nel male,
E i nobili Wodan e Frigga erano ancora solennemente venerati;
Là contava ancora il coraggio dell’uomo e non solo il suo denaro,
Là l’eroe difendeva il suo diritto con la spada lucente;
Né con vile parola, e né con giuramenti a buon mercato;
Questo segretamente mi insegnava la mortale solitudine.
 
I nostri Dei erano ancora chiamati amore e potenza,
Potenza generava la vita, amore portava il piacere.
La nostra legge era breve, la nostra legge era questa:
Amore all’amore, ma anche odio per l’odio.
Mano leale ad ogni uomo che si dimostrava amico,
Mano sanguinosa per il furfante che si avvicinava come nemico.
 
Altri tempi sono passati sulla brughiera,
Prima che la forma malvagia abbattesse la sacra foresta di Wodan;
Frigga, l’amata donna, trasformata in una strega,
Ogni luogo sacro profanato come posto di orrori.
I nobili corvi di Wodan chiamati gli uccelli della forca.
Le buffe civette di Frigga oltraggiate come pollame dei cadaveri.
Ed il tredici, il più sacro dei numeri segreti,
Tramutato in numero di sfortuna e di paura.
 
Tra le querce sorgeva una sola casa col tetto di paglia,
Dal frontone di muschio cavalli mostravano i loro colli;
Un’apertura a forma di cuore aperto era tagliata per i gufi,
Per tenere con se un vecchio ed amichevole ospite.
Sulla porta grigia c’era il cerchio sacro,
Inciso e colorato come al tempo della vecchia saggezza.
 
Ed una runa solare, di fortuna, appena accanto,
Proprio come avrebbero fatto gli antenati nella loro seria e perseverante tradizione.
Su entrambi i lati del muro nero della terra,
Il cavallo di battaglia di Wodan coraggiosamente impennato,
Come se egli volesse nitrire su di me tutta la sua forza:
Ancora adesso porto Wodan amico, e tu ancora credi a Frigga.
 
Camminai oltre, verso la terra al crepuscolo,
Dietro tramontava il sole rotondo e rosso.
Nell’altro lato, oltre la palude imbrunita
Una luminosa fiamma rossa saliva verso il cielo senza stelle.
 
Il fumo bianco si alzava prima della distesa della nera foresta,
Fino a che scompariva nelle nuvole della sera.
Io stavo fermo e rimanevo a fissare la luminosità del fuoco,
ed ascoltando il rallegrarsi delle ragazze e le grida acute dei giovani.
Ridevo e pensavo: nonostante tutto la gioiosa via degli antenati
È stata tenuta sempre fedelmente viva dal mio popolo.
 
Ancora essi onorano il loro dio nella buona tradizione degli avi
Con braci luminose e col bianco e vorticoso fumo.
Tutto è sempre rimasto com’era nei tempi antichi.
Il blu negli occhi e nelle menti, luminosi i cuori ed i capelli.
Sempre essi hanno mantenuto i loro corpi ed i loro spiriti forti,
Sempre sani sono le loro gambe, il loro sangue ed il midollo.
 
Camminavo sulla brughiera, la brughiera così lontana e vasta,
La solitudine sussurrava al mio orecchio parole gioiose.

(1)Oster significa Pasqua, ma riprende il nome germanico di Ostara da Öistre, antica dea nordica dell’alba, della primavera (è festa dell’equinozio di primavera) e dell’amore equivalente alla dea scandinava Freya. Assumendo ed incorporando nella liturgia cristiana il simbolismo legato alla rigenerazione della Natura, la Chiesa ha successivamente assimilato questa ricorrenza festiva pagana alla risurrezione di Cristo. Vedi R. von Sebottendorff Prima che Hitler venisse Ed. Arktos, 1987, pag. 227
(2)animale del centro Europa simile al bisonte, ora scomparso
(3) Welsch sta per romano, latino e straniero in genere.

Der Bohrturm

Es steht ein schwarzes Gespenst im Moor;
das ragt über Büsche und Bäume empor.
Es steht da groß und steif und stumm;
sieht lauernd sich in Kreise um.

In Rosenrot prangt das Heideland;
”Ich zieh dir an ein schwarzes Gewand".
Es liegt das Dorf so still und klein;
„dich nach ich groß und laut und gemein.“

Es blitzt der Bach im Sonnenschein;
”bald wirst du schwarz und schmutzig sein.“
Es braust der Wald so stark und stolz;
”dich fälle ich zu Grubenholz.“

Die Flamme loht, die Kette klirrt,
es zischt der Dampf, der Ruß, der schwirrt,
der Meißel frißt sich in den Sand;
der schwarze Tod geht durch das Land.

La torre di trivellazione
 
C’è un nero spettro nella palude;
Si erge in alto sopra gli arbusti e gli alberi.
Sta lì grande, rigido e muto;
si guarda attorno spiando.
 
Nel rosso roseo rispende la terra della brughiera;
“Io ti metto una veste nera”.
Giace il villaggio così silente e piccolo;
“Poi ti faccio grande, rumoroso e popolato.”
 
Luccica il ruscello nei raggi del sole;
“Presto sarai nero e sporco.”
Rumoreggia la foresta così forte e fiera;
“Ti abbatterò per far legname da miniera.”
 
La fiamma arde, la catena cigola;
fischia il vapore, svolazza la fuliggine,
la punta si consuma nella sabbia;
la morte nera scorre attraverso la terra.

La poesia "Der Bohrturm" è la descrizione dell’inizio della distruzione della brughiera a seguito della scoperta del petrolio a Ölheim presso Peine dove, nel 1881 fu trovato in grande quantità. 
 
Traduzioni di Harm Wulf

 
   
 

Basilio Cascella
di Harm Wulf

Ad oltre 50 anni dalla scomparsa, Basilio Cascella, litografo, pittore, grafico, ceramista, illustratore e fotografo è poco noto e non ha il posto che gli spetterebbe nel mondo dell’arte. Probabilmente il poliedrico artista abruzzese paga lo scotto di non essersi mai piegato alle mafie artistiche della modernità. Fino in fondo egli è rimasto fedele alla sua concezione tradizionale dell’arte. Fino in fondo nella sua opera certosina e feconda, quasi da bottega rinascimentale, la sua ispirazione è stata la terra d’Abruzzo ed il suo popolo. Arte ispirata dal popolo e diretta al popolo e perciò chiara, realista, figurativa, naturale e capace di evocare i numi atavici della terra e della stirpe. La natura profonda dello spirito di Basilio Cascella è ben riassunta in questa descrizione che di lui diede il pittore Giorgio De Chirico nel 1948 presentando una sua personale a Milano: “E’ un instancabile vegliardo, figlio di quel paese di bella gente che è l’Abruzzo, che non è mai stato guastato dal modernismo ed è rimasto fedele agli ideali della sua giovinezza e della sua età matura”. Basilio Cascella nasce a Pescara il 2 ottobre 1860. I genitori sono il sarto Francesco Paolo Cascella e la moglie Marianna Siciliano. Basilio trascorre la prima infanzia ad Ortona a Mare dove si era trasferita la piccola sartoria del padre che presto lo impiega nella sua attività come apprendista. Ad appena 15 anni Basilio decide di seguire la sua vocazione artistica ed abbandona a piedi e con pochi soldi la città abruzzese per recarsi a Roma. Frequenta la scuola serale degli Artieri ed entra come apprendista nello stabilimento tipografico Luigi Salomone. Questa esperienza giovanile segnerà profondamente il suo percorso artistico. Dal 1879 si stabilisce a Napoli, epicentro dell’arte meridionale, ed entra in contatto con molti altri artisti: gli abruzzesi fratelli Palazzi, Domenico Morelli e Francesco Paolo Michetti che nel 1877 aveva raggiunto la fama con il celebre quadro Il Corpus Domini. La sua formazione avviene al di fuori dalle scuole accademiche e si rifà esplicitamente al Verismo, che resterà sempre un punto fermo nel suo modo d’intendere l’arte. Le sue attività creative sono molteplici: pittore, grafico ed illustratore. Nel periodo del servizio militare a Pavia è spinto a privilegiare l’attività pittorica dall’artista figurativo Vincenzo Irolli. Si trasferisce a Milano dove apre, in Corso di Porta Vittoria 3, uno stabilimento litografico d’illustrazione. Lavora come grafico pubblicitario per diverse ditte e partecipa con alcune opere all’Esposizione Nazionale Artistica di Torino del 1884, quella di Venezia del 1887, quella di Londra del 1888 e a quella di Palermo del 1891. Nel 1889 sposa Concetta Palmerio che gli darà sette figli. I tre maschi Tommaso, Michele e Gioacchino continueranno l’opera paterna e formeranno una dinastia artistica familiare unica nel suo genere. Cascella si trasferisce a Pescara e il 30 gennaio 1895 il consiglio comunale della città delibera la cessione di un terreno per permettergli di costruire uno stabilimento litografico e di pittura che presto diventerà una vera scuola d’arte per numerosi giovani (oggi via Marconi sede del museo a lui dedicato). Nel 1899, dopo aver raccolto attorno a se un cenacolo di scrittori ed artisti locali, Cascella pubblica il primo numero della rivista “L’illustrazione abruzzese”. L’amore per la sua terra e lo studio delle sue antichissime tradizioni accende l’impulso fondamentale per mettere in atto l’impresa. Tra i collaboratori spicca Gabriele D’Annunzio, punto di riferimento e d’ispirazione attraverso le pagine di Canto novo, Terra vergine, Il trionfo della morte e La figlia di Iorio. Altri stimoli alla rivista vengono dalle ricerche sul folclore di Antonio De Nino e Gennaro Finamore. Dopo l’esperimento di “L’illustrazione abruzzese”, durato cinque numeri e conclusosi per mancanza di fondi, Cascella riprende l’attività pubblicistica nel 1900 con la rivista “L’illustrazione meridionale”, nel 1905 riprende con una seconda serie l’avventura di “L’illustrazione abruzzese” che dura altri cinque numeri e proseguirà dal 1914 al 1915 con “La Grande Illustrazione” chiusa con l’inizio della guerra. Oltre a Cascella, che arricchisce le testate con disegni, dipinti, riproduzioni delle sue celebri cartoline, collaborano alle riviste artisti quali Luigi Pirandello, Umberto Saba, Gennaro Finamore, Filippo Tommaso Marinetti, Sibilla Aleramo, Matilde Serao, Grazia Deledda, Ada Negri, Guido Gozzano, Giovanni Pascoli e molti altri. L’opera di litografo si esprime magnificamente nelle celebri serie delle cartoline illustrate che si affiancano all’inizio del secolo come oggetto d’arte ai primi manifesti e alle fotografie. Le numerose serie che escono dal suo stabilimento hanno sempre come tema la rappresentazione del paesaggio, delle tradizioni, dei costumi e dei mestieri della gente d’Abruzzo. Una serie di cartoline di Basilio Cascella è presentata alla I Esposizione Internazionale D’Arte decorativa di Torino del 1902. Ancora oggi le cartoline a tema regionale sono un eccezionale documento antropologico per la cultura dell’Abruzzo rurale. Nel 1917 si trasferisce con i figli a Rapino, alle falde della Maiella dove, sulle orme dell’espressioni più pure dell’arte popolare abruzzese, sviluppa un’intensa attività di ceramista che sarà esposta alle Mostre Internazionali di Arte Decorativa di Monza nel 1925 e 1927. Esegue numerosissimi lavori di ceramica e maiolica. Nel 1924 esegue i tre pannelli policromi per la tomba dell’eroe abruzzese Andrea Bafile nella grotta sacrario della Maiell; nel 1926 sette pannelli di grandi dimensioni per la galleria dei banchi di mescita delle Terme del Tettuccio a Montecatini; nel 1930 cinque grandi pannelli con vedute delle città italiane per la galleria della stazione di Milano; nel 1939 i pannelli decorativi per la stazione marittima di Messina su progetto del figlio Michele. Insieme all’attività di ceramista sviluppa l'opera di grafico con copertine per riviste, le celebri serie di cartoline oggi ricercatissime dai collezionisti, i manifesti d’impegno sociale e politico. Dopo le simpatie manifestate per il socialismo all’inizio del secolo (collaborò all’Avanti della Domenica, supplemento dello stesso quotidiano), negli anni ’20 aderisce al fascismo e il 24 marzo del 1929 è eletto deputato per la XXVII legislatura, carica che mantiene fino al 1934 impegnandosi sui temi dell’arte applicata, dell’educazione artistica e della formazione dei maestri d’arte. E’ convinto che, in base all’esperienza personale, il rinnovamento del mondo artistico debba venire da una dura scuola artigiana fatta in modo tradizionale da docenti ed apprendisti. Cascella non ebbe maestri, la sua ispirazione nasceva dal proprio animo e dall’incanto della sua terra natia: era prima di tutto un artigiano fiero delle sue origini popolari. L’Abruzzo, terra selvaggia e mitica e la sua popolazione rurale restano per tutto il corso della sua vita, la primaria fonte d’ispirazione per l’artista. Nella presentazione della seconda serie de “L’illustrazione abruzzese” Cascella scrive queste chiarissime parole: “Nella forza e nella semplicità della nostra terra rimasta così profondamente italica, nella bellezza del suo suolo, nella solennità dei suoi riti, nella rudezza dei suoi costumi, il nostro ideale di arte si integra e si esprime”. Per spiegare questa centralità del tema della terra natale, Anna M. Damigella scrive nel suo libro dedicato all’artista: “La persistenza in Abruzzo più che in qualsiasi altra regione di antichi miti pagani, la sopravvivenza di un primitivo panteismo come forza immutabile nell’anima del popolo, la sovrapposizione e confusione dei miti con quelli cristiani, danno ad usi, costumi, credenze quella singolare varietà e ricchezza che affascina scrittori e artisti”. Basilio Cascella rimane attivissimo anche in età avanzata: realizza numerose opere, molte acquistate dai sovrani, tra cui la tela per le nozze del Principe di Piemonte a Villa Savoia a Roma nel 1930, i quadri allegorici La terra e Il mare per il Palazzo del Governo di Bolzano nel 1934 in collaborazione col figlio Tommaso, La giornata della fede al Palazzo del Quirinale a Roma, Gente italica e Fabbro al Ministero dell’Interno a Roma, Trebbia del grano al Ministero dell’Agricoltura. E’ presente a varie esposizioni tra cui la Quadriennale romana del 1931, la IV Mostra del Sindacato Provinciale Fascista di Belle Arti di Abruzzo e Molise a Campobasso nel 1937. Tiene l’ultima personale a Milano nel 1948. Muore a Roma nel 1950. L’amico Giuseppe Romualdi scriverà di lui: “Il suo sogno più grande e più puro è quello di poter significare la bellezza della sua terra così come essa si riflette nell’anima pagana dell’artista… Ha colto l’anima dell’Abruzzo… Ha colto il segno rivelatore di un’anima forte e vergine, selvaggia ma piena di fede e di giovinezza… Ha studiato l’anima del paesaggio; le anime della sua gente a volte tristi e pensose a volte liete”.

Le opere di Basilio Cascella possono essere ammirate nel Museo civico “Basilio Cascella” Via G. Marconi 45 - 65121 Pescara tel. 085/4283515 (http://muvi.org/museocascella) e nel Museo civico d’Arte contemporanea Pinacoteca Cascella Palazzo Farnese, Passeggiata Orientale 3 - 66026 Ortona (Ch) tel. 085 9066202 (http://www.museofarnese.it), attualmente chiuso per ristrutturazione.

Harm Wulf

- Bibliografia A. M. Damigella - G. Reggi, Basilio Cascella e la “Illustrazione abruzzese” dal verismo al simbolismo, Carsa Edizioni, 1991, Pescara, 112 Ill. colori e b/n

- F. Battistella, Basilio Cascella. Catalogo delle cartoline, Carsa Edizioni, 1997, 320 Ill. colori e b/n.

- I. Mataloni, Basilio Cascella Cartoline, Intercard, 1997, Torino, www.intercardsrl.com. Catalogo Pinacoteca Cascella, Palazzo Farnese, Ortona, 2000.

- Catalogo digitale Cascella una famiglia di artisti, Museo “Basilio Cascella”, 2002, Pescara.

- F. Di Tizio, Basilio Cascella. La vita (1860-1950), Edizioni Ianieri, 2006, Altino (CH).

- Catalogo della mostra Le cartoline di Basilio Cascella a cura della Cassa Risparmio l’Aquila, 2006.

 
   
 

Il pittore Paul Smalian

Nouvelle Ecole (nouvelle-ecole@labyrinte.fr) è sicuramente una delle migliori riviste culturali dell’area francofona. Nel numero 46 dell’autunno 1990 ad illustrare un interessante articolo del Prof. Jean Haudry, Linguistique et mythologie comparée, apparve un dipinto di Paul Smalian che raffigurava l’isola di Heligoland (Helgoland in tedesco moderno), antico luogo di culto consacrato al dio Forseti. Su uno degli spuntoni rocciosi della costa era rappresentato un Irminsul simbolo della religione ancestrale delle popolazioni germaniche. Il simbolo sacro dei Sassoni era purtroppo un’aggiunta posticcia.

Anche i migliori a volte sbagliano e, dopo lunghe ricerche, possiamo mostrare la versione originale del dipinto e dare qualche scarna notizia sull’autore dell’opera grazie al libro Paul Smalian – Ein Maler aus Leidenschaft, Verlag Hugo Welge, che fu stampato a Stadthagen nell’autunno del 1974 per ricordare l’opera dell’artista tedesco di Steinhuder. Un ringraziamento particolare all’amico M. Odin Wiesinger, pittore, artista grafico, incisore e scultore che ha contattato la famiglia Smalian e recuperato il volume (Per contatti: Atelier Odin, A - 4770 Andorf Tel. 0032 (0)7766-3388, Fax: 0032 (0)7766-22784 Mobil: 0032 (0)664-4867557 E-mail: atelier.odin@aon.at).

Nel volume, stampato in sole 1000 copie, appare una selezione di dipinti ad olio, acquarelli e disegni che rappresentano solo una piccola parte del lavoro svolto dall’artista nel corso degli innumerevoli anni di studio e lavoro. Paul Smalian nacque a Neuruppin nel Brandeburgo il 2 giugno 1901 figlio di un’ufficiale. Dopo il diploma intraprese gli studi artistici presso la Staatlichen Kunstschule e l’Accademia d’Arte di Berlino. Nel 1925 si laurea e su consiglio del direttore del circo e dello zoo di Amburgo Hagenbeck viaggia dal 1927 per cinque anni in Egitto, dove si specializza nella pittura a soggetto tropicale. Dopo l’Egitto trascorre due anni a Capri. Seguono i viaggi a Bahia in Brasile e Itaparica nelle isole di Cocos. In quest’isola la permanenza ed il lavoro artistico di Paul Smalian è ricordato dalla presenza di una via dedicata all’artista tedesco. Dopo la seconda guerra mondiale, l’artista si sposa e si trasferisce dal 1945 a Gehrden nei pressi di Hannover. Dal 1960 comincia la sua carriera d’insegnante di storia dell’arte presso il locale Gymnasium. Dal 1946 risiede a Steihuder Meer in Uferstrasse 33 dove lavora come artista. Nel dopoguerra intraprende viaggi di studio e lavoro in Tunisia, Marocco, Namibia, Ceylon, Tailandia, Siam, Spagna, Italia, Francia e Svizzera. In molti di questi paesi Smalian trova interessanti soggetti per i suoi quadri, soprattutto paesaggi e volti di uomini. I quadri dell’artista di Steinhuder am Meer si trovano un po’ in tutto il mondo: l’autore del libro ne ha trovato uno nell’hotel Forati di Hammamet in Tunisia. Molti dei suoi lavori si trovano nel ministero della cultura della Bassa Sassonia ed alcuni sono stati acquistati dalla Staatgalerie della città di Dessau. Paul Smalian è morto il 1 novembre del 1974 dopo una lunga e dolorosa malattia. La famiglia dell’artista gestisce la Ferienhaus Smalian, (Fischerweg 45, 31515 Steinhuder am Meer tel. 0049.5033.8579) nell’incantevole parco naturale Naturpark Steinhuder Meer a nord di Hannover. Nella pensione si trovano diversi lavori dell’artista.

Harm Wulf

 
   
 

Cultura völkisch e comunità di popolo
Harm Wulf

Mi è stato recentemente inoltrato un messaggio di posta elettronica che riportava delle note del Prof. Claudio Mutti a proposito dell'etnonazionalismo e della cultura völkisch ( http://www.claudiomutti.com/index.ph...=4&id_news=103 ). Vorrei fare qualche precisazione:
- ho altissima stima dell'opera di intellettuale e di divulgatore culturale del Prof. Claudio Mutti. Molti dei libri fondamentali che ho letto sono stati da lui scritti, tradotti o pubblicati. Raccomando a tutti gran parte delle opere della sua casa editrice All'insegna del Veltro di Parma ( http://www.insegnadelveltro.it/ )
- ho volentieri prestato tre miei scritti agli autori del libro "Etnonazionalismo ultima trincea d’Europa" Genova, 2006, Edizioni Effepi ( www.effepiedizioni.com ) perchè ritengo, in base a quanto conosco e penso, che non vi sia contraddizione tra le istanze di chi vuol difendere la sua terra e quelle di chi voglia anche difendere la terra degli altri dall'imperialismo americano. Se minimamente sospettassi che dietro coloro che sostengono l'etnonazionalismo (perdonate la ridondanza) ci fossero "Croisés de l’Oncle Sam" me ne terrei felicemente alla larga.
- i popoli esistono, non sono un'invenzione dei pensatori völkisch. Essi sono il prodotto di sangue, suolo (trasmessi dagli antenati) e cultura (trasmessa dalla Tradizione "sapere delle generazioni" passate e dall'innovazione che produce il presente e la tecnica.
- per nostro destino siamo europei ma questo non toglie che tutti i popoli che conservano la loro identità abbiano la stessa dignità e gli stessi diritti. Non è una questione cromatica (personalmente ritengo assai più degno un indios amazzonico o un guerriero Ogala che un degenerato e massificato cittadino americano biondo di crine e ceruleo d'occhi).
- i popoli hanno delle loro caratteristiche peculiari che sono poi le cose che ci colpiscono quando viaggiamo (se arrivi in Svezia o in Euskadi o altrove capisci dall'osservazione generale di popolo e terra che queste caratteristiche ci sono e sono plurali). Gestione del territorio, modo di costruire ed abitare, abitudini alimentari, tradizioni musicali, particolarità del linguaggio e tutte le altre cose che ci meravigliano.
- cantare la Tzara e la Neam la terra e la stirpe come fecero in modo eccelso poeti del calibro di Mihail Eminescu e George Cosbuc o gli uomini della Legione dell'Arcangelo Michele non è becero razzismo ma amore per la propria terra. Pamîntul stramosesc, la terra degli avi, come si intitolava il giornale legionario (vedi Corneliu Zelea Codreanu "Guardia di Ferro" Ed. Ar, Padova, 1973, www.libreriaar.it ), doveva essere onorata e difesa dalle invasioni esterne .
- la polemica sull'omogeneità etnica mi sembra alquanto strumentale. Sono sicuro che un intellettuale sottile quale è il Prof. Claudio Mutti capisce perfettamente che il problema centrale del discorso è quello del radicamento, del legame che si crea tra un popolo e la terra che abita da generazioni. Riaffermare il sacrosanto diritto per tutti i popoli della terra a non essere sradicati e ad amare il suolo in cui generazioni di antenati hanno vissuto e lavorato non è pleonastico. Ricordo un bel manifesto attaccato in Germania da chissà chi che diceva: "I popoli sono come gli alberi: non si possono sradicare!" Sradicamento significa alienazione e distruzione spirituale.
- oggi in Italia certe detestabili caratteristiche del peggior sud levantino si vanno espandendo a livello nazionale. Dappertutto prevale un "familismo amorale" e un individualismo anarcoide e devastante. Essere popolo, avere un senso comune di storia e destino è esattamente l'opposto. Manca identità, radicamento e senso di esser parte di una comunità di destino. Se prendiamo un gruppo di giovani italiani e gli diciamo di cantare qualcosa insieme, escludendo il ricchissimo patrimonio musicale regionale, non restano che l'inno di Mameli (se va bene la prima strofa...), forse qualche vecchio canto della prima guerra mondiale (se è stato orecchiato dal nonno) ed i canti politici (che sicuramente non uniscono una comunità ma la fratturano e la dividono). I canti euroasiatici esisteranno sicuramente ma nessuno li conosce. Sui mezzi di trasporto, in gita, nelle escursioni gli studenti non cantano: sono soli con il loro apparecchietto che spara musica al 90% americana. E' solo un piccolo esempio ma serve a far capire che per fare un discorso politico bisogna parlare ad una comunità reale, ad un popolo, cioè ad un gruppo di persone che hanno un patrimonio comune (etnico, storico, geografico). Decebalo, nella stupenda poesia di George Cosbuc (Guardia di Ferro pag 286), si rivolge al popolo, al suo popolo. Fare la Politica dovrebbe essere perseguire il bene della polis, della comunità di popolo ed è palese che invece oggi in Italia la politica sia misera cosa ed i politici uno squallido ceto di grassatori del pubblico denaro.
- il mondialismo è proprio la perdita totale dell'identità dei popoli e la loro distruzione attraverso lo sradicamento, il mescolamento, la distruzione delle peculiarità linguistiche e culturali. Che tipo di comune sentire e quindi che vita associata possa poi avere questo "Mischmasch" o macedonia è cosa che non interessa coloro che dirigono la mondializzazione ma dovrebbe interessare noi tutti. A loro interessa che ci sia un mercato planetario, un consumatore universale, ed una massa di iloti meticci che lavori per due lire, ascolti la stessa musica, mangi lo stesso cibo, si esprima trogloditicamente con lo stesso "basic english".
Ora credo che resistere a questa funesta prospettiva non sia passatismo o nostalgia ma preciso dovere di quanti comprendono il problema. La nostra identità, che è quella dell'origine, è stata sfregiata da troppe influenze aliene. Il danno maggiore è quello inferto dall'annientamento della nostra tradizione. L'unica evoluzione possibile è quella di comprendere la devastazione della modernità e progettare un'altra rivoluzione (re-volvere) conservatrice che ci riporti all'origine. Noi e gli altri europei dobbiamo tornare ad essere popolo. Non per farci "Croisés de l’Oncle Sam" (ipotesi irreale e repellente) ma per essere noi stessi e far capire agli altri popoli del pianeta che l'individualismo liberista yankee è la peggior minaccia per la loro sopravvivenza.
Harm Wulf

Giovani tedeschi!

Pensate durante le vostre escursioni alla gravità del tempo ed evitate tutte le vistosità nel contegno e negli abiti! Abbandonate gli inutili monili e i modi di fare rumorosi! Evitate l’alcol ed il tabacco anche nelle escursioni! Cantate canzoni decorose. Astenetevi da canti e rumorose allegrie là dove altri potrebbero esserne disturbati. Il vostro comportamento sia degno di stima e rispetto. Abbiate cura dei prati, delle cime, delle foreste e degli arbusti. La terra è sacra e sacro è tutto ciò che contiene.

Proteggete la nostra patria tedesca!

 
   
 

Gotenlied
a cura di Harm

"Fate largo voi popoli, al nostro passo. Noi siamo gli ultimi Goti! Noi non portiamo tesori, noi portiamo un morto. Con scudo contro scudo e lancia contro lancia, andiamo verso i venti delle terre del Nord, fino a che nel lontano e grigio mare, l'isola di Thule troveremo. Quella è l'isola vera, laggiù regnano ancora la parola data e l'onore. Laggiù verrà sepolto il Re nel tumulo delle lance di frassino. Noi arriviamo, fate largo al nostro passaggio, dalle false porte di Roma, noi portiamo solo un re, la corona fu persa."
      
    
Gotenlied

"Gebt Raum, ihr Völker, unserm Schritt:
Wir sind die letzten Goten!
Wir tragen keine Schätze mit -
Wir tragen einen Toten.
Mit Schild an Schild und Speer an Speer
Wir ziehn nach Nordlands Winden,
Bis wir im fernsten grauen Meer
Die Insel Thule finden.
Das soll der Treue Insel sein,
Ort gilt noch Eid und Ehre.
Dort senken wir den König ein
Im Sarg der Eschenspeere.
Wir kommen her - gebt Raum dem Schritt -
Aus Romas falschen Toren:
Wir tragen nur den König mit
Die Krone ging Verloren."

Die Letzen Goten: Canto del Re Teja di Harm Wulf
Molti anni fa, leggendo la raccolta di canti "Balder. Canti nella Tradizione" di curata da Aldo C., Aldo P., Nicola C. e Silvio C. ed uscita come supplemento al numero 9 del periodico "L'Alternativa" di Benevento nel 1977, m'imbattei nel testo qui sopra. Era scritto solo in lingua italiana e si chiamava König Tejas Lied (Canto del Re Teja). Casualmente, in questi giorni, ho avuto la possibilità di ascoltare il canto in un Cd del gruppo tedesco Barditius intitolato "Die letzen Goten" del 2004 (una demo della prima strofa del canto al sito http://www.noltex.de/verlag/downloads/barditusdieletztengoten.mp3 ). Ho scoperto che l'autore del testo è  Felix Ludwig Julius Dahn (detto anche Ludwig Sophus) ed è tratto da una delle sue opere più famose "Ein kampf um Rom" (Una battaglia per Roma) del 1876.

Nato il 9 febbraio 1834 ad Amburgo e morto il 3 gennaio 1912 a Breslavia. Era il figlio più vecchio di una famiglia franco-tedesca di attori di teatro. Aveva studiato Giurisprudenza e Filosofia a Monaco e si era trasferito a Berlino per terminare gli studi e conseguire il titolo di dottore in Giurisprudenza e dedicarsi all'insegnamento del diritto tedesco nell'università di Monaco. Nel 1863 è nominato docente a Würzburg, nel 1872 ottiene una cattedra a Königsberg e nel 1888 a Breslau (Breslavia). Era sposato con la scrittrice Therese von Droste-Hülshoff (1845-1929), una nipote della poetessa Annette  von Droste-Hülshoff (1797-1848). I sui lavori principali sono: Prokopius von Cäsarea. Ein Beitrag zur Historiographie der Völkerwanderung und des sinkenden Römertums del 1865; König Roderich tragedia del 1875; Die Staatskunst der Fraun commedia del 1877; Ein Kampf um Rom. Historischer Roman romanzo storico del 1876; Die Kreuzfahrer romanzo del 1884; Julian der Abtrünnige romanzo del 1893, Herzog Ernst von Schwaben romanzo del 1902, Die Könige der Germanen 11 tomi dal 1861al 1911. Il romanzo storico di Felix Dahn Ein Kampf um Rom. Historischer Roman (Una battaglia per Roma. Romanzo storico) del 1876 riscosse immensa popolarità, dipingeva un quadro vivace delle antiche imprese del popolo germanico, suscitando l'entusiasmo per gli antenati, i loro valori morali e sociali, le loro stesse caratteristiche fisiche. Il romanzo narrava la tragica caduta del regno ostrogoto (Ost- Goten, Goti dell'Est) in Italia tra la morte di Teodorico (anno 526), fondatore del regno, fino alla disfatta, ad opera dei bizantini dopo venti anni di guerra, patita dal re Teja (553 anno di morte del re e fine del regno ostrogoto in Italia) che viene riportato morto dai suoi uomini verso la leggendaria isola di Thule. L'opera è divisa in sette libri: 1 Theoderich, 2 Athalarich, 3 Amalaswintha, 4 Theodahad, 5 Witichis, 1. Abteilung e Witichis 2. Abteilung, 6  Totila 1. Abteilung e Totila 2. Abteilung 7 Teja che contiene il Konig Tejas Lied (il Canto del Re Teja). Il lavoro scientifico più importante di Felix Dahn è Die Könige der Germanen che uscì in 11 tomi tra il 1861ed il 1907. Anche oggi i lavori storici di Dahn sul Völkerwanderungszeit (tempo della migrazione dei popoli, Völkerwanderung vengono chiamate in lingua tedesca le invasioni barbariche a cui i popoli latini danno, anche linguisticamente, un'accezione esclusivamente negativa) come quelle dei suoi colleghi dell'università di Königsberg, Wilhelm Drumann e Friedrich Wilhelm Schubert. Insieme alla consorte Therese, Felix Dahn curò un'enciclopedica raccolta di studi dedicati alla preistoria tedesca alle saghe mitologiche ed alle leggende germaniche. Il lavoro storico più rilevante di Dahn è Urgeschichte der germanischen und romanischen Völker, che uscì tra il1880 ed il 1889 in quattro tomi e narra la storia dei popoli germanici e latini dall'origine fino alla morte di Carlo Magno. Un importante saggio su Felix Dahn di Kurt Frech (Felix Dahn. Die Verbreitung völkischen Gedankenguts durch den historischen Roma), è apparso nel fondamentale studio di Uwe Puschner, Walter Schmitz e Justus H. Ulbricht, Handbuch zur Völkischen Bewegung 1871-1918, München, New Providence, London, Paris 1996, pag. 685-698. ISDN 3-598-11241-6

Nel sito  http://gutenberg.spiegel.de/autoren/dahn.htm sono state messe in rete le opere di Felix Dahn: Ein Kampf um Rom. Historischer Roman, Gedichte, Walhall - Germanische Götter - und Heldensagen (di Felix e Therese Dahn). Ulteriori informazioni sull'artista al sito  http://de.wikipedia.org/wiki/Felix_Dahn

Il Cd di Barditius (sito dei gruppi Barditius, Orplid, Sonnentau www.noltex.de ) "Die letzen Goten" 15 euro comprese spese di spedizione può essere richiesto presso:

MITTGARD - Heidentum & Mittelalter
Giesserstr. 18 D 09130 Chemnitz
telefono: 0049 371 4028252  fax: 0049 371 4028676 - Internet: www.mittgard.de - E-mail: info@mittgard.de

 
   
 

Uso dello Yulleuchter
di Harm Wulf

Secondo l'Obergruppenführer Fritz Weitzel (27/4/1904 - 19/6/1940) lo Julleuchter (candeliere di Jul, antico nome del mese di dicembre), deve essere usato nel seguente modo: "Osservando il calendario del'intera festività che durava dal sesto giorno di Jul (dicembre) che era il giorno sacro a Wodan (Odino) e che adesso è il giorno di San Nicola al sesto giorno di Hornung (gennaio) che era l'antico giorno sacro a Frigga e che adesso è l'Epifania, la celebrazione principale era quella della notte del solstizio d'inverno, la ventunesima notte del mese di Jul, quando su tutte le cime delle montagne vengono illuminate dai fuochi. A questo calendario sono state apportate alcune alterazioni. Il tempo della preparazione, o avvento, ora dura dalla prima domenica di Jul al giorno 24 del mese. L'avvento contiene quattro domeniche di Jul, il giorno di Wodan ( 6 del mese), e il solstizio d'inverno (21 del mese). In dodici giorni del periodo iniziano con la notte di Natale il 24 di Jul e terminano con il giorno di Frigga il 6 di Hornung. Questi dodici giorni detti "die Zwoelften" sono pieni di speciali celebrazioni in particolare per la vigilia del nuovo anno e per il primo giorno dell'anno nuovo (...) La sera della vigilia Natale il capofamiglia accende lo Yulleuchter. Alla vigilia seguono "die Zwoelften" i dodici giorni sacri. Questi giorni furono importanti festività per i nostri antenati e nessuno deve lavorare in questo periodo. Wodan e il suo esercito dei Morti cavalca nel cielo e Frigga o Frau Holle, guida l'esercito dei Non nati sulle teste della gente (...) L'ultima sera dell'anno è tempo di gioia (...) A mezzanotte il capofamiglia metterà lo Yulleuchter sul tavolo. La sua candela vecchia brucia ed è stata usata per tutte le festività familiari dell'anno. Quindi è quasi terminata. Dovrà perciò ricevere la nuova candela questa notte. Come i nostri antenati non permettevano al fuoco sacro di spegnersi allo stesso modo il nostro Yulleuchter deve avere sempre una fiamma accesa. Così il candeliere diventa il simbolo dell'eterna ed imperitura luce del sole. Ognuno riflette su ciò quando, alla mezzanotte, la candela dell'anno vecchio viene usata per accendere quella dell'anno nuovo che viene messa al suo posto. Tratto dal libro Fritz Weitzel "The SS Family book. Procedure for conducting family celebrations" Ulric Publishing, 1998, edizione limitata in 1000 copie numerate, versione inglese a cura di Ulric of Englanfd e Charles Barger del testo di Fritz Weitzel "Die Gestaltung der Feste im Jahres und Lebenslauf in der SS-Familie" 1939, SS-Oberabschnitt West. Formato A4, 72 pagine e 30 fotografie ed illustrazioni, ISBN 0 9529103 1 4, prezzo: 20,00 Sterline inglesi comprese le spese di spedizione. I temi trattati dal libro: come vedevano le SS l'unità familiare? Quale era la loro fede religiosa? Come celebravano le festività dell'anno? Che significato avevano "Totenkopf Ring", "Julleuchter", "Julteller", and "Geburtstagring"? Cosa significavano le Rune e cosa era l'angolo di Jul? La documentazione e le fotografie che appariono in quest'opera non sono mai state ripubblicate dal 1945. Richiedere a: Ulrich Publishing P.O. Box 55 Church Stretton Shropshire SY6 6WR England Tel. 0044 1694 781354 Fax 0044 1694 781372 E-mail: books@ulric-publishing.com http://www.ulric-publishing.com/ Yulleuchter in ceramica naturale, lavorato a mano, altezza circa 22 cm., larghezza 12 cm è in vendita (articolo n. 154954) nel catalogo Lesen & Schenken 2005 Richiedere a: Lesen & Schenken ARNDT Buchdienst / Europa Buchhandlung Postfach 3603 D – 24035 Kiel Tel. 04384 59700 - Fax 04384 597040 E-Post: Buchversand@lesenundschenken.de Sulla festa di Yul vedi anche: Ura Linda. Una saga indoeuropea: il popolo frisone. Testo e note a cura di Herman Wirth, pag. 174, Edizioni Barbarossa, 1989 ( richiedere barbarossasrl@tiscali.it ) Victor Coremans Sur les fetes du Jul Aencre, 1996 (richiedere a www.librairienationale.com Librairie Nationale, 12 rue de la Sourdière, 75001 Paris)

 
   
 

Marienfels: una storia tedesca

Più di trent'anni fa, nel 1971, a Marienfels, un villaggio di circa 3.000 abitanti vicino Coblenza in Germania, fu eretto un monumento per commemorare gli oltre 20.000 caduti della I.SS Panzer Division “Leibstandarte” e della XII.SS Panzer Division “Hitlerjugend”, reparti delle Waffen SS.

Esisteva un legame storico preciso tra quel villaggio e i reduci della seconda guerra mondiale. Nell’inverno del 1939 - 1940 i membri delle due divisioni erano stati acquartierati presso privati nel piccolo villaggio del Taunus. Erano nati rapporti d’amicizia tra gli abitanti e i militari che avevano portato alla costruzione nel piccolo cimitero del paese, e di un monumento che ricordasse quanti avevano dato la vita per il proprio paese. In questo luogo si riunivano nel giorno dei morti le schiere sempre più ridotte dei reduci e quanti avessero voluto ricordare i caduti. La scritta del memoriale recitava "I morti della guerra ammoniscono il mondo alla pace": sopra una croce di ferro e le parole "Ai nostri camerati caduti del I.Panzer-Korps. Fedeltà per i fedeli".

Dal 2001 il comune, attraverso l’opera del sindaco SPD Alex Harlos, aveva intimato al Kameradenschaftsverband (l’associazione dei reduci) ed al suo rappresentante Claus Cordsen di 83 anni la rimozione dei simboli delle Panzer Division ed il pagamento di una forte somma per “assicurazione”. L’azione intimidatoria nei confronti dei reduci era appoggiata anche dal parroco cattolico della comunità Moos e da diversi membri della comunità, sensibili alla dittatura del “political correctness”.

Giganteschi memoriali per l’olocausto sorgono in ogni dove, l’ultimo a Berlino a pochi passi dalla porta di Brandeburgo, ma l’attenzione dei media e dei censori liberali era indirizzata verso il piccolo memoriale di un villaggio di 3.000 persone. Sotto la pressione dei media, del parroco cattolico e del sindaco socialista il comune provvedeva a rimuovere i due simboli delle Divisioni Waffen SS. Seguivano diverse azioni notturne di coraggiosi “antifascisti” che di notte imbrattavano il piccolo sacrario con la scritta “assassini” e rimuovevano la “T” dalla scritta “Treue um Treue” (Fedeltà per i fedeli) rendendola “Reue um Treue” (Rimorso per i fedeli). Dopo queste miserie, mai riportate dalla grande stampa, si arrivava al bando per la tradizionale cerimonia di commemorazione di novembre dei reduci. La paura era che tra questi si potessero infiltrare pericolosi eversori. Erano seguite diverse dimostrazioni di segno opposto: coloro che chiedevano di poter continuare ad onorare i morti e coloro che chiedevano il divieto di commemorare.

La storia già abbastanza squallida sarebbe dovuta terminare nella notte del 3 maggio 2004. Ignoti “eroi” provvedevano alla completa distruzione del monumento ai caduti. La polizia rimoveva i resti del monumento portandoli nel terreno di un membro del Kameradenschaftsverband. Fiori erano deposti sul luogo dello scempio. Alcuni promettono la ricostruzione identica a Fetterode presso Eichsfeld in Turingia in un terreno privato.

Anche quest’anno si terrà a Marienfels la quinta marcia di protesta intitolata "Für den Wiederaufbau des Denkmals des I.SS-Panzerkorps!" (Per la ricostruzione del monumento del I. SS-Panzerkorps). Gli organizzatori chiedono a tutti coloro che ritengono doveroso ed onorevole ricordare il sacrificio di chi ha dato la propria vita per la difesa della patria di partecipare. La data fissata è il 13 maggio 2006 alle ore 14.00 presso il cimitero Friedhof Marienfels.

Wir werden unseren Schwur nicht brechen: Treue um Treue!

Harm Wulf

 
   
 

Wir kapitulieren nie!
di Harm Wulf


Il Neuen Rathaus di Lipsia ieri ed oggi

Verso la metà d’aprile del 1945, Lipsia resisteva agli invasori. La città, quinta per dimensioni nel Reich,750.000 abitanti, era un importante centro d’industrie, commerci e cultura. Sua era una delle università più antiche, sua la sede del Reichsgericht, la Corte suprema tedesca. Il suo nome era legato anche al ricordo della Battaglia delle Nazioni in cui Prussia, Russia, Impero austro-ungarico e Svezia avevano battuto l’esercito di Napoleone nell’ottobre 1813.  Gli ultimi bombardamenti terroristici anglo-americani sulla città di Lipsia erano stati effettuati il 6 ed il 10 aprile 1945. La popolazione era terrorizzata sia dalle incursioni aeree (dall’agosto 1942 all’aprile 1945 c’erano stati 24 attacchi aerei circa 5000 morti, migliaia di feriti e senza tetto) che dalle notizie di distruzione totale che provenivano dalla capitale e da gran parte delle città del Reich. Il 17 aprile i carri armati americani si avvicinavano alla città incontrando poche, ma determinate, sacche di resistenza formate essenzialmente da battaglioni del Volkssturm, la milizia popolare reclutata tra giovani ed anziani, e della Hitlerjugend dotate solo d’armi leggere e Panzerfaust. La difesa della città organizzata attorno a pochi punti strategici, la stazione ferroviaria Hauptbahnhof, la birreria Felsenkeller, l’Elsterbecken, il parco Rosental, il nuovo municipio Neuen Rathaus e l’imponente monumento alla battaglia delle Nazioni Völkerschlachtdenkmal.

La 69° Divisione di fanteria dell’esercito americano si avvicina lentamente ma inesorabilmente alla città preceduta dai primi carri armati della 9° Divisione corazzata guidata dal Generale John W. Leonard. Le forze americane provenienti da ovest riescono a conquistare Weissenfels dopo due giorni di furiosi combattimenti e formano un semicerchio attorno a Lipsia che si prepara alla battaglia. Il 17 aprile i colpi dell’artiglieria americana cominciano a piovere attorno alla città e la mattina del 18 le due divisioni sono pronte per l’attacco finale. Le forze disponibili per la difesa sono: un battaglione della riserva del 107° Reggimento di fanteria con 750 uomini tra cui 50 reclute mal addestrate; un battaglione di trasporto di riserva con 250 uomini entrambi sotto il comando della Werhmacht col Generale Hans von Poncet; otto battaglioni del Volkssturm comandati dal vecchio sindaco (in carica fino al 1938) e dirigente locale del partito nazionalsocialista Generale Walter Dönicke; 3.500 uomini della polizia cittadina sotto il comando del Generale Wilhelm von Grolman. Le armi a disposizione sono solamente quelle leggere, poche mitragliatrici, molti Panzerfaust ma nessuna arma pesante o carro armato. La situazione è evidentemente disperata, ma sono organizzate tre linee di difesa: la prima ad ovest della città tenuta dai ragazzi della Hitlerjugend e armata di Panzerfaust per bloccare i carri, la seconda tenuta dalla Werhmacht sì attesa intorno al periplo della città; la terza e principale linea di difesa segue il corso del fiume Elster che separa la parte occidentale più piccola da quella principale ad est. Se i nemici arrivassero sin qui si farebbero saltare tutti i ponti della città. Il 14 aprile si tiene un incontro organizzativo tra il Generale Hans von Poncet, i comandanti militari e civili, il sindaco Alfred Freyberg, il Generale del Volksstrum Walter Dönicke e Generale Wilhelm von Grolman. Tra le titubanze di quest’ultimo che non voleva far saltare i ponti ed impegnare la polizia nella difesa della città, von Poncet spiegò a tutti che era necessario difendere Lipsia fino all’ultimo colpo. Si prepararono le barricate con autobus che sbarravano le strade riempiti di pietre. Gli ultimi ridotti da difendere erano il municipio, la stazione ed il Völkerschlachtdenkmal. Il 17 aprile su ordine di von Poncet il Generale del Volksstrum Walter Dönicke con 500 membri della milizia popolare si barricano nel Neuen Rathaus. Lo stesso von Poncet con 300 dei suoi uomini migliori si asserraglia nel monumento della Battaglia delle Nazioni colmo d’armi, viveri e munizioni: era la rappresentazione ideale dell’indomito spirito di resistenza tedesco, come nel 1813 si doveva tener testa al nemico anche quando tutto sembrava perduto.

La notte del 17 aprile 1945 manipoli di SS attraversavano i sobborghi della città obbligando la popolazione a togliere le poche bandiere bianche esposte e ad organizzare la resistenza. La mattina del 18 aprile il 23° battaglione di fanteria, appoggiato da due battaglioni di carri armati, il 741° e il 612° iniziavano ad occupare la città. La popolazione osserva attonita, qualcuno applaude e offre fiori e viveri, la maggioranza osserva silenziosa. Alla fine delle due arterie principali verso i ponti, rimasti intatti per decisione del borgomastro che voleva evitare altre sofferenze alla popolazione, comincia il fuoco dei Panzerfaust. Diversi carri sono centrati e prendono fuoco. Incomincia la lotta casa per casa, i cecchini fanno fuoco sugli americani. Gli scontri si susseguono in tutto l’abitato. L’assalto finale nel centro inizia alle 12,45: la lotta impari prosegue. Con le armi leggere ed i Panzerfaust, i ragazzi della Hitlerjugend attaccano senza sosta le avanguardie nemiche, i tiratori scelti colpiscono gli americani che reagiscono furiosi con colpi d’artiglieria contro le case. Un soldato americano che spara con una mitragliatrice da un balcone sul ponte Zeppelin viene centrato da un tiratore tedesco: la scena è immortalata dal fotografo americano Robert Capa di Life. L’artiglieria si accanisce sui centri di resistenza martellandoli senza sosta. Il monumento delle Nazioni in cui la resistenza diretta da von Poncet è fortissima, la stazione, il municipio sono ripetutamente colpiti dai colpi dei carri e degli obici. La battaglia continua disperata ed inesorabile. Intermediari americani cercano di trattare la resa della città: il Generale von Grolman ha deciso di arrendersi con la polizia ma gli altri non cedono. Alle 21,30 uno strano silenzio cala sulla città e la notte passa tranquilla. La mattina del 19, dopo un pesante bombardamento del Rathaus e altri due assalti falliti, alle 9.30 attraverso la proposta di un prigioniero tedesco mandato a trattare con i difensori del municipio e sotto la minaccia della totale distruzione della struttura con artiglieria pesante e lanciafiamme, parte dei difensori accetta la resa. Vengono catturati un generale e 175 uomini e 13 agenti di polizia.

A mezzogiorno il comandante della 69° Divisione di fanteria Generale Reinhardt issa la bandiera americana sull’edificio. Nella Turmzimmern (camera della torre) e nelle stanze adiacenti del sono rinvenuti i cadaveri di nove persone. La scena viene immortalata da diversi fotografi: J.M. Heslop del USA Signal Corps photographer Tech/5, e due famose fotografe americane Lee Miller e Margaret Bourke-White. Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco ha scelto per la copertina del suo bel romanzo (“Le uova del drago” edito da Mondadori nel 2005) proprio uno degli scatti della Miller. Negli anni tra il 1941 ed il 1945 la Miller lavorò come reporter fotografica di guerra per la rivista Vogue. Tutto il lavoro della fotografa, circa 60.000 negativi, fotografie originali e manoscritti, è conservato nel Lee Miller Archives (Lee Miller Archives: Farley Farm House, Muddles Green, Chiddingly, East Sussex, BN8 6HW, England E-mail: archives@leemiller.co.uk web: www.leemiller.co.uk). Essendo “Le uova del drago” uno dei successi editoriali dell’anno, la già famosa fotografia è diventata assai popolare anche in Italia, paese in cui il lavoro di documentazione della Miller è noto solo a pochi specialisti. Nel libro “Lee Miller’s war” (edito da Thames & Hudson, New York, 2005) la fotografa scrive a pagina 176: “In uno degli uffici un uomo dai capelli grigi (Alfred Freyberg) sedeva con la testa appoggiata sulle mani incrociate sul tavolo. Di fronte a lui riversa su una poltrona una donna pallida con gli occhi aperti ed un rivolo di sangue seccato sul mento. Sdraiata sul sofà una ragazza con dei denti straordinariamente belli, dal colorito cereo e impolverata. La sua uniforme da crocerossina è cosparsa di calce segno della battaglia che è continuata fuori dal municipio dopo la loro morte. Nella stanza successiva un mostruoso manichino di un uomo in uniforme da generale del Volksstrum giace sulla schiena. C’è un altro gruppo familiare nella terza anticamera. Nel seminterrato due ufficiali delle SS hanno bevuto del brandy seduti ad un tavolo e si sono suicidati.”. La descrizione della Miller è parziale e poco accurata. In realtà il suicidio della famiglia di Alfred Freyberg non è mai stato fotografato. La rivista inglese “After the battle” (www.afterthebattle.com) n. 130 dedicata alla battaglia per conquistare Lipsia ci fornisce con maggior precisione i dettagli della fotografia. Il 18 aprile 1945, mentre la città sassone è sotto assedio e resiste agli invasori americani, il Dottor Kurt Lisso (nato il 7/3/1892) vicesindaco e Stadtkämmerer (tesoriere comunale), la moglie Renate Lübbert (nata il 12/4/1895) e la figlia di 21 anni Regina Lisso (nata il 24/5/1924) con la fascia al braccio della croce rossa tedesca si danno la morte avvelenandosi con il cianuro nell’ufficio della Neuen Rathaus.

Nel romanzo di Buttafuoco a pagina 30, Regina, diventata Annelise Boldt, viene descritta così: “Tutto qua: Eughenia offre i propri servigi al Führer. Si farà un punto d’onore di continuare ad obbedirgli oltre la sua morte, malgrado la sconfitta militare e l’annientamento della nazione germanica; se ne farà un punto di stile, perciò continuerà la missione trascinandosi dietro, quali cemento, malta e ferro per la cuccia delle sue “Uova”, tre bauli carichi d’oro e di segreti. Perseverante, procederà nel tessere la trama anche quando da Lipsia, nell’aprile del 1945, i servizi segreti inglesi le faranno arrivare sotto gli occhi, a scopo pedagogico, la foto di Annelise Boldt, sua compagna ai tempi dei corsi di preparazione organizzati dallo Stato Maggiore. Una foto niente male, quanto a rapina estatica. E’ uno scatto di Lee Miller, fotografa americana che collezionò le istantanee dei cadaveri di suicidi disseminati ovunque in Germania. Annelise Boldt ha le braccia composte nell’abbandono, sembra colta in un istante di sovrappiù d’assenza. La pelle delle mani è bianchissima. Il volto, bianchissimo. La corona dei denti, intravista tra le labbra socchiuse nell’atto definitivo del mancato respiro, bianchissima. Anche le labbra sono bianchissime, e c’è bianco tutto intorno: un bianco, però, di sporco. Bianco di polvere è il divano di duro cuoio dove Annelise resta distesa, col collo piegato all’indietro come a voler dare spinta ai capelli, biondi ma sporchi di bianco, cosparsi di polvere. Sporco di bianco il corpo, sporco il cappotto militare, sporca la fascia della croce rossa, sporcata di bianco.”

Nella stanza accanto si tolgono la vita con la stessa tecnica, l’Oberbürgermeister Alfred Freyberg, sua moglie e la figlia diciannovenne. Stranamente nessuna fotografia viene scattata nonostante la stanza sia adiacente a quella del Dottor Lisso. Bruno Erich Alfred Freyberg era nato a Harsleben bei Halberstadt il 12 luglio 1893, fu avvocato e uomo politico del NSDAP. Studiò giurisprudenza nelle università di Genf, Königsberg, München e Halle. Dal 1923 al 1926 fu impiegato presso il Reichsfinanzverwaltung. Dal 1926 comincio la carriera di avvocato a Quedlinburg. Dal 21 maggio 1932 Alfred Freyberg fu presidente del consiglio del Land Sassonia-Anhalt. Fu il primo nazionalsocialista a raggiungere quella carica. Dal 21 agosto 1939 fu Oberbürgermeister della città di Leipzig (Lipsia).

Le foto di Margaret Bourke-White correttamente fanno riferimento al nome Lisso.  La didascalia recita “Dr. Kurt Lisso, Leipzig's city treasurer, and his wife and daughter after taking poison to avoid surrender to U.S. troops, Leipzig dal sito http://masters-of-photography.com”. La versione della fotografa trova conferma anche nel resoconto di Edward Ward della BBC Broadcast del 19 aprile 1945 che descrive correttamente la scena (After the Battle, n. 130 pag. 26). La serie delle famose immagini mostra da diverse angolature i corpi della famiglia Lisso all’interno dell’ufficio comunale. Una sottile coltre di polvere li ricopre e testimonia dei bombardamenti americani di qualche ora prima. La figlia di Kurt Lisso, Regina, bellissima con la cuffietta delle crocerossine ed il volto angelico, è riversa su un divano con le braccia conserte. Tutti e sei hanno scelto la libera morte - suicidio in tedesco di dice anche “Freitod” libera morte - nella tarda mattinata del 18 aprile. Nell’anticamera dello studio del Dr. Lisso giace un uomo: è il dirigente locale del partito nazionalsocialista, precedente Oberbürgermeister e generale della milizia popolare di difesa Volkssturm, Walter Dönicke, strenuo sostenitore della difesa ad oltranza della città. Nella stanza del consiglio comunale ci sono i corpi di due suoi ufficiali: il SA-Oberführer Paul Strobel ed il dirigente del NSDAP Willy Wiederroth. Si sono suicidati la mattina del 19 poco prima della presa dell’edificio. Nove tedeschi hanno mantenuto fede alla promessa dello slogan ripetuto ossessivamente da giornali e radio: Wir kapitulieren nie! Non capitoleremo mai. Al disonore, alla resa ed all’occupazione della patria hanno preferito la morte. Tra pochi giorni altri cadranno e seguiranno l’esempio. La sera del 19 aprile il giorno antecedente al compleanno del Führer il Reichsminister Dottor Joseph Goebbels concluderà il suo messaggio alla radio con queste parole: “La Germania è la terra della fedeltà. Festeggerà nel pericolo il suo più bel trionfo. Parlando di questi giorni, la storia non potrà mai dire che il popolo abbia abbandonato il suo capo o il capo abbia abbandonato il suo popolo. E questa è la vittoria!”
Appena dopo queste parole echeggiarono alte, in coro, le strofe di Deutschland hoch in Ehren canto di Ludwig Bauer del 1859: “Haltet aus, haltet aus, laßet hoch das Banner wehn! Zeigen ihm, zeigt dem Feind, daß  wir treu zusammenstehn! Daß  es unser alte Kraft erprobt, wenn der Sturmwind uns entgegentobt, haltet aus im Sturmgebraus!” (testo al sito http://www.liedertafel.business.t-online.de/O_Deutschland.htm  ascoltabile al sito  http://www.liedertafel.business.t-online.de/odeutschlandmono.mp3  Resistete, resistete, tenete alta la bandiera! Dategli prova, dimostrate al nemico che fedeli restiamo uniti! Mettete alla prova l’antica forza quando il vento furioso ci è avverso, resistete nell’urlo della tempesta!). (vedi A. Romualdi La Battaglia di Berlino Ed. Ar, 1977, pag. 29 www.libreriaar.it ). Dei corpi dei caduti sembra sia stato fatto scempio dai “liberatori”: nonostante le ricerche non è dato sapere la locazione delle tombe dei nove martiri ma forse, tra coloro che leggeranno il mio articolo, ci sarà qualcuno che le troverà nel cimitero di Lipsia...

1) 1)Combattimenti nel centro città 

2) 3)
2) Margaret Bourke-White “Suicidio della famiglia Lisso” Lipsia 19 aprile 1945
3) J.M. Heslop”Dr.Kurt Lisso” Lipsia 19 aprile 1945

4)5)6)
4) J.M. Heslop “Suicidio della famiglia Lisso” Lipsia 19 aprile 1945
5-6) J.M. Heslop “Generale, dirigente del partito e precedente sindaco di Lipsia Walter Dönicke” Lipsia 19 aprile 1945

Copertina del libro di Pietrangelo Buttafuoco - Lee Miller “Regina Lisso” Lipsia 19 aprile 1945

Certificato di Nascita - Certificato di Morte

 
   
 

Mathilde Ludendorff. La lancia che non si spezza


Mathilde Ludendorff ritratta nel 1941 da W. Willrich - Mathilde ed Erich Ludendorff

Mathilde Friederike Karoline Spieß nacque il 4 ottobre 1877 a Wiesbaden figlia del pastore protestante Bernhard Spieß. Già nell’infanzia e nella scuola primaria Mathilde è una ragazza intelligente, precoce e fortemente polemica contro le discriminazioni attuate verso il sesso femminile. Alle sue obiezioni e critiche gli insegnanti rispondono, evitando di entrare nel merito, che il suo comportamento non s’addice ad una signorina per bene. Le modeste condizioni economiche della famiglia non impediscono a Mathilde ed alla sorella di proseguire gli studi. Si orienta verso un corso rapido, di quelli che esistevano al tempo, per diventare insegnante al termine del quale è assunta in un pensionato per ragazze. Il lavoro non è soddisfacente ma accetta di rimanere per guadagnarsi il necessario per sostenere l’esame di maturità nella scuola superiore ed iscriversi alla facoltà di medicina. Nel 1904 sposa il docente di Zoologia ed Anatomia Gustav Adolf von Kemnitz, che viveva nella casa dei genitori di Mathilde come figlio adottivo, a cui darà tre figli. Si trasferisce col marito a Berlino ed interrompe gli studi universitari che riprenderà a Monaco nel 1910. Si laurea nel 1913 con una tesi sulle differenze sessuali come fattore specifico nelle facoltà spirituali dell’uomo e della donna. Dopo un periodo di tirocinio come assistente medico a Garmisch-Partenkirchen nel 1915 lascia la località montana bavarese con la qualifica di medico neurologo. Dal 1916, anno in cui si rompe il suo matrimonio a causa di una relazione adulterina del marito, che morirà nel 1917 in un incidente di montagna, Mathilde inizia lo studio della filosofia e sviluppa una visione del mondo ispirata alle concezioni religiose völkisch. Nel 1917 fonda e dirige una casa di cura privata con cui sostenta la famiglia. Nel 1918 si impegna politicamente nella lotta contro il governo comunista della Repubblica dei Consigli bavarese e comincia a pubblicare diversi libri dedicati alla questione femminile ("Das Weib und seine Bestimmung", "Der Minne Genesung", "Des Weibes Kulturtat"). Nel 1920 lavora per un “Concilio delle Donne” vicino Monaco che doveva essere la premessa alla fondazione della “Lega Nazionale delle Donne”. Le sue idee sulla questione femminile analizzano soprattutto le questioni psicologiche dei sessi, promuovono una nuova cultura dell’amore in opposizione a quella cristiana e sostengono i diritti delle donne nella vita pubblica. Alla questione femminile fornisce anche una spiegazione storica: l’uomo e la donna sono di pari valore ma di diversa forma: “Il soggiogamento della donna è da comprendere come la facile e violenta soluzione di una tensione dell’animo dell’uomo, la sua volontà d’affermazione in opposizione alla indipendenza sessuale della donna. La sottomissione della donna fu massima perciò tra quei popoli guerrieri e con una forte e sregolata sensualità come gli asiatici e gli ebrei il cui obiettivo di dominio mondiale deve essere perseguito dalla fedeltà degli uomini al comandamento religioso. L’auto dominio, che tra i Germani era presente anche nella vita istintuale, li proteggeva dal dominio femminile e lasciava un grande valore alla donna e l’equiparazione della vita sessuale. Tra noi fu per primo il Cristianesimo che ebbe bisogno della degradazione, dell’interdizione della donna e delle sue conseguenze: spaccatura della vita culturale, abuso maschile della funzione guerriera e corruzione dei costumi.” Nel 1919 si sposa in seconde nozze con il maggiore Edmund Georg Kleine da cui si separerà due anni più tardi. Nel 1923 attraverso la conoscenza di Gottfried Feder (1883 – 1941 ingegnere, economista e principale ideologo dei primi tempi del partito nazionalsocialista) viene in contatto con il Generale Erich Ludendorff, eroe della prima Guerra mondiale, vincitore dei russi nella battaglia di Tannenberg, esponente nazionalista e reduce dal fallito putsch di Monaco insieme ad Adolf Hitler. Ludendorff le affida in cura la moglie morfinomane da cui si separa nel 1925 per sposarsi con Mathilde nel 1926 a Tutzing in alta Baviera. Il matrimonio con l’eroe della prima guerra mondiale accresce la fama di Mathilde ma l’unione con il generale è anche il sodalizio intellettuale di due persone con la medesima visione del mondo per cercare di realizzare una missione storica: salvare la nazione tedesca. Mathilde nei suoi studi scientifici sulle religioni di prima della guerra aveva cercato di spiegare le varie fedi religiose attraverso l’esegesi dei diversi testi sacri che lei considerava anche come documenti storici che riflettevano la cultura e lo sviluppo di un aggregato sociale. Mathilde integrò i fondamenti del suo sistema filosofico con l’opera di Kant, Schopenhauer, di Nietzsche (soprattutto il libro “Genealogia della Morale”) e con la visione religiosa originaria germanica. Chiamò la sua filosofia religiosa “Deutsche Gotterkenntnis” (conoscenza di Dio tedesca) e sostenne l’indispensabile ritorno ai valori ed alla morale germanica pre-cristiana. Per perseguire gli scopi che si erano prefissi Erich e Mathilde Ludendorff fondano nel 1925 il Tannenbergbund, e, nel 1930, l’associazione religiosa “Deutschvolk” che presto riescono ad avere oltre 24.000 aderenti (K. Weissmann Druiden, Goden. Weise Frauen Herder Verlag, 1991, pag. 53). La Haus Ludendorff a Tutzing diviene la base centrale del movimento e della stampa collegata: il mensile “Am heiligen Quell deutscher Kraft” (Alla sacra fonte della forza tedesca che vende oltre 45.000 copie), il settimanale “Ludendorffs Volkswarte” (l’osservatorio del popolo di Ludendorff) e l’inserto “Vor’m Volksgericht” (davanti al tribunale del popolo) redatti dal generale, dalla moglie e illustrati dalle caustiche penne di Hans Günther Strick ed Hermann Rehwaldt (per una selezione delle caricature vedi “Mit spitzer Feder und grimmigen Humor” curato da Franz von Bebenburg, Verlag Hohe Warte, 1983). Molti di questi giornali e riviste saranno sottoposti a censura prima e durante il regime nazionalsocialista per i contenuti di forte polemica contro il cristianesimo protestante e cattolico. La critica nei suoi confronti ma anche quella contro le altre "geheimen überstaatlichen Mächten" (potenze segrete sovrastatali) era rigorosamente radicale. Queste forze erano identificate nel Cristianesimo politico, con il suo braccio cattolico (gerarchie vaticane e Gesuiti) e quello delle chiese protestanti, nella Plutocrazia del grande capitalismo internazionale, nel Giudaismo, nella Massoneria e nel Bolscevismo. Mathilde sosteneva nei suoi innumerevoli ed approfonditi studi che ciascun popolo avesse sue caratteristiche specifiche di comportamento e di religiosità e riteneva, come molti suoi contemporanei, che il Giudaismo fosse fondamentalmente ostile non solo al popolo tedesco ma a tutti gli altri popoli radicati. Era l’invisibile burattinaio che insieme alle altre grandi mafie internazionali manovrava la politica e l’economia internazionale. Il tutto era finalizzato a ridurre i popoli radicati e fieri delle proprie specifiche identità a delle masse amorfe, facilmente condizionabili e dominabili. A quel tempo idee simili erano sostenute anche da Moeller van der Bruck e Edgar Jung (analisi del pensiero di questi autori in Stefan Breuer La Rivoluzione conservatrice Donzelli Editore, Roma, 1995) che ritenevano che i gruppi etnici e le razze avessero una coscienza che ereditavano dai loro antenati nei loro fondamenti religiosi e di credenze spirituali. Carl Jung (1875 – 1961) sosteneva che l’inconscio conteneva molto di più che il rimosso personale: vi era contenuto un profondo substrato sociale connesso a quello che Franklin L. Baurner definiva “oltre il mero individuale”. L’inconscio collettivo di Jung emergeva nelle visioni religiose, nei simboli e nei miti dell’umanità. Nel “L’anima dell’uomo” Mathilde scrisse: “Tutti i passi fatti dagli esseri umani per aumentare il loro grado di coscienza sono stati ottenuti con l’illuminazione verso il sacro di un individuo solo in mezzo ad un’ecatombe d’altri esseri viventi. Secondo le stesse leggi naturali, la prima esperienza di Dio non è nata in tutti i precedenti esseri ma solo nel soggetto delle specie più cosciente del divino. Nello steso modo, per tutto il tempo da cui esiste l’umanità, tutti gli altri passi dalla creazione fino ai nostri giorni sono fissati nel subcosciente dell’eredità razziale. La stessa cosa può essere detta per la prima esperienza di Dio attraverso le generazioni, con tutte le conseguenze sul “carattere ereditario”, l’eredità razziale di un gruppo etnico ed il carattere razziale di una nazione.” Secondo la sua visione, il popolo eredita la sua spiritualità così per riacquisire fiducia, forza spirituale e grandezza materiale è indispensabile per la Germania e per l’Europa espellere tutte le influenze aliene come il Cristianesimo, il Giudaismo ed i principi dell’Illuminismo francese. Attraverso la sua opera filosofica Mathilde cerca di dimostrare, in accordo con le idee del marito, che solo la stretta aderenza d’unità razziale e concezione del divino possono portare alla liberazione tedesca. Questa particolare enfasi sul dovere del rinnovamento spirituale del popolo tedesco e la profondità e vastità degli elaborati teorici e filosofici mettono i Ludendorff in una posizione particolare rispetto agli altri gruppi völkisch della rivoluzione conservatrice. Il livello teorico, i riferimenti intellettuali e la qualità culturale, oltre alla fama del Generale ed un proprio circuito di librerie, permettono una gran diffusione ai libri di Mathilde. La polemica con i nazionalsocialisti verso la prima metà degli anni trenta si fa pesante. Mathilde è una delle poche donne che non ha paura di tener testa a Hitler e di manifestare apertamente la propria ostilità al regime nazionalsocialista che accusa di aver tradito gli ideali del movimento völkisch trescando con l’alta finanza e le gerarchie vaticane. Tra il 1932 ed il 1937 molti giornali del movimento Ludendorff sono sequestrati e sottoposti a censura. Il 22 settembre del 1933 vengono messi fuori legge il Tannenbergbund e i Deutschvolk. Solo il 12 marzo 1937, dopo un colloquio tra Erich Ludendorff e Adolf Hitler, si raggiunge una tregua. Il 5 aprile 1937 in un articolo su “Am heiligen Quell deutscher Kraft” il Generale annuncia che è stata garantita la libertà per il membri del“Deutsche Gotterkenntnis” che da ora si dovrà chiamare solo Bund für Deutsche Gotterkenntnis. L’8 maggio 1937 il Deutsche Gotterkenntnis ottine lo status ufficiale di religione e diventa la terza confessione in Germania al livello di cattolicesimo e protestantesimo. Il 20 dicembre 1937 il Generale Erich Ludendorff muore e Mathilde pretende che nei funerali di stato sia esposta solo la bandiera prussiana. Da questo momento Mathilde prende le redini del movimento che dirigerà fino alla sua scomparsa. Continua il suo lavoro filosofico d’elaborazione ed approfondimento analizzando il nuovo rapporto che l’uomo può e deve creare con il sacro. E’ un tema a cui Mathilde ha dedicato innumerevoli studi sia per smascherare le presunte verità rivelate del Cristianesimo sia per cercare di far comprendere la nuova e decisiva posizione in cui si trova il genere umano dopo il nichilismo. Hans Kopp spiegherà così la visione religiosa di Mathilde: “Così dobbiamo intendere la sua opera. Né il sacrificio agli Dei, né il sacrificio di un Dio possono sopravvivere come residuo credibile in un mondo senza Dei e che volge le spalle a questo Dio della felicità che viene da Gerusalemme ed al suo Figlio. E' vero che ci sono sempre stati alcuni che hanno compiuto il salto verso un nuovo livello di consapevolezza religiosa, ma dopo tutte le esperienze in questo campo pochi, che sono solo l'espressione di un desiderio generale, conducono dietro di sé gli altri. L'uomo è ormai collocato sulle fondamenta del proprio io: egli solamente possiede la risposta da dare al destino. Né la preghiera verso al cielo, né l'ascetica rinuncia richiamano quaggiù un Dio. Solamente attraverso l'auto-liberazione dai lacci della schiavitù della propria volontaria sottomissione, l'uomo può elevarsi alla libertà dell'auto-responsabilizzazione. La fusione tra l’uomo e Dio, che nelle antiche religioni si voleva raggiungere tramite l'aiuto di tutte le possibili rappresentazioni magiche e idee immaginarie, sarà raggiunta solo attraverso l’io, che nella sua spontanea esperienza del divino, compie se stesso e la creazione.” La Germania perde la guerra ed il popolo tedesco vive la sua catastrofe morale e materiale. La volontà di vendetta dei vincitori si abbatte anche contro Mathilde. I suoi libri sono inseriti nelle liste di proscrizione e proibiti (pubblicate dalla Uwe Berg Verlag Tangendorfer Str. D 21442 Toppenstedt, la lista completa al sito http://www.vho.org/censor/tA.html). Il procedimento di denazificazione oltre al lavaggio del carattere e alla messa fuorilegge e distruzione di decine di migliaia di libri richiede anche continue e vergognose abiure. Nella Germania distrutta e umiliata quasi tutti sono pronti a piegarsi e prostituirsi ai vincitori. Mathilde è di un’altra tempra. Il suo cognome da nubile, Spieß, significa lancia ed è una lancia che non si spezza. Il pittore Wolfgang Willrich, vecchio membro del Tannenbergbund ed amico di lunga data di Mathilde (vedi http://www.thule-italia.com/arte/Willrich/willrich.html), esegue due suoi ritratti (in vendita al sito www.hohewarte.de) nel 1941 e nel 1947: caratteristica comune dei dipinti è la fierezza che traspare dallo sguardo. La stessa fierezza che Mathilde manifesta il 23 novembre 1949, quando contro di lei viene aperto un procedimento per motivi ideologici: non rinnega nulla di quanto ha scritto o sostenuto. In una dichiarazione difensiva di 80 pagine riafferma che ogni popolo ha una “völkische Identität” e delle caratteristiche particolari, afferma di non essere antisemita ma di ritenere che in generale gli ebrei siano animati da sentimenti antitedeschi. Non esprime le richieste abiure e condanne per i “crimini dei vinti” ma sostiene che anche tra i Nazionalsocialisti siano state attive quelle "geheimen überstaatlichen Mächten" che si battono contro lo spirito del Deutschtum e contro tutti i popoli radicati. Il 5 gennaio 1950 la commisssione la classifica Hauptschuldig (colpevole principale) anche se un successivo procedimento dell’8 gennaio 1951 abbassa il giudizio a Belastete (corresponsabile). Nello stesso anno viene rifondato anche giuridicamente il Bund für Deutsche Gotterkenntnis che prende ufficialmente il nome di Bund für Gotterkenntnis e riesce ad aggregare oltre 10.000 sostenitori (saranno 12.000 nel 1995 secondo l’ufficio di protezione della Costituzione). Mathilde resta fedele ai suoi principi e continua le sue attività filosofiche ed editoriali: nasce la casa editrice Hohe Warte, diretta dal genero  Franz Freiherr Karg von Bebenburg, che ristampa i suoi libri in molteplici edizioni, quelli del Generale Erich Ludendorff e di altri importanti intellettuali völkisch tra cui Hans Friedrich Karl Günther. Nel 1955 fonda a Tutzing una  “Schule der Gotterkenntnis”. Dopo una vergognosa campagna di stampa diffamatoria, in cui si distingue Der Spiegel, nel 1961 il Bund für Gotterkenntnis viene ritenuto “nemico della Costituzione” e proibito. Il bando verrà annullato nel 1977 per errori procedurali. Il 24 giugno del 1966 Mathilde Ludendorff muore a Tutzing. Per quanti volessero onorare la memoria di Mathilde ed Erich Ludendorff e degli affiliati al Bund für Gotterkenntnis esiste, nonostante i continui e ripetuti tentativi di chiusura, dal 1932 un cimitero pagano nato per iniziativa di due membri del Bund. Il sito si chiama Ahnenstätte (luogo sacro degli antenati) Hilligenloh ed è situato presso la citta di Hude nell’area di Oldenburg in Bassa Sassonia. La casa editrice Hohe Warte, che stampa anche l’interessante quindicinale Mensch und Maß giunto al 45° anno di vita, ha pubblicato un saggio di Gunther Duda (scaricabile gratuitamente in formato pdf http://www.hohewarte.de/Neuersch/Neu-Ketzer.html) che documenta la storia dell’intolleranza e delle calunnie contro il cimitero pagano Ahnenstätte Hilligenloh. La chiusura del cimitero è richiesta proprio da personaggi che rappresentano le solite e sempre attive "geheimen überstaatlichen Mächten".
Ulteriori informazioni biografiche e bibliografiche e tutti i libri di Mathilde ed Erich Ludendorff possono essere richiesti a:  
Verlag Hohe Warte GmbH Tutzinger Str. 46 D - 82396 Pähl - Deutschland
E-post: vertrieb@hohewarte.de Internet www.hohewarte.de

Ahnenstätte Hilligenloh - La Haus Ludendorff a Tutzing

a) b)
Campagna contro gli eretici in Germania. Intolleranza cristiana contro Ahnenstätte Hilligenloh ed il movimento Ludendorff (scaricabile a http://www.hohewarte.de/Neuersch/Neu-Ketzer.html).
A fianco (b) l’ingresso dell’Ahnenstätte Hilligenloh

Monito tedesco
Che tu sia tedesco:
Che tu sia vero/Che tu sia affidabile
Che tu sia orgoglioso/Che tu sia forte/
Che tu sia impavido/Che tu sia padrone di te stesso/
Che tu sia consapevole del tuo sangue/
Che tu sia d'aiuto ai nobili/
Che tu sia l'annientamento del male/
Che tu sia modello per il popolo/
Che tu sia nemico dei suoi nemici
Il carattere straniero della fede religiosa, di qualsiasi forma sia, rappresenta sempre la rovina e l’omicidio della nostra anima.
Maggiore l'errore, maggiore la rabbia e il furore contro chi lo nega.


Il Generale Erich Ludendorff - La rivista Mensch un Maß

 
   
 

Vecchio Abruzzo
di Harm Wulf

Mi trovavo nel mezzo del mese d’agosto sulla costa abruzzese. A parte qualche rara oasi di tranquillità, gran parte del litorale di quella regione è stato devastato tra gli anni ’60 ed ’80 da una speculazione edilizia orribile e scriteriata. I paesi si uniscono ormai tra loro per la metastasi degli abitati (palazzoni, alberghi e seconde case) sempre più oscenamente assediati dal traffico. Eppure l’Abruzzo era una regione bellissima nella mia infanzia. Lo ricordo distintamente. Le case erano in mattoni e basse. Gli abitanti del luogo affittavano a poco le loro case. L’acqua del mare era pulita: c’erano le stelle ed i cavallucci marini per i bambini e i pescatori vendevano il loro pesce ai turisti. La gente era povera ma onesta e dignitosa. In pochi decenni tutto è stato distrutto: territorio, mare, aria. Il popolo ha seguito il corso delle cose e si è sottomesso allo spirito del tempo: osservo le persone che potrebbero benissimo essere, se non fosse per la cadenza del dialetto, alienati metropolitani. Stessi vestiti, telefonini, tatuaggi, linguaggio anglicizzato. A ferragosto la situazione peggiora: una folla d’ignobili cialtroni urlanti si riversa sulle spiagge per la crapula rituale. Se Augusto potesse assistere allo spettacolo sopprimerebbe sicuramente la festività da lui istituita. Insomma per farla breve invece di subire l’assedio decidiamo in gruppo di fuggire verso l’interno “via dalla pazza folla”. L’autostrada Pescara-Roma è deserta fino all'uscita prevista Bussi sul Tirino. In perfetta solitudine percorriamo la strada verso Ofena e, prima di raggiungere questo paese un cartello su un bivio c’indica la direzione per Calascio. La strada vuota si fa ripida, la montagna brulla. Dopo pochi chilometri ecco Calascio con la sua magnifica rocca tornata ad essere famosa col film “Lady Hawke” del 1984 con Michelle Pfeiffer. Abbiamo sempre bisogno di uno straniero per ricordarci di possedere quello che già abbiamo. Rocca Calascio era il punto più alto della Baronia di Carapelle. La torre centrale d’avvistamento (m.1460), il nucleo più antico di tutta la struttura, risale al XII secolo. Intorno ad essa si sviluppò il borgo che raggiunse la sua massima espansione nella seconda metà del XIV. I quatto torrioni circolari ad angolo furono aggiunti nell’opera di ricostruzione di Antonio Piccolomini nipote del Papa Pio II, genero del Re Ferdinando d’Aragona e Conte di Celano successivamente ai disastrosi terremoti del 1349 e del 1451. Nel 1594 su supplica di padre Mario da Calascio dotto francescano fu eretta la chiesa di Santa Maria delle Grazie ed il convento, complesso ricco d’opere d’arte di raffinata fattura e di preziosi libri, incunaboli e cinquecentine. Per proteggerli da ladri di libri padre Mario ottenne dal Papa un breve di scomunica che sprofondava tra le fiamme dell’inferno i colpevoli. Un successivo terremoto nel 1703 spopolò il paese e la rocca che fu definitivamente abbandonato dagli abitanti nel 1957. Il borgo di Rocca Calcio torna a rivivere da pochi anni con l’apertura del rifugio della rocca e del ristorante (www.rifugiodellarocca.it Rifugio della Rocca Loc. Rocca Calascio - 67020 Calascio AQ tel. 338.8059430 ottimo ed onesto: assaggiare formaggi, salumi e il flan al cioccolato! Tutto rigorosamente casalingo) per merito di una numerosa e pionieristica famiglia romana. Si ristrutturano case e mura e l’abitato torna a vivere. Il lato della rocca verso Castel del Monte viene completamente piantumato ed oggi è un magnifico bosco di pini. Molti fuggiaschi dalla metropoli scelgono di vivere lì. I figli vanno a scuola con la corriera a l’Aquila. A pochissimi chilometri da Calascio visitiamo uno dei borghi più belli d’Italia, Santo Stefano di Sessanio. Le origini del paese risalgono al periodo della “romanizzazione” del territorio, dopo la guerra sociale (91-89 A.C.) il cui nome deriverebbe da “Sextantia” cioè dall’essere sei miglia distante dall’insediamento romano di Pesatro. L’incastellamento del borgo è del periodo normanno (1150-1168) con la ripresa della transumanza e la necessità di controllare i percorsi provenienti dal mare per via delle eventuali invasioni saracene. La torre viene edificata nel 1290 dai conti Berardi di Celano che mantengono il possesso fino al 1442 per cederlo ad Alfonso I d’Aragona. Successivamente al dominio aragonese diviene proprietà dei Piccolomini, nobili senesi e conti di Celano, che la cedono nel 1579 a Francesco dè Medici, Gran duca di Toscana. I Medici mantengono il possesso fino al 1743. Il dominio mediceo e determinante per l’economia del borgo che vive un periodo di ricchezza e prosperità. La sua architettura s’impreziosisce di palazzi in stile fiorentino, grazie al commercio della lana “carfagna”, particolarmente pregiata e dal colore bruno scuro, usata per confezionare abiti ecclesiastici e militari, esportata anche nelle Fiandre. Mentre visitiamo il bellissimo borgo ornato di fiori e bandiere ci allieta la musica popolare suonata da ragazze ed anziani. La gente spontaneamente si unisce in piccoli gruppi e canta vecchie melodie. La mia attenzione è catturata dall’esposizione dei lavori di un artista locale (1): su un vecchio legno un tedesco baffuto spruzza insetticida su parassiti stelle e strisce e si chiede: “Chi ci libererà dai liberatori?” Vecchio Abruzzo forte e gentile forse non tutto è perduto.

(1) Pittore d’arte Fausto Di Bernardo
Via Stoviglieri n.72
65022 Bussi sul Tirino PE
Cell. 328 3684891
Esposizione di Santo Stefano di Sessanio (L'Aquila)

 
   
 

Herbert Smagon
di Harm Wulf

Biografia dell'artista Herbert Smagon
traduzione a cura di Harm Wulf
Herbert Smagon è nato il 2 gennaio 1927 a Karwin nella Slesia orientale che, fino al 1918, faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico e che, successivamente alla sconfitta degli imperi centrali nella prima Guerra mondiale, divenne parte del territorio della Cecoslovacchia. Già da ragazzo Smagon provò personalmente le vessazioni a cui era sottoposta la minoranza tedesca da parte della maggioranza slava nel nuovo stato creato a tavolino dalle potenze vincitrici del conflitto. A causa della chiusura delle scuole tedesche e delle crescenti violenze messe in atto dai cechi anche contro i giovani studenti, la famiglia di Smagon fu costretta a fuggire dalla città natale e a raggiungere Berlino. Dall’età di 10 anni Smagon crescerà nella capitale tedesca; a 14 anni e fino alla fine della guerra la famiglia Smagon si traferirà a Vienna. Il nonno di Herbert, un litografo ed illustratore, lo fece appassionare assai precocemente all’attività artistica. Già dall’età di 12 anni Smagon iniziò, parallelamente alle regolari attività scolastiche, uno studio privato della pittura con il Professor Aschenbrenner. Nel 1943 prestò il suo servizio bellico come ausilario della difesa aerea e dall’età di 16 anni cominciò lo studio all’Accademia della Arti Figurative di Vienna frequentando anche le lezioni del Prof. Herbert Böckl. All’età di 17 anni ricevette la Jugendkunst-Medaille, un premio come miglior artista giovane dalla città di Vienna ed i suoi lavori vennero esposti alla Wiener Hofburg. Il suo lavoro premiato „Luftwaffenhelfer“ fu dipinto nelle pause dal servizio di contraerea in una parete di una baracca sempre interrotto dai compiti di difesa al pezzo contraereo da 8,8 contro gli attacchi terroristici dei bombardieri alleati. Il responsabile della città di Vienna, e precedente Reichsjugend-Führer Baldur von Schirach invitò il giovane Smagon per un colloquio nel suo ufficio nel parlamento di Vienna.

Sopra la sua scrivania stava appesa l’opera dell’artista „Luftwaffenhelfer“. Il capo della Hitler-Jugend

Aveva regalato, con il consenso di Smagon, l’opera al sindaco di Vienna che voleva mettere la sua città in concorrenza con quelle di Monaco e Berlino per essere scelta come centro artistico del Reich. Schirach garantì al giovane artista la continuazione dei suoi studi con i migliori professori e gli assicurò il sostegno economico vitalizio del municipio di Vienna. Nel 1945 diviene ufficiale in un centro d’addestramento, presta servizio di lavoro volontario e sul fronte bellico. Catturato riesce a fuggire dalla prigionia. Nel 1947 come tedesco del Reich viene scacciato dall’Austria. Tutti i suoi lavori fino al 1945 scompaiono. Il nuovo inizio avviene a Stoccarda come artista indipendente, grafico ed illustratore. Si conquista diversi premi internazionali come grafico di manifesti pubblicitari. Oggi vive e lavora nella foresta nera. Una selezione delle esposizioni delle sue opere: 1941 prima mostra personale nel municipio della città di Teschen nel 1941. Nel 1944 all’ Hofburg di Vienna. Nel 1964 nel museo della citta di Monaco. Nel 1974 a Stoccarda presso il Landesgewerbemuseum. Dal 1986 fino al 1997: Londra presso il Piccadilly-Showroom, Torino nel salone automobilistico. Parigi nella sede Mercedes-Benz France, ad Essen al Deutsches Plakatmuseum. E poi Bamberg alla Filmgalerie, Karlsruhe, Bad Imnau, Lauchheim presso il castello di Kapfenburg.

Negli anni 50 valutò il limitato sviluppo del mercato ufficiale dell'arte tedesco come conseguenza della distruzione delle fondamenta dell'arte europea. Da qui egli trasse la sua personale conclusione e decise di non prendere più parte a mostre collettive. Lo stesso fece escludendosi in modo dimostrativo da tutte le società artistiche istituzionali. Smagon, in qualità di artista educativo, si considera tenuto a salvare tensione di tutti gli uomini alla bellezza e all'armonia necessarie a sopravvivere nel secondo millennio.

Appartiene inoltre alla generazione dei testimoni oculari sopravvissuti all’inferno della catastrofe europea, ecco perché è obbligato a testimoniare artisticamente questa storia vissuta.

A proposito della sua opera "Bilder der Geschichte" (immagini della storia) la stampa scrisse: "Fortemente strabiliante, legare modernità e storia, esteticamente scioccante, grandioso anche nei dettagli: Smagon urta l'osservatore con le immagini - anche solo attraverso le dimensioni."

Molte opere dell’artista, quadri, lavori grafici, vignette satiriche sono visionabili nel suo sito bilingua (tedesco ed inglese) www.art-smagon.com
Tra le varie opere segnaliamo:
"Dresden 1945/89" www.art-smagon.com/art010.htm

Nella seconda guerra mondiale paesi civilizzati come USA e Gran Bretagna hanno sperimentato tecniche di annientamento della popolazione civile di un paese di cui erano avversari. Tecniche sviluppate negli anni successivi: centinaia di migliaia di uomini carbonizzati e ridotti in cenere in pochi minuti. Solo a Dresda più di 250.000 uomini morirono in questo modo. Dopo 60 i tedeschi non hanno ancora presentato nessun conto per questo fatto. Smagon ha dedicato a questo avvenimento storico un grande quadro intitolato „Dresden 1945/1989“: al centro dell’opera le rovine della cattedrale di Dresda la Frauenkirche, in mezzo alla città in fiamme,. A sinistra: L’uccisione di massa degli abitanti tra il 13 e il 14 febbraio del1945. Nell’immagine a destra: nell’autunno 1989 la prima deposizione di una corona per le vittime da parte di un cancelliere tedesco dopo 44 anni.

„Tod der Nichte“ www.art-smagon.com/art012.htm

460.000 tedeschi vennero uccisi tra il 1945 e il 1946 in Cecoslovacchia. Questa è la cifra più aggiornata dei profughi scomparsi dalla Boemia e Moravia documentata dalle ultime ricerche degli esperti nel 2000. Più di 3 milioni di tedeschi vennero privati della loro patria in cui avevano vissuto da più di 1000 anni. In uno degli oltre 10.000 protocolli testimoniali del „ Libro bianco die tedeschi die Sudeti“ nel Bundesarchiv della Repubblica Federale Tedesca:

Frau Hildegard Hurtinger rilascia la seguente dichiarazione protocollata: „...Il 15 di maggio fui presa dalla gentaglia ceca nella mia abitazione di Praga e condotta a bastonate e colpi di calci di fucile alla testa a circa 500 metri dalla Scham horstschule.(...) La fui completamente derubata e rimasi solo con le calze ed il vestito che avevo indossavo. (...) Così fui parte della cosidetta Riparazione in cui io, ed i prigionieri con me, uomini e donne, fummo seviziati con la crudeltà più estrema. Nella notte fummo portati con tutti i prigionieri in un casale dove vidi con i miei occhi 10 uomini, donne e bambini prigionieri, tra cui anche due miei fratelli con la famiglia, che erano stati ammazzati. Il bambino più giovane di mio fratello aveva cinque mesi. Poi dovemmo scavare le fosse, spogliare i cadaveri e seppellirli...“

"Lebende Fackeln" www.art-smagon.com/art014.htm

Il Ceco Ludek Pachmann grande campione di scacchi e pubblicista, testimone oculare dell’arrivo a Praga nel maggio del 1945 di Benesch, ha raccontato pubblicamente la terribile verità dei fatti quattro decenni dopo:„...Io vidi che in onore di Benesch, portato in trionfo da decine di migliaia di cechi attraverso le strade di Praga fino alla Wenzelsplatz, alla Karlsplatz e al Rittergasse, si prendevano indiscriminatamente i tedeschi si cospargevano di benzina, si appendevano per i piedi ai pali e alle lanterne e poi venivano fatti bruciare come torce umane che duravano a lungo perchè le teste di coloro che ardevano erano in basso ed il fumo non poteva soffocarli. Anche Benesch fu condotto dalle ali della folla alle torce umane. Le urla delle vittime venivano coperte dalle grida di giubilo dei Cechi. Se esiste l’inferno sulla faccia della terra, allora questo era a Praga! Io dichiaro questo perchè ne sono stato testimone e perchè una vera comprensione tra i popoli può essere possibile solo quando entrambi i lati di ciò che accadde si potranno vedere!...“

"Besetzung der Stadt Rössel" www.art-smagon.com/art008.htm

Oltre due milioni di ragazze tedesche furono ripetutamente stuprate e seviziate dai soldati russi. Diecimila di loro non sopravvissero. Il propagandista sovietico Ilja Ehrenburg incitò: "Uccidete! Uccidete! Non c’è nessun tedesco innocente, nè i nati nè i non nati. Rompete con la violenza l’orgoglio razziale delle donne germaniche! Prendetele come giusto bottino!“ ( Ostdokumentation 2/37/103-108 )

Il Dottor. Arnold Niedenzu, medico chirurgo a Rössel testimoniò: „...Vecchie (fino ad 80 anni) , bambine ( fino a circa i dieci anni), Donne incinte e puerpere. Gli stupri andarono oltre le già ripugnanti circostanze. I russi sottoposero alle sevizie le donne per giorni, spesso entravano di notte dalle finestre rotte o dalle porte divelte, o dai tetti spaccati violentando selvaggiamente le sventurate donne spesso con le armi in mano. Le seviziavano tenendo direttamente la pistola nella bocca delle sventurate vittime…“

"Crack-Babys" www.art-smagon.com/art004.htm

Nel giugno del 1944 abbiamo, bambini-soldati, oltre che lottato in patria contro i bombardamenti terroristici, combattuto sul fronte della Normandia. Sentimmo che i giovani soldati della divisione SS „Hitler-Jugend“ affrontavano le preponderanti forze alleate armi in pugno cantando l’inno nazionale tedesco!

Un giornalista di guerra scrisse nel 1944 su „Signal“: „Sul fronte occidentale, settore di Caen. Da giorni il rullo di fuoco d’artiglieria nemico tempestava con bombardamenti in grande stile, le posizioni difese dalla divisione corrazzata SS „Hitler-Jugend“. L’avversario aveva impegnato su quel tratto di fronte le sue migliori divisioni di paracadutisti e aviotrasportate, ripromettendosi la minima resistenza da parte di quei ragazzi diciottenni che aveva davanti a sè. Nel loro altezzoso gergo, da truppe avvezze a combattere contro le popolazioni coloniali, gli Anglo-americani chiamavano la Divisione tedesca, a cui si trovavano di fronte, „Divisione lattanti“ o „Baby Divisione“. Ma in meno di otto giorni gli sprezzanti assalitori, duramente provati in aspri combattimenti, tradivano la loro boria sgonfiata nel nuovo e definitivo nomignolo da essi coniato per i loro eroici e tenaci avversari „Crack Babys“. In quei giorni ebbi a parlare col SS-Brigadeführer Witt, maggior generale delle truppe SS, Cavaliere della Croce di Ferro con fronda di quercia: era al suo posto di comando, poco prima della sua morte. Egli mi diceva: „ Vedete? Io sono un vecchio soldato e, fino al giorno in cui assunsi il comando di questa Divisione, credevo d’avere un’esperienza guerresca non comune. Ma questi ragazzi che ora comando, non solo mi hanno strappato ammirazione, ma - non esito a dirlo – mi hanno per giunta insegnato che cosa sia vero spirito aggressivo.“

"Die Kinder von Breslau" www.art-smagon.com/art042.htm

Soprattutto in Germania i bambini della "Hitlerjugend" furono impegnati contro i bombardamenti terroristici Un una trasmissione televisiva si disse: "I membri della Hitlerjungend andarono avanti nell’inferno di fuoco ed aiutarono pompieri e forze di soccorso ad aprirsi un varco tra le macerie. Con indomito coraggio si sacrificarono e morirono come mosche..."

Anche i bambini di Breslau (Breslavia) sacrificarono la vita per la loro città. Imbattuti fino alla fine della guerra nel 1945 da sovrastanti potenze nemiche. Erano ragazzi tra i 12 ed i 16 anni. Non combatterono per Hitler o i „Nazi“. Combatterono e morirono per le loro famiglie e per la loro città natale, da 500 anni capitale della Slesia tedesca. La difesa di Breslavia fu necessaria. Con la resistenza estrema contro le preponderanti forze sovietiche si potè rompere l’accerchiamento. Così centinaia di migliaiai di profughi tedeschi in fuga poterono essere salvati! Wroclaw, così si chiamano oggi i resti trafugati della millenaria cultura tedesca, che fu distrutta per sempre col suolo patrio abbeverato dal sangue di molte migliaia di tedeschi eroi e vittime, dimenticati senza una tomba, una pietra o un ricordo. Solo questo quadro ricorda i dimenticati bambini di Breslau.


MODERNE FAMILIE Größe/size: 2m X 1.35m Öl auf Leinwand

WIEDERVERAINIGUNG, Diptychon Größe/size: 2m X 3.40m


DIE KINDER VON BRESLAU Größe/sice: 2m X 1.80m

Versione tedesca
www.art-smagon.com

Biographie Herbert Smagon.
Geboren am 02.01.1927 in Karwin in Ostschlesien, was bis 1918 zur Österreich -Ungarischen Monarchie gehörte und dann an die Tschechoslowakei ausgeliefert wurde. Schon als Kind mußte Smagon die Unterdrückung der deutschen Minderheit selbst erleben. Sein Vater als ein sozialpolitischer Sprecher der Deutschen wurde zu Zuchthaus verurteilt. Als dann auch noch deutsche Schulen geschlossen werden mußten, da immer mehr deutsche Kinder durch brutale Überfälle von Tschechen am Schulbesuch gehindert wurden, flüchtete die Familie nach Berlin. Ab dem 10 Lebensjahr ist Smagon in Berlin aufgewachsen, ab dem 14 Lebensjahr bis Kriegsende in Wien. Sein Großvater, ein Lithograph und Illustrator, bemerkte sehr früh die künstlerische Begabung des Kindes. Schon mit 12 Jahren begann Smagon 1939 bis1942 neben dem Gymnasium ein Malstudium als Privatschüler von Professor Aschenbrenner. 1943 wurde er neben seinem Kriegsdienst als Luftwaffenhelfer bereits mit 16 Jahren in die Akademie der bildenden Künste in Wien aufgenommen und studierte bei Professor Herbert Böckl. Mit 17 Jahren wurde er 1944 mit der Jugendkunst-Medaille in Wien ausgezeichnet, seine Werke wurden in der Wiener Hofburg ausgestellt. Sein preisgekröntes Werk „LUFTWAFFENHELFER“ malte er bei Einsatzpausen in seiner Flakstellung auf einer Barackenwand montiert - immer wieder unterbrochen von Abwehrgefechten an seinem schweren 8,8 Flakgeschütz gegen die Angriffe von alliierten Terrorbomberangriffen. Der Stadthalter von Wien, ehemaliger Reichsjugend-Führer Baldur von Schirach, lud den jungen Smagon zu einem Gespräch in seinem Amtssitz im Wiener Parlament ein. Über seinem Schreibtisch hing das Bild „LUFTWAFFENHELFER“. Die Führung der Hitler-Jugend hatte mit Smagons Einverständnis das Bild dem Stadthalter, der Wien in Konkurrenz zu Berlin und München zum Kunstzentrum des Deutschen Reiches machen wollte, geschenkt. Schirach bot dem jungen Künstler das weitere Kunststudium bei den besten Professoren an und garantierte ihm lebenslange betreuende Patenschaft der Stadt Wien.

1945 Offiziers-Ausbildungslager, Arbeitsdienst - Fronteinsatz, Flucht aus Gefangenschaft. 1947 wurde er als Reichsdeutscher aus Österreich vertrieben. Alle seine Arbeiten bis 1945 sind verschollen. Neubeginn in Stuttgart als freischaffender Maler, Grafiker und Illustrator. Er erhielt mehrere Preise bei verschiedenen internationalen Plakatwettbewerben. Heute lebt und arbeitet er im Schwarzwald.

Eine Auswahl von Ausstellungen seiner Arbeiten: 1941 TESCHEN, Stadthaus. Erste Einzelausstellung. 1944 WIEN, Hofburg. 1964 MÜNCHEN Stadtmuseum. 1974 STUTTGART, Landesgewerbemuseum. 1986 – 1997 LONDON, Piccadilly-Showroom. TURIN, Automobil-Salon. PARIS, Mercedes-Benz France. ESSEN, Deutsches Plakatmuseum. BAMBERG, Filmgalerie. KARLSRUHE, BAD IMNAU, LAUCHHEIM, Schloß Kapfenburg.

Die einseitige Entwicklung des offiziellen deutschen Kunstmarktes in den fünfziger Jahren empfand er damals als konsequente Zerstörung aller Fundamente der europäischen Kunst. Daraus zog er die persönliche Konsequenz und beteiligte sich nicht mehr an Gemeinschafts-Ausstellungen, auch trat er demonstrativ aus allen etablierten Kunstverbänden aus. Smagon fühlt sich als bildender Künstler verpflichtet die überlebensnotwendige Sehnsucht aller Menschen nach Schönheit und Harmonie in das zweite Jahrtausend hinüber zu retten. Er gehört aber auch zur Generation der überlebenden Augenzeugen die durch die Hölle der europäischen Katastrophe gingen und ist natürlich gezwungen diese erlebte Geschichte künstlerisch zu bezeugen.

Zu seinem Werk „BILDER DER GESCHICHTE“ schrieb die Presse: „Kraftvoll verblüffend, Historie und Moderne verbindend, ästhetisch erschreckend, auch in Details riesig: Smagon schlägt mit den Bildern auf die Betrachter ein – allein auch schon durch Dimensionen.“

„DRESDEN 1945/89“ www.art-smagon.com/art010.htm
Im zweiten Weltkrieg hatten die bis dahin zivilisierten Länder USA und Großbritannien den Ehrgeiz die in der Menschheitsgeschichte perfekteste Völkermord-Technik gegen ein Konkurrenzvolk nach jahrelanger Vorbereitung zu entwickeln. Sie brachten damit das Einmalige fertig: Hunderttausende Menschen, vom Säugling bis zum Greis, gleichzeitig oft in nur wenigen Minuten zu zerfetzen, zu ersticken, lebendig zu verbrennen oder zu einem Häufchen Asche zu verglühen. Allein in Dresden mußten über 250.000 Menschen so sterben. 60 Jahre danach trauen sich die Deutschen immer noch nicht die Zahl ihrer unschuldigen Opfer zu nennen und ihrer zu gedenken. Smagon schuf dazu das große Diptychon „DRESDEN 1945/1989“: Im Zentrum des Bildes die Ruine der Frauenkirche vor der brennenden Stadt. Linke Bildseite: am 13/14.2.1945 Massentötung der Bevölkerung Dresdens. Rechte Bildseite: Im Herbst 1989 die erste Kranzniederlegung nach 44 Jahren von einem deutschen Kanzler für die Opfer.

„TOD DER NICHTE“ www.art-smagon.com/art012.htm

460 000 Deutsche kamen 1945/46 in Tschechien zu Tode. Das ist die neueste Zahl der verschollenen vertriebenen Deutschen aus Böhmen und Mähren, dokumentiert nach neuen Forschungsergebnissen von Experten im Jahre 2000. Über 3 Millionen Sudetendeutsche wurden ausgeraubt und aus ihrer Heimat, in der sie über 1000 Jahre gelebt haben, verjagt. Eines von mehreren zehntausend eidesstattlichen Protokollen aus dem „Sudetendeutschen Weißbuch“ im Bundesarchiv der BRD:

Frau Hildegard Hurtinger gibt zu Protokoll: „...Am 15. Mai wurde ich in meiner Prager Wohnung vom tschechischen Pöbel abgeführt und unter Prügel und Kolbenschlägen an den Haaren ungefähr 500 Meter weit in die Scham horstschule geschleppt.(...) Dort wurde ich vollkommen ausgeraubt, so daß mir nur Strümpfe und das Kleid, das ich am Leib hatte, blieben. (...) Dann wurde ich in die sogenannte Reparation gebracht, wo ich und meine Mithäftlinge, Män ner und Frauen, aufs Grausamste mißhandelt wurden. In der Nacht wurden wiederholt alle Häftlinge auf den Hof geholt, dort zu je 10 Männer, Frauen und Kinder, darunter auch meine zwei Brüder mit Familie, abgezählt und vor den Augen der übrigen Häftlinge erschos sen. Das jüngste Kind meines Bruders war 5 Monate alt. Dann mussten wir Gräber schaufeln, die Leichen aus ziehen und vergraben...“

„LEBENDE FACKELN“ www.art-smagon.com/art014.htm

Der Tscheche LUDEK PACHMANN, Schachgroßmeister und Publizist, der als Augenzeuge bei dem Einzug von Benesch in Prag im Mai 1945 dabei war, hat die furchtbare Wahrheit der Ereignisse vier Jahrzehnte danach offenbart:„...Ich sah wie zu Ehren von Benesch bei seiner von Zehntausenden Tschechen umjubelten Triumphfahrt durch die Straßen von Prag auf dem Wenzelsplatz, auf dem Karlsplatz und in der Rittergasse Tschechen wahllos Deutsche mit Benzin übergossen, mit den Füßen nach oben an Masten und Laternen hängten und sie anzündeten und johlend den brennenden Fackeln und ihren Qualen zusahen, die um so länger dauerten, weil die Köpfe der Brennenden vorsorglich nach unten gehängt waren und der aufsteigende Rauch sie nicht ersticken konnte. Benesch also fuhr durch ein Spalier von lebenden Fackeln – und die Schreie der gequälten Opfer wurden übertönt durch das Jubelgeschrei der entmenschten Tschechen. Wenn es die Hölle auf Erden gibt, dann gab es sie in Prag! Ich berichte das, weil ich davon überzeugt bin, daß es zu einer wahren Völkerverständigung nur kommen kann, wenn sich beide Seiten vorbehaltlos zu dem bekennen, was war!...“

„BESETZUNG DER STADT RÖSSEL“ www.art-smagon.com/art008.htm

Über 2 Millionen deutsche Mädchen und Frauen wurden 1945 von Russen meist mehrfach geschändet. Zehntausende haben es nicht überlebt. – Sowjet-Einpeitscher Ilja Ehrenburg: "Tötet, tötet! Es gibt nichts, was an den Deutschen unschuldig ist, die lebendigen nicht und die Ungeborenen nicht. Brecht mit Gewalt den Rasse-Hochmut der germanischen Frauen! Nehmt sie als rechtmäßige Beute!"

( Ostdokumentation 2/37/103-108 )

Dr. med. Arnold Niedenzu, Facharzt für Chirurgie, aus Rössel: „...Greisinnen (bis 80 Jahre), Kinder (bis 10 Jahre abwärts ), Hochschwangere und Wöchnerinnen. Die Vergewaltigungen gingen unter den widerlichsten Umständen vor sich. Die Russen überfielen häufig schon tags die Frauen, vorwiegend aber nachts drangen sie durch die zerbrochenen Fenster oder durch die eingeschlagenen Türen, ja durch das abgedeckte Dach in die Häuser und stürzten sich auf die unglücklichen Frauen und Mädchen. Meist mit vorgehaltener Waffe. - Häufig hielten sie die Pistolenmündung direkt in den Mund des unglücklichen Opfers. Häufig war es so (man sträubt sich, es zu schreiben), daß das weibliche Wesen von mehreren festgehalten wurde, während sich die Wüstlinge nacheinander bei der Vergewaltigung ablösten....“

„CRACK-BABYS“ www.art-smagon.com/art004.htm

Im Juni 1944 haben wir, Kinder-Soldaten damals noch an der Heimatfront im Kampf gegen die Terrorbomber, die Abwehrschlacht in der Normandie mitverfolgt. Wir hörten, daß die jungen Soldaten der SS-Division „Hitler-Jugend“ aufrecht laufend, aus allen Waffen feuernd, das Deutschlandlied schreiend, gemeinsam gegen die große Übermacht der alliierten Angreifer anrannten! –

Ein Kriegs-Berichterstatter schrieb 1944 in der Illustrierten „Signal“: „Es war im Westen, im Raum von Caen. Seit Tagen regneten ohne Pause die Flächenwürfe der feindlichen Bomberflotten auf die Stellungen, die von der SS-Panzerdivision „Hitler-Jugend“ verteidigt wurden. Der Gegner hatte an dieser Stelle seine besten Fallschirm- und Luftlande-Divisionen eingesetzt weil er sich von den ihm gegenüberstehenden achtzehnjährigen Jungen den geringsten Widerstand versprach. Im überheblichen Slang einer Truppe, die gewohnt war, gegen Kolonialvölker zu kämpfen, bezeichneten die Anglo-Amerikaner die ihnen gegenüberliegende deutsche Division als „Milchflaschen-Division“ oder „Baby-Division“. Es dauerte keine acht Tage, da waren die überheblichen Angreifer in harten Kämpfen erheblich mitgenommen worden, und ihr zusammengeschrumpftes Selbstbewußtsein verrät sich am besten in der neuen endgültigen Bezeichnung, die sie für ihre fanatischen und hartnäckigen Widersacher fanden: „CRACK-BABYS“. In jenen Tagen sprach ich den Eichenlaubträger SS-Brigadeführer und Generalmajor der Waffen-SS Witt auf seinem Gefechtsstand; es war kurz vor seinem Tode. Der Brigadeführer erzählte: „Wissen Sie, ich bin alter Soldat und glaubte, bis zu dem Zeitpunkt, wo ich diese Division übernahm, allerhand vom Kämpfen zu wissen. Diese Jungen, die mir jetzt unterstellt sind, haben mir nicht nur Hochachtung abgezwungen, sondern haben mich, ich schäme mich nicht, es zu sagen, sogar noch gelehrt, was wirklicher Angriffsgeist ist.“

DIE KINDER VON BRESLAU www.art-smagon.com/art042.htm

Überall in Deutschland waren es die Kinder der "Hitlerjugend", die schon gegen den Bombenterror für ihre Familien kämpften. In einer Fernsehsendung hieß es: "Hitlerjungen gingen voran durch die Feuerhölle und wiesen Feuerwehr und Rettungskräften den Weg zu den Verschütteten. Mit ungeheurer Tapferkeit. Sie starben wie die Fliegen..."

Auch die Kinder von Breslau opferten ihr Leben für ihre Stadt. Unbesiegt bis zum Kriegsende 1945 gegen eine zehnfache Übermacht. Sie waren 12-16 Jahre alt. Sie kämpften und starben nicht für Hitler oder die "Nazis". Sie kämpften und starben für ihre Familien und ihre Heimatstadt, seit 500 Jahren Hauptstadt des Deutschen Schlesiens. Die Verteidigung Breslaus war notwendig. Durch den verbissenen Widerstand gegen die zigfache sowjetische Übermacht konnten sowjetische Streitkräfte gebunden werden. Somit konnten sich Hunderttausende Ostflüchtlinge noch retten! WROCLAW So heißen jetzt die geraubten Reste tausendjähriger deutscher Kultur, die für immer zerstört wurden – und -- in der Heimaterde, blutgetränkt, vermodern die Gebeine von vielen Tausenden deutschen Opfern und Helden, vergessen – und ohne Grab, ohne Stein, ohne Tafel. – Nur dieses Gemälde erinnert an die auch vergessenen Kinder von Breslau.

Bis zum Jahresende 2005 erscheint ein Bildband im Großformat, Preis 54 Euro, über das Werk von Smagon mit großen ganzseitigen und auch doppelseitigen Reproduktionen seiner Bilder. Die Auflage ist begrenzt, daher ist eine Vorbestellung möglich unter der Adresse: atelier.smagon@t-online.de

 
   
 

Elk Emil Eber “Heraka Ska” pittore combattente ed amico degli indiani
di Harm Wulf

Nell’atelier - Busto di Winnitou - Eber Alpinista - SA con il Blutorden

Wilhelm Emil Eber nasce il 18 aprile 1892 a Haardt vicino Neustadt in Renania-Palatinato nella casa colonica del podere viticolo familiare Weingut am Haardter Mandelring. Il padre Friedrich Wilhelm Eber, di famiglia protestante che gestiva la fattoria con due fratelli, cede alle pressioni della madre Rosalia Sybylla Eisele, di credo cattolico ed il neonato viene battezzato dal parroco del paese con il nome di Wilhelm Aemilianus. Dopo le scuole elementari a Haardt, detta “il balcone del Palatinato” per la sua posizione geografica, il giovane viene mandato nel ginnasio di Neustadt. Consegue la maturità il 23 giugno del 1910 con un elaborato in cui sostiene di voler dedicare la propria esistenza alla pittura e all’arte. Lo stesso anno si iscrive alla facoltà di storia dell’arte ed anatomia dell’Università di Monaco di Baviera. Nel 1911 passa alla Kunstgewerbeschule e dal 1912 fino al 1918, con l’interruzione della prima Guerra mondiale, seguirà i corsi dell’Accademia per le Arti figurative divenendo allievo di Peter Halm, Adolf Hempler, Hengeler e Franz von Stuck. Come quasi tutti gli studenti universitari tedeschi aderisce nel 1911 all’associazione studentesca Burschenschaft “Korp Rhena-Paletia”. Il periodo degli studi finisce con l’inizio della guerra. Eber parte volontario per il fronte come fante semplice nonostante fosse stato richiesto dal Ministero della Guerra bavarese come artista per rappresentare scene di combattimenti. Durante il servizio al fronte, a seguito dello scoppio di una granata, subisce una grave lesione all’orecchio destro con perdita parziale dell’udito ed una cicatrice sotto l’occhio. In questo periodo egli inizia un’intensa attività pittorica disegnando ritratti di compagni d’armi e scene di guerra con acquarelli, schizzi a matita e carboncino. Molti di questi lavori, che lo fanno notare come eccellente ritrattista, saranno in seguito pubblicati in litografie e cartoline. Diventa famoso per le sue opere che esprimono con estremo realismo il dramma della vita dei combattenti di trincea. Prende parte a molte battaglie tra cui quella di Chemin des Dames e Fromelles in territorio francese. Il 28 aprile 1919 Eber è tra i primi ad aderire al Corpo Franco “Werdenfels” detto anche “Oberland” perché nasce nel Werdenfelser Land a Garmisch Partenkirchen in alta Baviera. Il 1 maggio 1919 con altri 270 camerati al comando di Ritter von Epp si sposta a Monaco per prendere parte agli scontri contro la neo proclamata Repubblica. Disegna diversi manifesti e bandi d’arruolamento per l’Oberland che saranno diffusi anche come cartoline. Il 30 agosto 1919 sposa Gerda Körnner che muore nel 1921 senza dargli un figlio. Il Corpo Franco Oberland sarà il nocciolo duro del nazionalismo rivoluzionario, i suoi membri aderiranno alla NSDAP in massa. Il 9 novembre del 1923 partecipa alla storica marcia verso la Feldherrnhalle di Monaco in cui lo stesso Hitler si salva miracolosamente e 16 militanti sono uccisi: sono Felix Alfarth, William Ehrlich, Anton Hechenberger, Andreas Bauriedl, Martin Faust, Wilhelm Wolf, Theodor Casella, Theodor von der Pfordten, Johann Rickmers, Karl Laforce, Oskar Körner, Max Erwin von Scheubner-Richter, Kurt Neubauer, Lorenz Ritter von Stransky-Griffenfeld, Klaus Maximilian von Pape, Karl Kuhn. Gettati in una fossa comune, i loro corpi saranno traslati ai templi dell’onore Ehrentempel nella Königsplatz (distrutti dagli americani dopo la guerra) vicino alla Braunen Haus di Monaco sede centrale del NSDAP (oggi sede del conservatorio). La bandiera con la svastica caduta a terra e macchiata col sangue dei martiri, la Blutfahne, diventerà l’emblema più sacro del movimento e sarà usata nelle cerimonie per consacrare gli altri stendardi del partito. Anche Eber è colpito e perde definitivamente l’udito dell’orecchio destro. Per la partecipazione a quest’evento, a cui dedicherà diversi schizzi e disegni, Eber sarà insignito il 15 novembre del 1934 del Blutorden numero 1206, la decorazione più ambita tra la vecchia guardia del movimento che era concessa solo a coloro che erano stati presenti alla marcia verso la Feldherrnhalle. Si stabilisce a Monaco di Baviera dove riprende l’attività artistica come autore di innumerevoli dipinti a soggetto militare e sportivo, di paesaggi e ritratti. Esegue anche diversi disegni e caricature. S’iscrive alla NSDAP con tessera numero 1307 e diviene membro delle SA dal gennaio del 1923. Entra nel Circolo culturale delle Sturm Abteilung e diviene uno dei primi collaboratori del Völkischer Beobachter e della rivista “SA Mann” giornali dove continua a pubblicare i suoi disegni anche dopo il 1933. Uno dei suoi manifesti “Harte Zeiten – Harte Pflichten – Harte Herzen” sarà utilizzato fino a tutto il 1945. Il 28 febbraio 1924 Eber si sposa per la seconda volta con l’avvenente e simpatica stilista Irmgard Faltin, figlia di un celebre ginecologo di Monaco. La coppia s’istalla in Barerstrasse 48 presso la casa dei suoceri dove la moglie aveva aperto un laboratorio di moda a cui Eber collaborerà con disegni e schizzi. Il matrimonio non è molto ben visto dal dottor Faltin, liberale e cosmopolita, che mal sopportava l’unione della figlia con un noto nazionalsocialista, alto, sportivo, dai modi rustici del Palatinato e che a causa della sordità non partecipava ai convenevoli ed alle conversazioni. Il dottore e la moglie non andarono nemmeno al matrimonio cattolico della figlia. Il 5 maggio del 1925 nasce il primo figlio della coppia Kurt. Spesso gli sposi si recano a Garmisch-Partenkirchen dove si erano conosciuti. L’artista ha scelto Monaco e l’alta Baviera come patria elettiva e a queste montagne dedica innumerevoli opere. Uomini e donne della montagna, sportivi, guide alpine e scalatori, nudi e scene rustiche sono i temi ricorrenti dei quadri di Eber. L’artista stesso era alpinista, sciatore, guida e fortemente attratto dallo sport e dalle attività in ambiente naturale. Una celebre fotografia scattata nell’atelier di Carl Zwikl, lo mostra con l’equipaggiamento da alpinista. Conosce molti dei fondatori dell’Alpenverein (club alpino tedesco) e nel 1928 ritrae uno dei suoi consiglieri anziani Adolf Zoeppritz. Nel 1928 dopo la costruzione della funivia per il rifugio alpino “Adolf Zoeppritz-Haus” sul Kreuzeck a 1652 metri, Eber esegue un affresco a soggetto alpino che, insieme al celebre “Bergführer”, si possono ancora oggi ammirare nel rifugio. La sordità si aggrava e la moglie deve spesso scrivere le domande per il marito o ripetere lentamente le parole. L’artista, escluso dalle conversazioni, si esprime con i quadri e lo vediamo spesso ritratto in lettura con la sua pipa di corno. Nel 1925 avviene il primo contatto tra Eber e la cultura degli indiani d’America che sarà una delle sue grandi passioni e fonte ricchissima d’ispirazione artistica. L’amore per gli indiani era molto diffuso in Germania soprattutto grazie all’opera di Karl May (Hohenstein Ernstthal 1842 – Radebeul 1912) scrittore popolare tedesco di gran successo. Il personaggio del pellerossa Winnetou (Winnetou il gentiluomo rosso del 1892) fu molto amato dallo stesso Hitler. Il 25 marzo 1925 Eber ritrasse nel suo atelier il capo indiano “Black Wolf” di 105 anni che stava visitando, insieme ad un altro indiano, Monaco. Il dipinto ad olio 124 cm. per 85 cm. è oggi al Museo Karl May di Radebeul nei pressi di Dresda. Eber diventa membro del Cowboy Club di Monaco (Cowboy Club München Zentralländstraße 37 D- 81379 München Tel. 089-7235146 http://www.cowboyclub.de/ )che sarà il tramite per la diffusione della cultura indiana in tutta la Germania. L’artista è affascinato da questo popolo ed incomincia a raccogliere cimeli ed opere artistiche ed artigianali delle popolazioni originarie dell’America settentrionale. Molti suoi dipinti saranno da questo momento dedicati alla storia ed alla cultura pellerossa: i dipinti ad olio “Two Arrows” del 1927, l’acquarello “Indio zu Perde” del 1928, “Kindertanz der Sioux” del 1929. Nel 1929 il circo di Dresda “Sarrasani” passa da Monaco e s’installa al Theresienwiese dove rappresenta uno spettacolo dedicato al selvaggio West sul modello di quello di Buffalo Bill in cui sono esibiti indiani della riserva di Pine Ridge nel sud Dakota tra cui il capo “White Buffalo”. Eber, la moglie ed altri amici del Cowboy Club assistono alla rappresentazione, si fanno fotografare col capo indiano e ne divengono amici. White Buffalo è invitato in agosto a Monaco con altri capi indiani: si rinsaldano i legami di simpatia con doni reciproci. Il Gran capo indiano White Horse Eagle conferisce ufficialmente a Elk Eber il titolo ed il nome di Capo He-Ha-Ka-Ska della tribù dei Dakota. Il nome indiano Lakota Hehaka Ska sta per Alce (Hehaka traduce il nome Elk che significa alce) e Ska significa bianco. Il nome Elk era già stato scelto ed usato del pittore che aveva chiesto la traduzione in Lakota del suo nome d’arte Elk dal 1925 e che era diventato anche il suo nome ufficiale insieme ad Emil. I rapporti d’amicizia ed ammirazione con molti capi indiani arricchiscono la sua già consistente collezione etnografica di oggetti ed indumenti tradizionali indiani. Eber entra in contatto con molti altri collezionisti di materiale indiano tra cui Patty Frank che diventerà uno dei suoi amici più intimi.

Con Frank visita per la prima volta il Karl May Museum di Radebeul il 12 dicembre del 1929. Per il museo esegue nel suo atelier di Monaco un busto che rappresenta il personaggio di Winnetou e moltissimi altri lavori ed opere ancora oggi visibili (Karl May Museum, Karl-May-Straße 5 - D 01445 Radebeul te. 0049 351 8373010 http://www.karl-may-stiftung.de/museum/anreise.html ). Buona parte della straordinaria collezione etnografica di Elk Eber e quasi la totalità delle sue opere a soggetto indiano, sarà donata al museo. Il 19 febbraio 1937 riapre rinnovato il museo Karl May e viene presentato il celebre dipinto ad olio di Eber “La battaglia di Custer” eseguito per l’occasione e venduto per 3.000 RM. E’ una delle rappresentazioni più attendibili dell’evento storico che portò alla disfatta e all’uccisione del Generale Georg Armstrong Custer: l’opera era talmente realistica e precisa nella riproduzione d’armi, vestiti, oggetti che un giornalista fece nascere la leggenda di Eber figlio di un bianco e di una Sioux che da bambina aveva assistito alla battaglia di Little Big Horn. Il dipinto ad olio è preceduto da un lavoro preliminare eseguito ad acquarello del 1929 che presenta qualche significativa differenza con il lavoro definitivo del 1936. Il capo indiano al centro del dipinto è rappresentato con la bandiera personale di Custer con una stella, mentre nell’acquarello la bandiera è quella nazionale americana. In una conferenza stampa e nei successivi articoli sui giornali (vedi anche Illustrierten Beobachter n. 33 del 1937) Elk Eber è descritto come amico degli indiani d’America e profondo conoscitore della loro nobile cultura. Nel 1969 il Museo Nazionale della battaglia di Custer cercò di acquistare il dipinto di Eber ma senza riuscirci. La fama di Eber cresce e arriva la richiesta di un dipinto per Presidente americano Roosvevelt. L’opera, che non fu mai terminata e di cui è possibile vedere uno studio al Museo Karl May, doveva rappresentare la battaglia di Point Plesant del 10 ottobre 1774 avvenuta tra 1000 guerrieri Shawnee condotti dal capo Cornstalk e 1100 coloni americani guidati dal colonnello Andrew Lewis. Nel 1935 la galleria di Monaco Städtische Galerie im Lenbachhaus (Luisenstraße 33, 80333 MünchenTelefon 089/23 33 20 00 Telefax 089/23 33 20 03/4 lenbachhaus@muenchen.deTel. 089 / 233 320 02) acquistò circa 40 disegni di Eber dedicati alla prima Guerra mondiale e al Kampfzeit. Dopo il ritorno alla Germania della Saar viene insignito nel 1935 del Premio Albert Weißgerber istituito da Kurt Kölsch. Il 13 maggio 1936 Eber si separa dalla seconda moglie e torna per qualche mese dai parenti a Haardt nel Palatinato. Dal 1937 espone sedici dipinti nella mostra d’arte Grosse Deutsche Kunstausstelllung tra cui “Appel am 23 februar 1933” e “Die letze Handgranade” nel 1937, “So war die SA” del 1938, “Ein Meldegänger” del 1939, “Polnische Gefangene vor der Kommandantur in Warschau” del 1939 e “Sie trommeln” del 1941. “So war die SA” destinato alla nuova cancelleria a Berlino viene comprato per 15.000 Reichsmark da Adolf Hitler che acquista anche “Die letze Handgranade”. Il 30 gennaio 1938 Elk Eber riceve il titolo di professore. Il 14 settembre 1938 si sposa per la terza volta con Lieselotte Rummel conosciuta a Garmisch. Nel 1939 illustra con 12 disegni il libro di Hans Rudolf Rieger “Lagerfeuer im Indianerland”. Con diversi interventi pubblici ed articoli si oppone fermamente alla descrizione della cultura indiana come “selvaggia” da parte degli anglosassoni: riafferma il carattere altamente etico delle società indiane e il profondo rispetto per il guerriero ed il vinto. Ribadisce che la pratica dello scalpo è estranea alla cultura pellerossa ma fu introdotta dai “civili” coloni bianchi. Diversi tra i pezzi più belli della sua collezione d’oggetti indiani sono ceduti al museo del cuoio di Offenbach (Deutsches Ledermuseum, Frankfurterstr. 86 D – 63067 Offenbach E-mail: info@ledermuseum.de http://www.ledermuseum.de/) dove oggi si possono ammirare. Qualche oggetto è rimasto al Cow Boy Club di Monaco.

Allo scoppio della guerra contro la Polonia Eber chiede di partire ancora volontario. Ritorna all’attività di pittore di guerra nel 1939-1940 nella stessa compagnia di propaganda dei pittori Franz Eichhorst, Alwin Stützer, Ernst Vollbehr e della regista Leni Riefenstahl. All’inizio del 1940 espone un buon numero dei suoi lavori nella mostra “Polenfeldzug und U-Boot krieg in Bildnern und in Bildnissen” alla Künstelerhaus a Berlino. Lo stesso anno il 26 febbraio riceve il premio per l’arte della SA. Esegue un affresco per l’ospedale di Garmisch dove è ricoverato a causa di un’infezione di tubercolosi aggravatasi durante la guerra in Polonia. Nonostante la sua carriera di pittore Eber non è in grado di pagarsi le spese mediche e del sanatorio e di far fronte contemporaneamente alle necessità della famiglia: riceve il sostegno economico del fondo d’assistenza delle SA e una speciale donazione da parte del ministro per la propaganda Dr.Goebbels. Elk Eber muore il 12 agosto 1941 alle 3.00 nel sanatorio di Garmisch-Partenkirchen Durante il funerale, la sua compagnia, il 16° “List”, intona il vecchio canto “Guten Kameraden”. I suoi amici scrivono un pezzo sulla stampa di Monaco intitolato “Alce bianco è morto”. Un’esposizione commemorativa viene tenuta nel giugno del 1942 al Kunstverein di Monaco. Werner Rittisch scrive sul Völkischer Beobachter del 15 agosto 1941 il necrologio per l’artista scomparso “In morte del Prof. Elk Eber, pittore del Kampfzeit e dei combattenti”. In memoria di Elk Eber appare un articolo sulla Nationalsozialistische Monatshefte (12. J. 1941 Heft 138) a firma di Waldemar Hartmann in cui si afferma che “Elk Eber è stato capace di rappresentare visivamente e di vivere in prima persona l’eroismo del soldato tedesco”. Nel novembre del 1944 cade sul fronte dell’est il figlio diciannovenne Kurt. Molti dei dipinti di Elk Eber a soggetto politico e militare, trafugati alla fine della guerra, giacciono in un deposito militare di Washington non accessibili al pubblico.







Elk Eber: Maler und Indianerfreund
di Harm Wulf


Nell'immagine allegata, tratta dal film dedicato al Corpo Franco Freikorps Werdenfels vediamo August Glonny ed alla sua destra il suo amico Elk Eber, the next one right should be his friend Elk Eber.

Es war im Jahre 1966 als ich das erste Mal vor dem Bild der "Indianerschlacht am Little Big Horn" im damaligen Indianermuseum Radebeul stand. Ich war von diesem Bild tief beeindruckt. Alles sah so authentisch aus, die Kleidung und die Waffen der Indianer stimmten, nach dem was ich damals davon wußte, genau mit historischen Objekten überein. Wer war der Maler, der ein derartiges Gemälde schuf? War es "nur" ein Maler, der genau recherchierte, hatte er die Kleidung einfach von Museumsstücken abgemalt ?
Die geheimnisvolle Signatur "Elk Eber Heraka ska" tat ein übriges. Sie weckte Neugier auf den Maler mit dem Lakotanamen, der offensichtlich zum Vornamen paßte. Die Antwort des damaligen Museumsleiters Paul Siebert warf
nur neue Fragen auf: Elk Eber wäre ein Maler, der sehr gut mit Patty Frank bekannt war. Aber er sei in der Nazizeit ein bekannter Künstler gewesen.
Eine kurze Erwähnung Elk Ebers in einer Künstlerenzyklopädie bestätigte die Aussage Sieberts. Vor 1989 war zu diesen Informationen auch nicht viel dazugekommen, zu groß war das Tabu, das in den Jahren der DDR mit der Zeit zwischen 1933 und 1945 verbunden war. Erst ab 1990 begann ich mich wieder mit der Thematik zu beschäftigen. Mit den Jahren kamen ständig neue Informationen dazu. Orte seines Wirkens wurden besucht. Leider konnten nur noch wenige lebende Zeitzeugen befragt werden, und mancher sprach erst über ihn , wenn klar war, daß mich seine politischen Ansichten nicht interessierten. Bei einigen gab es aber auch aus unbekannten Gründen keine näheren Auskünfte. Der Vortrag wird mit Dias illustriert die leider eine sehr schlechte Qualität aufweisen. Ich bitte hierzu um Entschuldigung.
Meist sind es Repros von Fotos die unter ungünstigen Bedingungen "per Hand" gefertigt wurden. Diese wurden nochmals auf Dias kopiert. Da aber viele Bilder und Fotos vorhanden sind, habe ich mich entschieden diese Bilder zu zeigen um den Vortrag etwas zu illustrieren. Der Stammbaum der Familie Eber reicht weit zurück. Lange befand sich das Weingut am Haardter Mandelring im Besitz der Familie. Als Wilhelm Emil Eber am 18. April 1892 in diesem Haus geboren wurde, befand sich das Gut im Besitz seines Vaters und dessen zwei Brüdern. Entgegen der protestantischen Familientradition wurde Emil am 14.
Mai in der katholischen Kirche von Neustadt an der Haardt katholisch getauft. Dies wird wohl auf Betreiben seiner Mutter, die als einziges Mitglied der Familie aus katholischer Tradition stammte, geschehen sein. "Im Jahr des Herrn 1892 wurde der am 18. April geborene Sohn der Eheleute Friedrich Wilhelm Eber und der Rosalia Sybylla Eisele vom hochwürdigen Herrn Dauscher getauft und der Name Wilhelm Aemilianus gegeben. Die Paten waren
Aemilianus und G. Eisele. Dies bezeuge ich (unleserliche Unterschrift), Pfarrer." Die ersten Schuljahre vom 7. bis zum 9. Lebensjahr absolvierte Emil in der Volksschule seiner Geburtsgemeinde Haardt, dem "Balkon der Pfalz".
Am 17. September 1901 bestand Emil Eber die Aufnahmeprüfung des K. humanistischen Gymnasiums zu Neustadt an der Haardt und begann am 18.
September um 8 Uhr zusammen mit 40 weiteren Schülern den Unterricht. Zum Lehrstoff gehörte neben Deutsch und Mathematik vor allem Sprachen wie Latein, Griechisch, Französisch und Englisch sowie künstlerische Fächer, beispielsweise Musik und Zeichnen. Naturwissenschaften waren kein Schwerpunkt im Unterricht, und in all den Jahren am Gymnasium war außereuropäische Geschichte nur mit 5 Stunden im Stundenplan enthalten. Als Abschluß der 9. Klasse des Gymnasiums fanden vom 20. bis zum 23. Juni 1910 die schriftlichen Absolutorialprüfungen statt. Dieser Prüfung unterzogen sich 26 Abiturienten welche dann in den letzten Tagen des Schuljahres noch die mündlichen Prüfungen zu absolvieren hatten. Nach dem Jahresbericht des Gymnasiums gedenkt sich nach eigenen Angaben ein Absolvent "dem Berufe eines Kunstmalers zu widmen".. Der feierliche Schulabschluß des Gymnasiums fand am 14. Juli vormittags 9 Uhr statt. Emil Eber ging nach dem Abitur 1910 sofort als Student der Kunstgeschichte und Anatomie an die Universität München, wechselte 1911 zunächst an die Kunstgewerbeschule und studierte danach mit Unterbrechung durch den 1. Weltkrieg von 1912 bis 1918 an der Akademie der bildenden Künste München, wo er am 3. Mai 1912 unter Nr. 5079 eingetragen wurde. Als Kunstfach war angegeben: "Zeichenschule Hahn". Im Jahre 1911 war der Student Emil Eber für einige Zeit Mitglied einer Burschenschaft der Münchner Studenten: dem "Korps Rhena-Paletia".
Offensichtlich war die Zugehörigkeit jedoch nur von kurzer Dauer. Über seine Studienzeit und den erreichten Abschluß ist nichts weiter bekannt, da die Unterlagen der Akademie im 2. Weltkrieg durch Brand vernichtet wurden. Die Studienzeit Ebers wurde durch den Ausbruch des 1. Weltkrieges unterbrochen.
Nach biographischen Quellen meldete sich Eber freiwillig an die Front.
Vieles spricht dafür, daß er nicht, wie in einigen Presseveröffentlichungen angeführt, als regulärer Infanterist diente. Nach eigenen Angaben war er " im Auftrage der Abteilung III/6 des großen Generalstabes als Kriegsmaler bei verschiedenen Truppenteilen". Da er auch in den Unterlagen des Bayerischen Kriegsministeriums nicht namentlich als Kriegsmaler benannt ist, wird vermutet, daß er auf eigenen Wunsch auf Frontreise geschickt und den genannten Regimentern zugeteilt wurde bei dem Einsatz an der Front wurde Eber "Schwerhörig infolge Verschüttung im Felde" einige Quellen sprechen auch von einer Gehörverletzung durch Granatexplosion. Aus der Zeit seiner Tätigkeit als Kriegsmaler sind eine Anzahl von Aquarellen, Bleistiftzeichnungen und eine Rötelzeichnung erhalten Diese Werke belegen, daß er Kampfeinsätze und Gasangriffe in vorderster Front miterlebt hat und das Leben der Soldaten in den Gräben festgehalten hat. So erlebte er Angriffe am Hohenzollernwerk, in den Schlachten am Chemin des Dames und bei Fromelles in Frankreich . Neben Aquarellen von Kampfhandlungen entstanden auch einige Porträts von Soldaten und Milieustudien wie z. B. "Leutnant Wildegger bei der Morgentoilette 6 Uhr Nachmittags". Leider war es zu teuer einige Kopien von diesen Bildern für den Vortrag fertigen zu lassen. In diesen Werken wird schon seine Vorliebe für Aquarelle und sein Talent zu Portraitzeichnungen deutlich. Einige Motive wurden später von ihm auch zu Lithografien verarbeitet, welche teilweise publiziert wurden. Trotz umfangreicher Recherche konnten leider keine Einzelheiten zu seiner Verwundung gefunden werden. In den Stammrollen der Bayrischen Armee und auch in den Krankenakten der Verwundeten des 1. Weltkrieges ist Eber nicht auffindbar Auch zu dem "Auftag des großen Generalstabes" konnten keine Hinweise gefunden werden. Im Jahr 1918 trat Elk Eber der Münchner Freimaurer-Loge "Sturmfried" bei. Seine Mitgliedschaft war jedoch kurz und dauerte nur bis zum Jahr 1919 . Dieser "Fleck in der Personalakte" Ebers wird ihm später noch einige Probleme bereiten, da die Freimaurer vom Nationalsozialistischen Regime und der NSDAP verfolgt wurden. Elk Eber wurde am 20. April 1937, zwei Tage nach seinem 45. Geburtstag, von Hitler
diesbezüglich begnadigt ( also noch vor der allgemeinen Amnestieverfügung vom April 1938 ). Die Mitgliederzahlen der Logen nahmen in den Jahren nahmen von 1918 bis zur Mitte der zwanziger Jahre in ganz Deutschland stark zu, bevor sie mit dem Erstarken des Nationalsozialismus wieder abnahmen.
Über die Werbung des Ordens in der damaligen Zeit heißt es: "Mit pathetischen Worten beschwor es zunächst die Einsamkeit des Einzelnen in den Wirren der Nachkriegszeit, um schließlich mit den lohnenden und verläßlichen Bindungen zu locken, die sich dem Aspiranten beim Eintritt in die Loge eröffnen würden" . Ein Zentrum der konservativen Kräfte war das bayerische "Oberland" um Garmisch und Partenkirchen - das Werdenfelser Land. Es ist sicher, daß Ebers Kontakte zu einigen bayerischen Frontkameraden dorthin weiterbestanden. (bayrisches Infanterieregiment 16 "List") Es bildeten sich paramilitärische Verbände. Am 28. April 1919 wurde auch Emil Eber Mitglied der Ortswehr Partenkirchen. Am 29. April wird in der Presse und mit Plakaten zum Eintritt in das Freikorp "Werdenfels" geworben. Eber ist mit der Mitgliedsnummer 11 einer der ersten der sich in die Meldeliste einträgt.
Bereits am 1. Mai fährt eine ca. 270 Mann starke Truppe des Freichors Werdenfels per Bahn nach München um an Aktionen gegen die proklamierte Räterepublik teilzunehmen. Das Freikorp wird Oberst Ritter von Epp unterstellt und ist an Maßnahmen in den Münchner Stadtvierteln Harlaching und Giesing beteiligt. Für die Einwohnerwehr entwirft er ein Plakat für das erste Gauschießen der Ortswehren des Oberlandes vom 18. Bis 20. Oktober in Partenkirchen. Das Motiv - ein kniender Schütze in zünftiger Tracht - wird auch als Postkarte verbreitet. Am 30. August 1919 heiratet er Frau Gerda Körnner die allerdings bereits im März 1921 verstirbt. Über diese erste Ehe ist nicht viel bekannt, sie bleibt kinderlos. Mitglieder des ehemaligen Freikorps Werdenfels zählten zum Kern der sich entwickelnden nationalsozialistischen Bewegung in München. Ebers Kontakte dorthin waren sehr ausgeprägt. Er war Teilnehmer des Aufmarsches auf dem Oberwiesenfeld im Mai 1923. In diesem Zusammenhang beteiligte er sich am 9. November 1923 auch an dem "Marsch auf die Feldherrenhalle" und weiteren damit im Zusammenhang stehenden Ereignissen in München. Wieder hielt er die Ereignisse mit dem
Skizzenblock fest , so zum Beispiel das Geschehen am Odeonsplatz und in der Briennerstraße am 10. November, wo Polizei gegen die "Oberländer" vorging.
In den Kämpfen wurde Eber niedergeschlagen und verlor dadurch das Gehör auf dem rechten Ohr nunmehr vollständig. Für die Teilnahme an diesen, auch als "Hitler-Putsch" bekannt gewordenen Ereignissen wurde Eber am 15. 11. 1934 der "Blutorden" (Nr 1206) der NSDAP verliehen den nur Personen erhielten die bei diesen Ereignissen verwundet wurden. Am 6. Juli 1925 trat er unter Mitglieds-Nr.: 10013 der NSDAP bei. Am 28. Februar 1924 heiratet Emil Eber das zweite Mal. Seine Frau Irmgard ist die Tochter des bekannten Münchner Frauenarztes Faltin. Es ist eine gutaussehende und lebenslustige junge Frau die in der Barerstraße 48, dem Haus ihrer Eltern ein Modeatelier eröffnet hatte, in dem das Ehepaar Eber dann auch wohnte. Für die "Modewerkstätte Eber-Faltin" zeichnete er Entwürfe im Stil der damaligen Mode. Kennengelernt hatte er seine Frau vermutlich in Garmisch, wo sie sich öfters aufhielt und wo die Mitglieder des Freiskorps nicht nur einheimischen Mädchen "den Kopf verdrehten". Bei dem sehr liberalen und weltoffenen Arzt Faltin stieß die Ehe seiner Tochter mit dem nationalsozialistisch gesinnten Eber auf Ablehnung. So waren die Eltern der Braut auch nicht bei der katholischen Hochzeit zugegen. Die Ablehnung blieb erhalten, auch wenn die Eber´s manchmal am Sonntag zum Mittagessen bei der Familie Faltin eingeladen waren.
Emil Eber konnte sich wegen seiner Schwerhörigkeit an Gesprächen bei Tisch sowieso nicht beteiligen und so saß er nur schweigend und aß mit großem Appetit. Am Schluß bedankte er sich in seiner rustikalen Pfälzer Art bei den Gastgebern mit einem einzigen Satz: "s´ ìsch guard gwä" . Dies war für Herrn Dr. Faltin stets ein neuer Schock. Am 5. Mai 1925 wurde ein Sohn geboren, welcher auf den Namen Kurt getauft wurde. Zahlreiche Aufnahmen aus dem Familienalbum belegen, daß der Maler das Werdenfelser Land oft mit der Staffelei im Gepäck durchwanderte und dabei manch schönes Motiv skizzieren konnte. Mit derartigen Motiven wird Eber auch zunächst bekannt. In der ersten Veröffentlichungen des Bildes "Schijörning" in den "Westermanns Monatsheften" heißt es über den Maler: " Elk Eber, der Maler der "Märzensonne auf der Hochalm", ist ein Rheinpfälzer von Geburt, hat sich aber in München und in Garmisch, wo er nach vielseitigen gelehrten und künstlerischen Studien sowie bewegten persönlichen Schicksalen seine Wahlheimat gefunden und sein Atelier gebaut hat, so an die Schönheiten des Hochgebirges verschenkt, daß er fast zu einem Spezialisten des allerdings unerschöpflichen Themas "Berge und Menschen" geworden ist. Sonne und bewegte schöne Körper im Licht - immer kehrt dies Motiv bei ihm wieder, ob er nun Akte, Sport- und Pferdebilder, Bildnisse von Männern und Frauen oder Bergsteiger, Führer und Skiläufer malt." Und in der 1942 im Kunstverein München veranstalteten Gedächtnisausstellung hieß es: "... aber sein Interesse galt ebenso dem Sportsleben, wo er den Skifahrer, den Bergführer in bestimmten Typen festgehalten hat und der Landschaft und besonders seinen geliebten Bergen, die er im Sommer und Winter in ihrer Formung und Tönung unermüdlich erforschte und malte." Eber ließ er sich im Atelier von Kunstphotograph Carl Zwikl, Garmisch-Partenkirchen sogar als Bergsteiger fotografieren. Eber hatte Kontakte zur Sektion des Deutschen Alpenvereines und zu deren Gründer und langjährigen Vorsitzenden Adolf Zoeppritz den er 1928 auch porträtierte. Als die Sektion, nach dem Bau der Kreuzeck-Personenschwebeseilbahn im Jahre 1926 die Berghütte am Kreuzeck, das "Adolf Zoeppritz-Haus" grundlegend umbaute, gestaltet Elk Eber 1928 im Treppenaufgang ein Fresko mit einem Bergsteigermotiv. Diese Werke und auch das Bild "Der Bergführer" sind auch heute noch in der Hütte zu besichtigen.
An dieser Stelle sollen noch einige Bemerkungen zur Person Elk Eber stehen: Er war 1,79 m groß hatte blaue Augen, dunkelbraune Haare und eine Narbe am linken Auge. Durch seine fast völlige Taubheit war er oft von der Konversation mit seiner Umgebung ausgeschlossen, war nur "Zuseher" und wirkte deshalb meist verschlossen. Seiner Frau kam eine Mittlerrolle zu, ihr las er die Worte vom Munde ab. Ein Dialog war oft nur möglich, wenn die
Fragen aufgeschrieben wurden. Als Typisch für ihn wurde von allen die ihn kannten beschrieben, daß er nahezu ständig seine Pfeife rauchte. So ist er auf vielen Fotos und auch auf einem bekannten Selbstporträt mit Pfeife zu
sehen. Bezeichnenderweise manchmal mit einer "Corncob"-Pfeife, was sicher auf Einflüsse des Western-Hobbys zurückzuführen ist. In das Jahr 1925 fällt der früheste mir bekannte Kontakt zu Indianern und damit der erste Beleg für das Interesse Ebers an den Ureinwohnern Amerikas: In seinem Atelier porträtierte er am 25. März "Chief Black Wolf" einen , wie es hieß, 105 Jahre alten Häuptling, der in Oklahoma geboren war und mit einem anderen Indianer namens Thomas Reynold in München weilte. Es entsteht ein Ölbild (124 x 85 cm; heute KMM Radebeul) Gast im Atelier war Franz Xaver Lehner, ein Mitglied des "Cowboy-Club München Süd", dessen Mitglied Elk Eber war.
Dies bezeugt, daß er mindestens ab 1925 Kontakt zu dem Verein hatte. Ab wann er als Mitglied geführt wurde, läßt sich heute nicht mehr exakt ermitteln.
Von da an entstehen einige Bilder mit indianischen Motiven wie das Ölbild von "Two Arrows" (1927) oder ein Aquarell mit einem "Indio zu Pferde" (1928). Ein Höhepunkt für den Indianerfreund Elk Eber stellte zweifellos das
Jahr 1929 dar. Im Juli gastierte der Dresdener Zirkus Sarrasani auf der Münchner Theresienwiese. Sarrasani hatte, dem Beispiel früherer Wild-West-Shows a la Buffalo Bill, oder von Völkerschauen wie denen von Hagenbeck folgend, schon ab 1913 zeitweise Indianertruppen unter Vertrag. Im Jahre 1929 war das eine zumeist aus Sioux-Indianern der Pine Ridge Reservation in South Dakota bestehende Truppe mit ihrem Häuptling "White Buffalo Man". Mit seiner Frau Irmgard und weiteren Freunden besuchte er die Vorstellung und ließ sich zusammen mit White Buffalo Man fotografieren.
Natürlich fanden auch außerhalb der regulären Zirkusveranstaltungen Treffen statt. Der Cowboy-Club München hatte am 5. August 1929 unter anderem den Manager der Indianertruppe Clarence Shulz , dessen Gattin und White Buffalo Man zu Gast im Vereinsheim. In der Vereinschronik heißt es dazu "... Der neue Häuptling White Buffalo Man erhielt vom Club als Ehrengeschenk einen prächtigen Tomahawk ... Dafür überließen die Indianer dem Club einen Sonnentanzschmuck für 20 RM . Der Ehrenabend der anläßlich des Besuchs des Clarence Shulz aus Oklahoma stattfand und bei denen die Boy´s in ihren Cowboy- und Indianerkostümen erschienen, machte einen äußerst gemütlichen Verlauf. Zu später Stunde brach man auf. ..." Die Indianer fanden sich in diesem Zusammenhang auch zu einem Fototermin im Tierpark Hellabrunn ein.
Eber malte unter anderem Aquarelle von Hollow Horn und anderen Indianer der Truppe. Besonders gelungen erscheint mir eine Aquarellstudie tanzender Indianerkinder mit dem Titel "Kindertanz der Sioux" (1929). White Buffalo Man wurde dabei mehrfach dargestellt: als Tänzer mit Showkleidung und nochmals als Ölportrait im Profil, wobei seine "indianische" Hakennase wunderbar zur Geltung kommt.In seinem Atelier Elisabethplatz wird Elk Eber im August 1929 im Kreise seiner Freunde vom Cowboy-Club München feierlich in den Stamm der Sioux aufgenommen. Die in diesem Zusammenhang ausgestellte "Stammesurkunde" hat folgenden Wortlaut: "By the Grace of God. This is to certyfy that on August 1929 I conferred upon Herrn Elk Eber painter artist the title and name Chief He-Ha-Ka-Ska of the Dakota tribe. Big Chief White Horse Eagle". Die mit dieser Ernennung zum Häuptling aller Dakota verbundene Ehre kann man sicher erst richtig würdigen, wenn man die Schilderung von Hans Stosch Sarrasani zu dieser Thematik liest: "Von irgendwo hatte er (Sarrasani) gehört, daß in Berlin ein 107 Jahre alter Indianerhäuptling eingetroffen sei, der nachweislich der Fürst aller Indianer in den USA lebenden Indianer sei. ... Der Häuptling lebte im Centralhotel auf ganz großem Fuß und weigerte sich in der Manege aufzutreten. ... Wir wurden uns einig, daß er als Gast unsere Sioux besuchen und sie inspizieren sollte. Wir
schlossen unter vielen Zeremonen diesen Vertrag. ... Weißes Pferd Adler wurde augenblicklich der Liebling des Publikums, und er wurde gefeieret wie ein Held ohnegleichen. ...Er schlug die Bürgermeister, Stadträte, Stadtverordneten, Polizeidirektoren scharenweise zu Siouxhäuptlingen, und er unternahm und erledigte solche Feierlichkeiten mit einem (von dem neuen Häuptling zu bezahlenden) erheblichen Quantum Alkohol. ... Es war geradezu ein literarischer Leckerbissen, mit welch genialem Tempo er für die neuen Häuptlinge Namen erfand". Der Indianername Hehaka Ska für Elk Eber war äußerst zutreffend, da ja "Elk" im Amerikanischen den Wapiti-Hirsch bezeichnete, was in der Lakotasprache "Hehaka". hieß. Möglicherweise stand das "Ska" (weiß) dafür, daß er nun einmal ein "Weißer" war.Es ist zu vermuten ,daß dieser Namensvorschlag nicht von Big Chief White Horse Eagle kam, der ja selbst kein Lakota war und diese Sprache nicht sprach.
Vermutlich war es ein "Wunschname" von Eber selbst. Auf jeden Fall dürfte der Ursprung des Künstlernamens Elk in diesem "indianischen" Zusammenhang zu suchen sein und nicht auf eine "Germanisierung" zurückzuführen sein, wie einige nationalsozialistische Chronisten zu wissen glauben. Über den genauen Zeitpunkt, wann Emil Eber sich den Künstlername "Elk" zulegte, ist im Verlauf der Recherche nichts bekanntgeworden. Die früheste Erwähnung dieses Namens stammt aus dem Jahr 1925; die erste bekannte Signatur eines Bildes befindet sich auf den Ölbild "Der Bergführer" ebenfalls von 1925. Er gab auch in offiziellen Fragebögen seinen Namen mit Elk-Eber und den Vornamen Emil an. Neben den Indianerbildern des Malers ist auch die Eber´sche Sammlung indianischer Ethnografika in diesen Jahren schon sehr ansehnlich.
Fotos vom September 1929 belegen, daß Elk Eber bereits zu dieser Zeit über einen umfangreichen Bestand verfügte. In seinem Atelier stand ein kleines Tipi und diverse indianische Gegenstände vornehmlich der Plainskultur waren malerisch an den Wänden ausgestellt. Ab und zu zog der Maler diese Kleidungsstücke auch selbst an, wie zahlreiche Fotos von Franz Xaver Lehner belegen. Offensichtlich wurde im Atelier öfters mit den Freunden vom Cowboy-Club "indianisches Brauchtum" gepflegt. Es ist aber anzunehmen, daß bei jeder Begegnung mit Indianern einige Stücke durch Kauf erworben wurden.
Dies könnte also 1925 begonnen haben und wurde im Jahr 1929 mit Sicherheit zielstrebig weiterverfolgt. Wie auch unter den Sammlern in der damaligen Zeit üblich, wurden Ethnographica untereinander getauscht, und so stand auch Elk Eber in Verbindung mit vielen bekannten Sammlern der damaligen Zeit z.
Bsp. auch mit Patty Frank. Vom 7. bis zum 12. Dezember 1929 besuchte Elk Eber erstmals das Radebeuler Museum und seinen Freund Patty. Seine Eintragung in das Gästebuch des Museums verband er mit einer Zeichnung. Im September 1930 reinigte und bemalte Eber im Auftrag des Museums für 35 RM eine Büste in seinem Münchner Atelier. Vermutlich handelte es sich hier um die Winnetou-Büste, was Franz Xaver Lehner wieder im Foto festgehalten hat.
Diese Büsten aus Pappmache und Gips waren eine Serienfertigung des Karl-May-Verlages die zu Werbezwecken vertrieben wurden. In dieser Zeit fotografierte Lehner auch Ebers umfangreiche Sammlung indianischer Ethnografica. Beim Studium dieser Bilder fallen zwei Objekte auf, die sich heute eindeutig im Karl-May-Museum befinden. Dies belegt, daß der Tausch von Objekten unter Sammlern auch damals üblich war. In einem Brief von Elk Eber an Patty über Honorarfragen für weitere Arbeiten liest sich das dann so: ".. Ich verlange äusserst: Für die Büsten und ½ Figuren je 30.- M. Für die ganze Figur 50.- . Falls mir die Reise und Aufenthaltskosten voll vergütet werden. ... Davon wären mir vor Antritt der Reise 50.- Vorschuss zu schicken. ... Eventuell würde ich für 20.- ein gutes Indianerstück nehmen.
Darauf kann ich mich aber nicht festlegen ehe ich das in Frage kommende Stück gesehen." Bei den Radebeuler Objekten aus der Sammlung Eber handelt es sich um den Quill-Brustschmuck (Kat. Nr. 985) "nach Art der Knochenbrustschmucke aus einem Stück Rohaut hergestellt ... die mit Stachelschweinborsten umwickelt sind" und um eine Weste der Crow (Kat. Nr. 1019) "...Weste von rein europäischen Schnitt ... Beide Vorderteile mit Stachelschweinborsten bestickt". Auf beiden Karteikarten des Museums (von Hermann Dengler erstellt) befinden sich keine Erwerbsangaben. Den umgekehrten Weg ging ein Frauenumhang der Apachen, welcher unter Kat. Nr.
489 geführt wurde und der auf den Fotos der Eber´schen Sammlung von 1931 gut zu erkennen ist. Hier ist allerdings auf der Karteikarte vermerkt "vertauscht Eber". Jahre 1931 beginnt Elk Eber als Mitglied des Cowboy-Club München ein interessantes Projekt für diesen Verein: Er zeichnet eine Porträtserie, bei der jedes Mitglied mit der eigenen Cowboy- oder Indianertracht porträtiert wird. Dazu sitzen die Clubmitglieder in seinem Atelier Modell. Von den vorliegenden 36 Porträts ließen sich 19 Mitglieder als Cowboys oder Mexikaner, 16 als Indianer und einer (Xaver Lehner) als Trapper porträtieren. Auch ein Selbstporträt von Elk Eber ist dabei - selbstverständlich als "Indianer". Am 23. April 1932 wurde die Galerie unter Anwesenheit einiger Ehrengäste im Verein feierlich enthüllt. Bei dem Zeremoniell waren die Mitglieder mit ihrer jeweiligen Tracht anwesend. Über den Verbleib der meisten Bilder ist nichts bekannt, wohl aber gibt es Fotokopien davon. Auch in anderer Hinsicht machte der Cowboy-Club im Münchner Vereinsleben von sich reden. Der Verein beteiligte sich am Faschingstreiben. Belegt ist ein Faschingsball 1931, 1932 und 1933 sowie ein Faschingskehraus 1932 und ein Wild-West Ball 1933. Auf der Einladung zum 32´er Spektakel heißt es: "In den Tanzpausen Auftreten von Stepptänzern, Lassowerfern usw. Ferner Kriegstänze der 30 Mann starken Sioux-Indianertruppe unter Führung ihres Chiefs "Bob red Cloud". Auf vielseitiges Verlangen heuer wieder lebende Bilder aus der Zeit des einstigen Wilden Westens, gestellt von den Mitgliedern des Clubs, zu Pferd und Fuß in ihren Prachtvollen Original-Kostümen, Sattelzeugen usw." Dazu heist es in der Vereinschronik des Cowboy-clubs: "Der Ball war wie immer gut besucht. Er brachte sogar 60 Besucher mehr als der vorjährige. Die Aufführungen fanden regen Beifall. Lassoarbeiten wurden von Mitglied Höfler und Ostermann übernommen. Peitsche von Frank u. Schmittner. ...Indianertanz wurde von den 30 Indianern und Squaws des Clubs erledigt. Die lebenden Bilder übernahmen Höfler und Eber. Der Kehraus am Faschingsdienstag brachte ebenfalls noch eine große Anzahl Besucher. Die Aufführungen wurden besorgt von den Mitgliedern Höfler, Ostermann. Am Lasso arbeiteten Frank und Schmittner, Peitsche, Lebende Bilder: Regie: Höfler und Eber. Der Überschuß war bei den beiden Veranstaltungen zufriedenstellend. Gez. Fred Black". In einem Brief an einen befreundeten und gleichfalls indianerbegeisterten Dresdener schrieb Eber im Dezember 1932: "Wir sind bereits im Training für das Faschingsfest, das am 21. Januar stattfindet. Zur Zeit ist pfeilschießen vom galoppierenden Pferd das Neueste." Im Jahr 1932 war Elk Eber wieder mit Arbeiten für das Karl-May-Museum Radebeul betraut. Die Präsentation der Ausstellungsstücke mittels lebensgroßer Indianerfiguren war von Vittorio Güttner, ebenfalls eines Münchner Künstlers, begonnen worden. Eber und Güttner kannten sich gut, sie waren beide Mitglieder des Cowboy-Clubs München und passionierte Sammler indianischer Ethnographica. Eber bemalte die Figuren des Comanchen und des Sioux-Hauptlings für das Radebeuler Museum. Zu diesem Zweck wurden die Figuren warscheinlich nach ihrer Fertigstellung durch Güttner in Ebers Münchner Atelier gebracht. Es gibt keine gesicherten Belege dafür, daß Eber selbst an der Schaffung dieser Figuren beteiligt war. Fotos beider Figuren in Ebers Atelier belegen lediglich, daß in München verschiedene Varianten der Bekleidung ausprobiert wurden, bis man sich schließlich auf die noch heute sichtbare Präsentation einigte. In einem Brief an Patty Frank schreibt Elk Eber: "Das der Komantsche Ihnen gefallen würde habe ich mir schon gedacht. Es ist nur schade, dass ich wegen der dummen Geldfrage so schlechter Stimmung bei der Arbeit war. Sonst wäre er sicher noch viel besser geworden. Es wundert mich, warum der Verlag jetzt nicht einfach einen Dekorationsmaler engagiert und die anderen Figuren nach dem Muster malen läßt. Oder haben die Herren duch eine Schwache Ahnung, dass es vielleicht doch nicht ganz so würde, wie wenn ich es machen würde." Wenige Tage darauf antwortet ihm Dr. Euchar Schmid, geschäftsführender Gesellschafter des Karl-May-Verlages zurück: " Herr Patty Frank übergab mir Ihren Brief vom 29. Mai . Über die frühere Honorarfrage, die sie darin anschneiden, werden wir uns, da sie ja doch hierher kommen muendlich unterhalten. Ich meinerseits spiele bei der ganzen Angelegenheit gleichsam die Rolle des Bankiers, das heisst, ich habe zu zahlen, was anderweit vereinbart wird." Mit dem Angebot für die Arbeiten im Frühjahr 1932 wurde man sich einig. Es ging um die Bemalung des Irokesen, einer weiteren lebensgroßen Indianerfigur von Vittorio Güttner, sowie weiterer 3 Büsten und 2 Halbfiguren, die diesmal im Radebeuler Museum bemalt werden sollten. Dies alles für zusammen 200,- RM zuzüglich 50,- RM für Spesen und Unterkunft. Elk Eber reiste Ende Juli nach Dresden, wo er bis zum 2. August daran arbeitete. Bei seinem Aufenthalt wohnte er im Bahnhof Radebeul, wo es einige Fremdenzimmer gab. Sein Vorschlag, im Blockhaus zu wohnen und während dieser Zeit mit Patty zu essen, wurde von Herrn Schmid abgelehnt "da im Blockhaus kein Raum frei ist". Am 28. Juli quittierte Elk Eber den Erhalt des Honorars. Neben den in Auftrag gegebenen Werken für das Museum bereicherte er seine Gästebucheintragung durch die sehr schöne Zeichnung eines indianischen Bogenschützen. Bereits Anfang Juli 1933 weilt Elk Eber wieder in Radebeul. Möglicherweise wurden hier die von ihm bemalten Indianerfiguren in das Museum gebracht. Im Tagebuch verewigte er sich am 5. Juli mit der Zeichnung eines Indianers, der gerade einen Feind skalpiert. Patty Frank´s Erzählungen unter dem Titel "Ein Leben im Banne Karl-Mays", wurden durch Elk Eber illustriert wurde. Die erste Auflage kam 1935 im Karl-May-Verlag herausund beinhaltete 9 Federzeichnungen Ebers zu persönlichen Erlebnissen seines Freundes Patty. Das Titelbild der ersten Auflagen war von Carl Lindeberg, spätere Auflagen erscheinen mit einem Titelbild von Elk Eber. Es zeigt Patty Frank in Wildwestkleidung und pfeiferauchend am Kamin. Ein ähnliches Motiv von Elk Eber bei dem Patty rauchend im Kreise anderer Indianer sitzt wurde damals übrigens als Werbemarke des Karl May Museums verbreitet. 1936 wurden Umbauten zur Erweiterung des Karl-Mai-Museums durchgeführt Neben der baulichen Erweiterung durch großzügigere Ausstellungsräume, die an das Blockhaus angebaut wurden ohne den Charakter des Wildwest - Blockhauses zu zerstören, wurde die Wohnung von Patty Frank in das ausgebaute Dachgeschoß verlegt und im ehemaligen Schlafzimmer Pattys das Diorama "Heimkehr von der Schlacht" konzipiert. Die Wand wurde mit Leinwand beklebt , so daß mit Ölfarben gemalt werden konnte. Elk Eber gestaltete die Rückwand des Dioramas mit einem Bild lebensgroßer heimkehrender Krieger, die in vollem Galopp auf das Lager zu reiten. Im Hintergrund des Bildes ragen die steilen Berge des "Felsengebirges" auf, was so manchen Dresdener an die Kulisse der Basteifelsen in der nahen sächsischen Schweiz erinnern mochte. Die Figuren wurden wiederum von Vittorio Güttner geschaffen, der allerdings kurz vor deren Vollendung verstarb, und so mußte sein Sohn Bruno Güttner diese vollenden. Die einzige Indianerplastik im Radebeuler Museum die höchstwahrscheinlich von Elk Eber selbst stammt ist die (ca. 70 cm) hohe und 1932 signierte Figur von Sitting Bull. Bei der Wiedereröffnung des Museums
am 19. Februar 1937 wurde den Besuchern noch eine Neuerwerbung präsentiert: Das Ölgemälde der Custerschlacht. Es kostete damals übrigens 3000,- RM. Seit 1929, wo die ersten Aquarellstudien dazu entstanden, war Eber mit diesem seinem bekanntesten Bild zur indianischen Thematik beschäftigt. Bisher konnte nicht zweifelsfrei geklärt werden, ob das Ölbild Ebers ein Auftrag war, ob es auf den Wunsch von Patty Frank gemalt wurde, oder ob Eber es aus eigenem Interesse schuf. Zentrale Figur des Aquarells und auch des späteren Ölgemäldes ist ein Indianer, der mit einer Keule den Fahnenträger niedergeschlagen und die Flagge erbeutet hat. Bei dem Indianer soll es sich um den Hunkpapa Rain in the Face (Ite o magazu) handeln.. In einem Bericht über die Schlacht sagte Rain in the Face einmal: "... Ich stuerzte mich hinein und nahm ihre Fahne. Main Pony fiel tot nieder als ich sie nahm. Ich sprang auf und schlug den Langmesser-Fahnenmann mit der Kriegskeule den Schaedel ein und rannte mit der Fahne zurueck zu unserer Linie ... ". Am Beispiel dieser Bilder läßt sich gut nachweisen, daß Eber zwischen dem Entstehungszeitpunkt des Aquarells (signiert 1929) und der Fertigstellung des Ölbildes (signiert 1936) sowohl seine Kenntnisse der ethnografischen als auch der militärhistorischen Seite dieser Schlacht verbessert hat. So wurde die Keule verändert. Statt der noch auf dem Aquarell zu sehenden "Gewehrkolbenkeule" wurde im Ölbild eine Steinkeule mit elastischem Stiel verwendet, die für die Hunkpapa-Lakota typischer war. Eine wichtige Änderung gibt es außerdem bei der erbeuteten Fahne. Im Aquarell handelt es sich noch um die amerikanische Nationalflagge ("Star Sprangled Banner"), im Ölbild ist es die persönliche Flagge General George Armstrong Custers. Zwar hatte jede der 12 Kompanien eine seidene Kompaniestandarte mit einem Sternen- und Streifen- Muster, aber die persönliche Flagge Custers drückt noch besser den Kampf "mitten im Zentrum der Schlacht" aus. In einem Artikel über die verschiedenen Darstellungen der Schlacht wird sogar behauptet, daß Elk Eber der Sohn eines Weißen und einer Sioux-Indianerin namens Little Elk, welche die Schlacht als Kind miterlebt hatte, war. Damit lebte eine Legende auf, die von einigen anderen Autoren ungeprüft übernommen wurde.Motive aus dem Eber-Bild bildeten interessanterweise auch von den vierziger Jahren an bis 1969 das Titelbild des "Custer Battlefield Handbook"- ein Zeichen der hohen Wertschätzung, welche Ebers Gemälde in amerikanischen Fachkreisen genoß.
Natürlich versuchte das Custer Battlefield National Monument, Montana, das Bild dem Radebeuler Museum abzukaufen. Ein Wunsch welchem selbstverständlich nicht entsprochen wurde. Mit der Wahl Hitlers zum Reichskanzler am 30.
Januar 1933 wurde die NSDAP zur staatstragenden Partei in Deutschland. Damit änderten sich auch für den Kunstmaler Eber die Bedingungen für seine Arbeit. Mit der Machtergreifung der Nationalsozialisten wurde der in der Bewegung engagierte Eber plötzlich auch "künstlerisch" aufgewertet. Bereits im Jahr 1935 kaufte die Münchner Galerie am Lehnbachhaus ca.40 Zeichnungen Ebers aus der Zeit des ersten Weltkrieges und Skizzen der Kämpfe in München im Zusammenhang mit den Hitler-Putsch 1923 auf. Sowohl die heute noch lebenden Verwandten Ebers als auch andere Zeitgenossen des Malers haben immer wieder betont, daß Elk Eber bis 1933 nie über ein gesichertes Einkommen verfügte und ständig mit Geldmangel zu kämpfen hatte. Ab 1931 war er zwar als Zeichner für nationalsozialistische Zeitungen wie den "Völkischen Beobachter" und "SA-Mann" tätig, aber davon konnte man nicht leben. Der Verkauf von Bildern war wohl auch nicht so auskömmlich gestaltet, und so lebte die Familie größtenteils von den Einnahmen der Modewerkstätte Eber-Faltin. Ebers Sohn Kurt wurde weitestgehend von der Großmutter Luise und später bei Bekannten in einem Landheim am Ammersee großgezogen, weil die Mutter Irmgard durch den Betrieb der Werkstätte mit mehreren Angestellten sehr beschäftigt war und Elk Eber war oft in Garmisch und außerhalb Münchens weilte. Am 13 Mai 1936 wird Elk Eber von seiner zweiten Frau Irmgard Eber-Valtin geschieden. Über die Ursachen der Scheidung ist uns nichts bekannt. Es war aber eine Trennung "im Guten", das heißt, man stand auch später noch miteinander im Kontakt - schließlich gab es ja den gemeinsamen Sohn Kurt.
Wenn es notwendig war, half er Irmgard auch noch manchmal, zum Beispiel bei der Organisation eines Umzuges in eine neue Wohnung. Als Unterhalt mußte Eber monatlich 80,- RM an seine geschiedene Frau und 30,- RM für seinen Sohn zahlen. 1936 verbringt er dann auch mehrere Monate bei der Verwandtschaft in seiner Heimatgemeinde Haardt in der Pfalz. Möglicherweise steht dies im Zusammenhang mit seiner Scheidung. Da er immer noch nicht über ein ausreichendes Vermögen verfügt, läßt er einige Bilder als Bezahlung für den Aufenthalt zurück. Eines davon ist ein Indianergemälde - ein Häuptlingsporträt in Öl, signiert 1936. Auf der Rückseite steht vermerkt: "Porträt des Cheyenne-Sioux-Häuptlings: Chief Wolf Robe". Als Vorlage diente ein Foto von Frank A. Rinehard, das dieser 1898 auf der "TRANS MISISSIPPI AND INTERNATIONAL EXPOSITION" in Omaha, Nebraska angefertigt hatte. Wolf Robe ist auf diesem Foto in europäischer Kleidung abgebildet, was natürlich nicht das Klischee vom "Indianerhäuptling" bedient. Die Idee, dem Häuptling für das Porträt ein indianisches Lederhemd mit Glasperlenstickerei zu "geben", stammt allerdings auch nicht von Elk Eber. Die Vorlage für sein Porträt bildete warscheinlich ein Zigaretten-Sammelbild der Firma Aviatik aus Breslau. Wolf Robe erhielt aber eine ordentliche Zopfumwicklung aus Otterfell und einen Halstuchhalter aus Metall mit ausgearbeitetem Stern. Silvester 1936/37 feierte Eber zusammen mit den Mitgliedern und Freunden des Cowboy-Clubs München Süd in deren Clublokal. Es war eine feuchtfröhliche Runde, bei der laut Vereinschronik allein 80 Liter Punsch den Weg durch durstige Kehlen nahmen ...Man feierte dabei größtenteils in entsprechender "zünftiger" Cowboy- und Indianerkleidung, und mancher Gast setzte sich wenigstens den obligatorischen "Stetson" auf, um dazuzugehören. Elk Eber hatte sich eine perlenbestickte Lederjacke über das karierte Hemd gezogen und einen, eher zu einem Bergsteiger passenden Hut aufgesetzt. Am 19.
Februar 1937 erfolgte dann in Radebeul die Wiedereröffnung des umgestalteten und Erweiterten Karl-May-Museums. In einer Pressekonferenz wird auch über den Anteil Ebers an dieser Neugestaltung gesprochen. Damit wird der Öffentlichkeit erstmals der Indianerfreund Elk Eber vorgestellt. Der Maler Elk Eber war bis zum damaligen Zeitpunkt meist nur durch seine Landschafts-und Sportlerbilder sowie zunehmend durch Soldaten- und SA-Bilder bekannt und von seinem Interesse für die Ureinwohner Amerikas wußte bis dahin nur ein kleiner Kreis von Freunden. Im "Illustrierten Beobachter" Folge 33 von 1937 wird Elk Eber als heroischer "deutscher" Maler und erstmals auch als Kenner des Indianerlebens vorgestellt " dessen künstlerischer Ruf als Indianerbildmaler auch nach Amerika gedrungen ist ". Stolz wird weiter darüber berichtet, daß er gerade an einer Arbeit für den Präsidenten Roosevelt schafft. Bei dem Auftragswerk handelte es sich um ein Ölgemälde der "Schlacht am großen Kanawha" (Schlacht bei Point Pleasant) am 10.
Oktober 1774. In dieser Schlacht kämpften etwa 1000 Shawnee unter Führung ihres Chiefs Cornstalk gegen etwa 1100 Mann amerikanische Siedlermiliz unter Colonel Andrew Lewis. Indianerinteressierte Zeitgenossen Ebers kannten die Schlacht damals auch aus der 1931 von Fritz Steuben erstmals veröffentlichten Schilderung im Band "Der Rote Sturm". Den Auftrag für das Bild erhielt Elk Eber von einem Dr. Hertl, der es für den Präsidenten Franklin (D.) Roosevelt bei ihm bestellte.Das Bild wurde nie fertiggestellt, es existiert aber ein Kohleentwurf auf Leinwand im Rahmen (130 cm x 115 cm; heute im Karl-May-Museums Radebeul ). Offensichtlich plante Elk Eber hier ein Bild, daß mit dem Gemälde der Custerschlacht vergleichbar werden sollte.
Ab 1937 stellt Elk Eber alljährlich auf der "Großen Deutschen Kunstausstellung" in München aus. Insgesamt 16 seiner Ölgemälde werden im Laufe der Jahre dort gezeigt. Einige Werke wurden von Adolf Hitler persönlich erworben, wie zB. das Bild "Die letzte Handgranate". Am 30. 1.
1938 wird er durch Adolf Hitler zum Professor ernannt. Zur Gaukulturwoche der Saarpfalz erhält er in der ersten Oktoberwoche des Jahres 1938 in Ludwigshafen den Westmarkpreis. Anläßlich der Preisverleihung weilt er kurz in seinem Heimatgemeinde Haardt/Pfalz. Als er vom Saarpfälzischen Verein für Kunst gebeten wurde eine Ausstellung in Ludwigshafen zu gestalten, fehlen ihm dazu repräsentative Werke. Daraufhin schreibt er am 17. 9. einen persönlichen Brief an Adolf Hitler und bittet um die Ausleihe dreier vom "Führer" angekaufter Ölbilder für diese Ausstellung. Die Bitte wird durch das Büro der Reichskanzlei abgelehnt. Auf jeden Fall sind die "mageren Jahre" nun vorbei. Elk Eber ist eine Persönlichkeit in deutschen Künstlerkreisen und unter den Nationalsozialisten. Seine Bilder werden angekauft - und zwar zu Preisen, die für die damalige Zeit durchaus respektabel sind. Das Werk "So war SA", welches für die neue Reichskanzlei bestimmt war, kauft Hitler für 15.000,- RM. Der Cowboy-Club München-Süd feiert im Jahre 1938 sein 25-jähriges Vereinsjubiläum mit einer Veranstaltung im Clublokal Lindwurmstraße 48 in München. Zu der Feier sind natürlich auch wieder die Ehrenmitglieder des Clubs eingeladen: Elk Eber sitzt neben dem amerikanischen Kunstmaler Robert Lindneux, dem Bürochef der "Münchner Neuesten Nachrichten" Herrn Haug und Patty Frank. Am 3. und 4. August besuchte eine Gruppe von 4 Mitgliedern des Münchner Clubs das Radebeuler Karl-May-Museum Elk Eber, "Tom Jackson (Sheriff), James Caak (?) (II. Präsident) und Lieselotte Minne ha ha" Im Gästebuch dargestellt ist ein Indianer mit einer Schnapsflasche in der Hand. In der Bar "Zum grinsenden Präriehund" wird diese Begegnung Münchner und Dresdener Indianerfreunde wohl in feuchtfröhlicher Runde die Beziehungen beider Vereine vertieft haben. Am 14. September 1938 heiratet Elk Eber zum dritten Mal. Seine Frau Lieselotte, geborene Rummel, kennt er wahrscheinlich ebenfalls aus Garmisch. Wie seine neue Frau zum Indianerhobby ihres Mannes stand, ist nicht bekannt.
Allerdings scheint sie dafür etwas mehr Verständnis aufzubringen als ihre Vorgängerin: Auf einem leider undatiertem Foto von einem Camp des Cowboy-Clubs ist sie gemeinsam mit Elk Eber vor einem Tipi zu sehen. Ob es sich bei den von Eber getragenen indianischen Kleidungsstücken um Originale oder um selbst nachgebaute Stücke handelt, ist nicht zu ermitteln. Elk Eber hat sich in seinem Atelier manchmal Originalstücke seiner Sammlung angezogen und sich damit fotografieren lassen. Das Jahr 1939 hatte für den Indianerfreund Eber wieder einige Höhepunkte. So kam in diesem Jahr das Buch "Lagerfeuer im Indianerland" von Hans Rudolf Rieder auf den Markt, Eber hat dieses Buch mit 12 Federzeichnungen illustriert. Einer breiten Öffentlichkeit wurde im Juli 1939 ein Teil der Eber´schen Sammlung von Ethnographica in einer großartigen Ausstellung vorgestellt. Die Ausstellung fand vom 1. Juli bis zum Ende diesen Monats im Foyer des Völkerkundemuseums München statt Eber unterhielt schon seit Jahren enge Kontakte zu diesem Museum, bereits 1931 hatte er 5 Objekte an das Museum verkauft. In Veröffentlichungen wird davon berichtet, daß er vom Leiter des Museums zum Berater und Sachverständiger des Völkerkundemuseums für den Bereich Nordamerika ernannt wurde. Die Präsentation der Eber´schen Privatsammlung war sicherlich für das Museum eine Gelegenheit die Besucherzahlen zu erhöhen. Der Bekanntheitsgrad des Malers in München dürfte spätestens seit seiner Ernennung zum Professor eminent gewesen sein. Wie Fotos bezeugen, wurde von Eber selbst und einem Gehilfen ein Tipi als Blickfang in der Halle des Museums aufgebaut. Dabei handelte es sich sogar um ein recht großes Exemplar im Gegensatz zu dem kleineren in seinem Atelier und den bei den Camps des Cowboy Clubs errichteten Zelten. Von der Bedeutung dieser Sonderausstellung zeugen auch die zahlreichen und ausführlichen Presseberichte in Münchner Zeitungen. In einer "Presse-Vorbesichtigung" unter Leitung von Dr. Feichtner vom Völkerkundemuseum und Elk Eber sowie Herrn Koch, dem 2. Vorsitzenden des Cowboy-Clubs München, wurde besonders der "wissenschaftliche Charakter" der Ausstellung hervorgehoben. "... wie uns Prof. Elk Eber selbst erklärte, soll sie auch dazu dienen, das vielfach noch verbreitete Vorurteil gegen die Indianer zu überwinden. Es hat auch die Forschung längst erwiesen, daß wir es bei ihnen mit keinen "Wilden" zu tun haben." So wurden die piktographischen Darstellungen der Prärieindianer auf Leder ausführlich erläutert und dabei erklärt, was eine "Wintererzählung"ist.
Perlenstickereien und Quillstickerei werden erläutert und die Ähnlichkeit der Quillstickerei mit den "vorwiegend in Tirol üblichen Stickereien aus Pfauenfederkielen auf Leder" dargestellt.Weiterhin wurde den Journalisten erläutert, daß das Skalpieren keine ursprünglich indianische Sitte sei und der Indianer eine "wirkliche Kampfethik besitzt" bei dem das Berühren des Feindes mit einem hölzernem Stab eine weit größere Ehre für den Krieger sei als das Töten. Allerdings ist die Berichterstattung natürlich nicht ganz frei von Propaganda wenn nämlich berichtet wird: "Eber, ein Kunstmaler der namentlich durch seine Zeitbilder "Marschierende SA" usw. bekannt geworden ist, ein Pfälzer, war vor dem Kriege in den amerikanischen Reservaten, hatte eine umfangreiche Sammlung angelegt, die aber während der Besatzung der Pfalz abhanden kam...." Da die Mär von der "ersten Sammlung die während der
Besatzungszeit der Pfalz gestohlen wurde" auch in anderen Presseberichten erwähnt wird, muß derartiges tatsächlich gesprochen worden sein. Die umfangreiche biographische Recherche zeigt aber, daß dies gar nicht möglich war: Eber ging als Abiturient nach München zum Studium und meldete sich noch vor Abschluß des Studiums freiwillig als Kriegsmaler im ersten Weltkrieg. Er war also vor dem 1. Weltkrieg als Student sicher weder finanziell noch zeitlich in der Lage, eine solche Reise zu unternehmen. Außerdem lebte er seit 1910 in München, wohin ihm sein Vater 1913 folgte. Eine "erste" Sammlung dürfte es deshalb gar nicht gegeben haben. Mit höchster Wahrscheinlichkeit auszuschließen, daß sich Elk Eber jemals selbst in Amerika aufgehalten hat. Alle Zeitzeugen sowohl aus der Familie als auch aus dem Bekanntenkreis sprechen davon, daß er eigentlich immer unter Geldknappheit litt. Die biografische Recherche läßt auch keinen Ansatzpunkt für eine solche Reise zu. Über das konkrete Entstehen seiner umfangreichen Sammlung gibt es wenig Informationen. Wahrscheinlich hat Elk Eber alles nur irgendwie verfügbare Geld in die Sammlung gesteckt und deshalb nie über eine ausreichende Rücklage verfügt. Die Sammlung war sicher nur möglich, da derartige Ethnographica damals noch nicht als Geldanlage betrachtet wurden. Natürlich spielte bei Sammlern, die sich ja untereinander meist gut kannten, auch der Tausch von Objekten eine große Rolle. Eine weitere Quelle waren die Indianer, welche mit Völkerschauen und mit dem Zirkus Sarrasani durch Europa reisten, und die ihre Ausrüstung bzw. während des Aufenthaltes selbstgefertigte Stücke gern an Sammler weitergaben.. So heißt es in einem Artikel: "Mit White Buffalo Man und seinem Dolmetsch Lone Bear verband ihn eine große Freundschaft und so manch kostbare Trophäe wanderte aus der Reservation in Süddakota nach München". Doch Eber hatte mit seinen Freunden vom Cowboy-Club München noch eine andere Quelle, über die andere Sammler nicht verfügten: den Tausch von Adlerfedern. So konnten sie auch den "echten Indianern" damit helfen. In dem Artikel der Münchner Stadtzeitung
wird berichtet: "So hat erst unlängst der Club mehrere Hundert Adlerfedern unserer Berge in die Prärie gesandt - da dort die Adler selten wurden !" So bot sich eine nicht zu unterschätzende Möglichkeit, im Austausch manch schönes Original-Kleidungsstück nach München zu holen. Ob die Kontakte mit den Indianern direkt oder über einen Mittelsmann abgewickelt wurden, ist nicht bekannt. Einige der schönsten Stücke der Sammlung Elk Eber befinden sich heute im Ledermuseum Offenbach und können dort besichtigt werden. Die Kartei des Museums weist 47 Objekte mit der Herkunftsangabe "Sammlung Elk Eber". Drei Objekte der Sammlung befinden sich heute im Karl-May-Museum Radebeul und ein Lederhemd aus Ebers Sammlung befindet sich jetzt im vereinseigenen Museum des Cowboy-Clubs München. Diverse Kleinobjekte sind in den Besitz einiger alter Indianer-Hobbyisten gelangt. Mit diesen heute nachzuweisenden Stücken aus der Eber´schen Sammlung sind aber nicht einmal die Hälfte der auf Fotos dokumentierten Stücke erfaßt. Wenige Wochen nach dem Ende der Ausstellung in München begann mit dem Überfall auf Polen der Zweite Weltkrieg. Elk Eber meldete sich sofort wieder freiwillig zum Einsatz als Kriegsmaler und wurde in einer Propagandakompanie zusammen mit anderen Malern wie Franz Eichenhorst, Alwin Stützer und Ernst Vollbehr, aber auch anderen Kulturschaffenden wie z. B. der Filmemacherin Leni Riefenstahl, an die polnische Front geschickt. Er malte hier wieder überwiegend Aquarelle von zerstörten Anlagen in Modlin und Warschau und vom Einzug der deutschen Truppen in Warschau am 2. Oktober 1939. Bekannt wurde auch sein Bild "Gruppe polnischer Gefangener vor der Kommandantur in Warschau". Im Gegensatz zum ersten Weltkrieg scheint er aber während der Kampfhandlungen selbst nicht an der Front gewesen zu sein. Die Ergebnisse der Frontmalereinsätze wurden 1940 in Berlin im Rahmen einer Ausstellung "Polenfeldzug in Bildern und Bildnissen" gezeigt. In dieser Ausstellung waren etwa 20 Werke Ebers zu sehen. Am 26. 2. 1940 wird er mit dem Kunstpreis der SA ausgezeichnet.
Wenige Wochen darauf beginnt ein altes Leiden erneut sein gesundheitliches Befinden zu verschlechtern. Bereits von 1933 bis 1936 war er mehrmals wegen Bauchfellentzündung in ärztlicher Behandlung. Nun begann dieses Leiden wieder Probleme zu bereiten. Von August bis Oktober 1940 war er zu einem Sanatoriumsaufenthalt gezwungen. An Arbeit war unter diesen Umständen nicht zu denken. Einen Auftrag zur Gestaltung von zwei Plakaten zum Honorar von je 100,- RM mußte beim Auftraggeber abgesagt werden. Am 6. Dezember wird er erneut zu stationärer Behandlung in ein Münchner Krankenhaus eingeliefert. Später geht er in der Hoffnung auf Genesung wieder nach Garmisch. Behandelt wird er zuletzt von seinem Freund Ernst Ditzuleit, einem Pionier der
deutschen Indianer-Hobbyisten und damals ebenfalls einem Mitglied des Cowboy Clubs München. Jetzt zeigte sich, daß Eber trotz seiner Karriere in der Zeit des Dritten Reiches keinerlei Mittel angespart hatte. Er lebte quasi "von der Hand in den Mund". Allein der Sanatoriumsaufenthalt kostete ihm 2300,- RM und der neuerliche Krankenhausaufenthalt schlug nochmals mit wöchentlich 160,- RM zu buche. Dazu kamen noch 146,- RM monatliche Miete und der Unterhalt an die geschiedene Frau und den Sohn mit 110,- RM monatlich. Unter diesen Umständen wurde durch den Chef des Sozialamtes der Münchner SA-Führung ein Unterstützungsantrag " für den in Not geratenen SA-Hauptsturmführer Elk Eber" an "den Reichsminister fuer Volksaufklaerung und Propaganda Pg. Dr. Gooebbels" aus Mitteln der Stiftung "Künstlerdank" gestellt. Beantragt war eine monatliche Zuwendung in Höhe von 200,- RM und eine einmalige Sonderhilfe in Höhe von 1000,- RM. Am 4. 4. Wird dieser Antrag, nachdem er die Instanzen der Bürokratie erfolgreich durchlaufen hatte, genehmigt und durch den Herrn Reichsminister persönlich sogar die einmalige Sonderhilfe auf 2000,- RM erhöht. Ebers Gesundheitszustand verschlechterte sich jedoch dramatisch, es kam zu einem raschen Kräfteverfall. Am 12. August 1941 um 3 Uhr nachts verstirbt der "Kunstmaler Professor Wilhelm Emil (genannt Elk) Eber" in der Adolf-Hitlerstraße 58 in Garmisch-Partenkirchen an Bauchfelltuberkulose. Sein Tod wird unter Nr. 113 im örtlichen Standesamt registriert. Die Feuerbestattung fand am Mittag des 15. August im Krematorium auf dem Münchner Ostfriedhof statt. Die Pressemeldung von der Trauerfeier weist aus, daß diese unter Teilnahme von Vertretern der Stadt München und der SA sowie zahlreicher anderer Trauergäste erfolgte. Vom Musikzug der Standarte 16 "List", deren langjähriges Mitglied Eber war, wurde das Lied vom "Guten Kameraden" gespielt. Auch der Karl-May-Verlag, ein Schriftstellerclub und der Cowboy-Club München legten Kränze zum letzten Gruß nieder. Die Urne wurde nach Garmisch überführt und dort am 10. 10. 41 beigesetzt. Neben seiner Frau Liselotte gedachte auch der Cowboy-Club seines Mitgliedes in einer Zeitungs-Annonce . In der Vereinschronik schreibt der Gründer des Clubs und langjährige Vorsitzende unter der Überschrift "White Elk ist Tod" unter anderem: "Du warst mit Leib und Seele einer der unsrigen. Es gab wohl kaum einen Clubabend, eine Versammlung oder ein Biwak wo du nicht anwesend warst. Dein Ideal sowie deine große Liebe zu dem roten Manne ließen dich stets in unseren Kreise finden, denen du viele Jahre bis zu deinem Tode ein Treuer Anhänger bliebest. Wer deinen aufrichtigen Charakter dein liebes bescheidenes Wesen sowie dein großes künstlerisches Schaffen kannte, mußte dich liebgewinnen. Und nun hast du uns für immer verlassen. Es ist sehr schmerzlich für uns lieber Elk, aber wir alle werden dich nie vergessen. Wenn einst dieses fürchterliche Menschenmorden zu Ende sein wird, wieder Friede in deutschen Landen einkehrt, neu wieder die Kampffeuer in den Steppen von München aufflackern, Rothäute und Bleichgesichter des Clubs um dasselbe sitzen und sich ihre Erlebnisse erzählen, Cowboys ihre Steppenlieder singen, dann sitzt auch du lieber Elk im Geiste wieder unter uns und rauchst wie in früheren Tagen das Calumet mit deinen roten und weißen Brüdern. hough - Fred Black." Im Jahre 1942 wurde zur Erinnerung an sein Schaffen als Maler im Geiste der National -sozialisten im Münchner Haus der Kunst eine Gedächtnisausstellung organisiert. Es war Krieg, noch immer wurden seine Bilder und Plakate zu Propagandazwecken verwendet. Im November 1944 fiel sein Sohn aus zweiter Ehe, Kurt Eber, im Alter von nur 19 Jahren auf dem Rückzug in Polen. Die Urne Ebers wurde 1961 in Garmisch exhumiert und auf dem Münchner Nordfriedhof wieder beigesetzt. Dort ruht sie noch heute, doch da das Grab nach Ablauf der Frist in den achziger Jahren weiter vergeben wurde, gibt es heute keinen sichtbaren Hinweis mehr auf die letzte Ruhestätte Elk Ebers. Nach dem Krieg wurde der Name Elk Eber eher verschwiegen. Werke propagandistischen Inhalts und die heroischen Kriegsdarstellungen befinden sich heute noch in einem Washingtoner Militärdepot. Ebers künstlerische Bedeutung ist sicher umstritten und soll hier nicht gewertet werden. Bei der Bewertung von Ebers Verhältnis zu den Indianern kann man die allgemeine Bewertung der Ureinwohner Nordamerikas durch die Nationalsozialisten nicht außer acht lassen. Diese ist, um es vorwegzunehmen, nicht einheitlich. Soviel im damaligen Nazideutschland auf "Gleichschaltung" der offiziellen Meinung hingearbeitet wurde: bei den "Indianern" war die Wertung nicht ohne Widersprüche. Tief war die Indianerbegeisterung in Deutschland. Karl May hatte ganze Arbeit geleistet. Im Gegensatz dazu stand die Rassenideologie der Nationalsozialisten: Jede Rasse, mit Ausnahme der arischen, wurde als minderwertig angesehen. Nur wenige Völker erhielten hier "mildernde Umstände", so zum Bsp. die Tibeter und die Indianer Nordamerikas. Die Indianer galten aber als "aussterbende" Rasse und stellten somit keine Konkurrenz für die "deutsche Herrenrasse" dar.. Eine Rassenmischung war nicht erwünscht. Der Deutsche hat von allen Europäern die größte Liebe für den Indianer. Es ist als Stärke ein Stück Indianer in jedem von uns" schrieb Rieder in dem von Elk Eber illustriertem Buch "Lagerfeuer im Indianerland". Bekannt ist, daß Adolf Hitler selbst ein begeisterter Leser von Karl May war und Winnetou besonders verehrt hat.
Warum, das wird von Albert Speer einmal so beschrieben:"Die Person Winnetou habe ihn .... immer tief beeindruckt. Er sei geradezu das Musterbeispiel eines Kompanieführers. Winnetou sei zudem sein Vorbild eines edlen Menschen".
Bewundert wurde durch die Nazis an den Indianern hauptsächlich die Tapferkeit im Kampf (um das eigene Land) und der Stolz auf die eigene Rasse, beides Eigenschaften, die man am Deutschen auch zu entdecken glaubte. Außerdem kam dem Indianer in der Gunst des damaligen Regimes wohl auch zu gute, daß er historisch bedingt meist gegen Feinde kämpfte gegen die auch im damaligen Deutschland ein Feindbild aufgebaut wurde: Franzosen, Engländer ud Amerikaner. Wo immer Deutsche im Spiel sind, so doch meist als Freund der "guten Indianer" - Old Shatterhand ist dafür nur ein Beispiel. Typisch ist auch der Deutsche Ernst Markgraf in den Romanen von Goll.